Riforma pensioni, inizia la battaglia del carburante

I sindacati che protestano contro la riforma delle pensioni lanciano ora la battaglia del carburante. I francesi che da più di un mese fanno fatica a spostarsi in treno, rischiano ora di trovarsi anche a corto di benzina per le loro auto. Da oggi e fino al 10, la Cgt, il più intransigente dei sindacati in lotta contro la riforma di Emmanuel Macron, ha lanciato un appello al “blocco totale” delle otto raffinerie di petrolio sparse sul territorio francese. Per Thierry Dusfrene, delegato Cgt a Total, sarà uno dei “tempi forti” della protesta. “Faremo in modo che non esca nulla per 96 ore. Dopodiché vedremo se bisognerà passare alla tappa successiva e bloccare anche le altre installazioni”, ha minacciato il sindacalista.

Il riferimento è ai 200 depositi di carburante che garantiscono al Paese una certa autonomia anche con le raffinerie ferme. Alcuni stabilimenti sono già semi bloccati da alcune settimane. Ieri all’impianto Total di Grandpuits, nella regione parigina, quasi fermo dal 5 dicembre, e che aveva appena ricominciato a far uscire le materie prime, è stato di nuovo votato il blocco totale. Qui più del 70% dei 170 operai sono in sciopero. Ieri li è andati a incontrare Jean-Luc Mélénchon, leader della France Insoumise, sinistra radicale, che li ha incitati a continuare: “Prima o poi Macron cederà”. Il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, ha assicurato che “non ci sono rischi di penuria di carburante” in Francia. Ma dall’inizio della protesta i siti dei giornali pubblicano carte dettagliate delle stazioni di servizio a secco. Ora che il blocco è totale il timore è che i francesi facciano la corsa alle pompe per assicurarsi il pieno di benzina, con lunghe code e nuove tensioni. A 32 giorni dall’inizio della protesta, lo sciopero, che ha battuto i record di longevità, ha già complicato le feste di fine anno dei francesi e complica ora il loro ritorno al lavoro. I treni e i metrò di Parigi continuano a funzionare a singhiozzo.

La Sncf, che gestisce le ferrovie, ha già annunciato un buco di almeno 600 milioni di euro. Una nuova giornata di mobilitazione nazionale, la quarta, è in programma giovedì 9. Si mobilita anche il collettivo Sos Retraites, che riunisce avvocati, piloti e tutto il settore aereo, infermieri e personale sanitario: si minaccia uno sciopero illimitato dal 3 febbraio. Nonostante tutto, il 61% dei francesi, secondo l’ultimo sondaggio Odoxa per France Info, continua a sostenere la protesta. È invece il 66% (per uno studio Elabe) a opporsi all’introduzione dell’età di “equilibrio”, la misura più controversa del progetto di legge, che porterebbe a 64 anni l’età per la pensione piena, invece dei 62 attuali. Questa misura è al centro dei negoziati tra sindacati e governo che riaprono oggi dopo la pausa natalizia. Per i francesi, che sono stanchi di tanti disagi, era tempo che gli addetti ai lavori tornassero a tavolino.

Ieri il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha detto che il “compromesso non è mai stato così vicino”. Nel tentativo di uscire dall’impasse, Laurent Berger, segretario generale del sindacato più moderato, la Cfdt, ma fermamente opposto al principio di età di equilibrio, ha proposto al governo di rimandare a più tardi la questione dell’equilibrio finanziario del sistema pensionistico organizzando una conferenza tra luglio e settembre.

Ciò permetterebbe di concentrarsi ora solo sull’aspetto strutturale della riforma, che prevede il passaggio a un sistema “universale a punti” e la fine dei regimi speciali. “Ottima proposta”, ha commentato Le Maire. Jean-Luc Martinez, segretario generale della Cgt, che si era lamentato in tv per non essere stato invitato all’incontro di oggi, rifiuta in blocco la riforma e non intende cedere. “Io continuo la battaglia – conferma Laurent Brun, capo della Cgt-Ferrovieri – non esiste che si debba aspettare luglio per avere una risposta alle nostre rivendicazioni”.

 

Il magnate: “Via dall’Iraq? Prima restituiteci i soldi”

Se l’Iraq caccia i militari americani e la coalizione anti-Isis, come chiesto dal Parlamento iracheno, con un voto non vincolante per il governo, Donald Trump minaccia a Baghdad “sanzioni enormi” e vuole anche farsi restituire i soldi spesi per la base militare Usa, probabilmente quella di Balad. “Abbiamo lì una base straordinariamente costosa, costruirla è costato miliardi di dollari… Non ce ne andremo a meno che non ci restituiscano i soldi”. Ma il comandante delle truppe Usa in Iraq manda una lettera al Parlamento di Baghdad per annunciare un “riposizionamento” delle truppe, per rispettare la “vostra decisione sovrana”.

La sortita di Trump sulla richiesta di rimborso all’Iraq, quasi che fosse stata Baghdad a sollecitare l’invasione americana nel 2003, potrebbe apparire una boutade, se non si collocasse in un contesto tragico – l’uccisione del generale Soleimani e del suo staff – e tesissimo, con una marea umana ieri a Teheran al corteo funebre in memoria del comandante assassinato.

Buttandola sui rimborsi, il magnate evoca i costi per gli Usa della guerra in Iraq: 1.700 miliardi di dollari consolidati nel 2013 – almeno 30 volte di più di quanto inizialmente stimato – e fino a 6.000 miliardi nell’arco di mezzo secolo, secondo il Watson Institute for International Studies della Brown University, ateneo della Ivy League. I costi umani: in dieci anni, il conflitto ha ucciso 134.000 civili e contribuito alla morte di oltre 500.000 persone. Se al numero dei civili si aggiungono anche i militari, i giornalisti e gli operatori umanitari le perdite erano comprese tra le 176 e le 189 mila, oggi raggiungono le 250 mila. Dopo il 2013, c’è stata l’affermazione e poi la sconfitta territoriale del sedicente Stato islamico, l’Isis: il trend dei costi economici e umani s’è mantenuto, se non è aumentato. Considerazioni che i partner degli Usa paiono avere ben presente, ma di cui Trump non tiene conto. Venerdì, a Bruxelles ci sarà una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Ue. Francia, Germania e Gran Bretagna chiedono all’Iran di tornare al rispetto dell’accordo sul nucleare, ma Berlino dice pure che le minacce di sanzioni all’Iraq e di attacchi all’Iran non servono. Mosca, che è garante dell’intesa come Pechino, invita i partner europei ad adempiere ai propri obblighi perché l’Iran stia ai patti. Il presidente Usa torna a ribadire la minaccia di colpire i siti culturali iraniani.

Ma Trump è abituato a fare carta straccia degli impegni presi dagli Stati Uniti: l’accordo sul clima, quello sul nucleare, il trattato sugli euromissili e vari altri. Una sua consigliera, Kellyanne Conway, afferma che The Donald “è aperto” a rinegoziare l’accordo sul nucleare, “se l’Iran si comporterà come un Paese normale”. Le contraddizioni di Trump inquietano i democratici: la Camera voterà in settimana una risoluzione che limita il potere di dichiarare guerra del presidente, che, dal canto suo, sostiene che i suoi tweet valgono notifica al Congresso. Trump mostra insofferenza per le beghe politiche interne, che lo distraggono dai suoi disegni internazionali (anche se probabilmente è l’opposto: il polverone internazionale serve a distrarre l’opinione pubblica dalle grane interne). “È triste – twitta – spendere tempo su questa bufala politica (cioè l’impeachment, ndr) – in questo momento della nostra storia, quando sono così occupato”. Ma arriva un’altra grana: l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente, John Bolton, si è detto “pronto a testimoniare” nel processo per l’impeachment se sarà convocato dal Senato. In una nota Bolton, che a settembre ha lasciato la Casa Bianca, ha precisato di aver deciso dopo “attente considerazioni” che avrebbe rispettato un mandato di comparizione da parte del Senato. La sua è considerata una testimonianza importante, perché Bolton ha conoscenza diretta delle pressioni di Trump su Kiev per far indagare i Biden, suoi avversari democratici.

BoJo litiga con The Donald: niente bombe sulla Storia

La crisi Usa-Iran provoca le prime crepe nel rapporto speciale fra Donald Trump e Boris Johnson. La reazione ufficiale di Johnson all’uccisione mirata del generale iraniano Qassem Soleimani è stata tardiva: mentre il resto del mondo misurava i rischi di un nuovo conflitto in Medio Oriente, il primo ministro britannico se ne stava in vacanza con la fidanzata Carrie Symonds nell’esclusiva isola di Mustique, da cui è tornato solo domenica. Johnson non era nemmeno stato informato dell’attacco, ma la sua la prima reazione, domenica sera, è stata da alleato fedele: “Il generale Soleimani rappresentava una minaccia per i nostri interessi. Visto il suo ruolo di primo piano in azioni che hanno portato alla morte di migliaia di civili innocenti e di personale occidentale, non staremo qui a lamentarci della sua morte”. Al sostegno agli Stati Uniti si è affiancato, dopo consultazioni con il presidente francese Macron e la cancelliera tedesca Merkel, un appello alle parti per una de-escalation della crisi. Ma sul tweet con cui Trump minaccia di colpire, se l’Iran dovesse vendicarsi, anche i siti culturali iraniani, è arrivata la condanna, seppur implicita, di Downing Street. Il portavoce del primo ministro ha chiarito che il governo non appoggerebbe un bombardamento dei tesori culturali iraniani, che violerebbe “convenzioni internazionali che prevengono la distruzione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato”.

In particolare quella dell’Aja del 1954, secondo la quale “qualsiasi danno ai beni culturali, indipendentemente dalla popolazione a cui appartengono, è un danno al patrimonio culturale di tutta l’umanità”. Ci sono precedenti: nel 2001, un capo talebano fece saltare in aria due gigantesche statue di Buddha a Bamyan, in Afghanistan. Fra il 2014 e il 2015 i jihadisti dell’Isis rasero al suolo decine di monumenti e siti religiosi in Iraq e Siria, inclusi moschee, chiese e monasteri, e buona parte della città di Palmira. Nel suo tweet Trump ha parlato di 52 siti, uno per ogni cittadino statunitense preso in ostaggio nell’ambasciata Usa a Teheran tra il 1979 e il 1981. Non ha specificato quali potrebbe bombardare, ma su Twitter in molti hanno risposto alle minacce del presidente postando le immagini dei tesori iraniani con l’hashtag #IranianCulturalSites. Ventiquattro già protetti dall’Unesco, 56 candidati a entrare nella lista dei tesori dell’umanità. Le rovine di Persepolis, capitale del regno achemenide, cuore dell’Impero persiano, fondata da Dario il Grande nel 518 avanti Cristo, uno dei maggiori siti archeologici del mondo, considerato dall’Unesco di “straordinario valore universale”. La piazza Naqsh-e Jahan a Isfahan, del XVII secolo, una delle piazze più grandi al mondo, lambita da tutti i lati da splendidi palazzi e moschee. Palazzo Golestan a Teheran, fortezza e simbolo della dinastia Qajar, che salì al trono nel 1779 e fece di Teheran la capitale della nazione. Il complesso dei bazaar storici di Tabriz, uno dei centri nevralgici dell’antica via della Seta: una serie di spazi ed edifici interconnessi con diverse funzioni, una delle testimonianze meglio conservate del sistema commerciale persiano. Il santuario e la tomba dello sceicco Safi al-Din, tesoro del misticismo Sufi, un complesso costruito fra il 16mo e il 18mo secolo che comprende una moschea, una libreria, una scuola, un ospedale, una cisterna, un mausoleo. E via così, in una straordinaria difesa spontanea della Bellezza contro la brutalità.

“Trump e i suoi a morte, ma l’Iran non si placherà”

Il feretro avanza circondato e seguito da una folla così compatta che sembra respirare e soffrire come una sola persona. Non ci passarebbe neppure uno spillo fra quei volti accartocciati dal dolore, quelle mani alzate al cielo per chiedere ad Allah di essere severo con i nemici dell’Iran. Eppure un giornalista si fa largo, allunga il microfono verso il generale Amir Hajzadeh, comandante dell’Aerospace Force delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche. Il generale lo dice senza mezzi termini: “Uccidere Trump e Pompeo non sarà sufficiente” per vendicare Soleimani. Il primo consigliere dell’ayatollah Khamenei, Ali Akbar Velyati,evoca per gli Usa “un nuovo Vietnam”. Lo stato d’animo della marea umana che a Teheran segue la bara dello stratega eliminato venerdì dagli americani con un drone, non appena era sbarcato da un aereo all’aeroporto di Baghdad, spazia fra la sete di rivalsa verso gli “imperialisti” e i pianti per la perdita del “martire” che gestiva i rapporti con gli alleati del Medio Oriente del fronte sciita. Alcuni di loro erano presenti, come il leader di Hamas, Ismail Haniyeh. Lacrime e sangue, ma quello degli yankee, stavolta: “Gli americani si aspettino la morte dei loro figli”, afferma Zeinab, la figlia di Soleimani. Fra i volti dei capi religiosi affranti spicca quello della guida suprema, l’ayatollah Khamenei. “Promettiamo di seguire il tracciato del martire Soleimani con la stessa forza, il suo sacrificio sarà ricambiato cacciando gli Stati Uniti dalla regione”, dice il nuovo generale delle forze Al Quds, Esmail Ghaani all’agenzia di stampa Irna. “La vendetta per il martirio di Soleimani è una promessa fatta da Allah, poiché Allah è il principale vendicatore”.

Il funerale di Soleimani, dunque, diventa una prova di forza e compattezza del regime iraniano, e nell’era dei social, la foto di un popolo che giura di vendicarsi ha la capacità emotiva di narrare una storia – senza controcanto – che fa ribollire il sangue degli sciiti, dalle milizie in Iraq a Hezbollah in Libano. Il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, che in casa è considerato dall’ala oltranzista un moderato, “spara” un tweet con quattro foto e sbeffeggia il presidente americano: “Trump, nella tua vita avevi mai visto una marea di umanità come questa? Ancora presti ascolto ai pagliacci che ti consigliano cosa fare nella nostra regione?”.

Questo stesso regime – dicono le voci dissidenti – ha fatto più di 1.000 vittime durante le manifestazioni di piazza per la crisi economica a fine 2019, incarcera “spie” straniere, a volte le condanna a morte. Eppure ieri ha saputo mostrarsi come vittima di un crimine. L’Iran piange come un bambino a cui hanno ammazzato il padre in modo vigliacco, e un secondo dopo digrigna i denti come un mastino pronto ad azzannare l’invasore del proprio giardino, in questo caso l’Iraq. Per altro, non c’è spazio. Le minacce vengono prese sul serio, la Chevron ha evacuato tutti i dipendenti americani. Israele, primo Paese esposto alla ritorsione, traccia eventuali minacce: il premier Netanyahu ha convocato ieri il Consiglio di difesa, stato di allerta nelle sedi diplomatiche di Tel Aviv. I ministri degli Esteri dell’Unione europea si vedranno venerdì a Bruxelles, ieri c’è stata la riunione degli ambasciatori dei 29 Paesi della Nato. “L’Iran non deve mai ottenere l’arma nucleare, preoccupa anche il suo programma missilistico”, ha detto il Segretario generale, Jens Stoltenberg, aggiungendo che la decisione di uccidere Soleimani è stata “degli Usa, non della Nato”. Ma per ora l’Alleanza sembra capace solo di chiacchiere e distintivo, mentre in Medio Oriente rullano tamburi di guerra.

Befana amara, Salvini contestato a Bologna

“Vergognati, è una festa per bambini”. A portare il carbone a Matteo Salvini ci hanno pensato due signori bolognesi. Non contenti della presenza del leader leghista dai frati dell’Antoniano, lo hanno accolto urlandogli di andarsene. L’occasione è la “Befana del poliziotto”, uno spettacolo per i più piccoli organizzato da anni dal sindacato Sap, solitamente senza polemiche. La presenza, abituale, di esponenti politici alla festa dei poliziotti non aveva finora mai causato problemi: diverso è però il caso dell’ex ministro degli Interni. A manifestare un certo fastidio sono stati per primi i francescani stessi, all’oscuro del “prestigioso” ospite. Rassicurati dagli organizzatori che Salvini non sarebbe salito sul palco per fare campagna elettorale a meno di 20 giorni dal voto in Emilia-Romagna, i frati non hanno voluto mettersi di traverso all’evento.

A Bologna però sono stati in tanti a non gradire la presenza del senatore. Come testimoniano alcune scritte apparse sui muri dell’Antoniano, prontamente cancellate: “Cucchi vive”.

Un riferimento alle dichiarazioni di Salvini –“la droga fa male” – contro Stefano Cucchi, per il cui “omicidio preterintenzionale” sono stati condannati a 12 anni due carabinieri. O anche un riferimento alle uscite, del deputato leghista Gianni Tonelli, un tempo segretario generale del Sap ieri al fianco di Salvini: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute ne paga le conseguenze”.

A manifestare c’era pure Roberto Morgantini, nominato l’anno scorso Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana “per il suo prezioso contributo alla promozione di una società solidale e inclusiva”. Insieme a una decina di persone ha organizzato un presidio pacifico nella vicina Piazza Trento Trieste.

I partecipanti hanno distribuito un volantino: “A chi sparge parole e concetti di odio, esclusione, intolleranza e disumanità noi rispondiamo con la gioia e la ricchezza che solo l’inclusione e l’integrazione possono seminare, per un futuro migliore per tutti. Oggi vi invitiamo a prendere parte a questa ricchezza”.

Spontanea invece la reazione dei due signori, un uomo e una donna, alla vista del leader leghista. “Se ne vada via. Si vergogni, è una festa dell’Antoniano. È la festa dei bambini, lei è un politico non un bambino. Strumentalizza i bambini”. Frasi a cui hanno prima risposto fuori dal teatro alcuni sostenitori del leghista, e poi lo stesso Salvini: “Io non ho fatto un comizio. Sono qua a omaggiare donne e uomini in divisa che i loro bimbi magari li vedono poco durante l’anno e sono orgoglioso dell’accoglienza che mi è stata tributata. Se poi qualcuno ha sempre occasione per fare polemica, vive male. Mi dispiace perché a sinistra c’è gente che vive male”. E ancora: “Non vedo l’ora che arrivi questa festa della democrazia Io mi godo la vita e non vedo l’ora che arrivi questo 26 gennaio perché poi votano donne e uomini, non votano uccellini o pesciolini”. Il riferimento è alle Sardine, la manifestazione pacifica nata proprio a Bologna che ha scompaginato la campagna elettorale della Lega in Emilia-Romagna.

Assente all’Antoniano è invece la candidata a governatrice Lucia Borgonzoni. Una scelta rivendicata con orgoglio dai leghisti come tattica per incontrare più elettori sul territorio. Dopo numerosi battibecchi col dem Stefano Bonaccini, in cerca del bis, sembra che ci sarà il confronto televisivo tra i due. E questa volta a Salvini toccherà guardare.

L’“età adulta” delle Sardine inizia con l’abbraccio a Lucano

Inizia a Riace l’età della ragione delle Sardine. Per la prima volta lontano dalle grandi città, il movimento anti-salviniano si è riunito nel borgo calabrese. Una scelta simbolica, come quella di abbracciare il suo ex sindaco Mimmo Lucano, l’uomo che ha trasformato questo paesino della Locride in un laboratorio di accoglienza e integrazione dei migranti. Riace – hanno spiegato le Sardine – “è simbolo per eccellenza di ogni messaggio che parli di pace, tolleranza, dialogo, inclusione. Il luogo divenuto negli anni un modello studiato e apprezzato a livello internazionale per l’efficacia con cui ha saputo indicare la via più ragionevole e civile per gestire il fenomeno migratorio”.

Alla chiamata di Jasmine Cristallo, la referente calabrese delle Sardine, hanno risposto in circa 400 attivisti della società civile, dei sindacati, delle sigle politiche, ma tutti senza bandiere, che si sono ritrovati al “Villaggio Globale”, il luogo dove ha preso forma il modello Riace di Lucano.

In piazza suonava la musica della pianista Chiara Troiano, poi gli interventi dal palco: Mimmo Lucano, l’attivista umanitario Enzo Infantino, i rappresentanti delle Sardine di tutte le province calabresi (e per ultima la Cristallo), Isidoro Napoli (l’organizzatore dell’ambulatorio medico di Riace), Marcella Stagno (redattrice a Radio Out con Peppino Impastato), Antonio Ionà di “Cittadinanza e Integrazione” e poi il videomessaggio inviato da Milano dal cantautore calabrese Eman. Mimmo Lucano, di recente colpito da un nuovo avviso di garanzia, si è presentato così: “Sono qui da privato cittadino, ma il mio impegno pubblico prosegue. La mia lotta contro le politiche sull’immigrazione messe in atto dal governo continua, la ‘legge del mare’ deve prevalere sempre”.

L’ex sindacodi Riace ha espresso la sua gratitudine per l’iniziativa delle Sardine: “Le ringrazio perché loro, come me, sono umane e contro i seminatori di odio. Ribadisco il mio impegno per i migranti e rifarei tutto ciò che ho fatto. Ripeterei, in particolare, le procedure, che qualcuno ritiene irregolari anche per il rilascio di carte d’identità in favore di madri e bambini che chiedono soltanto assistenza sanitaria, che rientra tra i diritti umanitari sanciti dalla Costituzione”.

Jasmine Cristallo a sua volta ha ringraziato Lucano: “Riace ha fatto conoscere la Calabria nel mondo come esempio positivo, è il simbolo dell’accoglienza e dell’integrazione possibile. Siamo qui per dire che c’è gente che crede ancora che l’altro non sia nemico, non sia qualcosa da temere, ma un’occasione di crescita e di evoluzione”

Oggi il verdetto dei probiviri (poi c’è il conto di Rousseau)

Prima della resa dei conti ci sarà una pausa di riflessione. Segno che la voglia di cacciarne tanti e subito, va gestita con una certa prudenza. Oggi probiviri del Movimento Cinque Stelle butteranno giù l’elenco dei morosi che meritano l’espulsione. Ma prima di procedere, lasceranno una finestra – che poi è quella prevista da regolamento per le controdeduzioni – con la speranza che diano un segnale di buona volontà. Un bonifico che dimostri almeno che il loro non è un debito di protesta.

Perché quello che è evidente dopo la scadenza del 31 dicembre è che sono tanti quelli che, di restituire, non hanno nessuna intenzione. Quando Di Maio ha fatto sapere che con la fine del 2019 sarebbe scattata la tolleranza zero, molti sono corsi ai ripari recuperando almeno un po’ degli arretrati. Altri, invece, hanno proseguito facendo finta di nulla. Anzi, hanno rivendicato una sorta di “sciopero bianco” contro le modalità di gestione del conto. L’ultima in ordine di tempo è Dalila Nesci, da qualche mese in polemica con i vertici che non hanno accettato la sua spontanea candidatura a presidente della regione Calabria. “Ho fatto denunce contro la ‘ndrangheta figuriamoci se ho paura dei probiviri”, è la replica a chi le chiede se è preoccupata per l’espulsione. Dal marzo scorso non versa più sul fondo ufficiale. Sabato 4 gennaio ha fatto tre bonifici (di quelli istantanei, che ormai nessuno si fida più) ad associazioni che ritiene più meritevoli del Comitato per i rimborsi e le restituzioni di cui fanno parte Luigi Di Maio e i due ex capigruppo Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli.

Il conto di cui sono intestatari presso Banca Profilo, il 30 novembre, segnava un saldo positivo per 5 milioni e 18 mila e 313 euro. Sono i soldi – stando all’estratto conto pubblicato sul sito tirendiconto.it – restituiti dai parlamentari da marzo 2019, subito dopo l’ultimo restitution day che si è tenuto a febbraio, e che aveva visto donare due milioni di euro agli alluvionati di Liguria, Sicilia e Friuli Venezia Giulia. Dal “conto intermedio” intestato a Di Maio, D’Uva e Patuanelli, i fondi vengono infatti destinati a beneficiari decisi di volta in volta da M5S, cosa che non avviene da quasi un anno e che ha provocato lo “sciopero” di alcuni eletti. Le situazioni più critiche riguardano una decina di parlamentari, ma ce ne sono almeno altri venti a rischio sospensione. E presto verrà anche chiuso il bilancio del “Contributo alla piattaforma tecnica per l’attività dei gruppi parlamentari”, che tradotto è il contributo mensile di 300 euro che i parlamentari si sono impegnati a versare al momento della candidatura.

Nel 2018 il fondo ha sfiorato i 700 mila euro raccolti. Nel 2019 i dati finora disponibili su Rousseau raccontano di un incasso ancora magro: alla fine di novembre si fermava a circa 218 mila euro, al cui raggiungimento hanno contribuito anche consiglieri regionali e europarlamentari. Il dato è assolutamente parziale, sia chiaro: non solo perché manca il mese di dicembre, in cui molti potrebbero aver versato gli arretrati, ma anche perchè il sito non registra i contributi mensili singoli (la spazzacorrotti impone la trasparenza solo sopra i 500 euro). Certo è che i dati pubblicati mostrano come almeno un parlamentare su 3 non versi regolarmente ma faccia bonifici complessivi ogni 3 o 4 mesi. Considerato l’andazzo complessivo delle restituzioni e l’annosa polemica sul contributo a Rousseau, le cose sono tre: o la stragrande maggioranza dei parlamentari versa i 300 euro mese per mese, o hanno tutti pagato a dicembre, oppure la raccolta per l’associazione di Davide Casaleggio sarà più magra del previsto.

L’autotassa dei partiti: la Lega chiede 3 mila euro, il Pd 1.500

Il record è della Lega: 7,2 milioni di euro guadagnati nel 2018, in attesa di un bilancio 2019 che dovrebbe registrare una ulteriore crescita. La tassa più alta sul singolo parlamentare, invece, ce l’ha Sinistra Italiana, che ogni mese chiede 3.500 euro ai propri eletti. Sfogliando i dati sulle donazioni ai partiti – con la legge Spazzacorrotti ogni contributo sopra i 500 euro deve essere pubblicato online – si ha un quadro di come le forze politiche si arrangiano per stare in piedi. Lontani i tempi dei contributi pubblici milionari, resta l’imposizione – più politica che giuridica – ai propri parlamentari di versare ogni mese una quota per garantire il funzionamento della macchina. Anche se poi, come in ogni sistema di riscossione, i tesorieri fanno spesso i conti con morosi e “evasori”.

Noto è il caso del Movimento 5 Stelle, che però aggiunge ai 300 euro mensili destinati all’Associazione Rousseau una quota di restituzione che non viene destinata da attività politiche, ma va a finanziare attività per lo più sociali e economiche come le piccole imprese, le famiglie delle forze dell’ordine o la protezione civile.

A ridosso di alcuni eventi pubblici del Movimento, però, i vertici battono cassa alla ricerca di contributi extra: per Italia a 5 Stelle, la due giorni di incontri a Napoli dello scorso ottobre, i parlamentari hanno sborsato tra i 1.500 e i 2.000 euro, stessa cifra chiesta per sponsorizzare il comitato elettorale per le europee di maggio.

A incidere sui versamenti della Lega ci sono invece motivi giudiziari. Al di là del fortunato accordo con la Procura di Genova, che ha consentito di rateizzare il debito di 49 milioni in circa 75 anni senza interessi, il partito di Matteo Salvini deve comunque rientrare di 600 mila euro ogni anno, senza contare i fondi necessari all’attività politica. E così la quota richiesta ai parlamentari è di 3.000 euro al mese, anche se nell’elenco dei donatori c’è qualche assente di troppo.

È il caso per esempio di Armando Siri, che almeno fino a dicembre non risulta tra i parlamentari paganti, o del fondatore Umberto Bossi, anche lui senza bonifici registrati. Il bilancio del 2019 dovrebbe comunque sorridere ai leghisti, perché partendo dai 7,2 milioni dell’anno precedente si dovrà considerare il boom di eletti (che nel 2018 hanno iniziato a versare solo da marzo/aprile) e di nuovi eurodeputati, passati dai 5 della passata legislatura ai 29 attuali.

Problema inverso ha invece il Pd, che oltretutto da anni è alle prese con un serio problema di riscossione. Nell’ultimo bilancio approvato – relativo al 2018 – il tesoriere Luigi Zanda ha registrato “822.542 euro di crediti non ancora incassati” e per cui “è stata promossa azione di recupero” nei confronti dei parlamentari.

Il gettito dagli eletti era di 4,4 milioni per il partito nazionale e di altri 4,8 nelle dislocazioni territoriali, frutto di una autotassa di 1.500 euro imposta dal Nazareno a cui si aggiunge una quota variabile destinata alle segreterie regionali e comunali. Il difficile, però, è far rispettare le regole. Stando all’elenco pubblicato online e aggiornato a fine novembre, uno dei morosi è Luca Lotti: l’ex ministro ha infatti girato al partito 6.750 euro, pari a quattro mensilità e mezzo. Ancor peggio ha fatto Matteo Renzi, che ha smesso di finanziare il Pd ben prima della scissione di settembre. L’unico bonifico registrato risale infatti a febbraio, appena prima della vittoria di Zingaretti alle primarie, quando l’ex premier ha versato 6.500 euro (ne mancano, a spanne, almeno altrettanti). Poi più nulla, a parte i 10 mila girati sul conto di Italia Viva il 22 agosto.

La stessa Italia Vive oggi chiede un contributo minimo di 500 euro ai suoi parlamentari, cifra generalmente inferiore a quella pretesa da partiti con percentuali simili. Forza Italia, per esempio, richiede 900 euro al mese, potendo sempre contare sul prezioso supporto della famiglia Berlusconi (nel 2019 100.000 euro da Paolo, fratello di Silvio, e altri 100.000 da Fininvest), che copre così alcune morosità. Dai documenti risulta infatti uno “zero” alla casella dei versamenti fino a dicembre del senatore Luigi Cesaro, mentre del deputato Roberto Occhiuto c’è traccia solo nei 884 euro arrivati a giugno.

Più esigente Fratelli d’Italia: ogni mese Giorgia Meloni chiede ai suoi 1.500 euro, divisibili tra il partito nazionale e le sedi locali.

I versamenti degli eletti, però, sono storico retaggio dei vecchi comunisti ed è infatti Sinistra Italiana il gruppo con l’imposta più salata, stabilita addirittura nello statuto: “Ogni parlamentare nazionale o membro di governo è tenuto al versamento con scadenza mensile di una quota pari al 70% della propria indennità netta”. Tradotto: dei circa 5.000 euro netti guadagnati da ogni parlamentare (esclusi diaria e benefit vari), 3.500 tornano al partito.

Il tradimento di Sirte e la Mezzaluna del petrolio

Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan annunciava domenica sera l’imminente arrivo dei soldati turchi in Libia a sostegno delle forze del Governo di Accordo Nazionale di base a Tripoli, i gruppi armati della fazione rivale guidata dal generale Khalifa Haftar stavano già preparando la loro ennesima offensiva. Alle prime ore dell’alba un convoglio di decine di pick up si sono mossi dai terminal di Ras Lanuf e Sidra nella Mezzaluna petrolifera, che dal 2016 è sotto il controllo della coalizione dell’Est. Già nella mattina di ieri le forze del generale avevano sfondato la linea che da oltre cinque anni oramai demarcava il confine tra la Libia del Gna e la Libia di Haftar, spingendosi fino al centro della città di Sirte. In poche ore i mezzi di comunicazione della coalizione che fa capo all’uomo forte di Bengasi inondavano la rete e la tv con immagini di uomini armati che danzavano al centro di Sirte, città simbolo nonché luogo strategico per la conquista della capitale Tripoli.

A Sirte, città natale di Gheddafi, dove lo stesso ex raìs cercò riparo durante la Rivoluzione del 2011 ma proprio lì venne poi ferito a morte da un caccia francese, e poi portato in giro come un trofeo, le gente locale non ha mai accettato il governo dei ribelli. Una città distrutta, quasi rasa al suolo, che venne presto irregimentata da Ansar Al Sharia che però presto, nel 2015, confluì nello Stato Islamico. La guerra del Gna contro l’Isis costrinse ancora una volta la città di Sirte ad offrirsi come campo di battaglia. La guerra durò fino alla fine del 2016 quando lo Stato Islamico fu cacciato. Da allora Sirte è rimasta sotto il controllo della Brigata 604, una delle brigate che si formò proprio sul fronte anti-Isis. Le forze di Misurata organizzarono questo gruppo radunando decine di salafiti madkhali da tutta la Libia. Da quando gli uomini della Brigata 604 diedero alle fiamme l’ultimo dei combattenti dell’Isis rimasto intrappolato tra le macerie nel 2016, sono rimasti a guardia della città.

E ieri gli uomini della Brigata 604 hanno tradito. Teoricamente a guardia del confine orientale della Libia dell’Ovest sotto il controllo del Gna, ha invece aperto la strada al convoglio armato del generale dell’Est. Le forze di Haftar sono entrate senza sparare un colpo. “Temevamo che prima o poi sarebbe successo. A Sirte sono tutti gheddafiani. Soprattutto quelli della Brigata 604”, ha detto al Fatto una fonte di Misurata. La maggior parte degli uomini della brigata madkhali sono della tribù Forjan, una di quelle storicamente pro-Gheddafi. Inoltre sono salafiti madkhali, ossia si rifanno a una branca dell’Islam ultra-conservatore che nasce in Arabia Saudita. Le voci che ci siano i sauditi dietro questa operazioni si fanno insistenti.

“La situazione in Libia è particolarmente difficile in questo momento, confesso che è desolante”, ha detto l’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamè, parlando ai giornalisti al termine delle consultazioni a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza. Tripoli è oramai linea del fronte, e sabato un raid aereo delle forze di Haftar ha ucciso trenta cadetti della scuola militare nella zona sud della città. Il bilancio a Tripoli dall’inizio dell’operazione è di circa 1200 morti di cui oltre 100 civili, e oltre 20 mila sfollati.

Mentre l’Europa, con l’Italia in testa, chiede una risoluzione diplomatica, i russi già da un mese sono schierati al fianco di Haftar mentre Egitto ed Emirati Arabi muovono le fila della sua campagna di bombardamento aereo.

Tocca capire se i gruppi salafiti madkhali che a Tripoli sono a protezione del premier Fayez al Serraj e il Gna defezioneranno per allinearsi anche loro ad Haftar. In quel caso la conquista di Tripoli non sarebbe necessariamente vicina, ma nella capitale si scatenerebbe una guerra totale.

Poco peso ed errori: così in Libia l’Italia non tocca più palla

Per l’Italia non c’è molta differenza tra Tripoli e Bengasi che si contendono la Libia, ma per la Libia di Tripoli e di Bengasi è l’Italia che non fa più la differenza. Cos’è accaduto va rinvenuto tra le mezze scelte di Roma e il letargo di una politica per la Libia, oltre le visite di cortesia dei ministri che servono alla propaganda interna e ai retroscena dettati da solerti uffici stampa.

Alla vigilia di Natale del 2015 ci fu un contatto telefonico tra l’italiano Paolo Gentiloni, allora ministro degli Esteri, e il libico Fayez al-Serraj, il presidente designato di un governo di unità con sede a Tripoli e il benestare della comunità internazionale, rampollo di una famiglia agiata, politico di secondo livello durante il regime di Gheddafi. Ancora Gentiloni, per metonimia l’Italia, fu il primo rappresentante istituzionale a incontrare Serraj in un bilaterale ufficiale.

Oggi il medesimo Serraj è asserragliato a Tripoli, protetto dalle milizie di Misurata, soccorso dai militari turchi di Erdogan e da ingenti risorse qatariote e lamenta, ormai con crescente fastidio, l’indifferenza degli italiani. Il generale Khalifa Haftar, il padrone della Cirenaica che la politica italiana – udite, udite – scopre interlocutore ineludibile, avanza con pause verso Tripoli, prende il controllo di Sirte, bombarda con il supporto di mercenari di targa russa, di tecnologia emiratina e dei varchi egiziani offerti da Abdel Fattah al-Sisi. Il mondo si schiera in Libia con lampi di guerra cruda, metro per metro, e la vicina di mare Italia più che assente risulta inconsistente, considerata inaffidabile da Serraj e da Haftar, facile preda dell’astuzia dei francesi e adesso pure dei turchi. Con ottusità o perspicacia, Roma ha curato sin dal principio un rapporto privilegiato con gli alleati di Serraj, una sorta di garante incapace di conquistarsi un ruolo di guida e però non ha ignorato, attraverso canali riservati, le richieste di Haftar. Il generale ha annunciato la conquista di Tripoli la primavera scorsa, neanche si è avvicinato alla capitale e nessuno gli ha preparato un ingresso trionfale, illusione che ha ingannato i pronostici di Roma, che ha lasciato fare in attesa di una conferenza per riequilibrare i poteri in Libia, una sorta di Yalta mediterranea. Per fonti del ministero della Difesa, Haftar non ha intenzione di entrare a Tripoli perché non ci sono le condizioni, ma tenta di aumentare la tensione per rivendicare più dividendi dalla futura spartizione. Il dialogo con Haftar s’è consumato anche con promesse ventilate e non mantenute. Per esempio il generale ha chiesto a Roma di sistemare l’ospedale di al Jalaa di Bengasi, più volte colpito da attentati, e di insediare lì un contingente militare, come il presidio medico di Misurata. Un modo per affermare l’equidistanza che l’Italia di recente ha dichiarato di professare, tecnica che non ha persuaso lo scaltro Haftar e ha innervosito Serraj. Non più di un mese fa, la delegazione italiana ha confessato l’ipotesi di riaprire il consolato a Bengasi, chiuso dopo l’agguato di sette anni fa al diplomatico De Sanctis.

Alla vigilia di un altro Natale, nel 2018, la Farnesina era sicura di inaugurare la sede a Bengasi, ma fu bloccata dal governo di Tripoli – che minacciò conseguenze – mentre un aereo di funzionari era pronto al decollo a Ciampino. Serraj rimprovera a Roma l’abbandono durante gli attacchi di Haftar e ha capito che l’Italia immagina imprescindibile un posto per il generale al tavolo di pace. Il tavolo non appartiene agli italiani, sostituiti dai turchi che piantano gli scarponi in Libia ben consapevoli di poter reclamare poi un’influenza (economica) nel territorio. Roma ha inseguito nelle ultime settimane un’utopia, recitare da protagonista in Libia con il coinvolgimento degli americani, ma la Casa Bianca di Trump, come dimostrato in Iraq, ignora gli amici italiani. Il piano di riserva, che la Farnesina ha elaborato in fretta, ha indicato la soluzione europea con l’Italia in testa. In Libia il colore più europeo è il tricolore col blu dei francesi. Al momento il piano non funziona. Serraj e Haftar si combattano a distanza e di nazionale in Libia c’è soltanto la produzione energetica garantita in gran parte da Eni, i pozzi petroliferi che per l’ottanta per cento sono sorvegliati da Haftar e generano proventi ai nemici di Tripoli, il gasdotto con l’Italia come unica strada per le esportazioni. La presenza di Eni non è in discussione né per Serraj né per Haftar e il mare grosso di novembre e dicembre ha scoraggiato la partenza dei barchini dei migranti, ma egiziani o russi, qatarioti o turchi saranno d’accordo un domani?