“Cerchiamo la pace Anche Usa e Russia si devono parlare”

Il suo viaggio in Libia con la missione dell’Unione europea per ora è un annuncio sepolto dalle bombe. Ma dalla Farnesina il ministro degli Esteri Luigi Di Maio rilancia: “La missione della Ue può incontrare Al Sarraj e Haftar anche in un’altra sede, e ora parla con la voce dell’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell”. E ieri proprio Borrell ha cenato con Di Maio a Roma.

“Un’escalation della violenza attorno a Tripoli potrebbe essere imminente”, dice Borrell. E Haftar avrebbe preso Sirte. Pare già troppo tardi per missioni e conferenze.

In Libia è in corso una guerra, con interferenze esterne. L’obiettivo dell’Italia è ricondurre tutti gli attori che hanno influenza su questo scenario, dalla Turchia alla Russia fino all’Egitto e agli Stati Uniti.

Però la missione non è potuta andare in Libia: non vi volevano.

La situazione sul piano della sicurezza è difficile. Ma la missione è in corso e lavora a un incontro con le due parti. Se non sarà possibile in Libia lo terremo altrove.

Anche in Italia?

Ne discuteremo. Di certo è stato scellerato bombardare la Libia nel 2011. Ora ci ritroviamo con una nuova Siria. Ma ci sono altre responsabilità.

Cioè?

L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini avocò totalmente a sé il dossier libico, puntando solo sull’immigrazione per farne un tema da campagna elettorale. Una scelta del tutto sbagliata.

Il dossier glielo avete lasciato lei e il premier Conte.

Il presidente del Consiglio ha lavorato sulla Libia, per esempio con la conferenza di Palermo.

Senza risultati, però.

Salvini non può dare lezioni sulla Libia, perché la sua unica preoccupazione era non far partire migranti. Ma qui se la guerra continua i rischi saranno ben altri, con la proliferazione di cellule terroristiche a pochi chilometri dalle nostre coste.

Significa che l’Italia corre il serio rischio di attentati?

Non ci sono minacce dirette per il nostro Paese, la nostra intelligence e le nostre forze dell’ordine monitorano tutto. Ma queste cellule di terroristi stanno proliferando.

Salvini punta sull’arrivo in massa di profughi dalla Libia per vedervi in crisi?

La guerra c’è da aprile. Noi lavoriamo per tutelare i nostri interessi geo-strategici ma anche per scongiurare il rischio dell’arrivo in massa di migranti. Da due settimane sentiamo tutte le diplomazie europee.

Raccontano che domenica lei abbia cercato Al Sarraj, senza riuscire a parlargli.

Gli ho parlato stamattina (ieri, ndr), e in questi giorni ho avuto continui contatti con lui e con il suo ministro degli Esteri. Lavoriamo su tutti i fronti: ho invitato il ministro degli Esteri turco in Italia e mercoledì sarò a un vertice in Egitto sulla situazione libica, poi andrò in Algeria e Tunisia. E c’è il processo di pace di Berlino.

Ma la conferenza di pace a Berlino serve a qualcosa?

Dobbiamo credere a oltranza nella soluzione diplomatica. La guerra porta guerra, e l’unica soluzione è il cessate il fuoco. Ma per far riuscire il tavolo di Berlino dobbiamo includere Paesi come Algeria, Tunisia e Marocco. Dopodiché mi faccia dire che la politica internazionale non si fa con i post e con i tweet. È necessario un profilo basso.

Serve anche la presenza. Lei è stato molto criticato per essere rientrato la sera del 3 gennaio da Madrid.

Sono tornato la mattina con un volo di linea, senza prendere aerei di Stato. E dalle otto, appena scoppiata l’emergenza, lavoravo al telefono.

L’Italia ha sbagliato a puntare su Al Sarraj e ora cerca di recuperare con Haftar, il “cavallo” della Francia?

Il suo governo è quello riconosciuto dall’Onu. Il vero punto è che un conflitto si aggrava quando arrivano le interferenze esterne, e dobbiamo lavorare innanzitutto su questo. Ma noi parliamo anche con Haftar. Dopodiché perché si sblocchi la situazione è fondamentale che si parlino Stati Uniti e Russia.

Gli Usa si disinteressano della Libia e poi uccidono Soleimani. Grave, no?

Gli Stati Uniti vengono colpevolizzati perché non si interessano della Libia, ma anche perché intervengono in Iraq.

Sono situazioni completamente diverse.

Certamente. Ma io ho sentito il Segretario di Stato americano Pompeo la settimana scorsa, e mi ha confermato il sostegno al processo di pace. Invece l’escalation in Iraq chiaramente ci preoccupa. Noi siamo sempre per la pace: se al governo ci fosse la Lega ci porterebbe in guerra. E poi l’Italia ha soldati in quel Paese: le dichiarazioni aggressive di certi politici li mettono in pericolo.

I nostri militari devono rimanere lì?

Una rimodulazione dei nostri contingenti all’estero andrà pensata, ma sempre di comune accordo con gli alleati. Abbiamo già chiuso la missione a Mosul e ridotto il contingente in Afghanistan.

Il suo sottosegretario agli Esteri Di Stefano ha criticato Borrell per aver “deplorato” la scelta dell’Iran di uscire dall’accordo nucleare.

Lavoriamo con l’Iran per ripristinare il dialogo, ma l’annuncio di voler uscire dall’accordo non aiuta. Però dal ministro degli Esteri non ci si possono attendere certe dichiarazioni. Non è così che si risolvono i problemi.

Gli avvocati Pisapii

Quando qualcuno si dimentica com’è ridotta la sinistra italiana, Giuliano Pisapia provvede subito a rammentarglielo. Ieri, nella sua periodica intervista a Repubblica, l’ex avvocato dell’ex editore Carlo De Benedetti, già deputato comunista, già sindaco Arancione, ora europarlamentare Pd intima al suo ultimo partito (in ordine di tempo) di “abrogare la riforma Bonafede” della prescrizione perché è “un calvario in contrasto con la Costituzione” (non specifica quale articolo), “uno scempio del rispetto delle regole” (forse le sue: la Spazzacorrotti è una legge dello Stato approvata dal Parlamento a larga maggioranza), “nella stessa direzione del vecchio governo 5Stelle-Lega”. Balla sesquipedale: la Lega non voleva saperne, impose di rinviarne l’entrata in vigore al 2020, poi iniziò a battersi per cancellarla con gli stessi argomenti di Pisapia, lui sì in perfetta continuità con Lega, FI e Pd (che quattro anni fa voleva addirittura bloccarla alla richiesta di rinvio a giudizio). Non solo: ci sarà “un allungamento dei tempi dei processi” (tutti sanno che i processi sono lunghi anche perché i colpevoli tirano alla prescrizione); o che “la maggior parte dei processi si prescrive in indagine e prima delle sentenze di primo grado”, ergo tanto vale lasciar prescrivere pure i pochi sopravvissuti.

Ma sentite quest’altra: la prescrizione bloccata danneggerebbe gli “imputati innocenti o presunti innocenti, ma anche le vittime dei reati”. Ora, le vittime hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere dal blocco della prescrizione. E gli imputati innocenti non c’entrano una mazza, visto che la prescrizione durante il processo è riservata ai colpevoli: se uno è innocente, il giudice deve assolverlo, non prescriverlo; solo durante le indagini la prescrizione non accerta la responsabilità (infatti, se l’imputato vuol uscire assolto, può rinunciare alla prescrizione). L’intervistatrice fa notare che B. l’ha fatta franca un sacco di volte. E Pisapia: “Berlusconi ha avuto processi in cui è stato condannato, altri in cui è stato assolto. Quanto al processo più importante, il ‘lodo Mondadori’, e in cui io ero avvocato di parte civile, il reato si è prescritto in primo grado. Se in vigore, questa riforma non avrebbe modificato niente”. Tutte balle. Nel caso Mondadori, B. non fu prescritto in primo grado, ma in udienza preliminare. Dopodiché ebbe altre 8 prescrizioni, di cui 2 in appello dopo altrettante condanne a 1 e 3 anni (rivelazione di segreto sulla telefonata rubata Fassino-Consorte e corruzione di senatori). Con la Spazzacorrotti, in caso di conferma delle due condanne, sarebbe finito in galera per quattro anni.

Memorabili le Pisa-ricette per sveltire i processi: “aumento dei riti alternativi: giudizio abbreviato e patteggiamento” (che nessuno sceglie perché tutti attendono la prescrizione) e “misure alternative al carcere che porteranno a una diminuzione delle prescrizioni” (scemenza epocale: la prescrizione agisce durante il processo, le pene alternative scattano quando è finito). C’è una sola cosa vera nell’intervista: nel processo Mondadori (e anche nello Sme), Pisapia era parte civile per la Cir di De Benedetti, a cui B. aveva scippato la casa editrice con una sentenza comprata da Previti. Fu lì che ne apprezzammo la foga oratoria. Ma era un altro Pisapia, l’opposto. I peana alla prescrizione li scioglievano Pecorella e Ghedini, difensori di B. Invece Pisapia, difensore dello scippato che gli pagava la parcella, ben si guardava dal sostenere che la prescrizione tutela le vittime e gli innocenti. Dovevate vederlo con che piglio si scagliava contro i trucchetti dei legali di B., Previti&C. per far prescrivere i loro reati. Una furia: “Il centrodestra chiede giustizia celere, ma nei processi usa tutti gli strumenti dilatori per evitare che si giunga a sentenza o far scattare la prescrizione. Vogliono condanne veloci e pene certe solo per deboli ed emarginati” (1.4.2001). “Un conto sono i diritti di difesa, un altro l’uso sistematico e strumentale di impedimenti per bloccare il corso della giustizia, allungare i tempi e arrivare alla prescrizione” (23.4.01). “Previti non vuole l’accertamento della verità, ma solo l’impunità con la prescrizione” (3.11.01). “Berlusconi s’è salvato dal rinvio a giudizio solo per prescrizione grazie alle attenuanti generiche. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dei difensori ritenendo, quindi, che vi fossero tutti gli elementi per rinviarlo a giudizio per corruzione… Il premier aveva la possibilità giuridica, oltre che il dovere morale, di rinunciare alla prescrizione, che è cosa ben diversa dal proscioglimento per non aver commesso il fatto” (17.11.01). “Se, come sostengono autorevoli politici, vi è un tentativo di ‘golpe’, questo proviene da ben individuate forze politiche che, in aperta violazione della Costituzione e dei principi base di uno Stato di diritto, intendono interferire sull’attività dell’autorità giudiziaria per evitare che si arrivi a sentenza” (3.1.02). “Berlusconi è fuori dal processo per effetto della prescrizione. Però… leggendo la sentenza è facilmente intuibile che, se fosse rimasto nel processo, avrebbe avuto una sorte analoga a quella degli altri imputati condannati” (7.8.03). “La sentenza Sme conferma la responsabilità di Berlusconi per il grave reato di corruzione di un magistrato e lo salva da condanna certa solo in quanto, per l’ennesima volta, gli vengono concesse le attenuanti generiche con conseguente prescrizione del reato” (10.12.04).

Ricapitolando: la prescrizione è brutta e il prescritto è colpevole quando Pisapia è parte civile, mentre la prescrizione è bella e il prescritto è innocente quando Pisapia è difensore o parlamentare Pd. A questo punto, per non fare confusione, urge un ritocchino all’anagrafe, sui biglietti da visita e nelle liste elettorali. Il nome giusto è “Onorevoli Avvocati Giuliani Pisapii”.

Sergio Lepri e i cento anni di giornalismo: “Grazie della lezione”

Sergio Lepri ha compiuto cento anni nel settembre scorso, ma la notizia è lui più della sua straordinaria longevità. Per capire la grandezza di Sergio Lepri, una vita alla guida dell’agenzia Ansa, è sufficiente ricordare che ha insegnato il mestiere a centinaia di giornalisti, a firme divenute illustri e a numerosi futuri direttori di giornale. C’è un libro fresco di stampa in cui Lepri si racconta raccontandoci la storia di questa straordinaria avventura che per lui comincia nel lontano 1959. Il titolo è: “A caccia di notizie. Quelli della lettera 22”. L’autore è Giuseppe Fedi, che dalla scuola (anzi dall’università) dell’Ansa avrebbe poi compiuto il grande salto nella redazione della “Stampa” affermandosi come cronista brillante e competente. Fedi ha avuto l’idea di raccogliere le testimonianze di ventuno colleghi e amici.

Tutti nomi conosciuti al grande pubblico (tra essi Arrigo Levi, Paolo Graldi, Bruno Tucci, Gianni Mura, Massimo Bucchi, Antonio Ferrari, Ezio Mauro, Bruno Manfellotto, Paolo Conti, Filippo Ceccarelli) di cui non vi diremo altro per non togliervi il gusto di una lettura sorprendente, cucita attorno alle qualità che soprattutto fanno di un giornalista un vero giornalista: curiosità, passione, attendibilità, cura della notizia e… schiena dritta. Per capire di che pasta era (ed è) fatto Sergio Lepri bastano 2 episodi che ci narra lui stesso. “Un giorno, alla fine del 1961 mi telefonò Paolo Emilio Taviani, ministro degli Interni. Si era dispiaciuto per una notizia trasmessa dall’agenzia e contraria – diceva – agli interessi del governo. Cercai di spiegare che l’Ansa era fatta proprio per dare notizie, tutte le notizie giornalisticamente importanti, e quella era una notizia di rilievo”. Segue un vivace scambio di battute e lascio a voi indovinare se la notizia “sgradita” fu messa in rete oppure no.

Un anno dopo ecco la telefonata di Aldo Moro, allora segretario della Dc. Non chiamava per lamentarsi, bensì per chiedere che una notizia non venisse trasmessa. Si trattava di un discorso del segretario liberale Giovanni Malagodi “di eccezionale violenza contro l’avvio del centrosinistra”. Prosegue Lepri: “Alla mia risposta che l’intervento di Malagodi era una notizia importante, la più importante di quei giorni e che quindi era impossibile che l’Ansa la ignorasse seguì un lungo silenzio. Dieci, quindici secondi? Credevo se ne fosse andato. Poi: ‘Mi rendo conto – disse Aldo Moro – grazie’. Buonasera”. Sono stato io pure un allievo di Sergio Lepri. Non particolarmente brillante. Gli ero stato raccomandato da mio padre, alto funzionario governativo, e vivevo quelle lunghe giornate negli uffici bohemien e un po’ cadenti vicino piazza di Spagna come una Caienna da cui mi sarei liberato (liberando prematuramente dalla mia presenza il giornalismo italiano). Una sera venni convocato nell’ufficio del direttore e dalla voce della segretaria compresi che non era per un aumento di stipendio. Lepri mi mostrò una notizia Ansa adornata da un grande punto esclamativo rosso fuoco.

L’incauto redattore aveva collocato il Messico in Sud America mentre come insegnano alle Elementari si trova tra gli Stati Uniti e l’America Centrale. Mostrandomi l’obbrobrio, staffilò una frase che ancora brucia: “Caro Padellaro è tempo che lei smetta di vivere di luce riflessa”. E mi congedò. Non gli ho mai detto grazie. Lo faccio adesso.

Il rito dimenticato: la meditazione va di moda solo in salsa d’oriente

Alzi la mano chi, a fronte di amici ex cattolici che in Chiesa non vanno più, ne ha almeno uno o due buddisti che tutti i giorni pregano intensamente davanti al proprio Goghonzon esposto in casa. I seguaci di questa religione sono così tanti che, ormai, la recitazione del loro sacro mantra viene spesso rappresentata in film e serie con ironia ma anche giusta empatia. Perché di meditazione, di questi tempi segnati da ansia, precarietà, crisi ecologiche e guerre, c’è davvero bisogno e il numero di chi vi ricorre è in crescita costante, tra filosofie orientali, mindfulness, yoga spirituale.

Ma per meditare è davvero necessario allontanarci dalle nostre tradizioni spirituali, uscendo dalle migliaia di chiese e cattedrali per sempre? C’è chi sostiene di no e spiega che, tra rosari tibetani e asana yogiche, ci siamo scordati che alcuni tra i primi formidabili meditatori sono stati proprio i Padri della Chiesa. A dirlo sono i “Ricostruttori nella preghiera” (www.iricostruttori.org), laici, consacrati o sacerdoti sparsi in tutte le regioni italiane, con la missione di venire incontro al bisogno di ricerca interiore delle persone attingendo alle risorse della tradizione cristiana. Il loro fondatore è un gesuita, Padre Gian Vittorio Cappelletto, appassionato d’arte e architettura, che, dopo l’incontro di alcuni monaci indiani e una visita in India, ha approfondito la pratica ascetica dell’esicasmo – diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano – dando vita per tutto il resto della sua esistenza a corsi di meditazione per avvicinare proprio chi si era allontanato dalla Chiesa per scetticismo e stanchezza. “La ripetizione del mantra fa parte del nostro patrimonio spirituale. L’obiettivo è cercare di focalizzare l’attività cerebrale della nostra mente sulla presenza divina in noi, ma anche prendere coscienza di tutti i condizionamenti esterni, ritrovando una libertà interiore che ci permetta di essere noi stessi”, ci spiega un membro della comunità.

Restando nell’alveo del cristianesimo, non c’è bisogno di rinunciare ai simboli della propria tradizione culturale, come la croce, “che però non è solo cristiana, perché per noi è fondamentale l’accoglienza di tutti”. Si medita in silenzio, dalle due alle quattro volte al giorno, con gli occhi chiusi o semichiusi, recitando un mantra che può variare. “Non c’è bisogno di andare in India per imparare a respirare, né spendere mille euro per un corso: già i padri della Chiesa meditavano e digiunavano”, ci dice sorridendo un altro “ricostruttore”.

Nella meditazione, però, i Ricostruttori non dimenticano il corpo, anzi hanno creato anche ambulatori medici dove si viene curati in maniera olistica. “Il corpo ce lo portiamo dietro tutta la vita, pensi che noi siamo diventati vegetariani ben prime delle mode vegane. E se c’è da fare un po’ di yoga prima della preghiera per migliorare la postura e sentirsi meglio lo facciamo. I punti di contatto tra filosofie e religioni sono tantissimi e la fede unisce, non divide. Nessuno possiede la verità, ma solo un piccolo pezzetto”.

L’uomo della diocesi: “Addio politica, aiuto i poveri della Caritas”

L’Andrea è lì. Al tavolino, una sciarpa nera intorno al collo, gli occhiali grandi, la faccia bonaria da giovane monsignore. Voglio sapere di che cosa si occupa, mi dicono stia facendo un lavoro speciale e nuovo nel campo della povertà, con la Caritas. Voglio sapere come cambia questo mondo che non campa di odio ma di aiuto al prossimo, e che sulla carità non ci fa la cresta. L’Andrea Fanzago ci ha sempre militato, ma oggi il suo racconto vuole andare oltre, spaziare verso i sentimenti e la politica. Più volte il viso da monsignore prende le pieghe di una dolorosa malinconia. Elena, la compagna della sua vita, se ne è andata poche settimane fa, dopo una malattia durata due anni. Si erano sposati nell’86. “Ma ci eravamo conosciuti quasi dieci anni prima, frequentando la parrocchia di San Luigi Gonzaga, nella zona di Porta Romana. Da lei ho avuto tre figli, Lucia, Matteo, Lorenzo. Lorenzo è il più giovane, studia all’università, Scienze alimentari”.

Eccolo così a raccontare in un bar senz’anima la sua vita piena d’anima. Il corso di terapista alla Statale e poi l’impegno con il cattolicesimo sociale. Senza fiancheggiare alcun ordine religioso. Quasi s’indigna, “io sono uomo di parrocchia, un diocesano”. Una lunga attività di riabilitatore al don Gnocchi, poi il salto in consiglio comunale, prima la Margherita poi il Pd. Per fare lì il paladino delle stesse cause, apprezzato per l’impegno generoso e il senso delle istituzioni, e perciò vicepresidente del consiglio sia con la Moratti sia con Pisapia. Oggi che ne è uscito ha avuto da Sala l’incarico gratuito di tenere i rapporti con i Municipi, le nuove forme del decentramento comunale. “La politica? Mi è solo rimasto il dispiacere di non essere riuscito a fare tutto quel che desideravo. Ma tra vincoli burocratici e vincoli di bilancio proprio non ce l’ho fatta”, spiega con fantascientifica modestia.

“Oggi faccio un lavoro bellissimo. Nella Caritas ambrosiana sono alla guida dell’area della povertà alimentare: coordino gli 8 empori con cui l’associazione cerca di realizzare nella diocesi milanese un progetto innovativo di assistenza. 3 sono a Milano: Lambrate, Barona e Niguarda. E 5 fuori: Varese, Garbagnate, Saronno, Cesano Boscone, Molteno.” Spiega. E ha finalmente un lampo di felicità. Racconta di questi empori dove persone e famiglie bisognose trovano aiuto su segnalazione dei centri di ascolto della stessa Caritas. Centinaia e centinaia di casi. La possibilità di “acquistare gratis” il cibo, come in un qualsiasi supermercato, per circa 150-180 euro al mese, con il controvalore della merce che viene di volta in volta scalato su una tessera dedicata. Un’idea che da qualche anno si è fatta strada nel terzo settore (quello pulito). I destinatari entrano in un progetto più generale di promozione umana, che riguarda la formazione e la ricerca del lavoro, e che ha termini temporali precisi.

Brilla l’entusiasmo sul volto dell’Andrea: “È un metodo innovativo rispetto al consueto pacco delle parrocchie, il bustone dove si infila quel che ci sta, a volte senza sapere nulla di chi hai davanti, e nemmeno che uso farà di quel gli stai dando. Se lo darà ad altri o la venderà. Noi non esauriamo il bisogno, ma interveniamo nei momenti di difficoltà per alleggerirlo. Riducendo la spesa per il cibo una famiglia magari può permettersi la retta per l’asilo, o si può pagare la bolletta della luce. O non indebitarsi. Si aiutano le persone, se ne valorizza la dignità. Noi dobbiamo svolgere una funzione formativa, non assecondare la cultura assistenzialista”.

Il “monsignore” fa una pausa. Racconta dei 3 figli, di Matteo architetto che ha vinto un posto di capotreno in Ferrovie “e fa un sacco di soldi”. Torna a parlare però, e non può farne a meno, della sua Elena, professoressa di lettere, storia e geografia in una delle più rinomate scuole medie cittadine, la “Majno”. Per dire come lei negli ultimi 2 anni abbia lottato e coltivato la speranza scrivendo un libro per Solferino, Il futuro è il mio mestiere. Lettera di una professoressa a uno studente rimandato. Poi plana ancora sugli empori, spiega che il cibo arriva dalla grande distribuzione più solidale e anche dalla ristorazione industriale. Descrive gli impacci mentali di chi questo metodo della tessera “non riesce davvero a digerirlo”. E infine, mentre lo accompagno alla sede della Caritas di via San Bernardino, proprio davanti alla nuova lapide di Pinelli, una domanda sottovoce: “Ma se parli di me, citi la Elena, per favore?”.

Tesla, fine anno col botto: +50% di vendite

Ha archiviato il 2019 con un inaspettato record di vendite mondiali, in rialzo del 50% rispetto all’anno precedente con 367.500 immatricolazioni. Un risultato in linea con le previsioni di Elon Musk, che per la sua Tesla aveva stimato una forbice tra le 360 mila e le 400 mila auto, ma per altri versi versi inaspettato, viste le vicissitudini del costruttore californiano. A renderlo possibile sono state le performance commerciali del quarto trimestre, in cui sono state consegnate 112 mila vetture elettriche, circa ventimila in più rispetto allo stesso periodo del 2018. A fare la voce grossa è stata la “popolare” Model 3, le cui registrazioni sono aumentate di ben il 47% nell’ultimo trimestre dell’anno, toccando quota 92.550: ben oltre le previsioni di addetti ai lavori e analisti, che la accreditavano per un massimo di 87.900 vetture.

Un buon biglietto da visita in vista della sua inedita “produzione” cinese: domani, 7 gennaio, verranno infatti inaugurate le prime consegne dallo stabilimento di Shanghai, l’unico polo produttivo di Tesla fuori dai confini degli Stati Uniti. Un investimento che dovrebbe portare volumi aggiuntivi al costruttore californiano, che ha anche deciso di puntare deciso sul mercato locale. In quest’ottica va anche letta la decisione di abbassare il prezzo proprio della Model 3 costruita in Cina: dai 355.800 yuan (51 mila dollari) di partenza, la berlina a elettroni scenderà infatti a 323.800 yuan (46.400 dollari). Considerando poi gli incentivi che il governo cinese concede per l’acquisto di veicoli a emissioni zero, il prezzo finale potrebbe ridursi ancora fino a 299.050 yuan (circa 42.900 dollari).

Il cambio di passo che serve al mercato

Alla fine, il mercato italiano dell’auto ha limitato i danni. Per merito, va detto, di un dicembre che ha del miracoloso: +12,5% di vendite, che nel computo del 2019 si traduce in 1.916.320 vetture e un +0.3 per cento totale. Da registrare, anche, l’inesorabile caduta del diesel (intorno al 40%) che ha lasciato la leadership ai motori a benzina, e i passi avanti fatti da ibride, elettriche e gas. Euforia, dunque? Non più di quella che può regalare una stagnazione economica, perché di quello stiamo parlando. E ancor meno il pensiero che un tempo, prima della crisi del 2007, si viaggiava ben oltre quota due milioni mentre ora siamo ancora sotto quei livelli di circa il 23%.

Tornando al consuntivo di fine anno, va detto che non sarà certo il giorno lavorativo in più di dicembre, o la corsa all’immatricolazione prima che le nuove norme Ue sui limiti alle emissioni entrassero in vigore, a risolvere i problemi di casa nostra. C’è chi credeva, sbagliando, di farlo coi bonus-malus. Mentre invece ci sarebbe bisogno di misure più incisive per svecchiare un parco circolante che con la sua età media di oltre 11 anni è tra i più vetusti (e dunque inquinanti) d’Europa. E, già che ci siamo, di una strategia di sostegno per la filiera automobilistica, visto che a fronte dei nuovi (e sacrosanti) limiti di cui sopra seguiranno sanzioni anche pesanti per chi non è in regola. E il comparto automotive italiano, insieme ai suoi posti di lavoro, va tutelato. Sarà in grado la politica italiana di farlo?

Va in scena il Ces 2020. L’automobile si fa concettuale

Nella bagarre fra il North American International Auto Show di Detroit (Naias) e il Consumer Electronics Show di Las Vegas – in programma dal 7 al 10 gennaio – è stato il secondo a spuntarla: negli anni, la grande fiera dell’elettronica di consumo ha scalzato il Naias nelle preferenze dei costruttori. Una mezza attestazione di quanto l’auto del futuro, elettrica e a guida autonoma, sarà assimilabile a un elettrodomestico su ruote, di cui pagheremo l’utilizzo più che la proprietà. Senza contare che l’elettronica applicata al veicolo vale un giro d’affari da 2.300 miliardi di dollari, che gli analisti indicano in forte crescita (mediamente al +8,7%) nei prossimi anni.

Ne consegue che il Naias, che sul calendario si sovrapponeva al Ces, d’ora in poi si terrà a giugno, con esposizione all’aperto: un cambiamento epocale per una fiera sopravvissuta alla crisi economica del 2007 e, indirettamente, al dieselgate del 2015, che ha messo in corsa il comparto automotive verso l’elettrificazione di massa.

Secondo la formula Ces, l’automobile è “concettuale”: la meccanica, rigorosamente alimentata a batteria, è un ingrediente quasi secondario rispetto esperienza di utilizzo. Sicché il prototipo Fca, denominato Airflow Vision, si configura come una dissertazione su come guidatore e passeggeri potrebbero interfacciarsi col veicolo avendo a disposizione tecnologie avanzate. C’è invece chi, come Hyundai, stacca addirittura le ruote da terra e teorizza un drone autopilotato, parte integrante di uno scenario di mobilità urbana aerea, supportata su asfalto da un minibus elettrico e autonomo. Mentre Bmw punta su una Urban Suite, che massimizzi il benessere dei passeggeri mentre l’auto si districa da sola tra un semaforo e l’altro.

Il rischio nell’America di Trump, però, è che il Ces rimanga una sorta di isola che non c’è: in primis perché sul mercato statunitense – che nel 2019 ha avuto un fatturato record di 462 miliardi di dollari, circa 8,5 in più del 2018, nonostante l’immatricolato (attorno a 17 milioni di pezzi) in lieve flessione – continuano a farla da padrone i tradizionali e mastodontici suv e truck alimentati a benzina, favoriti da un prezzo del carburante molto conveniente.

Inoltre, comincia a materializzarsi lo spettro di una tassazione per le auto a batteria del tutto assimilabile a quella dei veicoli tradizionali, a fronte di incentivi federali all’acquisto in esaurimento: in Usa sono già otto gli Stati che la prevedono e servono per compensare il mancato gettito delle accise. Lo stesso che in Italia valeva 18,5 miliardi di euro nel 2018. Chissà che non siano proprio questi i motivi per cui General Motors ha deciso di ridimensionare la propria presenza al Ces, preferendogli il classico Naias.

Investimenti con rendimenti negativi: molto meglio i buoni fruttiferi postali

Di sicuro la cosa appare assurda a chi non segue il mondo della finanza; e non si può dargli torto. Vengono infatti proposti investimenti che già in partenza è scritto che saranno in perdita. Ciò vale, da alcuni anni a questa parte, per tutti o quasi i titoli di Stato emessi dalla Germania, dalla Finlandia ecc. e spesso anche per i Bot. Sono cioè emessi con un rendimento negativo. Chi li sottoscrive riceverà indietro meno soldi di quanti ne presta. Come dare in noleggio un’automobile e dover corrispondere un canone… a chi la usa.

A monte c’è la politica monetaria della Banca Centrale Europea nei confronti della liquidità depositata presso di essa da banche dell’eurozona: dal giugno 2014 non solo non corrisponde interessi, ma addirittura ne addebita. Operativamente però la domanda è: che senso ha sottoscrivere o comprare titoli a rendimento negativo (già) in termini nominali?

Se parliamo di Titoli del Tesoro, potrebbe aver senso al massimo per chi voglia scommettere di rivenderli dopo pochissimo a un prezzo più alto. Ma per un risparmiatore non ha nessun senso. Se uno è preoccupato di tenere i soldi sul conto in banca, ci sono i buoni fruttiferi postali che sono molto meglio. Fruttano interessi magari striminziti ma non nulli; e in realtà neanche così miseri con la serie BFP 170° CDP, cioè l’1% annuo se tenuti per quattro anni. Sono garantiti dallo Stato e non capita neppure di ritirare meno di quanto versato per gli oneri fiscali. Qualche senso invece c’è coi titoli di Stato dei tedeschi, i quali potranno pure risultare antipatici ma rispettano fin troppo la parola data. Chi vuole la sicurezza, può accettare di rimetterci qualcosa come l’1% in un anno, già solo in termini nominali. Cioè può preferire una contenuta erosione del proprio capitale, pur di non rischiare una perdita ben maggiore (il 30%, il 40%?) in caso di default dello Stato italiano, della banca o altro emittente. Diverso il discorso per gli investitori istituzionali. Molti fondi comuni hanno nel regolamento un limite percentuale alla liquidità, per es. il 20%, o devono pagare alla banca depositaria interessi negativi sulle giacenze sul conto. Per essi non esiste l’alternativa del deposito a rendimento (almeno) nullo.

Un privato che si gestisce direttamente i propri risparmi, dispone poi di un’opzione che manca al risparmio gestito. Può trasformare la liquidità in contanti, al sicuro da fallimenti di banche ed emettenti dei titoli. Il gestore di un fondo comune o pensione, di una gestione separata assicurativa ecc. non può farlo.

Il nuovo regime forfettario: cosa cambia per le partite Iva

Non solo fuori dal regime forfettario un contribuente su quattro. Quest’anno, per effetto delle modifiche alla flat tax contenute nella manovra, 10mila lavoratori neo iscritti al regime agevolato dovranno rinunciare all’attività autonoma. Si tratta di tutti coloro che hanno aperto la partita Iva nel 2019, ma che avevano contemporaneamente un reddito da lavoro dipendente o assimilato. Queste le novità più rilevanti che emergono dalla legge di Bilancio 2020 che ha introdotto nuovi paletti per chi intende fruire del forfettario. Non esiste, infatti, soltanto il limite dei ricavi, che devono essere inferiori a 65 mila euro annui per poter permanere nella tassazione al 15%. Sono stati esclusi anche dall’accesso o alla permanenza nel regime forfettario anche coloro che parallelamente al lavoro da libero professionista abbiano anche redditi derivanti da lavoro dipendente superiori a 30mila euro l’anno, che corrisponde a circa 2.200 euro al mese; importo che penalizzarà i medici, così come i dirigenti in pensione. Fuori anche coloro che nell’anno precedente hanno dovuto sostenere spese superiori ai 20mila euro per il personale e per il lavoro accessorio.

Professionisti, autonomi e imprenditori che dal primo gennaio 2020 sono stati costretti a fatturare con Iva e in modalità elettronica. La stretta imposta è motivata dalla volontà di limitare un regime ritenuto così vantaggioso rispetto all’Irpef da essere iniquo. Soprattutto ricordando che la tassazione agevolata a forfait (dal 15% al 5% per le start–up) è nata per aiutare situazioni marginali, come chi è stato licenziato, chi si mette in proprio, chi svolge un secondo lavoro o i giovani che avviano una nuova attività. La relazione tecnica alla legge di Bilancio prevede circa 341.500 esclusi su una platea di 1,4 milioni di persone, in base alle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2018. Ma bisogna considerare il boom di adesioni degli ultimi due anni, che ha portato ad almeno due milioni il numero di coloro che sfruttano la flat tax per le partite Iva. Solo nei primi nove mesi del 2019, secondo i dati forniti da Il Sole 24 Ore, coloro che hanno aperto una nuova posizione Iva optando per il forfait sono stati quasi 22mila. Una cifra cui vanno aggiunte le 195.500 aperture del 2018 e le opzioni su partite Iva già attive, rese possibili dall’aumento a 65mila della soglia massima di ricavi e compensi deciso un anno fa con la manovra per il 2019 e confermato anche per il 2020. Ecco perché, attenendosi alla percentuale contenuta nella relazione tecnica, si può dire che rimarrà fuori dal forfait almeno mezzo milione di contribuenti.

Ma non c’è solo uno stop all’allargamento della platea dei possibili beneficiari. Secondo lo studio elaborato dall’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro, i nuovi paletti del regime forfettario per i lavoratori autonomi faranno uscire circa 10 mila lavoratori neo iscritti al regime fiscale agevolati. “Si tratta di coloro che – spiegano i consulenti – hanno aperto la partita Iva nel 2019, ma che avevano pure reddito da lavoro dipendente, o assimilato”. Una condizione che sembra, in particolare, svantaggiare i titolari di partita Iva con un’età compresa tra i 51 e i 65 anni (4.084 abbandoni) e i pensionati over 65 (3.527).

L’analisi dell’Osservatorio stima che a tutto il 2019 si conterebbero 554.902 aderenti al nuovo regime, dati dalla somma dei 285.333 autonomi che nelle dichiarazioni Iva di aprile 2019 hanno optato per il nuovo regime forfettario e le 269.569 nuove iscrizioni che hanno aderito al regime a dicembre. Il dato 2019 mostra un incremento di circa 40 mila soggetti (+11%) rispetto al 2018. Analizzando nel dettaglio le variazioni per classi di età, sono i soggetti con oltre 65 anni (+25,8% rispetto al 2018) e i lavoratori adulti (+19,7%) a trainare l’aumento annuale.

Inoltre, sottolineano i Consulenti del Lavoro, osservando l’andamento per settore economico, si registrano aumenti consistenti nel settore dei servizi medico-sanitari (+274%) e fra le attività professionali, scientifiche e tecniche (+48%). Guardando la convenienza del nuovo regime forfetario (+40.000), l’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro ha provato a valutare quanto di questo incremento dipenda dalla condizione di favore dovuta all’assenza della soglia, recentemente introdotta dalla legge di Bilancio, che vincola l’applicabilità del nuovo regime ad un reddito da lavoro dipendente e assimilato di 30 mila euro. Dall’analisi risulta che 10 mila lavoratori con redditi da lavoro o da pensione non avranno più convenienza quest’anno a svolgere un’attività autonoma.

In particolare, desisteranno dall’arrotondare la pensione circa 3,5 mila neo iscritti over 65 e dall’incrementare i propri guadagni circa 4 mila autonomi fra i 51 e 65 anni con redditi superiori ai 30 mila euro l’anno.