Gerarchi, partigiani e pallone: l’aquila di 120 anni vola ancora

Era un pallanuotista della Lazio Ivo Bitetti – figlio di Olindo, uno dei fondatori – che riconobbe Benito Mussolini, bloccato dai partigiani su un camion dei tedeschi il 27 aprile del 1945. Era un nuotatore della Lazio Fulvio Jacchia, comandante delle brigate “Garibaldi” della zona Nord di Roma. Silvio Piola, centravanti della Lazio anni 30 (tuttora il più prolifico della Serie A: 274 gol) e della fascistissima nazionale che vinse i Mondiali del ’38, si ritrovò isolato vicino ad Anzio nel gennaio ’44, si unì a un gruppo di patrioti e per qualche giorno usò l’abilità di cacciatore per sparare ai tedeschi. Nello stesso anno i custodi del Circolo Canottieri Lazio, ancora attivo sull’argine del Lungotevere Flaminio, diedero rifugio a ebrei romani che rischiavano la deportazione.

Sono alcune delle storie raccontate in “Casacche divise – 1940-1945 – Gli atleti della Lazio nella Seconda Guerra Mondiale” (Eraclea) da Fabio Bellisario e Fabrizio Munno, animatori di LazioWiki, l’incredibile enciclopedia biancoceleste. Il libro sarà presentato a Roma durante le celebrazioni dei 120 anni della società, fondata il 9 gennaio 1900 ai tempi dei “fiumaroli”, barcaioli e nuotatori sul Tevere, tra un barcone e una panchina di piazza della Libertà, sulla sponda destra nel rione Prati, oggi elegante e borghese ma allora di recente edificazione, strappato al fiume che da millenni esondava proprio lì, a due passi da Castel Sant’Angelo e dal Vaticano.

I gol di Immobile e Caicedo, nove vittorie consecutive e il terzo posto provvisorio in campionato, la Coppa Italia e la Supercoppa 2019 sia pure sporcata dai milioni sauditi sono le ultime immagini della sezione Calcio guidata da Claudio Lotito, da decenni ben più potente della Lazio Generale, la polisportiva che conta 75 discipline: dal nuoto, la più longeva e ricca di medaglie, al rugby, alla scherma, all’escursionismo e all’atletica; non sempre brillantissime e tuttavia rappresentanti, oggi come 50, 100 e 120 anni fa, della libertà di fare sport a Roma. Diecimila tra atleti, tecnici e dirigenti, dieci ori olimpici e 500 titoli nazionali. Un mito che resiste in città e in un’editoria un po’ di nicchia, spesso contrapposto allo stereotipo che identifica l’intera tifoseria laziale con l’estremismo di destra.

Tra il 1940 e il ’45 le “Casacche” biancocelesti erano appunto “divise”. Il libro racconta, con rispetto, anche i laziali schierati dall’altra parte. Come Francesco Marrajeni, calciatore e dirigente, alto funzionario della Repubblica di Salò. Come il generale Giorgio Vaccaro, decorato nella Grande Guerra, quindi gerarca e presidente della Federazione giuoco calcio fascista ma, soprattutto, vicepresidente della Lazio che, nel 1927, salvò dalla fusione con le altre società capitoline da cui nacque l’As Roma, voluta dal regime che aveva deciso di puntare sul calcio. Proprio Vaccaro, nel ’44, riuscì a evitare la perquisizione dei tedeschi che cercavano oro, celando in una scatola di scarpe la Coppa Rimet vinta dagli azzurri nel ’38 ai Mondiali di Francia. Lo raccontò a Mario Pennacchia, giornalista e autore di un’indimenticabile “Storia della Lazio”, edita nel 1969 e riedita nel 1994 come “Lazio patria nostra”.

In libreria oggi c’è “Ss Lazio – La Storia”, scritto da Fabio Argentini, edito da Goal Book con la società di Lotito. Più impegnativo è il monumentale “Società podistica Lazio 1900-1926” di Marco Impiglia, giornalista e raffinato storico dello sport, che pure esce in questi giorni, stampato in proprio dalla Ss Lazio Generale, cioè dalla polisportiva, in appena 120 copie. Su base documentale, Impiglia colloca la scelta dei colori biancocelesti e dell’aquila simbolo di Roma tra il 1904 e il 1906, durante la presidenza di Fortunato Ballerini che, oltre ad aprire alle donne, diede le prime utili relazioni politiche alla società fondata dai quindici ragazzi, per lo più di estrazione popolare e della borghesia minuta. E contesta il richiamo dei colori alla Grecia delle Olimpiadi, che a Pennacchia fu raccontato dallo scomparso Olindo Bitetti. Secondo Impiglia il biancoceleste arrivò con il calcio e non risalirebbe al fondatore Luigi Bigiarelli, il leader dei ragazzi sulla panchina che mai volle essere presidente, podista e nuotatore, reduce della sanguinosa sconfitta di Adua (1896) e quasi subito emigrato in Belgio. Lì morì a soli 33 anni e LazioWiki ha scovato la sua tomba.

Impiglia racconta l’alba dello sport a Roma, la ginnastica e il “cittadino soldato”, gli anni eroici dei pionieri della Lazio e della prima sede in via Valadier, vicino a piazza della Libertà, dove un giovanotto scarso con i piedi, Bruto Seghettini, portò nel gennaio 1901, in una città innevata, il pallone di cuoio del Racing Club di Parigi. Il primo derby romano del 1904 tra Lazio e Virtus, disputato nella Piazza d’Armi tra Prati e l’attuale quartiere Della Vittoria: 3-0. Le partite in cui i laziali venivano strapazzati da una squadra di seminaristi scozzesi. Vennero poi i campionati del Centrosud che la Lazio vinse tre volte per poi farsi schiantare in finale dagli squadroni del Nord. Fino al regime e al fascio littorio sulle maglie. L’aquila tornerà nel 1940, non più a riposo ma con le ali rigidamente spiegate della simbologia imperiale, ma questa è un’altra storia.

Dopo la guerra tutto cambiò. Il calcio prese il sopravvento, arrivò il professionismo, la Lazio vivacchiò, andò in B, rifondò il mito nel 1974 con lo scudetto di Tommaso Maestrelli – ex prigioniero dei tedeschi in Grecia – e di Giorgio Chinaglia, squadra di teste calde per lo più destrorse. E di destini atroci come quello di Luciano Re Cecconi, ucciso in una gioielleria per uno scherzo o chissà perché. Poi la morte del tifoso Vincenzo Paparelli nel ’79, colpito da un razzo sparato dalla Curva Sud, il totonero, altra serie B, la resurrezione dai “meno 9” che potevano valere la C. Un’altalena mozzafiato fino allo scudetto di Sergio Cragnotti nel 2000, seguito dall’ennesimo rischio di fallimento evitato da Lotito, che nel 2004 ottenne la rateizzazione dal Fisco e da allora paga. Decine di milioni, due terzi del totale, già versati secondo la società. L’Erario col fallimento non avrebbe preso un euro. E l’aquila vola.

Vedi un film in coppia… e poi ti lasci

Prima di scegliere un film da vedere al cinema si deve scegliere accuratamente con chi andarci. L’accompagnatore. Il cinema è pericoloso, svela i gusti, ma anche le incompatibilità. A me per esempio è capitato di chiudere un amore che stava per nascere dopo Il profumo del mosto selvatico, film magari imperfetto, ma che a me non è dispiaciuto affatto, un film non stupido. Lui invece l’ha trovato insopportabile e io ho cominciato a trovare insopportabile lui. Bisogna stare attenti con chi si va al cinema! Manolita per esempio ha mollato un coglione molto loquace, di cui si era invaghita, a poche settimane dalle nozze. Il film in questione era La guerra dei Roses. Film bellissimo, ma non proprio perfetto per una che sta per sposarsi! Comincia così, tra i due coniugi, una guerra senza esclusione di colpi. Marito e moglie non esitano a farsi male, si tendono subdole trappole e distruggono oggetti, si menano e cadono lampadari. A lei non è che proprio fosse dispiaciuto, si era anche divertita, il senso dell’umorismo non le manca così come anche un po’ di sano cinismo. Ma lui ha cominciato a disquisire sullo sguardo disincantato e geniale del regista Danny De Vito: “…l’ineluttabilità del disfacimento amoroso nel matrimonio, la caducità dell’amore in un contesto borghese, l’ipocrisia delle donne che aspirano alla parità dei diritti, e poi non si rassegnano al fatto che dopo un po’ purtroppo hanno una loro scadenza!”. Ovviamente Manolita si è trovata disorientata, non tanto rispetto al fatto di sposare un uomo che non ha stima delle donne, ma un coglione maschilista che crede di essere intellettuale. Risultato, l’ha lasciato, senza neanche un po’ di guerra. Eh sì! L’opera d’arte rivela se stessa a chi la guarda, ma anche il contrario. Spesso è il film a scegliere per noi.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Staino narra il giovane Gesù: “Studente a casa di papà”

“Hello Jesus” che Sergio Staino ha messo in libreria questi giorni (Giunti Editore) non è una parodia, non è un affettuoso divertimento sulla figura di Gesù di cui il Natale segnala la nascita, non è una variazione sul tema. E non è la storia a fumetti di Gesù. È un piccolo capolavoro di un artista intelligente che riesce a collegare l’allora con l’adesso, usando come modello la libertà un po’ familiare e un po’ arrischiata di Papa Francesco che parla, paterno e preoccupato, dei telefonini a tavola, mentre ci si aspetta che parli della grandiosità e infallibilità della Chiesa, ed, eventualmente dei doveri verso la Chiesa di Stati e persone.

Sergio Staino, che ha creato personaggi celebri e molto cari a tanti italiani, con l’espediente di usarli in un territorio di fantasia che sta alla stessa distanza (non tanto) dalla realtà e dalla immaginazione (lo spunto è sempre di realtà) ha capito la trovata in più di Bergoglio, bonaria e colta, pedagogica e lieta, ma soprattutto realizzata tenendo teso il filo che lega l’oggi quotidiano e familiare al passato della Storia, con la sua grandezza e la sua ignavia.

E ci presenta Jesus che parla di oggi (bombe, poveri, guerra, migranti,bambini allo sbando, paura) in continue, rapide e anche un po’ ironiche connessioni fra i due spezzoni di storia e di realtà in modo che, dalle inquadrature del fumetto, il suo discorrere sul bene e sul male continui come un sermone in chiesa, ma stando dalla parte di chi ascolta, e aggiungendo la grazia di chi non fa pesare il male sulle brave persone che ascoltano, ma indica, senza timidezze da dove viene tanto pericolo e tanta ingiustizia. L’ho già detto, il modello di Staino, vignettista fra i più creativi ma anche buoni (possono stare insieme queste due qualità in quel mestiere, per sua natura “cattivo”?) è Papa Francesco. Da lui Staino ha preso il modello di narrare Gesù come un giovane impegnato in un master, che sa le cose ma usa un linguaggio benevolo e qualche volta affettuosamente ribelle, poiché vive ancora in casa e, dal punto di vista dei genitori che faticano, non ha ancora un mestiere.

In questo modo Staino ha la sua bibbia fatta di segni in cui Giuseppe è buono (ma anche saggio) come Bobo, Maria porta l’ansia e la preoccupazioni delle madri vere, ben lontana dal rosario usato come arma da Salvini, lontana dalle madonne turistiche di Medjugorje, che sembrano non sapere nulla dei migranti (con mamme incinte e tanti bambini) morti in mare, mentre i porti sono chiusi. Sergio Staino ha fatto, con delicatezza e bravura (testo e disegni) un libro impossibile, che molti si terranno caro come ricordo “dell’epoca di Papa Bergoglio”.

Le religioni tradiscono le scritture. “L’ambiguità esprime il mistero”

Karen Armstrong sa quando il testo sacro deve farsi arte, e quando invece nutrirlo di rigore filologico. Nel suo ultimo libro, The Lost Art of Scripture (Knopf, 2019), prova ad alternare i due approcci, con una tesi che è praticamente un manifesto: il rischio delle religioni – quelle maggiori le esamina tutte, con perizia – è piegare il testo sacro alla volontà dell’esegeta, mentre ciò che occorre è riconoscere che “l’ambiguità può essere più adeguata ad esprimere la complessità del dilemma umano” e, come si fa nel fruire l’opera d’arte, comprendere che ciò che si ha di fronte nella Scrittura è qualcosa che continuamente evolve.

La tesi è quindi semplice, applicabile a qualunque tradizione religiosa. Ed è forse per questo che le reazioni sono state dure: sul Washington Post, di tradizione delicatamente dem nelle posizioni culturali, alla Armstrong si rimprovera piuttosto duramente di essere troppo comprensiva verso le difficoltà esegetiche delle religioni orientali – ovviamente catalogando come loro frutto anche il Corano – e di riservare tutto il suo biasimo all’esegesi biblica del Protestantesimo.

La Armstrong è autrice – guai a chiamarla teologa – non certo nuova a ricevere questo tipo di critica. Nata nel 1944 nel Worchestershire, prima suora cattolica, poi mistica, poi laureata ad Oxford, è negli ultimi decenni con la veste di storica delle religioni che presenta i suoi lavori. Nel suo indispensabile Maometto (Il Saggiatore, 2004) – urgerebbe una ristampa – elabora un capitolo di caparbia tenacia per mostrare come l’immagine di “Maometto, il nemico” sia frutto di un preciso susseguirsi di avvenimenti storici, dei quali dunque è solo ostinandosi a disfarne la trama si può averne restituita l’immagine. In Storia di Dio (Marsilio, 2001), invece, è la narrazione a farla da padrona. Sembra che la Armstrong si limiti a raccontare storie, infatti, ed è però grazie alla costruzione di una narrativa semitica che i tre monoteismi vengono messi in fila, e all’Islam si assegna il posto di esito. È la prima volta, in un testo che faccia di Dio una realtà di fede e non una complicazione teologica. Tornando a The Lost Art of Scripture, la Armstrong – 75enne – cerca di mettere assieme religione e neuroscienze. Ed è così che dell’odiata esegesi della Riforma conia una definizione nuova: “Un revival dell’emisfero cerebrale sinistro”.

Si sa, le neuroscienze ormai sono l’unica delucidazione accettabile dell’esperienza umana, ed è quindi per provocazione che la Armstrong – che vuole un’esegesi dove sia l’esperienza artistica, indeterminata, aperta – ne fa un proprio strumento. Le neuroscienze, però, sono un recinto dal quale è molto difficile scappare, una volta che si decide di addentrarvisi. Le pagine più fiacche sono infatti quelle dedicate alla possibilità di “un’esegesi dell’emisfero cerebrale destro”.

The Lost Art of Scripture ha però ormai formulato l’accusa: chi interpreta male il testo è figlio stesso della tecnica, che mal padroneggia, e la sua conclusione, quindi, è una sorta di doppio riduzionismo. Non è strano, perciò, che la più feroce critica a ogni lavoro della Armstrong provenga dal New Atheism: dalle denigrazioni talmente generiche da risultare incomprensibili – è “logicamente incoerente”, e “si confuta da sola” – v’è il capo d’accusa più pesante: “verso l’Islam”, bercia Sam Harris, manco fosse Donald Trump a parlare, “è benigna”.

Il cenone con la sorpresa: “Io mia moglie e il suo amante travestito da Babbo Natale”

 

Cara Selvaggia, ti racconto il mio Natale in modo che chiunque abbia passato un Natale di merda come il mio si senta meno solo. Sposato da sei anni con un figlio di quattro, da sempre trascorro le vacanze natalizie a casa della suocera vedova, in Liguria. Già la cosa in sé non è l’espressione dell’allegria, figuriamoci poi se il matrimonio naviga già in un mare forza nove, con ondate che molto spesso hanno fatto arrivare l’acqua in cabina. Mia moglie è una donna che i romanzi d’epoca definirebbero “volitiva”, la letteratura moderna “una stronza”. Lo dico da tempi non sospetti, già da prima di sposarla, vorrei che fosse chiaro. Me ne sono innamorato un po’ per questo, mi separerò un po’ per questo. La storia natalizia è tragicomica: da qualche mese mia moglie mi parlava di separazione. Di infelicità ormai irrecuperabile, di sensazione di non amarmi più. Nei weekend andava spesso a riflettere da sua madre in Liguria, appunto. Ci siamo parlati tanto, l’ho convinta a reggere ancora un po’, a resistere per il nostro bambino che è un amore e che mostra un attaccamento morboso più a me che a lei. Dunque il Natale insieme, dalla suocera, non è mai stato in discussione. Lei parte con una valigia che sembra quella per un giro del mondo. Arriviamo e mi dice che la sera del 24 ha organizzato l’arrivo in casa alle 22,00 di un finto Babbo Natale che faccia la sorpresa al bambino. Io non so chi sia questo Babbo Natale, ma sono un sentimentale, non chiedo neppure, sogno che sia quello vero. Nel frattempo lei allestisce due camere separate, per la prima volta in sei anni non dormiremo insieme. Fingiamo bene, la suocera non si accorge di nulla perché mia moglie si inventa che io in questo periodo russo più forte del solito, il bambino è felice, lei è strana. La sera del 24 arriva questo Babbo Natale che più che da una slitta sembra sceso dal podio di un campionato per body builder. Mio figlio lo guarda spaventato, mi dice: “Ma non era più vecchio e più basso?”. Mia moglie lo accoglie in casa vestita da discoteca, quando gli anni passati alle dieci di sera era già col pigiama–tuta di flanella. Babbo Natale Schwarzenegger mi saluta freddamente sulla porta, vedo che si ferma a chiacchierare con mia moglie. Mi assale un dubbio. Andiamo a dormire, ma io non dormo. Alle due di notte sento dei passi. Non mi muovo. Dopo 10 minuti vado a controllare. Mia moglie non è in camera sua. La aspetto. Torna che sta albeggiando, accampa scuse, poi ammette che Babbo Natale è il suo amante da quasi un anno. Un suo vecchio compagno di scuola incontrato per caso su un treno, mentre andava a trovare sua madre. Tralascio il resto della “vacanza” tra mio figlio che raccontava a tutti della sorpresa che gli ha fatto Babbo Batale e io che annuivo, dicendo “anche a me”.

Simone

 

Caro Simone, insomma, è il primo Natale della storia in cui il padre scopre prima del figlio che Babbo Natale non esiste.

 

Instagram e i social: “Il mondo oltre la siepe”

Cara Selvaggia, seguo i tuoi viaggi in maniera compulsiva ma non prendermi per una stalker. Li seguo solo digitalmente, i tuoi e tutti quelli dei travel blogger, fotografi, reporter, ma anche parvenu da villaggio turistico e abitudinari di Gabicce Mare. I miei profili sui social network non contengono mie fotografie, pensieri o foto di cene con amici, non c’è nemmeno il mio vero nome. Mi servono solo per seguire chiunque, anche solo una volta, mi possa mostrare un posto nel mondo che non conosco, o che conosco ma che non posso più vedere di persona. Io e mio marito ci siamo sposati giovanissimi, sembra ieri ma sono passati più di 30 anni, e da allora la nostra vita ha avuto solo un senso: viaggiare. Senza lustrini o pacchetti bio, i nostri lavori non ce l’hanno mai permesso, ma senza per questo fermarci. Sempre con lo zaino in spalla e il passaporto in tasca, abbiamo dimostrato a noi stessi che anche con poche lire il mondo non è precluso a nessuno. Ricordo un tuo reportage dal Giappone in maniera molto vivida perché per noi quel viaggio, molto simile a quello che facesti anche tu, è stato l’ultimo. Qualche settimana dopo il ritorno, la patologia di cui mio marito ha sempre sofferto in maniera crescente si è aggravata in modo tale che, da quel giorno, per lui uscire di casa è diventata un’impresa, e se a vent’anni piantavamo le tende per campeggiare ad altitudini proibitive, oggi è difficile uscire di casa anche solo per un caffè. È straziante vederlo così non solo come compagno di vita e uomo amatissimo, ma anche sapendo che per lui il non poter più viaggiare equivale alla condanna a una vita vissuta a metà. Così la sera, quando lo raggiungo sul letto che sempre più sta diventando per lui l’unico sedile in business club che abbia mai avuto (quando siamo di buon umore è una delle nostre battute preferite), non potendo più viaggiare con il corpo, viaggiamo con gli occhi. Ogni sera scegliamo una meta diversa e, proprio come se partissimo per davvero, pianifichiamo tutto nei minimi dettagli. Controlliamo i voli, scegliamo l’alloggio migliore per posizione e prezzo e poi, ovviamente, ci godiamo il viaggio. Instagram è diventato il nostro mondo a colori, gli account dei viaggiatori sono i nostri occhi, le nostre narici e le nostre scarpe e alla fine, con malinconia ma anche sincera gratitudine, ringraziamo che ci siano al mondo persone che non sentano l’esigenza di condividere solo le loro chiappe. Senza voi altri, il nostro mondo non andrebbe più oltre la siepe del giardino per il resto della nostra vita.

Marcella

 

Diceva Saramago “Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono”. Ecco. Tu e tuo marito sarete sempre viaggiatori, cara Marcella.

 

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Il 2020 è l’anno del partito cattolico? L’incognita Conte e i gesuiti del papa

È passato ormai un anno esatto da quando i gesuiti bergogliani della Civiltà Cattolica di padre Antonio Spadaro lanciarono un manifesto politico riformista per comprendere le ragioni della rabbia e persino dell’odio populista e sovranista che ha messo radici tra gli elettori cattolici italiani. Il manifesto sanciva di fatto la fine del lustro apartitico, se non apolitico (2013-2018), imposto da Francesco alla Curia romana dopo le devastazioni dell’era post-ruiniana di Bertone segretario di Stato e Ratzinger papa.

E così da allora si è tornato a parlare di “partito cattolico” anche se a dire il vero la proposta di padre Spadaro volava più alto. Convocare cioè uno speciale Sinodo dei vescovi italiani sull’allora novità gialloverde poi trascolorata in un più tranquillizzante giallorosso. Di lì promanò anche un ampio dibattito su Avvenire, il quotidiano della Cei, al punto di formare una cabina di regia per studiare nuove forme di impegno per i cattolici.

Tutto però si ridusse al chiacchiericcio su questo benedetto “partito cattolico” e a giugno, in occasione delle Europee, il capo dei vescovi, il cardinale Bassetti, precisò di non vedere in giro nessun De Gasperi. Fin qui il riassunto delle puntate precedenti. E per il 2020? Recentemente le cronache ci hanno informato che l’ipotesi del Sinodo sta dividendo la Cei e che non si trova la formula magica dentro la Chiesa per arginare il clericalismo sovranista di Salvini, maneggiatore di rosari.

Le incognite principali sono due. La prima, appunto, è quella di non ripetere le esperienze fallimentari degli ultimi lustri, con piccole sigle scomparse dopo aver racimolato pochissimi voti. Ed è per questo che lo stesso Bergoglio nel polemico discorso tenuto alla Curia il 21 dicembre ha interpretato il pensiero dei suoi consiglieri: “Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi”.

Tempi lunghi, allora, in attesa di un leader credibile per un centro che guardi a sinistra, secondo la tradizione morotea. In questa direzione, seconda incognita, l’unico nome è quello di Giuseppe Conte, ma il premier proprio a fine anno ha specificato che continuerà a fare politica con i partiti attuali (Pd e M5S). Vedremo.

Le sessantenni multitasking: lavorano per figli, nipoti e mariti

Celebrate la Befana. Lungi dall’essere solo l’anziana signora che porta cioccolatini e carbone, è la donna con le rughe su cui si regge la società italiana. La Befana, anzitutto, lavora. A sessant’anni suonati, come dicono le statistiche, è ancora saldamente occupata e versa contributi: altro che le ventenni, trentenni e quarantenni, perse in lavoretti precari che rischiano di mandare in tilt il futuro sistema pensionistico. Sempre più spesso, poi, quello della Befana è l’unico stipendio in casa, visto che aumentano a dismisura, sic, gli uomini disoccupati. A differenza delle più giovani, inoltre, la Befana è di una generazione che al mondo i figli li ha messi diligentemente, almeno due, altro che fisime sull’avere o non avere bambini e terrori ambientali che rischiano di far collassare il nostro Paese (demograficamente parlando). La Befana, normalmente, ha anche una madre anzianissima, che va a imboccare personalmente nelle case di riposo – anche se non servirebbe – oppure che va a trovare tutti giorni per controllare che la badante non la trascuri. Talvolta poi, si occupa dei suoi nipoti, sempre meno numerosi ma sempre più esigenti, pagando rette di nidi quando i genitori non hanno soldi o finanziando vacanze per fargli cambiare aria, vuoi tenerli in città d’estate? Ma la Befana, soprattutto, è quella che a un certo punto, inesorabilmente, si accolla un marito che fino a cinquanta si è creduto adolescente, a sessanta si è fatto il primo elettrocardiogramma, a settanta è già bisognoso di assistenza e chi se ne occupa se non la Befana? Donna considerata anziana da chi spesso è più vecchio di lei, ma è convinto di essere un ragazzino e la ritiene sessualmente inappetibile, è invece il pilastro del nostro Paese. Non ha più il foulard in testa e i denti se li cura, ma il sacco è sempre lì, sulle sue spalle. E, a volte, si sente anche un po’ sola.

La specie umana ha vinto grazie alle nonne: lo dice l’antropologia

Ho un sospetto: i trentasei giusti che, secondo la leggenda, reggono il mondo, in realtà sono trentasei giuste oltre la sessantina. Trentasei befane, insomma, compresa quella che si festeggia oggi. Il cui nome, sfrondato dal disprezzo sessista e ageista (discriminazione fondata sull’età), è un programma politico: Befana, da epifania, cioè apparizione clamorosa. Tutto il contrario di quel che tendevano a fare le donne over–50, cioè sparire, diventare invisibili. Quando il segreto del successo della specie umana – lo dicono gli antropologi – sono state le nonne, in grado di occuparsi dei nipoti mentre le giovani erano impegnate a produrre altri figli. Ma forse per le befane è scattato il momento dell’epifania vera. Il 2019 si è chiuso all’insegna di quattro signore in cui ognuna di noi può riconoscersi. Una è Nicoletta Bosio, la pasionaria No Tav che a 73 anni ha rifiutato le pene alternative ed è andata in carcere col sorriso sulle labbra. La seconda è l’immarcescibile sessantacinquenne Angela Merkel, che nel discorso di fine anno ha sposato apertamente la lotta ai cambiamenti climatici; la terza è Jane Fonda, pure lei cinque volte arrestata per gli scioperi per il clima. La quarta è Sharon Stone, che a 61 anni si è iscritta a Bumble, l’app di incontri, ed è stata bloccata dai gestori che l’avevano scambiata per un fake. “Ehi, voi, non vorrete mica escludermi?” ha twittato subito Sharon, con nonchalance da leonessa ribalda. Mancano all’appello ancora trentatré befane. Chi saranno? Christine Lagarde, la Silver Fox che guida la Bce? La regina Elisabetta, che in un mignolo ha più regalità di tutto il resto della Royal Family? La nonna che oggi a pranzo vi ha fatto le lasagne ma alle 15 esce perché il suo pomeriggio prevede torneo di burraco, aperitivo con le amiche e poi ballo col moroso conosciuto sui social? In ogni caso, dio ce le conservi. Tutte quante.

Gli stipendi senza senso di Madama

Detto che il 19enne Dejan Kulusevski, che la Juventus ha comprato dall’Atalanta per 44 milioni pagabili in cinque anni, non entrerà nella top ten dei giocatori meglio pagati della serie A italiana (lo svedese ha firmato per un ingaggio a salire di 2,5 milioni netti: niente in confronto allo stipendio del 20enne olandese De Ligt, che di milioni ne guadagna 8 più 4 di bonus, totale 12), la domanda che sorge spontanea è la seguente: se è vero che nella classifica dei giocatori di serie A con gli stipendi più alti, nove sono della Juventus (Ronaldo 31 milioni netti, De Ligt 12, Higuain 7,5, Dybala 7,3, Rabiot e Ramsey 7, Pjanic 6,5, Douglas Costa e Khedira 6) e uno della concorrenza (Lukaku, Inter, 7,5), e se è vero che la Juventus è il terzo club al mondo per ingaggi pagati ai suoi tesserati considerando tutti gli sport, NBA compresa (lo studio è di “Sporting Intelligence” che ha pubblicato il tradizionale “Global Sports Salaries” da cui si evince che Barcellona, Real Madrid e Juventus sono i club che pagano ai propri atleti gli stipendi più alti al mondo, 10,9 milioni di euro il Barça, 9,92 il Real e 9 la Juve), se tutto questo è vero, dicevamo, la domanda è: a che pro?

Per capirci: il Barcellona è il club che paga gli stipendi più alti ai giocatori e negli ultimi 15 anni ha vinto 4 Champions League, 3 Supercoppe Uefa, 3 Mondiali per club: in tutto 10 prestigiosissimi trofei internazionali, senza contare i titoli nazionali e i Palloni d’Oro razziati dal suo fuoriclasse Leo Messi.

Il Real Madrid è il secondo club a pagare gli stipendi più alti al mondo e negli ultimi 15 anni ha vinto 4 Champions League, 3 Supercoppe Uefa, 4 Mondiali per club: in tutto 11 importantissimi trofei internazionali, senza contare i titoli nazionali e i Palloni d’Oro conquistati dai suoi campioni CR7 e Modric. Poi c’è la Juventus, che è il terzo club al mondo a pagare gli stipendi più alti ma che negli ultimi 15 anni (e se fossero 20 non cambierebbe nulla) non ha vinto un solo trofeo internazionale: nessuna Champions, nessuna Supercoppa Uefa, nessun Mondiale per club, nessuna Europa League. In compenso ha fatto incetta di scudetti, Coppe Italia e Supercoppe italiane e con 8 titoli consecutivi guida la classifica dei club con la striscia più lunga in corso a pari merito con Celtic (Scozia), Ludogorets (Bulgaria) e The New Saints (Galles), non esattamente il massimo in quanto ad appeal del brand, per usare termini cari al management juventino, dal chief football officer Paratici al chief financial officer Marco Re.

Insomma, considerando che il club di Andrea Agnelli paga i suoi campioni più di quanto facciano i club della NBA americana, dai Portland Trail Blazers ai Golden State Warriors, dagli Orlando Magic agli Oklahoma City Thunder, la domanda è: perchè? Che senso ha stipendiare con 31 milioni netti CR7 e con 12 De Ligt se tutto quel che ottieni è vincere scudetti che vincevi anche con Matri e Barzagli e conquistare, e a volte persino perdere, Coppe Italia e Supercoppe nostrane la cui eco si spegne appena giunti a Chiasso, distretto di Mendrisio? A meno che l’obiettivo di Agnelli non sia quello di demolire il record di titoli consecutivi (14) vinti in patria da Lincoln (Gibilterra) e Skonto Riga (Lettonia), forse qualcosa alla Juve andrebbe registrato, nella stanza dei bottoni dove il management bianconero ponza senza soste.

Boris Johnson parla in greco: “L’élite studia lettere classiche”

Reduci dal trionfo elettorale di Boris Johnson, ci ritroviamo le bacheche invase da un video del primo ministro che recita… l’Iliade. L’intervistatrice gli chiede quale sia la sua strategia per tirarsi fuori dai guai e Johnson risponde recitando una quarantina di versi di Omero, in greco, a braccio, tra lo stupore e l’adulazione. Il video è di qualche anno fa ma è ora diventato virale: condivisioni su condivisioni, articoli su ogni sito e giornale, dal Telegraph a Libération.

Laureato in ‘Classics’ a Balliol (Oxford) dopo aver studiato latino e greco a Eton, la più esclusiva scuola privata britannica, Johnson sfoggia la sua formazione classica con liberalità, da Westminster all’ONU. Di fronte a populismi sempre più volgari, un primo ministro che recita l’Iliade parrebbe una boccata d’aria fresca: la cultura contro l’ignoranza! È invece altro: è prova che l’arma di questi populismi è brandita dalla stessa élite di sempre, che ora affetta un registro basso per accreditarsi con le classi popolari ma al contempo ancora legittima la propria superiorità attraverso l’esibizione di una cultura classica che vuole mantenere esclusiva.

La performance virale di Johnson è cioè segno insieme di una permanenza secolare e di un percorso politico specifico iniziato con le grandi vittorie conservatrici degli anni ’80. Allora, di fronte all’emergenza dell’università di massa, le élite risposero con la denigrazione sistematica dei saperi umanistici – quello classico in primis – che fino al giorno prima erano serviti a legittimarne la superiorità. Ora che venivano democratizzati, li si scopriva improvvisamente inutili. Inutili, cioè, all’addestramento di un’apatica forza lavoro post–industriale a basso tasso di specializzazione. E inutili, in prospettiva, come fonte di distinzione per le classi dirigenti, proprio per via della minacciata democratizzazione. Quarant’anni dopo, gli studi classici sono spariti dalla scuola pubblica britannica. Li si insegna ancora, invece, nelle costose scuole private, la Eton di Johnson in primis. Nello stesso periodo, dopo la chiusura di decine di dipartimenti di ‘Classics’ (soprattutto nelle università cosiddette di serie B), l’insegnamento delle humanities è stato completamente definanziato dallo stato: pesa ora interamente sulle rette di chi ha i mezzi per pagarselo, a £9.000 l’anno.

Così i dipartimenti di ‘Classics’ persistono e prosperano solo nelle università d’élite, popolati da proporzioni imbarazzanti di figli di papà, che poi con naturalezza scivolano in professioni d’élite, laurea in ‘Classics’ alla mano. E noi a compiacerci della salute apparente della disciplina (guarda quanti iscritti!), ignorandone la demografia e la funzione sociale, costretti – se di sinistra – all’ipocrisia dalla nostra stessa passione per lo studio dell’antichità.

Potrà sembrare un mondo alieno da quello italiano ma non lo è. Perché il BA inglese è in fondo un super–liceo: i laureati in Classics si specializzano solo dopo, e diventano avvocati, banchieri, pubblici funzionari, giornalisti, primi ministri. E dunque il vero parallelo italiano non è la laurea in Lettere Classiche, ma il Liceo Classico, anch’esso, guarda caso, denigrato, additato come inutile, il cui numero degli iscritti continua a calare… e al quale le nostre borghesie bene continuano imperterrite a mandare i loro rampolli. Anzi, meno sono gli iscritti tanto più il Classico torna a essere quello che fu un tempo: uno strumento di riproduzione sociale per le élite, piccole e grandi, per chi viene dal quartiere giusto, dalla famiglia giusta. La realtà è che la critica degli studi classici è, ed è stata a lungo, nuda ideologia. ‘Da destra’, essi sono inutili in un senso preciso: inutili alla produzione delle formichine precarie e disperate di questo tardo–capitalismo; certo non inutili per le élite, anzi, utili solo a loro! ‘Da sinistra’, rigettarli per il loro elitismo non può che essere posizione subalterna: nell’allontanare le classi popolari dagli studi classici se ne massimizza il potenziale di ‘distinzione’ per le stesse élites che si dice di combattere

Tutto questo, si noterà, prescinde da qualunque giudizio sui ‘contenuti’ degli studi classici: sui testi, sulle idee, sugli esperimenti sociali, politici. Vi prescinde perché non è su questo che si gioca la partita, ma su altro: su diseguaglianze, stratificazione sociale, esigenze del lavoro e del mercato. La cultura classica è cioè un capitale sulla cui distribuzione si lotta senza quartiere. Vale allora forse la pena ricordare che essa non appartiene intrinsecamente a nessuno. Edith Hall ha scritto recentemente di un giovane minatore del Northumberland morto in miniera nel 1899 con in tasca il suo Tucidide, l’orecchia a marcare l’epitaffio pericleo.

Come lui tanti, di quei testi, di quella cultura si sono voluti riappropriare, a costruire identità non di superiorità ma di condivisione, di lotta. Basta una ricerca nella Banca dati del Partigianato piemontese per rendersene conto: se il fascismo aveva fatto della storia antica un’arma di controllo totalitario, tra chi vi si ribellò troviamo Teresio Pavese, meccanico alessandrino fattosi partigiano col nome di battaglia di Leonida; troviamo Umberto Cagnoni, operaio tessile nel biellese che salì in collina, fucile in spalla, col nome di Pericle; troviamo a centinaia, a migliaia, gli Spartaco, gli Aristide, i Temistocle, gli Ulisse. C’è Johnson, certo, ma ci sono anche loro.