“Racconto il Papa segreto, ma sul set il regista è Dio”

Il sesso: “C’è dappertutto, ipocrita pensare che non ci sia anche in Vaticano”. L’attentato a San Pietro: “Per esorcizzare, spero non accada mai”. In esclusiva su Sky Atlantic e Now TV da venerdì 10 gennaio, arriva il sequel di The Young Pope, The New Pope, la serie originale Sky prodotta da The Apartment – Wildside: protagonisti Jude Law e John Malkovich, crea e dirige Paolo Sorrentino.

Sorrentino, l’idea?

Antichissima. Da ragazzo volevo fare un giallo in Vaticano, avevo cominciato a scrivere delle sciocchezze. L’occasione arriva quando il produttore Lorenzo Mieli mi propone un Padre Pio in tv, ma “l’hanno già fatto, e poi – gli dico – è molto delicato”.

Più delicato del Papa?

In Italia sì, perché Padre Pio ha una serie di adoratori trasversali, non solo cattolici, insospettabili, e quindi è argomento molto spinoso. Rilanciai quasi provocatoriamente: “Allora facciamo un racconto in Vaticano”, pensando che tutto sommato fosse impossibile.

Questo accadeva prima di Habemus Papam di Moretti?

Sa che non ricordo, io stavo facendo Youth, 2013, 2014… Habemus Papam di che anno è?

2011.

Allora forse c’era già stato.

Con The New Pope scopriamo non solo un secondo, ma un terzo pontefice: Francesco II, che in realtà per destino ricorda Giovanni Paolo I, ovvero Papa Luciani.

Come destino? Ah, che dura poco… Sì, certo che ho pensato a Luciani.

Viceversa, di Papa Francesco non c’è traccia: da Francesco II si torna a san Francesco, Bergoglio non esiste, perché?

Non volevo legarmi troppo alla realtà, preferisco creare una sorta di Vaticano parallelo a quello esistente. Però Francesco II è come se portasse all’estremo le idee del Francesco attuale: dal Vaticano aperto ai migranti alla stretta sui conti.

Non essere credente l’ha aiutata a non porsi problemi?

No, io il problema me lo pongo, non mi interessa essere provocatorio e trasgressivo nei confronti della Chiesa, è già uno sport che praticano in tanti. Provo ad essere rispettoso, a raccontare i preti su una terza via, che non è quella dei santi né dei cattivi a tutti i costi, ma di uomini normali, come siamo tutti.

Serve più fede per credere in Dio o per fare un film?

Bella domanda. Forse tutte e due. Anzi, no: serve più fede per credere in Dio.

C’è il rischio che un regista si senta Dio?

Sì… sì.

L’ha provato?

No, fortunatamente ho una moglie che mi ha sempre tenuto con i piedi per terra e pure io di indole non mi piglio molto sul serio. Però è vero che il cinema è strutturato in modo piramidale, per cui tutto complotta per far sentire il regista una specie di dominus in assoluto.

Fellini?

Forse lui era l’unico autorizzato a sentirsi Dio.

All’apparenza The New Pope è una serie basata sul raddoppio, sulla doppiezza – due cuori, due papi, due Silvio Orlando… – ma alla fine guarda all’assoluto: anche lei?

Non so, non ho una unica ambizione, ne ho varie più piccole. Mostrare i preti per quel che sono, sicuramente indicare certe aberrazioni all’interno della Chiesa, per esempio l’esclusione del mondo femminile, che trovo non solo anacronistica ma sbagliata. Poi, ho l’ambizione di riflettere la grande dicotomia, la grande discrasia che c’è fra privato e pubblico nelle figure di rilevanza mondiale: vale per il papa, valeva per Andreotti. Volevo anche tener conto, a modo mio, della cronaca, legata agli attentati terroristici di matrice religiosa. Mi piaceva indagare un tema poco noto, non il fondamentalismo islamico, ma quello cattolico: in Africa il rischio c’è.

Battuta del cardinale Voiello, “c’è bisogno anche di topi come me per preparare il terreno fertile della Santità”: oggi non servirebbe piuttosto derattizzare?

Idealmente, non avremmo bisogno di topi. Ma è un atteggiamento pragmatico, molto democristiano, che il bene passi anche attraverso il ricorso a mezzi non propriamente esemplari. È un vecchio adagio della politica, e anche in Vaticano si fa politica.

Di questi tre papi quale sente più vicino?

Da un punto di vista caratteriale, il papa di John Malkovich. Non ho i radicalismi del personaggio di Jude Law, non sono sprovveduto come il Papa del primo episodio, sì, sono più vicino a Brannox: incline al compromesso, al raggiungimento di una soluzione pacifica e comoda per tutti.

La resurrezione l’affascina?

Non è vicina alla mia vita, non sono cattolico, ma è tema così misterioso, così affascinante – anche visivamente – da diventare per me materia di racconto cinematografico.

Simmetrie con Moretti: entrambi avete fatto Berlusconi, il Papa e ora per la prima volta un film non tratto da un soggetto originale, Nanni “Tre piani” da Eshkol Nevo e lei “Mob Girl”. Convergenze parallele o solo coincidenze?

Coincidenze oppure esigenze dettate dalla crescita: io all’inizio volevo sempre fare cose mie.

Crescere è accogliere l’altro?

Assolutamente, anche spogliarsi dal rivendicare “io, io, io”. È così da giovani, quando hai paura che non ti riconoscano nessuna patente, con il tempo capisci che non è più necessario, ti senti più tranquillo: oggi per me è del tutto normale lavorare con una sceneggiatrice americana che non conoscevo (Angelina Burnett, NdR).

Il libro è di Teresa Carpenter, la protagonista è Jennifer Lawrence: Mob Girl si declina al femminile.

Totalmente, e anche se ne sono ben contento continuo a chiedermi perché gli americani hanno scelto me per dirigerlo…

Nel Terzo Millennio è l’unico regista italiano ad aver vinto l’Oscar, il 31 maggio compie cinquant’anni: programmi per il futuro?

Avere la fortuna di fare quello che mi piace. Senza essere troppo limitato.

L’arte deve cambiare il mondo, non certo appassire nei musei

Se credere alle classifiche (di artisti, scrittori, monumenti…) è rischioso e forse un po’ sciocco, provare a stilarle è uno degli esercizi più utili e intelligenti che si possano fare: quando proviamo a dire perché una poesia o un’opera d’arte o un autore vale più di un altro, ci costringiamo a mettere in ordine le nostre idee, a tradurre in parole le nostre emozioni, a chiamare per nome ciò che semplicemente ‘sentiamo’. Non c’è poi nulla di più difficile che tentare di creare una lista del meglio del nostro tempo: un canone che provi a fermare ciò che, ad ogni rintocco dell’orologio, ci scivola via dalle dita. È per questo che l’ultimo libro di Vincenzo Trione (L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Einaudi, 40 euro) appare così prezioso: perché nasce dalla disponibilità dell’autore di accettare, e anzi di padroneggiare perfettamente, questo gioco così insidioso, e insieme così eccitante.

Cosa rimarrà di questi primi vent’anni del Duemila (o, per i più pretenziosi, del terzo millennio)? Sarebbe una domanda difficile anche se riferita alla politica, o alla letteratura: ma quando si parla di arte, provare a rispondere significa addentrarsi in un terreno minato. Diciamo subito che Trione ne esce alla grande. E non mi riferisco tanto alle inclusioni o alle esclusioni in sé (tipo: non ci sono Cattelan né Koon e invece ci sono Pamuk e Greenaway), ma al metodo che egli mette a punto. O, ancora meglio, al punto di vista che sceglie. Il libro si apre con un meraviglioso passo di Paul Valéry contro i musei, un testo che in questi anni di delirio museale ho spesso riletto fino a saperlo a memoria: “Non amo eccessivamente i musei. Le idee di classificazione, di conservazione e di utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno poco a che fare con il piacere. Mi muovo in un tumulto di creature congelate, ciascuna delle quali esige, senza ottenerla, l’inesistenza di tutte le altre. Il museo esercita un’attrattiva costante su tutto ciò che fanno gli uomini. Tutto finisce alle pareti o nelle bacheche. I nostri tesori ci opprimono e ci stordiscono. Per quanto vasto sia il palazzo, ci troviamo sempre un po’ persi e desolati in quelle gallerie, soli di fronte a cosí tanta arte. Venere trasformata in documento”. Ebbene, rinunciare oggi al museo come metro per giudicare le opere d’arte significa contestare una tradizione culturale nella quale l’opera nasce direttamente per il museo, avendo ormai smarrito ogni altra funzione. E insieme significa contestare un sistema di potere (politico, economico, editoriale, curatoriale) che ha chiuso l’arte nei musei un po’ come i mandriani chiudono le mucche nei recinti.

Invece, a Trione piacciono le mucche libere: fuor di metafora, egli ama e censisce “installazioni talvolta addirittura epiche, plurali, dissonanti, eterogenee, straripanti al di fuori di se stesse, verso una ‘esternità radicale ed estrema’. Installazioni dal carattere spesso tempora–neo, che provano a forzare i limiti degli involucri architettonici dentro cui sono allestite. Legate a circostanze specifiche, somigliano a happening messi in scena non da persone, ma da frammenti inorganici di informazioni e di messaggi, che ci invadono e ci sommergono. Non chiedono di essere solo contemplati, questi assemblages. Ma sentono il visitatore: lo vedono, lo accolgono, lo inglobano, lo possiedono, lo inondano, fino a farlo smarrire”. Questa è dunque la pista, ed è davvero felicissima, perché conduce in cerca di opere che costruiscono un nuovo contesto, e che hanno l’ambizione di colonizzare il nostro mondo, e di cambiarlo, come succedeva con le grandi opere d’arte del passato, che fossero sculture pubbliche o cicli di affreschi.

Sfogliando le tante tavole a colori, e perdendosi nel labirinto di descrizioni e giudizi, il lettore imparerà ad orientarsi nella mappa dell’arte d’oggi: e potrà dunque costruirsi la propria, cancellando (poniamo) Paladino o Matthew Barney, o scegliendo (per dire) una diversa opera di Kentridge, e così via.

Perché è a questo che servono i canoni: ad essere contraddetti, a generarne di alternativi. E dunque a costruire un gioco in cui Trione, divertendosi moltissimo lui stesso, è capace di trasmettere a tutti coloro che partecipano, un dottissimo divertimento.

“Solo gli artisti e i criminali sfuggono al destino misero”

“Napoli è, per l’Italia, il ritratto di Dorian Gray, il personaggio di Oscar Wilde che vede gli effetti della sua vita dissoluta non sul suo corpo ma sul suo ritratto e quindi può sempre sentirsi bello e giovane mentre il ritratto invecchia e s’imbruttisce. Finché un giorno il giovane si riconosce in questo ritratto, lo pugnala e muore”. Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore, parla con tono di voce basso, facendo volteggiare le mani nel vuoto. Passeggiamo all’interno del parco Ventaglieri nel quartiere Montesanto di Napoli dove c’è il centro sociale DAMM, Diego Armando Maradona Montesanto. Qui lo scrittore napoletano è di casa, era tra gli occupanti nel 1995. E nonostante ha scritto e continua a scrivere film di successo come Gomorra, La paranza dei bambini, vincitore dell’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura a Cannes, fino alla trasposizione cinematografica di Martin Eden diretto da Pietro Marcello, Braucci continua a vivere a Montesanto, il quartiere dove è cresciuto.

“Il nord e la capitale – continua lo scrittore – guardano al sud come Dorian Gray guardava il suo ritratto, dicendosi che è li che ci sono i mali, senza rendersi conto che il male è di tutti, che la ’ndrangheta che si è pensata sempre relegata alla Calabria invece domina Milano e Torino e la Val d’Aosta. C’è un’abitudine culturale dell’Italia di vedere il sud come un luogo malato quasi per magia e non per ragioni storiche ed economiche”. Nel salire le centinaia di scalini del parco Ventaglieri siamo abbagliati dagli scorci che regala la città. “Napoli oggi è un set a cielo aperto – spiega Braucci – arrivano da mezzo mondo per girare qui. È un luogo meraviglioso per la natura e poi la gente è aperta e disponibile, bisognosa di lavorare e quindi trovi manovalanza a basso prezzo. Napoli è una città piena di storie dove ognuno vive dell’arte di arrangiarsi. Vivere qui è una continua sfida di sopravvivenza, data dalla eccessiva vicinanza che genera contrasto, conflitto e questi sono gli ingredienti di qualunque drammaturgia”. Mentre camminiamo nel parco, Braucci viene avvicinato e salutato da amici e conoscenti che gli chiedono una parte per il nipote o il figlio nei prossimi film. “Questo grande interesse cinematografico e televisivo è un’opportunità – spiega – se le istituzioni, il pubblico, il comune e la regione riescono a fare in modo che questa attenzione divenga un lenitivo per la grande disoccupazione giovanile. Se vai sulle centinaia di set che si tengono qui trovi che i giovani locali sono impiegati o come attori presi dal vivo – il camorrista, lo spacciatore, il parente dell’assassino – oppure come i runner che portano i caffè, ma è quello che sta in mezzo che manca: una formazione professionale nella città. Napoli a differenza di Roma e Milano non ha una scuola del cinema (e nemmeno una scuola della musica e del teatro) eppure ha una grande tradizione artistica. Napoli ha bisogno di formazione per i giovani, non c’è soltanto la disoccupazione ma anche la carenza formativa, quindi è difficile impiegare i giovani anche se ci sono occasioni oggi nell’audiovisivo. Mi piacerebbe che l’Accademia di Belle Arti formasse i giovani nell’ambito televisivo e cinematografico, e che la film Commission spingesse le produzioni a formare questi ragazzi”.

E il napoletano come reagisce a queste difficoltà? “L’arte d’arrangiarsi è diventata una terribile maledizione, abituati alla sopravvivenza non si rivendicano i propri diritti. La capitale morale del sud è anche una città dove ci sono delle classi parassitarie che vivono sfruttando l’ignoranza e la povertà della città. Cirino Pomicino, dopo aver scampato mille processi, oggi dirige la Tangenziale di Napoli Spa, l’unica a pagamento in Italia, con un pedaggio dichiarato illegittimo dall’Unione europea. Un’azienda che fattura circa settanta milioni all’anno sulla pelle dei napoletani. I residenti dicono ‘vabbè tiriamo a campà’ e questa è diventata la loro maledizione. Il napoletano ama vedersi come un simpatico furbo ma in fondo è un oppresso. È quello che nel Paese paga le tasse per la spazzatura e l’assicurazione più alte e che ha meno servizi sociali, però si crede capace di raggirare le cose ma in fondo patisce. È quel ‘Cca nisciuno è fesso’ per il quale poi tutti finiscono per diventare fessi”.

Raccontare Napoli, nelle sue colorate contraddizioni, è un’impresa. E Braucci è un maestro: “Ci sono diversi modi, sia quando si parla della criminalità che del sole o della natura napoletana, lo si può fare a vari livelli, dipende dallo sguardo degli autori. Purtroppo molto spesso nel raccontare la città ci si accontenta, nel senso che si confermano le cose allo spettatore così come lui le conosce già. E questo il cinema non dovrebbe mai farlo. L’arte dovrebbe cercare di approfondire, far riflettere lo spettatore mentre lo emoziona. La vera scommessa è provare a dare delle visioni alternative sul mondo.”

Lo scrittore è arrivato in vetta partendo da zero, sfuggendo al suol destino. Pochissimi ci riescono. “Penso che le persone povere – dice Braucci – che possono immaginarsi diversamente da come il contesto sociale li costringe ad essere sono di due tipi: o sono artisti o sono criminali. Anche i criminali di quel tipo partono dall’immaginarsi in maniera diversa, vogliono cambiare il proprio destino. A Napoli un giovane anche se non ha tante risorse e opportunità, sicuramente trova la ricchezza dell’immaginazione, Napoli ti tenta continuamente con l’immaginazione e chi ci vive non riesce a sottrarsi quasi mai. In questo senso Napoli è una ‘madre del sogno’, una madre che esercita l’arte del sogno, tutti qui sognano, a volte li vedi camminare trasognati e magari questo sogno può essere un incubo per l’altro e in tal caso trovi l’individuo persecutorio verso il prossimo come capita col mafioso, col politico corrotto. Oppure può essere un sogno di libertà, un sogno di utopia. Allora hai l’individuo solidale che può servire il prossimo, che può lenire il suo dolore, che può curarlo e magari condividere con lui il proprio sogno.”

Eichmann: così l’Angelo della Morte fuggì in Emilia

Era il 22 aprile del 1959 quando Simon Wiesenthal, il “cacciatore di nazisti”, lesse su un quotidiano di Graz, in Austria, un annuncio mortuario in ultima pagina. Si riferiva alla morte di un’anziana donna, Maria Eichmann. Tra le partecipazioni spiccava quella di Vera Eichmann, che Wiesenthal identificò subito nella moglie del criminale nazista Adolf Eichmann (1906–1962), il tenente colonnello (Obersturmbannführer) delle SS che aveva pianificato la “soluzione finale”, ossia lo sterminio degli ebrei.

Cominciava così la caccia al responsabile della macchina della deportazione e dell’Olocausto, che culminò intanto nel suo sequestro nel maggio del 1960 a Buenos Aires, in Argentina, dove si era rifugiato (partendo da Genova) da una decina d’anni, sotto il nome di Riccardo Klement. La cattura, quindi, sfociò nel processo di Gerusalemme e nella condanna a morte di Eichmann, eseguita il 31 maggio del 1962.

Da quel maggio del 1962 sono stati scritti svariati libri sull’uomo che la filosofa Hannah Arendt, che seguì il processo di Gerusalemme, raccontò nel saggio La banalità del male. E decine e decine di carte, nel corso del tempo, custodite negli archivi e a lungo non accessibili, sono state messe a disposizione degli studiosi. Eppure in tutto questo materiale non c’è un solo accenno all’ultimo enigma del caso–Eichmann: il suo soggiorno, verosimilmente nel 1946, in un paese dell’Appennino tosco–emiliano, che durò alcuni mesi. A tutt’oggi restano misteriose le ragioni che, a un anno circa dalla fine della guerra, portarono Eichmann a Villa Minozzo, un borgo allora non facilmente raggiungibile, incuneato tra le vallate della provincia di Reggio Emilia.

Perché si recò lì, spacciandosi per ingegnere minerario? Che cosa cercava in quelle valli, lontane dalle rotte consuete delle SS in fuga? Perché lasciare l’assai più congeniale Alto Adige, in cui, oltre a Eichmann stesso, erano stati ospitati a lungo numerosi nazifascisti, per scegliere invece come nascondiglio un luogo segnato, tra l’altro, da alcune stragi compiute dai tedeschi e dove era sorta nel 1944 la Repubblica partigiana di Montefiorino? Era alla ricerca di un deposito di oro nascosto dai tedeschi, dopo la rotta sulla linea Gotica? Oppure c’era di mezzo la riorganizzazione delle ex SS, in vista di un ipotetico Quarto Reich? Altrettanto misterioso è il fatto che le autorità italiane (e non solo queste) non abbiano mai indagato sulla presenza in Emilia di un nazista di quel calibro, come singolare è che pochissimi, tra storici e giornalisti, se ne siano occupati. A sessant’anni dalle intuizioni di Wiesenthal, a riaprire il giallo–Eichmann è la ristampa dell’unico lavoro dedicato esplicitamente al suo soggiorno a Villa Minozzo, in Val d’Asta. Si tratta di Indagine su Eichmann di Fabio Galluccio (“Oltre edizioni”, 138 pagine, 13 euro): alla sua prima uscita non ha infranto, come sarebbe stato giusto e opportuno, il sostanziale silenzio calato dal 1946 su questa vicenda. Nemmeno lo scoop del giornalista Fabrizio Castellini, nato proprio in quelle zone, uscito qualche anno fa sul settimanale Sette del Corriere della Sera, d’altro canto, aveva smosso le acque. Ed una eco ancora minore, nei mass media e tra gli storici, hanno avuto quegli spezzoni televisivi, su Rai Storia, con tanto di interviste ad abitanti di Villa Minozzo che ricordavano di avere conosciuto Eichmann. Sul cosiddetto web, poi, le cose non vanno meglio. Un cenno su Wikipedia, qualche recensione del libro di Galluccio sulla stampa locale, dalla Gazzetta di Reggio a Bresciaoggi.

E una citazione nella rubrica dell’agenzia Ansa dedicata ai viaggi, nella voce su Villa Minozzo: “Alla fine della seconda guerra mondiale, il criminale nazista Adolf Eichmann, uno degli ideatori e maggior responsabile della ‘soluzione finale’ nella Germania nazista, si rifugiò per quasi un anno a Villa Minozzo prima di fuggire qualche anno dopo in Argentina”. Un po’ poco, dunque, per uno dei massimi responsabili dell’Olocausto, che pure in Italia, fra un convento dell’Alto Adige e uno di Roma, fino alla partenza dal porto di Genova, sempre aiutato da qualcuno nella Chiesa e in Vaticano, era stato più volte.

Neppure Galluccio, vicepresidente del circolo “Giustizia e Libertà” di Roma, è riuscito a risolvere il mistero di Eichmann in Emilia, pur conducendo l’indagine alla stregua di una detective story della memoria, e rintracciando gli ultimi testimoni che videro il nazista da quelle parti. La sola certezza acquisita assomiglia a ciò che il grande giornalista Tommaso Besozzi, nel dopoguerra, scrisse a proposito della fine del bandito Salvatore Giuliano: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Tradotto per la vicenda Eichmann, pertanto, Galluccio ci dice che di sicuro c’è solo che l’SS-Obersturmbannführer trascorse qualche mese in Val d’Asta. Aveva rapporti di amicizia con un sacerdote del paese di idee nazifasciste, così come riceveva dei messaggi celati sotto i tappi di alcune bottiglie di cognac. Certo è inoltre che Eichmann non parlò mai della presenza a Villa Minozzo, né con il giornalista che raccolse le sue memorie in Argentina, né al processo celebrato in Israele. Il prossimo anno cadrà il sessantesimo annivesario della cattura di Eichmann. Sarà la volta buona per continuare il lavoro di Fabio Galluccio?

Mattarella: “Delitto di convergenza tra mafia ed eversione”

Erano quasi le 13 del giorno dell’Epifania. Un giovane con una k-way azzurra con il cappuccio in testa e un paio di occhiali scuri si avvicina con passo elastico e ballonzolante a una Fiat 132 appena uscita da un garage di via Libertà, a Palermo. Estrae una Colt Cobra calibro 38 e spara sei colpi all’uomo che è al volante dell’auto, accanto alla moglie. Piersanti Mattarella muore, Irma Chiazzese rimane ferita a una mano.

Era il 1980, quarant’anni fa. Tra i primi ad accorrere è il fratello di Piersanti, Sergio Mattarella, il cui destino sarà quello di diventare presidente della Repubblica. Il destino di Piersanti invece, presidente della Regione Sicilia, sarebbe stato quello di diventare vicepresidente nazionale della Democrazia cristiana, al congresso Dc del febbraio 1980, e portare a Roma la formula politica di governo che aveva sperimentato a Palermo: l’apertura al Partito comunista, già tentata da Aldo Moro.

Non accadrà. A cambiare il corso della storia sono le pallottole del giovane killer dal passo ondeggiante, che nessun pentito conosce, di cui nessun mafioso di Cosa nostra nulla sa.

Per questo, Giovanni Falcone, che indagò a lungo sul delitto dell’Epifania, si era convinto che quel giorno fosse scattata un’alleanza tra mafia degli affari ed eversione politica. Seguì la “pista nera”, convinto che per quell’omicidio fossero scattate relazioni “che potrebbero riscrivere la storia del Paese”. Mandò a giudizio un killer “dal passo ballonzolante”: Giusva Fioravanti, capo dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), insieme al suo camerata Gilberto Cavallini. Proprio per la sua camminata, Giusva era chiamato “l’orso”. Entrambi sono stati definitivamente assolti.

Oggi una nuova indagine, aperta nel gennaio 2018 a Palermo da Salvatore De Luca e Roberto Tartaglia, ha ripreso a battere la “pista nera”.

Tartaglia, ora consulente della Commissione parlamentare antimafia, è convinto che sia stato “un delitto di convergenza tra mafia ed eversione”. Eseguito con tutta probabilità da un killer esterno a Cosa nostra. È vero che Mattarella, da presidente della Regione, aveva assunto ad interim l’assessorato ai Lavori pubblici e disposto ispezioni per verificare la regolarità di alcune gare d’appalto, in particolare quelle per la costruzione di sei edifici scolastici a Palermo. Le avevano vinte imprese legate alla Cosa nostra di Bontate, Spatola, Inzerillo. Due giorni dopo il delitto dell’Epifania, il Comune di Palermo smentisce i risultati delle ispezioni imposte da Mattarella e dichiara che le gare sono regolari. “Ma Piersanti era un presidente di Regione già senza maggioranza”, spiega Tartaglia, “che avrebbe presto lasciato Palermo. Era invece destinato a diventare, nel giro di un mese, vicepresidente nazionale della Dc, con il progetto di riprendere la politica di Moro di apertura al Pci. La sua uccisione, dunque, frena il cambiamento in Sicilia, ma cambia soprattutto il prevedibile corso politico nazionale”. Falcone seguì con determinazione la “pista nera”: interrogò Cristiano Fioravanti, il quale dichiarò che a sparare al leader della Dc siciliana era stato il fratello Giusva, affiancato da Cavallini; e fece addirittura una trentina di interrogatori ad Alberto Volo, fascista vicino ai Nar e a Terza posizione, che gli raccontò che l’eliminazione di Mattarella era stata voluta da Licio Gelli, il capo della loggia P2, per fermare l’apertura a sinistra.

Come ricostruisce Giuliano Turone nel suo Italia occulta (Chiarelettere), Piersanti, subito dopo l’omicidio del magistrato Cesare Terranova del settembre 1979, corre a Roma a parlare con l’allora ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, a cui annuncia la volontà di bloccare alcuni appalti per tagliare i legami tra politica e mafia, ma esprime soprattutto le sue preoccupazioni per il clima pesante dentro la Dc siciliana. Da una parte, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, uomo di “discussa, ambigua e dubbia personalità”, stava facendo pressioni per ottenere “un reinserimento a un livello di piena utilizzazione politica all’interno della Democrazia cristiana”. Dall’altra, erano appena avvenuti (nel luglio e nel settembre 1979) due omicidi eccellenti di mafia, con le uccisioni del commissario Boris Giuliano e del giudice Terranova.

Raccontando questo film nero a Rognoni, Mattarella dimostra di essere consapevole dei pericoli che stava affrontando. Per gli appalti che voleva bloccare a Palermo, ma più in generale per le nuove alleanze che annusava tra Cosa nostra e i piani alti della politica. Tornato a Palermo da Roma, dice alla sua collaboratrice, Maria Trizzino: “Se mi dovesse succedere qualcosa, si ricordi di questo incontro romano”.

Affari ed eversione. Già la relazione dell’Alto commissariato antimafia stesa nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio mette in evidenza l’anomalia del delitto Mattarella: “Non si tratta di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica mafiosa”. Inquietante anche il ruolo che Giulio Andreotti gioca in questa partita mortale. Il leader della corrente che aveva stretto legami con Cosa nostra va due volte in Sicilia a parlare con il capo dei capi, Stefano Bontate, ancora non esautorato e ucciso dai corleonesi di Totò Riina. Nel primo incontro, Bontate si lamenta con lui proprio di questo Mattarella che non sta ai patti e vuole smontare la proficua collaborazione aperta tra i boss e la politica palermitana. È un’avvertimento. Quando torna in Sicilia dopo l’assassinio del suo compagno di partito, un ineffabile Andreotti fa le sue rimostranze a Bontate, come dopo un piccolo sgarbo, un affare andato male. Non una denuncia, non una parola ai magistrati.

“Odio, oblio, oltranzismo: punti chiave di Salvini e della Meloni”

Le tre O sono il gancio, così lo chiama Marco Revelli, a cui si appende la triste e crudele eredità del ’900. Quel tempo del Male si rifrange e si ripropone, ora come esibizione scenica ora come piega intellettuale.

Il fascismo e il nazismo mantengono una connessione sentimentale, una lunga scia d’amore cieco.

La dimensione del mercato fascista e nazista, dai ciondoli ai manganelli, per non riferire del vino “nero”, la foto del Duce a garantire l’autenticità, è oggettivamente inquietante. Solo il vino fattura in un anno migliaia di euro. È un dato significativo di quanto l’uomo sia immemore e replichi, anche nelle forme di una comicità tragica, il simbolismo di quegli anni così cattivi.

La vita è la mia sposa, la morte è la mia amante.

Appunto.

Nazismo e fascismo hanno segnato il secolo scorso. Perchè si sorprende se la scia arriva ad oggi?

Perchè queste due esperienze hanno contribuito a definire cos’è il Male assoluto, quando la barbarie annienta l’uomo nella sua propria identità civile. È così enorme la tragedia che è incredibile ci sia qualcuno che possa augurarsi di riviverla, o farla rivivere.

Esiste un feticismo del male.

Esistono e si materializzano nel nostro tempo “le tre o”: odio, oblio, oltranzismo. Un trittico formidabile di ragioni e di cause che compendiano le più disgustose manifestazioni pubbliche, singole o collettive.

La nostra è l’età dell’odio.

Non un odio concettuale, non un nemico da abbattere, una religione da difendere, un destino a cui dare corpo e vita. L’odio che viviamo è singolo, isolato, destrutturato, smaterializzato. L’odio non ha una ragione, non ha un motore primitivo ma anzi lo anticipa. Cerchiamo con la lanterna un motivo. Futile o meno che sia. Appena lo troviamo appiccichiamo, come fosse chewing gum, la dose d’odio. Non è odio di classe, non è odio di sistema. È un odio individuale, anarcoide, che si aggrega occasionalmente e poi si frantuma, si riversa e ribolle in mille tinelli.

All’odio si aggiunge l’oblio.

Il frutto della narcosi della memoria, di una pulizia mentale, un reset, che pialla le teste e seppellisce le responsabilità.

Esiste però un diritto all’oblio.

Quel diritto è degli individui non dei popoli. Anzi esiste un dovere opposto e speculare: che è il dovere della memoria.

Infine lei cita l’oltranzismo.

Quella condizione psicologia e narrativa, quel posizionamento anche sociale, in cui l’atteggiamento deve andare oltre ogni ragionevole limite per essere distinguibile, significativo, persino raccomandabile. In chi non ha pensiero l’oltranzismo è una necessità. Proliferano i demagoghi, ci somministrano idee sempre più enormi, eccessive, improbabili. L’ipertrofia come sistema.

Le sue tre “O” hanno un grande mercato politico.

Producono un fatturato invidiabile. È sangue vivo per leadership altrimenti anemiche. Noi abbiamo Salvini e la Meloni che hanno costruito la propria fortuna. L’America ha Trump.

In qualche modo è una rendita parassitaria.

Basta costruire un mostro, piccolo o grande non è un problema, vero o falso nemmeno. Uno al giorno. Qualcosa o qualcuno – a prescindere – contro cui gridare, combattere, annientare o solo conquistare. E il gioco è fatto.

Mussolini vale milioni e “gioca” in Serie A

C’è un mondo parallelo, una galassia nera, in cui il tempo si è fermato e il fascismo è l’unica legge in vigore. Legge che regola moda, cucina, sport, letteratura, turismo e stile di vita, in un’unica immensa agorà: il web. Mezzi busti di Benito Mussolini, iconografie del Führer, sciarpe da stadio con fasci littori, pasta artigianale, caffè e bustine di zucchero brandizzati dal ventennio, tutto a portata di click e per i più nostalgici disponibili anche negli store del luna park più nero d’Italia: Predappio. Un business milionario e una produzione così proficua da promuovere questo commercio su piattaforme di maggior respiro, come Amazon ed eBay, e verso mercati e culture distanti anni luce da quel ritaglio di storia, come ad esempio l’Australia.

Ma andiamo con ordine: è davvero legale vendere e comprare certi tipi di prodotti? In Italia ci sono due leggi, la Scelba e la Mancino, a regolare l’apologia del fascismo (il ddl proposto da Emanuele Fiano, del Pd, è naufragato nel 2017). La prima si occupa di punire soprattutto chi tenta di ricostruire il partito fascista, mentre la seconda è diventata ben presto la principale legge contro l’incitamento all’odio e alla discriminazione. Definizioni abbastanza ampie, soggette a interpretazione del giudice e, salvo il tentativo di fondare un movimento fascista, innocue per chi ritiene legittimo difendere Mussolini e il fascismo; o fare il saluto fascista e vendere memorabilia del regime. È così, pertanto, che in Italia è cresciuta un’economia sommersa non calcolabile, che coinvolge e dà lavoro a vari settori, muovendo capitali e consumatori in nome del Duce.

 

A tavola con Benito: pasta, di tutto e di più

Nel caso di Alessandro Lunardelli, produttore friulano di vino, le bottiglie con etichette ispirate ai dittatori, compresi Adolf Hitler e Benito Mussolini, hanno un valore di 9,90 euro l’una. Un prezzo modesto che motiva per giunta la loro desiderabilità: “Le bottiglie con Mussolini sono quelle che vanno per la maggiore, oltre 10 mila all’anno – spiega Lunardelli -. Mentre quelle con Hitler sono richieste soprattutto all’estero”. Insomma, un import-export con tutti i crismi, come per i migliori prodotti nostrani. Spesso considerato ciarpame vintage, horror o folcloristico, il made in Italy mussoliniano è un business e fonte di reddito per molti. Di sicuro, lo è per Luigi Pompignoli e Valeria Casadei, commercianti nel paese natìo del Duce.

Gestiscono due dei principali negozi di mercanzie “nere”: “Predappio Tricolore” è di Pompignoli, Ferlandia è la bottega di Casadei. Offrono di tutto: dalla pasta corta a forma di fascio littorio e testa del Duce (costo 5 euro), a bandiere e sciarpe da stadio con svastiche (15 e 7,5 euro), fino ad arrivare ai body per bambini con frasi come “boia chi molla” (10 euro); passando per accendini, cappellini, locandine e bustine di zucchero. Il tutto, come conferma Pompignoli, disponibile anche all’ingrosso, per soddisfare sia privati che aziende. Il muro di gomma eretto a difesa dei propri affari dai commercianti non permette infatti di stabilire con precisione l’entità dei movimenti. ma una stima si può dare, partendeo dai numeri di Confcommercio: solo i vini del duce più il turismo di Predappio, da soli valgono almeno 3 milioni e mezzo di euro l’anno.

 

Il turismo del Littorio non conosce mai crisi

Basandosi sulle cifre rilasciateci dal Comune di Predappio, il giro di affari in loco è tutt’altro che in crisi. Solo la casa natale di Benito Mussolini anche nel 2019 ha richiamato a Predappio circa 6 mila visitatori, con una media di 5 euro per ingresso. Poi ci sono Villa Carpena (nota come Villa Mussolini) visitata da centinaia di turisti. Infine, la Cripta della famiglia del Duce, prima della chiusura considerata senza dubbio la giostra principale. “Oggi abbiamo una stima: i visitatori che passano da Predappio si aggirano sugli 80-90 mila l’anno”, spiega Alberto Zattini, direttore Confcommercio Forlì. “C’è anche da fare una premessa: noi tutti abbiamo una storia, con dei risvolti drammatici, ma comunque è Storia. Questo vale anche per Predappio, con tutte le sue brutture del passato ma allo stesso tempo sito d’interesse per molti turisti da tutto il mondo. Per loro devono essere aperti i luoghi della memoria, non per i nostalgici del fascismo”. Una economia, quella paese natìo di Benito Mussolini, che di fatto non può fare a meno di un flusso costante di turisti, secondo fonti comunali, con un budget giornaliero di spesa di 40 euro a testa. Sono evidenti le storture di un commercio privo di limitazioni e censure, che sguazza nelle zone grigie del web – al limite tra la libertà di espressione e l’apologia del fascismo – e i cui dati sono off-limits.

 

Il grande bazaar digitale e i nostalgici del calcio

Su Amazon, aziende italiane come ITATI, impegnata da oltre 40 anni nella filiera di gadget e souvenir, propongono grembiuli, federe e boxer con il grugno dello “statista Benito Mussolini”; e poi mezzi busti, spille e suppellettili a iosa, messi in vendita da privati o imprese in possesso dello stampo del Duce (prodotto per gran parte da aziende del modenese). Il costo è basso e la qualità non eccelsa, se messe a confronto con lo smercio di Alfredo Agostini, collezionista e responsabile del sito www.cosevecchie.com: nel suo catalogo spicca l’effige di Mussolini con una base d’asta di 2.190,00 euro.

L’infiltrazione nera entra poi in contatto con lo sport, in particolare col calcio. L’ultimo episodio che ha visto coinvolto il giocatore dell’Inter Cristiano Biraghi: il 10 dicembre, durante il match con il Barcellona indossava parastinchi con l’elmo da legionario sopra allo scudo tricolore. Un simbolo dell’estrema destra, ma anche una citazione del film “Trecento”. La squadra e il calciatore hanno negato qualsiasi riferimento al fascismo. Ma l’episodio conduce ad uno dei satelliti più ricchi del commercio fascista: la personalizzazione di indumenti e “strumenti” del mestiere.

Le principali aziende che offrono il servizio sono 4: Gl Sport, Dromasport, Tackle Sport e Mithrasport. Per lo più, personalizzano parastinchi e fasce da capitano a piacimento. A loro abbiamo chiesto di scrivere “Vincere e vinceremo!” e “Boia chi molla” – rigorosamente in bianco su sfondo nero – su alcuni indumenti: tutte e 4 hanno accettato subito. I prezzi di listino partono dai 22 euro e arrivano fino ai 150 (in base al grado di personalizzazione e al materiale dei parastinchi).

Un macchina quasi perfetta che nasce dalla goliardia delle categorie inferiori, dove raramente si urla allo scandalo, e arriva fino ai campi e alle tifoserie della Serie A: il font littoriano sugli striscioni, le sciarpe con svastiche e slogan fascisti, adesivi, cappellini e magliette con Mussolini o Hitler (simili a quelle ritrovate nella case perquisite degli ultrà del Foggia e della Juve). Tutto in vendita sul libero mercato e nei gruppi privati di Facebook e Twitter.

 

Libri di estrema destra e l’ombra del Cremlino

Esiste infatti, se possibile, una dimensione più buia di questo fenomeno. La struttura a scatola cinese nasconde all’interno dei due principali social una fitta rete di pagine, account e collegamenti vicini all’estrema destra e al movimento fascista: secondo l’Anpi, sono in tutto 962 account su Twitter e 4600 pagine Facebook (ultimo dato prima della chiusura imposta dalla società statunitense). Come se non bastasse, il lento processo di espulsione di questi gruppi dalle due piattaforme, ha spinto realtà come Forza Nuova e CasaPound verso il social russo VKontakte, porto salvo dell’ultra destra mondiale e spazio difficilmente censurabile.

Ai margini di questi hub filofascisti, ci sono inoltre realtà universitarie, come Azione universitaria, Aliud, Azione studentesca e Fuan (i cui rappresentanti locali non fanno segreto sui social della loro ammirazione verso i vecchi Gruppi universitari fascisti), che aprono un nuovo ramo dell’industria fascista: quella della cultura e dei libri.

Sotto l’ala protettiva della casa editrice Altaforte, il cui responsabile Francesco Polacchi si è dichiarato pubblicamente fascista, cresce un carnet di piccoli editori con un’ampia proposta letteraria sul ventennio: fumetti d’autore, graphic novel, saggistica, e calendari. Di almanacchi con Mussolini, punta di diamante della società Gamma 3000 srl, ogni anno se ne stampa circa 10mila copie che, a prescindere dagli ordini, alloggiano nelle edicole del Paese al costo di 9,90 euro. A conclusione di un business, che nonostante l’inquietante retaggio, non scade mai, neanche nel 2020.

Onestà: piove, Casta ladra. Così parlò l’antipolitica

Dalla Casta del Bunga Bunga a oltranza al casto bacio dell’antipolitica. È cominciata così la Terza Repubblica. Uno smack intenso che apparve vicino alla Camera il 23 marzo 2018 e che anticipò l’inedito governo gialloverde di Giuseppe Conte. Lo disegnò un writer romano, di nome TvBoy, che unì in posa virilmente sovietica i due promessi sposi populisti Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Scrive Ettore Maria Colombo: “Un bacio davvero profetico, degno del miglior giornalismo e anche del miglior astrologo: le trattative, lunghe e laboriose, per formare il nuovo governo gialloverde ancora non erano cominciate”. Il disegno venne poi cancellato ma nella memoria resta vivido.

Giornalista parlamentare divenuto un’istituzione sui divanetti della galleria fumatori di Montecitorio, Ettore Maria Colombo oggi firma di QN e Tiscali.it ha scritto Piove governo ladro. Ovvero un dettagliatissimo, e in alcuni casi puntuto, Dizionario della Teraza Repubblica senza dimenticare le altre…che alla lettera “B” contempla il bacio di cui sopra. Appunto. Divise in tre preziosi capitoli, Colombo raccoglie le parole chiave del lessico antipolitico di oggi, le formule del passato e tutte le citazioni più note in settant’anni di Repubblica. Un dizionario da leggere e anche da consultare a seconda dei casi. E che dà conto dell’evoluzione “politichese” dei leader che affollano la scena odierna di Palazzo.

Si prenda Di Maio, volto del grillismo moderato plasmato dal realismo di governo. Dal “vaffanculo” è passato, noblesse oblige, a un più borghese “abbassare i toni” pronunciato il 13 maggio di quest’anno: “Bisogna cominciare ad abbassare i toni perché bisogna iniziare a fare le cose concrete”. Destinatario del messaggio era, of course, l’allora alleato Matteo Salvini. Il quale Salvini a sua volta ha innovato in maniera crassa al ribasso il linguaggio politico, mirando dritto alle viscere esigenti del suo elettorato. È il 3 giugno del 2018, appena due giorni dopo il giuramento dei gialloverdi, che il neoministro dell’Interno gonfia la panza e annuncia la stagione della guerra ai migranti: “I regolari e gli onesti non hanno niente da temere, mentre per i clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valige”. Da quel momento in poi “la pacchia” è l’intercalare prediletto salviniano, al punto che “l’espressione entra a far parte del folklore verbale della politica italiana”, per usare le parole della Treccani citate da Colombo.

Indi i fatidici “pieni poteri” del 9 agosto 2019 a Pescara, nel delirio di onnipotenza scatenato dall’apertura della crisi di governo con la richiesta di elezioni anticipate. Per il “Capitano” (altro termine che figura nel dizionario) è l’ora delle decisioni irrevocabili e delle certezze granitiche: “Chiedo agli italiani se vogliono darmi pieni poteri per fare le cose come vanno fatte. Dobbiamo fare in maniera veloce, compatta, energica, coraggiosa quel che vogliamo fare. Non è più il momento dei no, dei forse, dei dubbi…”. Sembra un Fantozzi mussoliniano o, viceversa, un Duce fantozziano.

Per rimanere su un piano andante simile, ma semanticamente più violento, c’è pure l’altro Matteo, oggi scissionista italovivente. Ai tempi della sua farlocca e breve golden age, Renzi non usò solo il verbo “rottamare”, come arma per far fuori l’antica Ditta rossa di casa Pd. Sdoganò nella dialettica comune di Palazzo il più potente “asfaltare”. Per la serie: “Li asfaltiamo”, invettiva lanciata contro tutti, nemici interni ed esterni. I due Mattei, peraltro, condividono finanche la stessa espressione tuttora in auge nel tormentone migranti: “Aiutiamoli a casa loro”. L’ex segretario dem la vergò nel suo fondamentale tomo Avanti.

Ma la pietra angolare su cui oggi poggia il novello edificio della Terza Repubblica è la famigerata Casta, sempre con la C maiuscola per deprecare ancora di più privilegi e corruzione della cattiva politica. La Casta, “l’Alfa e l’Omega di tutti i mali della politica italiana”, chiosa Colombo. Ed è consolatorio, per certi versi, scoprire che uno dei primissimi ad adoperare il termine casta, stavolta con la minuscola, fu nientemeno che l’immaginifico Vate d’Italia, fautore di un sanguigno anti-parlamentarismo alla pari del suo emulo Benito Mussolini.

Scrisse Gabriele D’Annunzio nella Vedetta d’Italia del 21 settembre 1920, contro il moribondo regime liberale e giolittiano: “La casta politica che insudicia l’Italia da cinquant’anni non è capace se non di amministrare la sua propria immondizia… Basta! Questa parola noi la grideremo su la piazza di Montecitorio e su la piazza del Quirinale”. Al Colle, allora, c’è era il re, non un presidente. Dalla Casta all’urlo rabbioso che reclama onestà il passo è brevissimo. “Onestà-onestà-onestà” e “uno vale uno” sono le parole d’ordine scolpite sulla tavola della questione morale del Movimento 5 Stelle fondato da Beppe Grillo. Queste però sono cose arcinote, seppur in parte già diventate vintage.

Il lessico della fase crepuscolare dei partiti tradizionali ha poi rivalutato Antonio Gramsci, la migliore testa del comunismo italiano e morto nel 1937. Una sua definizione è talmente abusata che si è sentita persino sul palco del Festival di Sanremo. Quella della “connessione sentimentale”, cui si accosta spesso, soprattutto a sinistra, la parola “spezzata”. Per fare un esempio: “Si è spezzata la connessione sentimentale tra il Pd e il suo popolo”. Bene. “Ma cosa intendeva dire Gramsci”, si chiede giustamente l’autore di Piove governo ladro? Questo: “Secondo il filosofo comunista, l’intellettuale può pretendere di rappresentare il popolo solo quanto il rapporto è fondato su ‘un’adesione organica in il sentimento-passione diventa comprensione, quindi sapere’, scrive nel Quaderno XVIII dei Quaderni del Carcere”.

Continuando in rivisitazioni o scoperte. Sempre su Gramsci: non fu il primo a usare l’espressione “piove, governo ladro”, titolo di una sua famosa raccolta di articoli. Rivela Colombo, che poi a sua volta la riprende per il titolo del suo libro: “Ma chi la disse e perché? Si chiamava Casimiro Teja, visse a metà dell’Ottocento e fondò un giornale dal nome Il Pasquino. L’espressione veniva usata per prendere in giro i seguaci di Mazzini, sempre scontenti delle decisioni del governo sabaudo di turno”.

Ah, il governo. Volete sapere quante formule esistono nel nostro Paese per identificare un esecutivo? Ben quindici. Un elenco che impressiona e che Colombo assembla con meticolosa crudeltà. Ecco il campionario completo. Governo amico, copy Alcide De Gasperi. Governo balneare. Governo di coalizione, il Conte I e il Conte II. Governo di minoranza. Governo kamikaze, lo inventò nel 1987 il capo dello Stato dell’epoca, Francesco Cossiga: mandò l’esecutivo neonato di Amintore Fanfani a prendere la sfiducia in Parlamento per poi sciogliere le Camere. Governo della non sfiducia o delle astensioni, il primo passo del compromesso storico tra Dc e Pci. Governo di solidarietà nazionale, quando il Pci diede l’appoggio esterno. Governo del Presidente o istituzionale. Governo di larghe intese. Governo di unità nazionale o di emergenza. Governo di scopo. Governo politico. Governo tecnico. Governissimo. Governicchio. Il catalogo è questo. Per il momento.

Rio, la rivolta delle favelas: “Meno polizia, più istruzione”

Agatha aveva otto anni quando, a fine settembre, in una favela dei quartieri nord di Rio de Janeiro, è stata uccisa dalla polizia. Stando al racconto degli abitanti, un poliziotto avrebbe sparato contro una moto pensando di colpire un criminale, ma ha mancato il bersaglio e centrato il furgoncino dove si trovava Agatha. L’indagine, i cui risultati sono stati pubblicati il 19 novembre, due mesi dopo la morte della bambina, ha dato ragione agli abitanti: l’agente ha sparato un colpo di avvertimento per fermare due uomini in moto. Uno dei due aveva in mano il telaio di una finestra che l’agente avrebbe scambiato per un’arma. Il proiettile è rimbalzato su un palo della luce prima di colpire la bimba.

La rabbia degli abitanti del quartiere nord, il complexo do Alemão, era ancora palpabile una settimana dopo l’omicidio. Studenti e insegnanti delle tredici favelas del complexo hanno organizzato una manifestazione per denunciare la politica dello Stato che, secondo loro, privilegia il conflitto all’educazione. “Dall’inizio dell’anno, gli studenti hanno perso 71 giorni di scuola a causa di operazioni di polizia a Rio de Janeiro – ha spiegato un insegnante in testa al corteo –. Per quante volte ancora i nostri ragazzi, che hanno già subito tanti traumi, dovranno ancora gettarsi per terra durante le lezioni?”. Almeno 500 persone si sono radunate all’ingresso della favela da Grota per raggiungere la fazendinha, dove Agatha è stata uccisa. Dei palloncini gialli coloravano la folla, che cresceva a mano a mano che si faceva notte. Un corteo di moto–taxi chiudeva la manifestazione suonando i clacson in segno di solidarietà.

Thainã de Medeiros, del collettivo Papo Reto, che riunisce un gruppo di giornalisti originari del complexo do Alemão, ha trasmesso tutto in diretta col suo smartphone: “Non facciamo altro che mettere in guardia sulla situazione nel quartiere, ma nessuno ci ascolta! La città dovrebbe fermarsi ogni volta che un bambino muore. E invece nei quartieri sud di Rio la vita va avanti come se qui non fosse successo nulla. Non ce la facciamo più”. Thainã de Medeiros denuncia la politica sempre in vigore, anche se è sorpassata e se ha mostrato i suoi limiti in tutto il mondo. Una politica fondata su una logica di guerra che invia i suoi uomini sul luogo delle operazioni senza averli addestrati adeguatamente. “I poliziotti trattano gli abitanti come se fossero tutti dei nemici. Subito dopo la morte di Agatha, erano paranoici, erravano nel quartiere urlando e puntando le pistole contro chiunque”.

 

Cronisti e cittadini sfidano governo e forze dell’ordine

Ma la mobilitazione ha dato i suoi frutti: alcuni giorni dopo l’omicidio della bambina, alcuni deputati sono riusciti a far modificare il progetto di legge “anti–crimine”, che era stata una delle principali promesse, in campagna elettorale, del presidente brasiliano Bolsonaro. Alla fine il testo è stato adottato dall’Assemblea i primi di dicembre ma senza la sua parte più controversa, quella che avrebbe permesso di considerare legittima difesa la reazione “eccessiva” di un poliziotto dovuta a “paura, sorpresa o violenta emozione”. “È triste che un bambina debba morire perché una legge così assurda venga ritirata”, ci diceva Thainã, sospirando. La sua amarezza è comprensibile. Innanzi tutto perché il progetto del governo federale potrebbe tornare all’ordine del giorno in forma diversa. Ma soprattutto perché, appena una settimana dopo la morte di Agatha, il governatore di Rio, Wilson Witzel, che dirige la polizia militare e civile di Stato, ha promulgato un decreto con il quale ha soppresso il bonus salariale agli agenti il cui “tasso di letalità” è in calo.

Nel corteo del complexo, il principale avversario degli abitanti era dunque Wilson Witzel. I riferimenti a Bolsonaro, che ha rifiutato di commentare la morte di Agatha, erano rari. Un bambino di 10 anni portava lo striscione con la scritta: “Witzel, assassino e terrorista”. A maggio, il governatore si era persino filmato mentre partecipava ad un’operazione di polizia in elicottero: avevano fatto fuoco su un gruppo di evangelisti che pregava in una tenda pensando che si trattasse di una base di trafficanti di droga. Witzel, un ex giudice che era completamente sconosciuto prima delle elezioni del 2018, ha vinto cavalcando le idee di Bolsonaro.

 

L’allarme: si diffondono formazioni paramilitari

I due uomini non sono i primi ad aver messo in atto questo tipo di politica in Brasile, “ma ora è peggio di prima – ci ha detto Thainã -. La loro è una politica di sterminio, e la rivendicano. Qui ci sono sparatorie continue. In quei momenti si ferma tutto. Nel mio quartiere, una donna non è potuta uscire di casa per andare al suo matrimonio, un’altra non è potuta andare a partorire”. In mancanza di meglio, il bagno è spesso la stanza più sicura di casa. Per strada, in un bar o in un negozio, bisogna gettarsi per terra e aspettare che torni la calma. Tra gennaio e agosto 2019, la polizia di Rio de Janeiro ha ucciso 1.249 persone, un record. Secondo José Cláudio Souza Alves, specialista delle milizie all’UFRRJ, l’Università federale rurale di Rio, queste politiche favoriscono anche la diffusione di gruppi paramilitari composti da poliziotti e agenti di sicurezza. Questi gruppi, creati inizialmente per combattere i trafficanti, sono diventati delle organizzazioni criminali coinvolte in racket, omicidi e traffici di droga. Grazie alle politiche portate avanti dal presidente e dal governatore di Rio, i poliziotti corrotti possono sbarazzarsi più facilmente dei loro nemici senza temere procedure contro di loro. “Bolsonaro e Witzel cercano di ottenere il sostegno dei miliziani che controllano aeree elettorali enormi! I trafficanti muoiono o vanno in prigione, mentre i miliziani vengono eletti. Vedremo cosa succederà alle elezioni municipali dell’anno prossimo”. Nelle zone che sono sotto il controllo delle milizie la polizia interviene molto raramente, ha precisato il docente: “Nei quartieri ovest della città, la sola favela dove la polizia è intervenuta più volte nelle ultime settimane è la Città di Dio, la sola che è in mano ai trafficanti. Non è un caso”. Un procuratore intervenuto sul quotidiano Globo ha denunciato il fatto che gruppi di miliziani si siano infiltrati nella polizia e organizzino incursioni contro i trafficanti. Un mese prima della morte di Agatha, il governatore Witzel ha attaccato i “pseudo–difensori dei diritti umani” che “non consentono alla polizia di fare il suo lavoro” e sulle cui “coscienze pesano i cadaveri di innocenti”.

 

L’estrema destra in soccorso della pubblica sicurezza

Thainã de Medeiros e i suoi colleghi di Papo Reto sono i principali bersagli di questi attacchi. Reti di estrema destra molto efficaci appoggiano la “necropolitica” difesa dal presidente Bolsonaro e dal governatore Witzel. La giovane età di Agatha e il suo percorso scolastico esemplare non hanno permesso a queste reti di mettere in giro delle voci su di lei, di dire per esempio che era coinvolta nel traffico di droga, come spesso accade. I loro attacchi si sono quindi concentrati su chi chiede giustizia e si ritrova ora accusato di ricevere fondi dai trafficanti. Nella versione della polizia sulla morte di Agatha, gli agenti non hanno fatto altro che reagire a un provocazione dei trafficanti. Ma stando al conducente del furgoncino e agli abitanti del quartiere, quel giorno non c’erano stati scontri a fuoco. “Siamo in contatto con circa 600 persone sparse in tutto il complexo do Alemão, tramite dei gruppi su WhatsApp. Se c’è una sparatoria da qualche parte, lo sappiamo immediatamente. Ma la nostra versione è messa in discussione”, ha spiegato Thainã de Medeiros. Alla fine del corteo, mentre faceva già buio, delle madri in lutto per aver perso uno dei loro figli hanno preso una dopo l’altra il microfono. La gente, raccolta sul luogo dove Agatha è stata uccisa, le ha ascoltate con i pugni alzati. Le donne hanno chiesto ai favelados di “resistere per porre fine ai massacri”. Anche il nonno di Agatha ha preso la parola. Se non crede nella giustizia degli uomini, l’uomo si aggrappa alla giustizia divina. Nessuno dei cinque casi di bambini uccisi dall’inizio dell’anno è stato risolto.

 

Morte di una bimba: omertà e versione contrastanti

Nel caso di Agatha, l’inchiesta è partita male. Gli esperti balistici sostengono di non poter determinare l’origine del proiettile che ha colpito la bimba. Il principale testimone dell’omicidio ha dovuto lasciare il paese perché riceve delle minacce. La polizia ha tentato di fare pressione sui medici per recuperare il proiettile che ha ucciso la piccola. Sulle venti persone presenti sulla scena dell’omicidio, solo due hanno accettato di partecipare alla ricostruzione dei fatti organizzata il primo ottobre. A inizio dicembre, la procura di Rio de Janeiro ha comunque deciso di incriminare per omicidio il poliziotto che ha sparato. Il cammino fino alla condanna è però lungo e incerto. “Trovano sempre un modo per evitare la condanna”. Thainã de Medeiros non nutre alcuna speranza al riguardo: “Nel 2016, dopo la morte di Eduardo, 10 anni, era stato provato che il colpo era partito dall’arma del poliziotto, ma la giustizia aveva riconosciuto la legittima difesa. Nel 2015, un video ha persino mostrato degli agenti di polizia che modificavano la scena del crimine mettendo un’arma in mano a un uomo innocente che avevano appena ucciso, ma sono stati assolti”. Data la situazione, la priorità di Thainã e del collettivo è di sostenere la famiglia di Agatha.

Malgrado i primi risultati dell’inchiesta, per il momento non è previsto alcun processo. Il discorso del nonno di Agatha ha chiuso la manifestazione. Mentre la folla cominciava a disperdersi, uno degli organizzatori ha avvertito: “Rientrate in gruppo per evitare ritorsioni da parte dei poliziotti. Sono solo dei vigliacchi!”. Tutto intorno, una quindicina di agenti si erano riuniti per filmare i partecipanti. Alcuni sembravano divertirsi. “Witzel è un pericolo non solo per noi a Rio ma per l’intero Paese. Perché questa città è un laboratorio – ha detto Thainã de Medeiros –. Ciò che viene testato qui in genere viene poi messo in pratica nel resto del Brasile”.

(traduzione Luana De Micco)

Economisti si diventa (in una stanza d’albergo)

Fuori ci sono le palme, l’eterna primavera della California, le onde nella spiaggia di Coronado, una delle più’ famose di San Diego. Ma dentro lo sterminato hotel Marriott Marina il mondo esterno non entra, per tre giorni la metaforica torre d’avorio dalla quale gli economisti osservano il mondo diventa realtà. E, come ogni anno, in quella torre d’avorio si decidono destini e carriere nella versione accademica di una fiera campionaria. Gli aspiranti economisti li riconosci in coda all’ascensore: sono tesi e silenziosi, dopo quattro o cinque anni di dottorato i ragazzi si sono comprati una cravatta, le donne un tailleur, almeno per un giorno sono costretti a indossarli. L’accademia americana e i dipartimenti di economia in particolare hanno un loro codice di abbigliamento: le grisaglie sono bandite, prevalgono t-shirt o al massimo camiciole, più un professore e’ importante, meno deve sembrarlo. Premi Nobel come Richard Thaler, a Chicago, indossano soltanto jeans e felpe con la zip. Ma una volta all’anno, alla convention dell’American Economic Association, quella patina di egualitarismo svanisce, gerarchi e potere si palesano nel modo più’ tradizionale. C’è’ chi decide e chi aspetta le decisioni altrui.

Gianluca Russo, 30 anni, di Ostia, una laurea a Tor Vergata e un dottorato ormai concluso alla Boston University, e’ uno dei giovani economisti in fila all’ascensore. Ha passato gli ultimi mesi a mandare candidature a tutti i principali dipartimenti di economia delle universita’ di tutto il mondo: 250 candidature. Dopo aver partecipato al job market delle universita’ europee a novembre a Rotterdam, a San Diego gli toccano le interviste con quelle che hanno risposto, più alcune delle grandi società’ di consulenza economica che negli Stati Uniti si contendono gli studenti di dottorato, cui promettono stipendi allettanti, oltre 200.000 dollari per cominciare, nel tentativo di strapparli al prestigio dell’accademia. “Mi sono preparato abbastanza? Ho fatto tutto quello potevo?”, si chiede mentre aspetta l’ascensore che lo porterà’ alle interviste, circondato da una schiera di cinesi, concorrenti temuti perché fortissimi nelle competenze matematiche che sono al cuore della ricerca economica. Chi passa il primo colloquio, dovrà’ poi affrontare un’altra prova: il flyout, cioè un’altra intervista con l’intero dipartimento da cui vorrebbe essere assunto, presso la sede dell’università. I migliori diventeranno assistant professor.

La competizione tra economisti e’ diventata spietata: dopo la laurea, negli Stati Uniti il dottorato prevede due anni di esami, poi almeno altri due di ricerca. I professori consigliano spesso agli studenti di prendersene almeno uno extra, per arrivare sul “mercato” con lavori più’ completi da proporre ed essere dunque più’ competitivi. A differenza che per i laureati, contano solo le pubblicazioni, non il tempo impiegato per concludere il dottorato. Per mesi o anni i giovani economisti compiono un estenuante pellegrinaggio intellettuale tra seminari e conferenze, da un’università’ all’altra. Presentano il loro progetto, lo affinano, recepiscono obiezioni, aggiustano la metodologia in base alle critiche. L’obiettivo e’ arrivare a San Diego con un lavoro inattaccabile. Gianluca Russo, per esempio, ha studiato come la diffusione della radio negli Stati Uniti ha condizionato la scelta dei nomi che le famiglie assegnano ai figli, a dimostrazione della capacità pervasive dei mass media di condizionare perfino i comportamenti più privati degli utenti ben prima dei social network. Anni di lavoro vanno condensati in una presentazione di dieci-quindici minuti, senza neanche le slide che di solito accompagnano gli accademici in ogni intervento pubblico.

Tradizione e logistica impongono che i colloqui di lavoro si tengano nelle stanze di albergo: e’ l’unico modo per consentire alle università’ di testare decine di candidati in tre giorni e a questi ultimi di passare da un potenziale datore di lavoro all’altro in pochi minuti. E neppure strutture enormi come il Marriott di San Diego hanno abbastanza sale riunioni per ospitare centinaia di università e migliaia di candidati. C’è chi trova gradevole il clima informale che si crea, con intervistatori e intervistati che si siedono sul letto o si fanno spazio tra sedie e comodini. Altri trovano l’esperienza sgradevole perche’ costringe a un grado di intimità’ molto superiore a quello dei normali colloqui di lavoro. Specie per le donne, non e’ piacevole trovarsi chiuse in una stanza d’albergo con esaminatori uomini in una posizione di potere.

Nella stagione del MeToo, anche in un ambiente molto maschile e maschilista come quello degli economisti comincia a diffondersi – lentamente – una sensibilità’ per le questioni di genere Jennifer Doleac, economista della Texas A&M University, ha usato il seguitissimo hashtag #econtwitter per dare visibilità’ ai paper delle candidate donne, in vista della convention di San Diego: tutta la (ancora poca) ricerca in material dimostra che le aspiranti economiste donne vengono penalizzate durante gli anni del dottorato, con più critiche e domande ostili ai seminari rispetto ai colleghi uomini, nelle interviste per trovare lavoro e nella pubblicazione degli articoli sulle riviste accademiche. Ma almeno sugli aspetti cosmetici che non intaccano le gerarchie l’American Economic Association si dimostra molto progressista: e’ possibile integrare il badge dell’evento con la bandiera arcobaleno dei diritti LGBT o con il pronome di riferimento (qualcuno che per l’anagrafe e’ uomo, può preferire l’uso di “lei/sua” per indicare un’identità di genere femminile, prassi ormai diffusa nel mondo del lavoro Usa).

Non tutti a San Diego cercano lavoro. L’evento annuale dell’associazione raccoglie 13.000 partecipanti, 3000 economisti presentano i propri paper più’ recenti in oltre 550 eventi, spesso in contemporanea. E’ l’occasione per capire in che direzione si muove l’accademia. Il pranzo con i premi Nobel, per esempio, e’ stato dedicato a William Nordhaus (Nobel 2018) e come gli economisti studiano i cambiamenti climatici. La Clark Medal, il prestigioso premio per gli economisti under 40, e’ andato a una donna, Emi Nakamura dell’Università di Berkeley: e’ soltanto la quarta volta nella storia. Qua e là’ si intravedono dibattiti un tempo impensabili: Dani Rodrik di Harvard e Suresh Naidu di Columbia discutono di cosa c’e’ dopo il neoliberismo, Ted Miguel e l’italiano Stefano Della Vigna, entrambi a Berkeley, studiano come gli economisti tendano pubblicare soltanto i risultati che confermano la loro ipotesi di ricerca. I dottorandi che nei tre giorni di San Diego hanno mosso il primo passo nel mondo del lavoro accademico si confronteranno con un ambiente molto diverso da quello in cui hanno fatto carriera i loro professori.