Soleimani, il terrorista dei tre mondi: contro gli ebrei in Asia, Ue e Americhe

Una marea di iraniani ha partecipato alla sepoltura di ciò che è rimasto del corpo appartenuto al Generale Qassem Soleimani. Come si è visto dal video e immagini dell’Huffington Post dell’attentato americano contro il capo supremo dei Pasdaran, i droni americani hanno di fatto incenerito lui e la sua scorta.

Nella sua carriera terroristica Soleimani non aveva architettato attacchi solo all’interno dei confini di Israele, ma anche contro i membri della diaspora ebraica. Soleimani per colpire gli ebrei sudamericani si è servito di un’altra diaspora: quella libanese. Sono molti gli uomini libanesi di religione musulmana sciita che hanno scalato la piramide politica e sociale di molti paesi del Centro e Sud America. Alcuni di questi politici e uomini d’affari centro e sudamericani di origini libanesi sono stati negli anni assoldati dal partito armato sciita libanese Hezbollah creato e finanziato dai Pasdaran iraniani. Le recenti inchieste dei siti di giornalismo investigativo Politico e Mediapart hanno ricostruito la rete capillare di agenti di Hezbollah nel continente sudamericano che fanno affari con i narcos dei tanti cartelli. Il potere d’offesa e di corruzione dei Pasdaran e dunque di Hezbollah è risultato eclatante in Venezuela ed Argentina. Nel 2017 a Buenos Aires è stata riaperta l’inchiesta sulla morte del procuratore di religione ebraica Alberto Nisman che nel 2015 fu trovato morto per un colpo di arma da fuoco. La tesi del suicidio, dopo essere stata data per buona, è stata archiviata e si sta di nuovo indagando.

Qualche giorno prima di venire ucciso, Nisman aveva avanzato nei confronti dell’allora presidente della Repubblica Cristina Kirchner ( oggi neo vice presidente ) il sospetto di aver cospirato per insabbiare l’indagine che lo stesso Nisman stava effettuando circa il presunto coinvolgimento dell’Iran, attraverso gli agenti locali di Hezbollah, nell’attentato del 1994 contro un centro ebraico nella capitale argentina.

L’esplosione provocò la morte di 85 persone. La morte di Nisman avvenne proprio il giorno prima della testimonianza in aula del giudice di fronte alla commissione parlamentare, così l’inchiesta si fermò. Ma un dato è certo, ed è il perno della nuova inchiesta per omicidio. L’allora presidenta Cristina chiese al ministro degli Esteri Hector Timerman e ad altri funzionari di attivarsi per trovare una qualche forma di immunità per alcune persone di origini iraniane sospettate per l’attacco, sperando in questo modo di migliorare i rapporti diplomatici e commerciali con l’Iran allo scopo di acquistare petrolio a basso prezzo, ha scritto Il Post nella ricostruzione del caso. Cristina era molto legata al presidente del Venezuela Chavez e ora a Maduro e al suo collega di partito, nonchè ex ministro e vice presidente Tareck el-Aissami, accusato di terrorismo e riciclaggio dalla magistratura americana . C’è un altro episodio che riguarda l’attività di Soleimani e che passa dall’America Latina. Per fortuna l’attentato in questo caso fu sventato.

Nel 2011 una bomba era stata piazzata tra i tavoli del caffè Milano di Washington per uccidere l’ambasciatore saudita Adel Al Jubeir In seguito a questo fatto, Soleimani finì nella lista nera americana dei terroristi. Il protagonista di questa spy story è Mansour Arbabsiar, cittadino americano di origine iraniana, cugino di Abdul Reza Shahlai, un alto ufficiale della forza Al Quds delle Guardie della Rivoluzione guidata da Soleimani. Per questo fu scelto per ingaggiare un attentatore.

Dato che abitava a Corpus Christi, al confine con il Messico, Arbabsiar pensò di rivolgersi ad un narcotrafficante messicano. Il narcotrafficante era però un infiltrato della Dea, l’agenzia americana antidroga. Arbabsiar, che si dichiarò colpevole, fu condannato a 25 anni di carcere. Gli iraniani, ovviamente, negarono tutto, parlando di “propaganda americana”.

E l’Italia si inchioda: i nostri militari restano lì con gli Usa

La legge approvata a Baghdad non viene recepita da Bruxelles, dove oggi il segretario generale della Nato, Jens Stoltenbberg ha convocato nel pomeriggio una riunione dei 29 ambasciatori del Consiglio Nord Atlantico per consultazioni sulle tensioni in Medio Oriente. A niente è valso dunque che il Parlamento iracheno abbia votato ieri la richiesta al proprio governo di bandire la presenza delle truppe americane e straniere nel Paese. Non solo perché a spingere per la risoluzione è stato un premier ormai dimissionario, Adel Abdel Mahdi, appoggiato soltanto dai parlamentari sciiti con l’astensione dei curdi spinti dal sentimento nazionalista dopo l’uccisione di Soleimani, ma soprattutto perché sono gli Usa a non aver nessuna intenzione di ritirare le truppe, anzi, di aumentarle.

L’America – che in Iraq ha 5 mila uomini e 35 basi – ha previsto di inviare altre 3500 unità. Da qui, l’indicazione implicita agli alleati a non muoversi. Per ora, infatti, la Nato, Italia compresa, ha deciso sabato soltanto di sospendere temporaneamente le missioni di addestramento in Iraq, quelle partite nel 2018 per formare le forze irachene su richiesta proprio del governo di Baghdad, nell’ambito della lotta all’Isis. Ed è questa assistenza, formalizzata nel lontano 2014, che ora Baghdad vuole ritirare. “La nostra priorità è proteggere tutto il personale della coalizione impegnato per la sconfitta di Daesh. Ripetuti attacchi con razzi negli ultimi due mesi da parte di elementi delle Brigate Hezbollah hanno causato la morte di due membri del personale delle forze di sicurezza irachene e di un civile statunitense”, ha chiarito la Nato in una nota.

“Per quanto riguarda la missione in Iraq sarà la coalizione, con tutti i suoi componenti, a determinarne gli sviluppi, nel quadro dei contatti sempre frequenti fra gli Stati Maggiori della Difesa dei Paesi Membri che ad oggi ha portato alla sospensione temporanea delle attività addestrative”, fa sapere in serata il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini. Mentre il collega della Farnesina, Luigi Di Maio, assicura che “in queste ore insieme al ministero della Difesa siamo al lavoro per garantire la sicurezza dei nostri soldati e scongiurare una ulteriore escalation, senza clamori, senza slogan e senza iniziative improvvisate. Ai nostri uomini e donne in uniforme va il mio augurio di buon lavoro e la nostra vicinanza come Governo”. L’Italia, che in Iraq ha 926 soldati, è uno dei paesi più esposti dopo il raid Usa. Nelle ultime ore poi, le polemiche circa la missione italiana a Baghdad erano state condite dai sospetti sollevati da alcuni parlamentari che il drone che ha bombardato l’aeroporto della capitale irachena e colpito il convoglio sul quale viaggiava il generale iraniano Soleimani, fosse partito dalle basi Nato italiane. “È assolutamente falso”, risponde il ministro degli Esteri Di Maio su Facebook, facendo eco al titolare delle Forza armate in una nota aveva chiarito smentito “categoricamente anche alla luce delle ottime relazioni e contatti con la controparte militare americana presente sul territorio italiano”. La polemica era partita dalla decisione americana di preallertare le proprie truppe di stanza a Vicenza che potrebbero essere dispiegate in Libano a difesa dell’ambasciata Usa a Beirut, nel timore di rappresaglie. A questo si erano aggiunti timori sul ruolo delle basi come Signonella che operano nel Mediterraneo. Sui movimenti italiani e sul ruolo italiano in Medio Oriente – anche alla luce della mancata telefonata di Trump a Di Maio – diversi parlamentari hanno chiesto al ministro Di Maio di riferire in Parlamento.

Il Parlamento iracheno: “Via i soldati occidentali”

Il Parlamento di Baghdad intima al governo di cacciare la coalizione internazionale anti-Isis a guida Usa, che opera in Iraq dal 2014 su richiesta delle autorità irachene. Domani, il Consiglio atlantico si riunirà a Bruxelles, a livello di ambasciatori, per valutare la situazione e il da farsi. Da Teheran, invece, arriva l’annuncio che l’Iran non si sente più vincolato dall’accordo sul nucleare concluso nel 2015 con Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Germania e l’Ue e denunciato unilateralmente dagli Usa nel 2018, reintroducendo le sanzioni anti-iraniane. Una decisione gravida di conseguenze: Teheran non si considera più limitata nell’arricchimento dell’uranio e nel numero delle centrifughe. L’uccisione, nella notte tra giovedì e venerdì, del generale iraniano Qasim Soleimani, che Trump si sta traducendo in un indebolimento dell’azione contro l’Isis, alla cui sconfitta le milizie di Soleimani avevano dato in Iraq un contributo pesante. I rapporti tra Baghdad e Washington non sono mai stati così cattivi dal rovesciamento di Saddam Hussein e dall’insediamento, nel 2003, di un nuovo regime. In serata almeno due razzi arrivano sull’ambasciata americana a Baghdad. Al momento ci sono 5.200 militari americani sul suolo iracheno, più forze di altri Paesi, fra cui l’Italia, membri della coalizione. “Il Parlamento ha votato perché il governo revochi la richiesta d’aiuto contro l’Isis alla coalizione internazionale”, ha annunciato il presidente dell’Assemblea Mohammed Halbusi. Poco prima, il capo del movimento sciita libanese Hezbollah, Seyed Hassan Nasrallah, aveva chiesto all’Iraq di liberarsi “dall’occupazione”. L’Iraq ha anche denunciato all’Onu “gli attacchi americani” sul proprio territorio e ha contestato agli Usa di avere violato la sua sovranità. Secondo il NYT, Trump, ordinando di eliminare Soleimani, ha scelto l’opzione più estrema fra quelle prospettategli. Fonti di stampa ipotizzano che il generale sia stato attirato in una trappola.

Sul terreno, le mosse Usa sono difensive. Il Dipartimento Usa per la sicurezza ha fatto un briefing per aggiornare Amministrazioni e imprese – infrastrutture, trasporti, energia, tlc, banche e finanza – sui rischi di un’ondata di cyber-attacchi da parte dell’Iran. Ma le parole di Trump restano aggressive. Lo showman divenuto presidente si affida a raffiche di tweet: se l’Iran colpisce cittadini americani o beni americani, gli Usa reagiranno molto duramente e hanno già individuato 52 siti, 52 come gli ostaggi presi dall’Iran nell’ambasciata Usa nel 1979. Vi sono in lista obiettivi di “livello molto elevato e importanti per l’Iran e per la cultura iraniana”. Di fronte a un presidente che minaccia di compiere azioni contro patrimoni dell’umanità, proprio come i talebani in Afghanistan o l’Isis a Palmira, il segretario di Stato Mike Pompeo assicura che “ogni azione militare contro l’Iran sarà in linea con il diritto internazionale”, senza forse rendersi conto del carattere paradossale delle sue affermazioni, dopo l’assassinio del generale Soleimani, un atto al di fuori di ogni legalità internazionale. Le minacce di Trump fanno ripartire l’escalation. In un’intervista alla Cnn, Houssein Dehghan, consigliere militare dell’ayatollah Ali Khamenei dice: “Trump è un gangster e un giocatore d’azzardo, non conosce le leggi internazionali. La risposta sarà militare e contro siti militari”. Sul fronte diplomatico, c’è stata una telefonata fra i ministri degli esteri di Russia e Cina; il “ministro degli Esteri” europeo Borrell ha chiamato l’iraniano Zarif, chiedendogli moderazione e invitandolo a Bruxelles. Londra schiera la marina militare a protezione dello Stretto di Hormuz mentre Macron solidarizza con Trump.

Ma mi faccia il piacere

Omo de panza. “Chi vuole chiudere Il Foglio sappia che noi difenderemo questa voce libera dell’informazione come abbiamo difeso Radio Radicale. Pancia a terra, tutti insieme, Il Foglio deve vivere” (Matteo Renzi, senatore Idv, Facebook, 23.12). La pancia ce la mette lui, i soldi invece noi.

Folio Folio. “Il Foglio è fondamentale” (Checco Zalone, Il Foglio, 28.12). E poi dicono che non fa più ridere.

L’alibi di ferro. “Ecco la memoria che scagiona Salvini” (Libero, 4.1). L’ha scritta Salvini.

Massimo riserbo. “’Più rispetto per Gaia e Camilla. É una tragedia, non una fiction’. Giulia Bongiorno, avvocata di una delle vittime: la caccia alle novità è morbosa. Non è un videogioco. Ci sono due ragazze morte, due ragazze in carne ed ossa, e quattro genitori che, di fronte a quello che sta succedendo, ogni giorno sentono amplificare il proprio dolore” (Giulia Bongiorno, senatrice Lega e legale della famiglia di Gaia Von Freymann, Corriere della sera, 30.12). E’ per questo che la sen. avv. Bongiorno, più che mai schiva e restia ai riflettori, ha concesso un’intera pagina di intervista al Corriere: per non amplificare.

Nanoparticelle. “Per noi no problem, quello tra Di Maio e Zingaretti è stato un incontro bilaterale, non un appuntamento di maggioranza. Evidentemente ne avevano bisogno per problemi interni o per bisogno di visibilità” (Ettore Rosato, coordinatore di Italia Viva, 4.1). Ha parlato l’invisibile.

Non c’è Paragone. “Sono stato espulso dal nulla… C’era una volta il 33%” (Gianluigi Paragone, senatore ex M5S, Facebook, 2.1). Il 4 marzo 2018, mentre il Nulla portava i 5Stelle al 32,7%, Paragone nel suo collegio uninominale di Varese totalizzava il 22.9, doppiato dal leghista Stefano Candiani (49%), e si salvava col ripescaggio nel proporzionale. Lui il 33% non l’ha mai visto neppure in cartolina.

Mangino brioche. “Renzi si gode le vacanze di Natale sulle piste di Cortina” (Dagospia, 27.12). “Renzi: il reddito di cittadinanza va cancellato” (La Stampa, 31.12). Se ne parlava giusto qui a Cortina con la contessa Pia Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare.

Dovere di cronaca. “Non ho potuto partecipare alla presentazione del nuovo libro di Sebi Arena, Piazza Armerina” (Adriano Sofri, Il Foglio, 2.1). E adesso, come facciamo?

Povero martire. “Nel carcere, quello coi muri e le sbarre, sono stato nove (9) anni e altri anni detenuto fuori” (Sofri, Il Foglio, 27.12). A dire il vero, tra custodia cautelare (5 settimane) ed espiazione della pena (8 anni e 5 mesi), Sofri in carcere ha scontato 8 anni e mezzo. Calcolando che era stato condannato a 22 anni come “detenuto dentro” per l’omicidio volontario del commissario Luigi Calabresi, non ci sono dubbi: è un perseguitato.

Il Ponte di Messina. “La singolare insistenza con cui Luigi Di Maio pretende ogni giorno che il governo tolga ora, di corsa e per decreto le autostrade ai Benetton fa sorgere il legittimo dubbio che Casaleggio stia aprendo un casello privato, uscita Milano-Rousseau” (Sebastiano Messina, Repubblica, 30.12). La singolare insistenza con cui Repubblica pretende ogni giorno che il governo lasci le autostrade ai Benetton fa sorgere il legittimo dubbio che Repubblica avesse fino a 11 mesi fa il suo amministratore delegato Monica Mondardini nel Cda di Atlantia e prima presidente di Aeroporti di Roma, che faccia soldi a palate con le pubblicità di Benetton e che la sua festa Rep Idee fosse sponsorizzata da Autostrade per l’Italia.

Colpa di Virginia. “Quei troppi morti sulle strade e il silenzio del Campidoglio” (Corriere della sera-Roma, 27.12). Ora che l’hanno sgamata, alla Raggi non resta che rompere il silenzio e confessare: li ha arrotati tutti lei.

Il titolo della settimana/1. “Con le sardine nuotano amanti della svastica… I ‘pesciolini’ neri che esigono la cittadinanza e quell’islamica che viene dalla Palestina dove sbandierano simboli nazi” (Silvana De Mari, La Verità, 28.12). Uahahahahahah.

Il titolo della settimana/2. “Corso Francia sotto inchiesta” (Corriere della sera-Roma, 28.12). Presto gli interrogatori dei semafori e dei lampioni.

Il titolo della settimana/3. “Il messaggio di Mattarella, la svolta pop” (Mario Ajello, Il Messaggero, 2.1). Uahahahahahah.

Il titolo della settimana/4. “Via la prescrizione, ingiustizia è fatta: ora l’Italia non è più un Paese civile” (Pietro Senaldi, Libero, 2.1). Come tutto il resto d’Europa. Resiste la Grecia.

“Caro Miró, dipingi e apri il fuoco: il pubblico americano è esigente”

C’è moltissima arte, e amicizia, e ancora paura di fallire, e sogni, e guerra, e ovviamente denaro nella corrispondenza privata tra il grande artista Joan Miró e Pierre Matisse (figlio di Henri), suo mercante negli Stati Uniti, pubblicata da pochissimo dall’editore francese L’Atelier contemporain nel prezioso volume Ouvrir le feu. Correspondance croisée, 1933-1983. Prezioso innanzitutto perché rivaluta uno dei ruoli spesso più bistrattati e obliati nel mondo dell’arte – cruciale quanto il gallerista o il conservatore, e come il curatore o il direttore di un museo –, il mercante d’arte, reo malgré soi di macchiare con il termine “mercante”, che subito fa riecheggiare il vile danaro, la nobiltà della creazione.

Pierre Matisse (1990-1989) fu un mercante newyorkese di chiara fama, cui si deve il successo in America di Giacometti, Dubuffet, Chagall, Balthus tra gli altri, e anche un importante gallerista, ma soprattutto, scopriamo grazie a questo carteggio inedito, uno degli amici più cari di Miró. Tra loro non c’è soltanto un legame contrattuale. I due scrivono in francese, la loro lingua franca: l’artista catalano inizia sempre le sue missive con “Mon cher ami” (Mio caro amico) e il suo mercante gli risponde sempre con “Mon cher Miró”. Di lui si fida perché “come figlio di un grande pittore, sa meglio di me cosa rappresenta la vita di un artista, essendo stato testimone delle iniziali lotte e difficoltà e più tardi del formidabile successo”.

Ogni lettera è innanzitutto uno spioncino privilegiato sull’atelier di Miró: Joan riferisce dettagliatamente su cosa sta lavorando. Il 29 aprile del 1934, mentre stanno prendendo accordi perché Pierre (che gli verserà per il primo anno 2000 franchi al mese) lo rappresenti in America, l’artista scrive: “Sto preparando per questa estate una serie di grandi gouache e una serie molto importante di dipinti in formato 30 x 40. Per fine anno, acquerelli e disegni a china”. Da par suo, Pierre si impegna al massimo per riuscire a organizzare una grande esposizione l’anno a venire. Ma il pubblico americano è esigente così gli consiglia di “Ouvrir le feu” (aprire il fuoco), di scatenarsi, dare il massimo.

Non tutti i progetti, tuttavia, andranno in porto. Come il grande murale che Miró avrebbe dovuto realizzare per la sede dell’Onu a Parigi – di cui resta solo il bozzetto – e una grande scultura da posizionare dentro il kindergarten di Central Park: Miró realizzò una figura femminile dall’enorme vagina (simbolo di maternità) ritenuta poi inappropriata, e infine esposta all’Hirishhorn Museum di Washington. Ma le lettere sono anche uno spaccato sull’uomo Miró, sulla paura e le speranze durante la Guerra civile spagnola e la Seconda guerra mondiale. L’artista si trasferisce con la moglie e la figlia dapprima a Parigi e confessa a Pierre: “Stiamo vivendo un orribile dramma, che lascerà una profonda ferita nella mia mente”; poi si nasconderà a Majorca, speranzoso che tutto finisca: “Sono convinto che alla fine riusciremo a schiacciare il mostro fascista”. Chissà quanto dovremo aspettare affinché questo epistolario tanto pulsante da essere vivo, e che offre di Miró un ritratto così originale, venga pubblicato da un editore italiano.

Da Apollo a Buddha a Maometto, “Vivere con gli dèi” rende umani

Siamo appena riemersi da un calderone di miti: un albero pagano che viene dalla Germania o un presepe di ambientazione palestinese sotto un cielo solcato da renne artiche che trasportano un santo turco (barese dal 1089) passato per l’Olanda e New York. Il sacro pop, globalizzato, riproducibile e sincretico è l’evoluzione di cosmogonie, storie e credenze che hanno modellato la vita delle comunità umane. Neil MacGregor, direttore del British Museum fino al 2015 e ideatore di una serie radiofonica della Bbc in 30 puntate sul tema del sacro, nel poderoso Vivere con gli dèi (Adelphi) tenta di radunare il divino smembrato, spolpato (come Dioniso) e disseminato nel mondo dalle civiltà umane fino alla nostra.

Tra le tante contenute in questa avvincente enciclopedia, colpiscono due immagini allegoriche: una xilografia olandese del 1500 che ritrae Cristo crocifisso, col sangue che letteralmente gli piove dalle ferite del costato e delle mani, incorniciata con un incongruo bordo di rose, garofani e fragole; e una scultura di scisto grigio del terzo secolo d.C. che raffigura il Buddha seduto, sereno, vestito con drappeggi di derivazione greco-romana, gli occhi semichiusi e le mani impegnate nel mudra della ruota. Due figure agli antipodi che rispondono allo stesso bisogno e per MacGregor hanno in definitiva lo stesso scopo: favorire la nostra metamorfosi e offrire un conforto dalla paura, lo stesso conforto che promettono le Scritture all’essere umano gettato come un agnello in mezzo ai lupi.

Come il torso dell’Apollo del Belvedere diceva al poeta Rainer Maria Rilke: “Devi cambiare la tua vita”, queste figure inducono lo spirito violentemente, come il Cristo che piove sangue, o dolcemente, come il Buddha illuminato seduto nella pietra, alla metamorfosi e alla saggezza. Vesti sacre e liturgiche, luoghi di pellegrinaggio, icone, oggetti rituali, miti e credenze popolari, testimonianze di modi di seppellire o bruciare i morti, avanzi di sacrifici (riti in cui si distrugge qualcosa di molto prezioso nella speranza di propiziare un potere superiore): l’apparato iconografico del saggio è imponente e ben confezionato, in un modo forse un po’ troppo patinato, cifra del resto di molte mostre contemporanee. Ma è difficile resistere al fascino delle immagini, che forse, per noi individui secolarizzati, è feticismo delle merci.

Una parte speciale è dedicata alla preghiera, questo riuscitissimo format poetico che mischia solipsismo, comunitarismo (il Padre è “nostro”, non “mio”) e pensiero magico. La contemplazione delle sofferenze di Cristo, la salat islamica e la meditazione o “colutra della mente” sulla via dello Zen (per cui si rimanda al bellissimo saggio L’insegnamento del Buddha di Walpola Rahula, appena uscito per Adelphi) hanno la medesima radice: l’interrogazione del proprio destino; infatti si avvalgono anche delle stesse tecniche, come l’uso dei grani per la preghiera nell’islam, nel buddismo e nel cristianesimo.

In virtù di questo MacGregor auspica un riavvicinamento ecumenico di tutte le religioni e le filosofie di elevazione spirituale, sulla base del principio che l’invenzione del sacro ha come fine il progresso dell’essere umano verso il bene. È vero che le religioni adamitiche condividono trame, personaggi, parabole e persino luoghi: alcune sinagoghe sono diventati chiese (la Cattedrale di Cordova) e alcuni templi moschee (il Duomo di Siracusa). È il motivo per cui la distruzione di Palmira ad opera dello Stato Islamico non è il trionfo di un modo integralista di intendere la religione, ma la distruzione di ogni religione, se l’etimologia di religio è “ciò che lega gli uomini agli dèi”, come credeva Lucrezio, e gli uomini tra loro, come vuole il cristianesimo.

Ma le guerre religiose non nascono certo con l’Isis, e MacGregor dimentica di sottolineare abbastanza l’aspetto terribile del divino. L’autore ricorda che quasi tutte le etnie del mondo credono che in mezzo a noi vivano numerosi esseri capaci di confortarci: angeli, fate, elfi, folletti, trickster, santi, spiriti guida. In Thailandia ad esempio ci sono casette per gli spiriti negli aeroporti, nei centri commerciali e agli incroci pericolosi delle strade. Di qualche rilevanza, tuttavia, è che quando c’è un incidente o un disastro aereo i primi sospettati sono proprio gli spiriti.

“Le notti con Renato e le risse di Teo. ‘La gallina’? Mai capita”

Alla classica agitazione, magari ansia da prestazione (attoriale), all’immancabile reflusso gastrico, alle scaramanzie, alle cene dove è opportuno presenziare, ai dati di ascolto o di botteghino, Cochi Ponzoni risponde stupito: “Non ho mai un incubo. Mia moglie sostiene che ogni tanto la notte scoppio a ridere; spesso anche i miei sogni sono umoristici”. Quindi riflette, prima con gli occhi, poi con la testa, e continua: “Mi sono veramente divertito”.

E così la vita (l’è bela) del 78enne Cochi è come una perenne parte ragionata di un copione cesellato oltre le sue aspettative, quasi da diventare una commedia in stile hollywoodiano: l’amico d’infanzia è ancora tale (Renato Pozzetto), poi il gruppetto del bar composto dal gotha dell’intellighenzia milanese (Lucio Fontana, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi e Piero Manzoni); alcuni “maestri” niente male (Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo) e alla fine “ho realizzato esattamente la carriera che desideravo”.

Aggiungiamo: dopo cinquanta e passa anni di palco, televisione e cinema, il duo Cochi e Renato resta sinonimo di avanguardia della risata, di sperimentazione, di surrealismo non ancora superato, tanto da dedicargli studi, puntate sulla Rai (benedetto Techetechetè), libri, l’ultimo dei quali è La biografia intelligente (di Andrea Ciaffaroni e Sandro Paté per Sagoma editore), nel quale oltre a parlare con i due protagonisti, si dà voce agli amici e ai colleghi del periodo.

Senza ansia, è una rarità.

Sempre stato un incosciente, non ho mai subito particolarmente le difficoltà; eppure l’esordio è arrivato prestissimo: già a 14 anni mi esibivo all’oratorio con canzoni popolari, alcune anarcoidi.

E andava per locali…

Quello poco dopo: a 16 anni uscivo la sera con Renato; noi due avevamo molta libertà di movimento, forse troppa, tornavamo a casa tardissimo, e solo ogni tanto ho preso qualche cazzotto da mia madre. Ma veramente ogni tanto, perché non si preoccupava, infatti è morta a 101 anni (riflette). E così ho conosciuto sia Gaber che Jannacci.

Gaber era il suo insegnante di chitarra.

Esatto, ed è stato proprio Giorgio a presentarmi Enzo: una sera entro in un locale e lo trovo avvolto dal suo pianoforte. Appena l’ho sentito cantare, me ne sono innamorato, le sue parole arrivavano da un’altra dimensione personale, culturale e morale.

Addirittura.

Enzo è stato un punto di riferimento, ci ha regalato la sua amicizia e ci ha insegnato la disciplina; e poi ci passava dei testi importanti da leggere come Mrozek, Ionesco o gli autori russi.

Scuola di vita.

All’inizio teneva anche i contatti per noi, ci aiutava nella produzione e senza mai interessarsi a un ritorno economico. Era solo per amicizia. Ed è grazie a lui se siamo riusciti a firmare per la Rca, a Roma.

Allora, una potenza.

Ricordo un appuntamento proprio a Roma, e dai discografici: Enzo porta Vengo anch’io, no tu no, e noi La gallina. Entrambi i brani li ascolta un celebre conduttore radiofonico e resta totalmente inorridito.

E…

Organizzano una riunione con tutti i dirigenti, e lì Enzo parte con un monologo di dieci minuti, un monologo completamente incomprensibile, una sorta di supercazzola in stile Amici miei, dove ogni tanto si comprendeva un vocabolo, solo uno, fino a concludere il tutto con un moto d’imperio: “Per noi va bene così”. Discorso chiuso.

Aveva ragione Jannacci.

Eccome, poi si sono tramutati in due grandi successi anche se ancora oggi né io né Renato abbiamo capito del perché La gallina è così amata (cambia tono). Davvero, Enzo ci seguiva solo per amore, una volta ho sentito una telefonata paradossale, nella quale rifiutava un paio di ingaggi importanti e solo “perché devo stare con Cochi e Renato”.

Anche Jannacci partecipava alle vostre prime esibizioni al bar?

Era un ambiente multicolore: c’era quello di passaggio, quello stabile, il gruppo di amici, amici improvvisati, e lì si creava inconsapevolmente e altrettanto inconsapevolmente acquisivamo i primi rudimenti di un mestiere, fino a quando ci hanno consigliato di riproporre su un palco vero le scenette che improvvisavamo tra quei tavolini.

Vi interessava la politica?

In quegli anni tutto era politica (ride). Comunque allora potevi cadere in qualunque situazione: ci ingaggiano per una serata ad Arezzo, era di lunedì, quindi giorno di pausa, e con un buon cachet. Ci ritroviamo sul palco di un circolo culturale, io e Renato iniziamo, ma neanche una risata. Gelo in sala. Tocca a Jannacci che intona Il primo furto non si scorda mai, in cui c’è una strofa che recita “quel tacchino micidiale era un’aquila imperiale”, con chiaro riferimento ironico al fascio.

E qui applausi, ad Arezzo.

Al contrario iniziano a piovere monetine e insulti sempre più pesanti, un crescendo, fino a quando Teocoli, presente in platea, si lancia in una scazzottata incredibile. Da solo. E conclusa con un bel viaggio insieme alla celere.

Addirittura.

Non avevamo capito che quello era un circolo di fascisti che si chiamava “Giovani d’Italia”: eravamo finiti in una trappola.

Che trappola?

Scritturati per umiliarci.

Qualcosa di simile la racconta Jacopo Fo nel libro dedicato ai genitori.

Allora poteva accadere (cambia tono). Dario ci ha regalato momenti irripetibili e, dietro alla reale bellezza o apparente leggerezza, nascevano vere lezioni di teatro che si tramutavano in strumenti di vita.

Un esempio.

All’inizio dell’estate, io e Renato scappavamo da Milano per raggiungere Dario e Franca Rome a Cesenatico; un giorno, in spiaggia, proprio Dario si alza in piedi, si piazza sul bagnasciuga e poco dopo inizia a gridare di un naufragio all’orizzonte. Ed era convincente.

Quindi…

I turisti iniziano a fermarsi e in pochissimo tempo si raduna un gruppetto di persone; noi due capiamo la situazione, ci alziamo e offriamo il nostro contributo: qualcuno dei presenti ipotizzava la presenza reale di quel naufragio, una sorta si suggestione collettiva e indotta. Così all’improvviso siamo stati protagonisti di una grande lezione di recitazione: l’attore deve far credere, credendoci. Ah, ovviamente c’era Jannacci.

Sempre insieme.

Come dicevo, eravamo un gruppo indissolubile di amici, sodali, parenti non di sangue. Quando è morto Enzo è come se avessi perso una gamba (Sorride). Un anno siamo partiti per l’India e il viaggio è durato un mese, ci sentivamo come i Beatles.

Torniamo al bar: in quel gruppo c’erano Manzoni, Fontana e Buzzati…

Ed era normale proseguire insieme fino a mattina, invertire la notte con il giorno e magari crollare per il sonno sui banchi di scuola.

Manzoni folle.

Aveva una concezione propria del pericolo, da artista sentiva l’esigenza di affrontare in faccia i rischi; personalità come la sua hanno gonfiato il nostro coraggio con la loro filosofia di vita e relativizzato una concezione del mondo che già a Milano si stava avviando verso una mera valutazione economica.

Il “Derby”.

Un successo esagerato, ma i nomi in scena allora erano importanti: su uno stesso palco salivamo io e Renato, poi Felice Andreasi, Lino Toffolo, Enzo Jannacci e Bruno Lauzi. In certe fasi avevamo tre spettacoli nella stessa serata e la fila fuori di due o trecento persone.


Come avete impiegato i primi soldi guadagnati?

Ci siamo sposati tutti e due e a distanza di una settimana: non potevamo insieme per non interrompere il lavoro.

Nel libro dichiara: “Perfino la malavita era romantica”.

Di alcuni sapevamo che erano ladri o truffatori, ma possedevano uno spirito dissacrante e una forza rara; era gente del popolo, era antropologia, personalità di ringhiera, e da loro abbiamo “rubato” parte del nostro linguaggio.

Un suo difetto?

Sono pigro, se potessi non combinerei nulla: per me il massimo è restare in casa per suonare la chitarra.

Con voi la chitarra è stata spesso protagonista in tv…

In quel contesto non sempre ci hanno capito.

All’inizio non sempre era semplice.

A volte potevamo suscitare sentimenti di fastidio, apparire come dei pazzi, ma siamo riusciti a far passare dei messaggi per allora rivoluzionari.

Tipo?

Negli sketch dedicati alla scuola, i dirigenti della Rai non avevano capito che una delle scenette era incentrata su un professore povero che cercava di farsi corrompere da un genitore facoltoso, quella del “bravo 7+”. Ancora sorrido se penso agli occhi sbarrati del pubblico seduto in platea.

Quando è tornato in tv nel 1992, Paolo Rossi ha detto: “Nella vita dell’uomo ci sono tre misteri: cosa ha fatto Gesù da 12 ai 30 anni; cosa ha fatto Silvio Berlusconi dal 1960 al 1975; cosa ha fatto Cochi Ponzoni dal 1979 a oggi”.

Poco prima della trasmissione gli avevo confidato un episodio del giorno precedente: ero entrato in un grande magazzino, e mi sentivo osservato. Nulla di strano, ero abituato. Però la commessa insisteva e con uno sguardo strabuzzato: “Perché mi guarda così?”, le domando. E la ragazza: “Credevo fosse morto”.

Conta la tv…

Sì, la televisione è il parametro, e su di me in parte lo capisco: dal 1968 al 1974 come Cochi e Renato, siamo stati molto presenti, con programmi da 30 milioni di telespettatori, numeri che oggi non esistono più.

E poi?

Io e Renato abbiamo preso strade differenti, ma in amicizia, ognuno con le sue scelte, e in quel periodo avevo scoperto il teatro di prosa, avevo conosciuto Ennio Flaiano.

Mentre Pozzetto ha puntato sul cinema.

I film li hanno proposti anche a me, qualcuno l’ho accettato, ma erano gli scollacciati dell’epoca, quelli con la Fenech perennemente sotto la doccia, e mi sono subito fermato.

Prima però ha partecipato a Il Marchese del Grillo con Alberto Sordi.

Con Sordi anni prima avevo girato Il comune senso del pudore, e già allora avevo scoperto un uomo con un lato umano spiccatissimo, lontano da quella leggenda di tirchio.

Solo leggenda.

Un giorno gli ho domandato di questa storia, e lui: “Mo’ te lo spiego: la mia è stata una gavetta pazzesca, ero un morto di fame. Quando sono diventato famoso hanno iniziato a rompermi le palle, tutti avevano una nonna malata da curare, e così sono stato costretto a difendermi”.

Lei si è difeso?

Per me è differente, negli anni Settanta la svolta professionale mi ha portato altrove, e come ho raccontato prima, per alcuni non sono esistito più.

Non le è dispiaciuto.

E perché? È stata una scelta consapevole, e come entrambi abbiamo ripetuto all’infinito, tra me e Renato non c’è stata alcuna lite, siamo sempre amici come a pochi capita.

Lei si sente un 78enne?

(Ride a lungo) No, assolutamente, e questo è il mio problema.

Milano, la città dei ricchi vista dai senzatetto

È il pomeriggio frenetico di una domenica natalizia, la folla cammina sul Naviglio vestito a festa: Milano in questo mese di luminarie e abeti addobbati dà il meglio di sé. L’appuntamento è sotto la quercia di piazza XXIV maggio. Il maestoso albero ha compiuto 101 anni, è stato piantato alla fine della Grande guerra: è cresciuto tanto, troppo, le radici sono state contenute, ma per non abbatterlo gli hanno messo a supporto due grandi piloni di ferro. È il posto giusto per cominciare il nostro tour, perché anche i protagonisti di questa storia hanno cercato di non abbattersi e trovato un sostegno a cui aggrapparsi. È un giro di Milano quello che stiamo per iniziare, al capolinea del tram 10. A far da ciceroni ci sono quattro gatti che avevano pensato di esserci arrivati loro al capolinea e poi, insieme, hanno cominciato un nuovo viaggio. Si chiamano proprio gatti, anzi “Gatti spiazzati”: l’idea gli è venuta davanti a un caffè caldo, al centro diurno la Piazzetta della Caritas ambrosiana. In un giorno autunnale e già freddo, in via Famagosta gli ospiti erano entrati alla spicciolata per scaldarsi attorno al tavolo della cucina imprecando contro l’umidità. Pioveva fitto fitto e quando piove è un brutto guaio se non hai una casa. In cucina si parlava del tempo, tutti avevano un ricordo da mettere sul tavolo per scaldarsi, un pezzo di vita di quando era tutto intatto. A un certo punto qualcuno si è ricordato un vecchio detto sulla città che fu: “I gatti, da Casteggio a Borgo Priolo, potevano camminare sui tetti per sei chilometri senza toccare terra”. Eccoli i gatti. Non randagi, spiazzati perché Aldo, Marco, Elisabetta, Micol, Romolo, Gianni, Onofrio una casa ce l’hanno avuta, e un lavoro e un armadio dove mettere i vestiti, il bicchiere in bagno con lo spazzolino, una dispensa piena. Poi la vita ha preso male una curva di troppo e adesso eccoli là, in coda per un pasto o un posto letto: quegli oggetti della quotidianità – abiti, sapone, scarpe, spazzolini – diventano il primo problema quando resti senza tetto perché non sai dove lasciare le tue cose. Ed ecco l’idea: chi conosce Milano meglio di loro, che ogni giorno la attraversano in lungo e in largo?

Essere senza fissa dimora vuol dire camminare tanto, soprattutto. Guardare le case degli altri, gli alberi, le panchine nei giardini pubblici. Osservare le vetrine e annusare gli odori che escono dai negozi di alimentari: in mancanza di meglio, a volte bisogna accontentarsi del profumo di un cornetto o di una focaccia. Aldo a un certo punto si è reso conto che il denaro veramente non è tutto: “Riesci a sopravvivere con un euro a settimana e la domenica scoprire che hai ancora l’euro in tasca. Basta organizzarsi, reagire, ritrovare la propria dignità, vivere al minimo e ringraziare la solidarietà del prossimo e degli enti di beneficenza, che siano pubblici o religiosi”. Intanto, a forza di proverbi e ricordi, il caffè nella cucina della Piazzetta si era raffreddato: nei fondi si poteva leggere un destino nuovo. Perché questa città, la nostra, non la raccontiamo agli altri? Con questa domanda, in un giorno apparentemente uguale a tutti gli altri, è iniziato il riscatto dei gatti.

Tre anni dopo quelle chiacchiere e quei caffè, siamo qui. Gli spiazzati si sono fatti associazione e sono diventati guide turistiche dopo aver seguito corsi e conseguito abilitazioni, e ti accolgono con un sorriso incerto su visi che conservano le tracce di anni difficili. Distribuiscono l’auricolare sterilizzata insieme a un cartoncino di riconoscimento per non perdersi. Aldo e Onofrio ci fanno salire sul tram – bisogna presentarsi con il biglietto, ma se non ce l’hai te lo danno loro – e cominciano a raccontare la storia di Porta Ticinese, dove arrivava il Naviglio dalle acque del Ticino, con le barche che trasportavano le merci. Alle spalle, il borgo dei formaggiai. Un tempo si chiamava porta Cicca: un nome che si vuole risalga alla dominazione spagnola. Chica, perché piccola. O forse perché c’erano i bordelli e molte chicas hermosas? Ce lo spiega Aldo che ha 67 anni e oggi indossa una sciarpa multicolore sopra il vecchio loden verde, alla moda di Monti. Il particolare non è secondario perché lui, come Onofrio, è un esodato. Teoricamente dovevano andare in pensione dopo una normalissima vita da lavoratori dipendenti, poi hanno scoperto che per ricevere l’assegno dovevano aspettare 5 anni. Sulla strada, a dormire nell’aeroporto di Linate, ci sono arrivati così, per un buco nella legge. Da pochissimi mesi Aldo finalmente riceve la pensione, adesso ha un appartamento che divide con un coinquilino e non ci pensa proprio a prendersi un monolocale da solo perché in questi anni di sfiga ha scoperto il valore della condivisione. E della compagnia. Elisabetta, che racconta dei ragazzi del ’99 a cui è dedicata la quercia rossa, ha lasciato il lavoro per assistere la mamma malata. La mamma è morta, il marito volatilizzato e lei è finita nel dormitorio pubblico, a sessant’anni suonati. Gianni invece è disoccupato. Da quindici anni: dopo i 60 non ti prendono nemmeno per fare le pulizie.

Il nostro tram procede nel traffico di Natale. In piazzale Cantore, Aldo ci indica una delle prime case popolari di Milano, dove c’era il bagno all’interno delle abitazioni. Per i tempi era un vero lusso: prima si usavano le turche nei locali comuni. Nel cortile c’erano le docce, la lavanderia e perfino la biblioteca e una bocciofila. Sono case basse, di tre massimo quattro piani, costruite con il poco ferro che all’alba del Novecento era in circolazione. Ma nel quartiere operaio alle spalle di Parco Solari – un tempo il centro del mercato del bestiame che arrivava allo scalo ferroviario di porta Genova – le lotte sindacali avevano portato diritti e l’inizio dello stato sociale: quello che oggi affoga in un mare di parole inglesi – austerity, spending review, spread… Sul vecchio tram di legno (si chiama il Ventotto, perché il primo prototipo è del 1928 e circola anche a San Francisco, a cui una decina di esemplari furono donati) salgono i passeggeri dello shopping pieni di borse da cui spuntano pacchetti di tutte le misure e carte da regalo colorate. Anche loro ascoltano il racconto di Aldo, mentre sfilano i palazzi Liberty di via Ariosto, con i loro giardini segreti e lussuosi. In piazzale Baracca c’è il monumento all’asso dell’aviazione che nella Grande guerra sfrecciava su un caccia decorato con un cavallino rampante. Alla morte di Francesco Baracca il simbolo fu consegnato come portafortuna dal padre dell’aviatore a Enzo Ferrari, che ne fece quel che sappiamo alzandogli la coda e aggiungendo lo sfondo giallo canarino, il colore di Modena. All’arco della pace scendiamo: il nostro itinerario si chiama “so e giò dal tram”, è un’invenzione relativamente recente. Quest’estate, con il caldo, gli avventori delle visite feline erano improvvisamente diminuiti. E così si sono inventati le passeggiate sul tram, dove c’è l’aria condizionata e d’inverno il riscaldamento. È la stessa cosa che capita alla Biblioteca Sormani dove Aldo come moltissimi senzatetto cerca un riparo dal freddo in inverno e dal caldo in estate, passando il tempo a leggere di tutto, dai grandi classici alle riviste.

Mentre i ragazzi entrano ed escono dai caffè di Corso Sempione, è Onofrio, appassionato d’arte, a illustrarci il monumento della grandeur napoleonica con i suoi bassorilievi che richiamano il Congresso di Vienna, la pace di Parigi, La battaglia di Lipsia… Lo sapevate che, e lo racconta anche Hemingway in Festa mobile, si dice sia allineato con il suo fratello maggiore, L’arco di Trionfo della Ville Lumière? Ripassa il 10, che va a trenta all’ora in questo punto, e allora corriamo tutti verso la fermata per risaltare sul tram che, mentre noi riprendiamo fiato, sfila sul grande boulevard accanto ai palazzi di Giò Ponti, alla sede Rai di Corso Sempione 27 e alla casa di Mike Bongiorno. Molte storie accompagnano il cimitero monumentale, con i suoi richiami bizantini e gotici, il Famedio dove riposano Alessandro Manzoni, Carlo Cattaneo, Salvatore Quasimodo. È un posto importante questo, anche perché qui davanti, in via Maroncelli, c’è una mensa per persone in difficoltà, gestita da Frati francescani. Si accede con una tessera, ambitissima perché ci sono solo sessanta posti e offre anche la colazione e il servizio di guardaroba: il giorno della distribuzione delle tessere la fila inizia all’alba.

È il momento di una nuova fermata. In viale Montegrappa ci sono le Cucine economiche, i Cusinn economich in dialetto – uno dei primi esempi di architettura sociale in città. Costruite negli anni Ottanta dell’Ottocento offrivano pasti a prezzi calmierati per gli operai e i poveri, c’era anche un forno che vendeva pane sottocosto. Le costruirono qui, a due passi dal Naviglio della Martesana, accanto al quartiere Isola, dove erano attive molte fabbriche come l’Elvetica e lo stabilimento Pirelli di Ponte Seveso. Dagli anni Settanta non è più una mensa, ma un centro per anziani dove non si mangia più – racconta Aldo – ma “si gioca a carte e ci si innamora”. Oggi Porta Nuova e l’Isola – i cui abitanti un tempo si sentivano così lontani dalla città che dicevano “andiamo a prendere un gelato a Milano” – ci sono i grattacieli e i locali della movida.

È già buio quando saliamo nella piazza dedicata a Gae Aulenti per ricevere l’ultima parte della lezione, con il naso all’insù guardando il nuovo Palazzo della Regione, il Pirellone e il grattacielo Unicredit alto ben 230 metri. Lo sapevate voi che fino al 1958 nessun edificio poteva superare la Madonnina, che guarda la città da 108 metri? Tra via Fara e via Galvani alla fine degli anni Cinquanta è stata costruita la Torre Galfa, uno dei simboli di Milano, nata per ospitare la sede milanese di un gruppo petrolifero. Oggi dentro ci sono un hotel di design “business oriented” e appartamenti di lusso. Qui si ferma il nostro tour, dove si vedono meglio le contraddizioni di Milano, in equilibrio tra la città dei ricchi e delle residenze esclusive e la solidarietà inclusiva che è stata a lungo un comandamento laico della borghesia. Aldo, Onofrio, Elisabetta e Gianni ci salutano: moltissimi turisti, mi raccontano i gatti, tornano (partiti con nove itinerari, oggi si destreggiano tra ben 40 passeggiate in città e fuori). “Non conosci mai davvero bene la città dove abiti, ogni mattoncino ha una storia”. C’è sempre qualcosa da imparare e occhi da prendere in prestito per guardare il prossimo da un altro punto di vista.

Mail Box

 

Le nostre critiche a Salvini sono per le idee che esprime

Gentile Travaglio, la seguo da molti anni, quotidianamente. Mi sono battuto con tutto l’impegno possibile per il no contro il golpe del Pd, che devastava la nostra democrazia garantita dalla Costituzione.

Non condivido il dare addosso continuamente a una persona a cui, invece, dovremmo riconoscere di averci aiutati a salvarla. La mia ammirazione per lei rimane, ma trovo ingiusta la posizione esasperatamente antisalviniana.

Con calore, saluti,

Antonio Quota

 

Caro Antonio, il mio dissenso è sulle idee di Salvini che non condivido. Su quali, secondo lei, dovremmo essere favorevoli?

La difesa di Autostrade, della prescrizione, del Tav, del Tap, degli inceneritori, delle trivelle in mare, del gioco d’azzardo, di Siri e Rixi e Savoini? L’attacco al reddito di cittadinanza? Le richieste di tangenti ai russi da parte dei suoi uomini, da lui sempre difesi?

M.Trav.

 

I dati sui rimpatri in più sono numeri, non marchette

Stando ai vostri numeri abbiamo una quarantina di rimpatri in più al mese rispetto ai tempi di Salvini. Questo farà, malcontato, 500 rimpatri l’anno. Diteci i costi dell’operazione e chi paga. Quanti invasori sui barconi avete scaricato intanto sulle nostre coste?

Fate un registro dare/avere, tenetelo aggiornato e pubblicatelo, invece di pubblicare le marchette della ministra Luciana Lamorgese. Mettete su una carrozza i firmatari dei vari accordi da Dublino in avanti e fateli girare per tutti i paesi come la Madonna pellegrina, in modo che ogni italiano possa guardarli in faccia.

Vareno Boreatti

 

Io non ho scaricato nessun “invasore” perché faccio il giornalista. I numeri sui rimpatri sono numeri, non marchette.

Le ricordo che i rimpatri costano: Salvini ne aveva promessi 500 mila, si figuri se fosse stato di parola!

M.Trav.

 

Se il Conte 2 è abusivo, lo sono anche i governatori leghisti

I frequenti discorsi di Matteo Salvini e compagni sul fatto che l’attuale governo è “abusivo”, in quanto non eletto dalla maggioranza degli italiani, mi ha fatto venire il desiderio di conoscere i sistemi elettorali con cui sono stati eletti i presidenti di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che spingono per l’autonomia differenziata.

Applicando lo stesso ragionamento di Salvini, mi sembra che i presidenti di regione, più che governatori, dovrebbero essere chiamati più propriamente ‘usurpatori’.

Le leggi elettorali delle tre regioni prevedono infatti che il presidente sia eletto a turno unico e maggioranza semplice: vince chi ha un voto in più degli altri candidati. La legge della Lombardia riserva alle liste che appoggiano il presidente 44 seggi su 80. Quella del Veneto attribuisce alle liste collegate al presidente (se eletto con più del 40%) 30 seggi su 50. Quella dell’Emilia attribuisce alle liste del presidente 27 consiglieri su 50.

Quindi, in tutte e tre le regioni, basta che il presidente ottenga un solo voto in più perché abbia la maggioranza assoluta dei consiglieri. Vediamo quanti voti effettivi hanno ottenuto i presidenti in carica:

– per Attilio Fontana votarono il 49,75% del 73,10% degli aventi diritto, quindi il 36,36%;

– per Luca Zaia votarono il 50,08% del 57,15% degli aventi diritto, quindi il 28,62%;

– per Stefano Bonaccini votarono il 49,05% del 37,67% degli aventi diritto al voto, quindi il 18,48%. Siamo lontanissimi dal 50% + 1.

È necessaria quindi una nuova legge elettorale con il sistema proporzionale, senza i premi di maggioranza (anzi di minoranza) che restituisca ai cittadini il diritto di essere rappresentati correttamente. Cordialità,

Luigi Pepe

 

È ora di tirare fuori quella vecchia legge del 2006

Nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica ha richiamato, tra tante altre responsabilità, quella dell’informazione e della tv in particolare a elevare il senso di coesione e di consapevolezza di tutto il popolo italiano. Ebbene, la tv riesce sempre di più a fare l’esatto contrario. Non c’entrano i social con la crescita di Salvini, Meloni e tutti gli altri. Perché siamo costretti, tutti i giorni, a non sentirli rispondere a nessuna domanda? È una tv indecente, che non esiste in nessun Paese.

Ma veniamo al dunque. La sorpresa delle Sardine non sembra destinata a fare la fine dei gilet gialli francesi. Il nostro giornale potrebbe suggerire loro di chiedere al Parlamento di tirare fuori dai cassetti quella legge d’iniziativa popolare sulla riforma della tv consegnata nel 2006 all’allora ministro delle Telecomunicazioni Paolo Gentiloni da personaggi autorevoli come Furio Colombo, Sabina Guzzanti e Carlo Freccero. Chiedano a nome nostro, soprattutto della parte anziana della popolazione che non ha l’età per fare la Sardina, che la più grande industria culturale del Paese abbia la possibilità di esprimersi al meglio, utilizzando tutte le migliori risorse e liberandosi delle tante zavorre, per offrirci cultura, informazione, civismo, senso di appartenenza a una comunità piccola come il nostro Paese all’interno della comunità europea. Abbiamo tutti ampi spazi di miglioramento, le Sardine potrebbero essere la nostra linfa.

Pierluigi Favilla

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo Lavoro, ispettori al minimo storico: bye bye controlli, in merito allo stato di agitazione dei sindacati, abbiamo erroneamente scritto che l’assemblea del 13 dicembre è stata organizzata dalla sola Fp Cgil. In realtà, è stata indetta unitariamente da Cgil, Cisl, Uil, Flp, Confintesa e Confsal-Unsa. Ci scusiamo per l’imprecisione.

Rob. Rot.

L’agenda rossa della Uno Bianca

Il 4 gennaio 1991, nel quartiere Pilastro di Bologna, i banditi della Uno bianca assassinarono i carabinieri Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini. Nell’auto militare non fu trovato l’ordine di servizio, sebbene nessun reparto di polizia opererebbe senza tale documento da restituire compilato al rientro in caserma.

Si è sostenuto che furono i killer a prenderlo, ma non sembra possibile. Sul luogo dell’eccidio erano presenti 8 persone che hanno assistito alla scena conclusiva da pochi metri di distanza. Nessuno ha notato alcun bandito introdursi nell’auto dei carabinieri. Si è (erroneamente) parlato di un bandito che, dopo la sparatoria, si sarebbe avvicinato al finestrino del guidatore. Se anche così fosse, non si sarebbe introdotto nell’abitacolo, visto che lo sportello anteriore sinistro è sempre rimasto chiuso. Quanto al posto del passeggero, se anche qualcuno si fosse avvicinato, e nessuno l’ha visto, non sarebbe potuto entrare perché l’accesso era ostruito dal corpo senza vita del carabiniere Moneta riverso fra lo sportello semiaperto e l’abitacolo.

I tanti depistaggi che hanno segnato la storia del nostro Paese ci hanno insegnato che la falsificazione della scena del crimine non è mai opera dei suoi autori, ma di quanti intervengono dopo. Si pensi alla scomparsa da via D’Amelio dell’agenda rossa su cui il giudice Borsellino annotava le informazioni più riservate.

Vediamo, dunque, cosa poteva esserci di così interessante nel documento scomparso il 4 gennaio 1991. L’ordine di servizio stabilisce, innanzitutto, le modalità e gli obiettivi della pattuglia, che, nel caso di specie, consistevano nel pattugliamento del quartiere Pilastro con periodi di sosta prolungata dinanzi a una scuola già oggetto di un attacco con delle bottiglie molotov; ed è quello che le vittime stavano puntualmente facendo prima di essere assassinate. Inoltre, la pattuglia annota nell’allegato “A” le attività svolte, le persone fermate e gli accertamenti. Ed ecco il punto.

Con una buona dose di leggerezza, i fratelli Savi, due poliziotti e un camionista, sono stati ritenuti gli unici responsabili di tutti i delitti della Uno bianca. Quanto all’eccidio del Pilastro, raccontano che furono superati dall’auto dei carabinieri e iniziarono a sparare dai finestrini inseguendoli, per poi finirli, circa 300 metri dopo, quando l’auto dei militari feriti urtò contro un marciapiede e si arrestò contro dei bidoni della spazzatura.

A tacere dei testi e dei collaboratori di giustizia che raccontano tutta un’altra storia ci sono tre dati oggettivi che smentiscono i Savi: nel luogo ove sarebbe iniziata la sparatoria stazionava un camion dei vigili del fuoco con un uomo al volante che vide passare la macchina dei carabinieri senza che vi fosse nessuna macchina né dietro, né di fianco, né davanti;

Più avanti, due ragazzi diedero la precedenza all’auto dei carabinieri e, a bordo della propria, attraversarono la strada senza avere alcuna percezione delle pallottole che, secondo i Savi, sarebbero dovute fioccare a causa del rocambolesco inseguimento con sparatoria fra auto in corsa;

Nel corso del conflitto, i carabinieri furono feriti da un revolver; gli accertamenti balistici documentarono attraverso i fori d’ingresso dei proiettili nell’auto, come i colpi furono esplosi da una persona accovacciata e ferma sulla strada; l’uso del revolver precedette quello delle armi lunghe perché queste ultime determinarono la morte istantanea dei carabinieri e, quindi, il colpo di revolver, se fosse stato successivo, non avrebbe potuto provocare l’imponente versamento ematico che venne constatato in sede di esame autoptico nel polmone di un carabiniere.

I periti non hanno mai avuto dubbi: i primi colpi non furono esplosi da macchine in corsa, ma da una persona ferma, a piedi, armata di revolver. Inoltre, sulla base delle tracce lasciate dai proiettili sui muri delle abitazioni, hanno fissato il luogo dell’ingaggio del conflitto, ovvero un incrocio situato fra il camion dei pompieri e il punto d’arresto dell’auto dei carabinieri.

In quel punto, poco prima che il boato delle armi rompesse la quiete della sera, vari testi avevano notato delle persone ferme vicino a una o due macchine chiare di piccola cilindrata. È ovvio immaginare che i carabinieri li abbiano controllati, ma la nebbia di quel maledetto incrocio nascondeva un inconfessabile segreto: due poliziotti, delle armi e degli sconosciuti, ovvero, secondo un collaboratore di giustizia, un traffico che andava difeso a ogni costo. Ed ecco, allora, i primi colpi di revolver, i carabinieri feriti che tentano di disimpegnarsi, si allontanano, ma finiscono contro un marciapiede, i banditi che salgono sulla Fiat Uno bianca, li raggiungono, scendono e li uccidono con i fucili mitragliatori.

Può essere utile, a questo punto, ricordare la rivendicazione dell’eccidio da parte della Falange Armata: “…esecuzione dei tre carabinieri di Bologna è stata casualità, ma data contingenza e sicurezza di tutta organizzazione, di nostra organizzazione, così doveva essere” (comunicati all’Ansa di Torino dell’11 e del 12 gennaio 1991). Si ha quasi la sensazione che i falangisti avessero ben presente un sagace motto andreottiano: bisogna sempre dire la verità perché così non si fa peccato e perché non ti credono.

Senonché, l’esecuzione resa necessaria dalla contingenza di cui parla la Falange Armata, sarebbe stata del tutto inutile se qualcuno avesse letto l’ordine di servizio che ragionevolmente conteneva le informazioni su un controllo che doveva essere occultato. La sua evaporazione preconizza quella dell’agenda rossa dalla borsa di Paolo Borsellino; è uno dei tanti idranti, come quello utilizzato il 28 maggio 1974 a Brescia per pulire piazza della Loggia che, assieme ai reperti della strage, hanno tolto colore ai fatti e nascosto la verità a una nazione.