Guerra Usa-Iran, il governo italiano ora dimostri serietà

 

“Preparate le bare”.

La reazione di Teheran dopo il raid Usa

 

Passare in poche ore dai titoloni sul caso Paragone alla paura di un conflitto mondiale fa parte dello spirito del tempo (oltre che della frivolezza del sistema informativo) anche se a guardare bene c’è un filo, neppure tanto sottile, tra la commedia all’italiana e i “Persiani” di Eschilo. Unirsi al coro derisorio per il balbettio del governo italiano (“Il Giornale”: “Conte e Di Maio conigli”) è gioco facile soprattutto quando si applaudono i missili che hanno “colpito e affondato il boia iraniano (“Libero”) stando comodamente seduti in una redazione”. Ma poi questa esibizione muscolare che storicamente non c’è mai appartenuta (tranne quando ci condusse alla catastrofe mussoliniana) in che modo dovrebbe esplicarsi? Inneggiare a The Donald se lo può consentire solo Matteo Salvini, leader irresponsabile per ruolo e definizione. E, del resto, prendere le parti di Teheran (lo sollecita l’ambasciata iraniana a Roma) come potrebbe mai farlo il più fedele alleato di Washington? Un governo prudente, che misura le parole, che si affida alla persuasione internazionale (fondata anche sull’equilibrio del terrore) può essere cosa buona e giusta. A patto che questo governo in una congiuntura drammatica possa contare su una base parlamentare solida e non su quella che si sfarina continuamente per la somma di ripicche e casi umani che ogni giorno di più fanno assomigliare il M5S all’asilo Mariuccia. Qualche prudente barlume giunge dall’opposizione dove Giorgia Meloni chiede “non tifoserie da stadio ma grande attenzione”, continuando così a distinguersi quanto a profilo istituzionale dal suo stralunato compagno di strada. L’Italia non è la Svizzera e una neutralità di comodo servirebbe soltanto a rinviare una resa dei conti inevitabile per una nazione coinvolta di fatto nel nuovo disordine mondiale, geograficamente e strategicamente. Dobbiamo fronteggiare un conflitto libico che molti temono possa trasformarsi in un’altra devastante Siria. Nel qual caso diventeremmo di nuovo l’approdo di massa per l’esodo di rifugiati e disperati. E giunge adesso la guerra Usa-Iran di cui potremmo subire le immediate conseguenze con la recrudescenza del terrorismo e con la rappresaglia sul fronte dell’energia (nel 2019 l’Iran è stato il nostro primo fornitore con 12 milioni di tonnellate di petrolio). In questo quadro esplosivo, l’Italia può tornare a ricoprire un energico ruolo di moderazione insieme all’Europa che conta. Ma per farlo occorre più che mai un governo che dimostri stabilità e idee chiare. Per gli intrattenitori della politica non c’è più spazio.

Impariamo da Giovanni a diventare annunciatori appassionati di Cristo

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni, 1,1-18).

L’inizio del Vangelo di Giovanni, l’odierna pagina evangelica, esige una lettura attenta. Si tratta di un inno poetico, di una composizione complessa e articolata, di una bellissima sintesi del Natale espressa con toni mistici. Il Verbo, preesistente nell’eternità, portatore di Vita e di Luce nel mondo, per un progetto misterioso e ininvestigabile, s’incarna nel seno verginale di una ragazza palestinese, entra nella nostra storia, e assumendo la nostra carne rende vivo qualcosa di Dio in ogni uomo.

Contemplate l’altezza, l’ampiezza e la profondità del Mistero inesauribile di Dio, l’evangelista Giovanni ci introduce nella gioia della natività di Gesù e nella narrazione del primo annuncio del Precursore: Giovanni gli dà testimonianza. È bello soffermarsi su un aspetto che tocca profondamente la nostra vita. Giovanni ci dice: Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Cielo e terra hanno frammischiato i loro confini. Il mondo creato da Dio per un Suo gratuito atto di bontà, illuminato dalla Luce e dalla Vita di Dio perché Creatore e creatura si sono abbracciate, cade purtroppo sotto il dominio delle tenebre. Destinatari della promessa e della missione di salvezza per la quale il Verbo incarnato ha dato la propria vita, gli uomini godono della libertà di accoglierlo o meno. Siamo, però, immersi nelle tenebre e nell’oscurità del rifiuto di Dio, dell’autosufficienza, dell’invidia che ci conduce alla morte. È necessario vivere nella continua ricerca della Luce, perché a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio. Il Bambino di Betlemme porta in sé la carne di tutti gli uomini. Quello di diventare figlio di Dio è il dono senz’altro dall’amore gratuito di Dio e non certo una facoltà umana autonoma. La testimonianza del Battista afferma il primato di Cristo, la sua missione presso l’umanità, la sovrabbondanza di grazia e di verità delle quali l’uomo è destinatario, spesso purtroppo inconsapevole.

I cristiani hanno incominciato a contare gli anni e a raccontare la storia degli uomini tutti dal natale di Gesù. Viviamo il tempo, che ci è donato, con la certezza giubilante di aver ricevuto grazia su grazia. Impariamo, come il Battista, a divenire annunciatori appassionati, testimoni coraggiosi e servitori fedeli dell’Evento che, per sempre, ha riempito di senso la storia umana e di gioia la nostra vita.

 

* Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Con il commento al Vangelo di oggi monsignor Brugnaro lascia la rubrica al pastore Eugenio Bernardini, moderatore della tavola valdese. Brugnaro continuerà a collaborare con il “Fatto”.

L’Australia brucia e noi siamo già dentro la catastrofe

Mentre noi eravamo inebetiti a guardare i botti di Capodanno, l’Australia era alle prese con un’epocale ondata di incendi che la assediano da settimane. Al momento sono stati inceneriti oltre 48.000 km² di superficie boschiva, pari all’estensione di Piemonte ed Emilia-Romagna messi insieme, si sono registrate 23 vittime tra popolazione e vigili del fuoco, oltre a mezzo miliardo di animali selvatici uccisi, mentre un denso fumo dai surreali toni arancioni oscura i cieli di Sydney e Canberra. Nella località balneare di Mallacoota, migliaia di persone incalzate dalle fiamme spinte da venti impetuosi sono fuggite verso la spiaggia e sono state salvate da una nave della Marina militare, scena degna dell’eruzione del Vesuvio descritta da Plinio.

Gli incendi in Australia ci sono sempre stati, ma questa è una situazione fuori controllo amplificata dal riscaldamento globale: il 2019 è stato infatti per il continente l’anno più caldo dal 1910 – inizio della serie di misura – e anche il più secco con un deficit del 40 per cento di precipitazioni, una combinazione che non ha precedenti. Dicembre 2019 è stato il mese in assoluto più caldo, con temperature che hanno sfiorato i 50 gradi e un nuovo record di media continentale di 41,9 gradi il 19 dicembre, giornata più calda di tutta la storia della meteorologia australiana. In alcuni casi la colonna di aria rovente causata dagli incendi ha generato delle nubi temporalesche – i pirocumuli – produttrici più di fulmini che di pioggia, i quali a loro volta hanno appiccato nuovi focolai, “il fuoco genera il suo tempo” era tra i commenti della popolazione locale. L’estate nell’emisfero sud è peraltro in pieno corso e il tempo rovente e siccitoso proseguirà per i prossimi mesi.

Sono cronache dall’altro emisfero che non hanno avuto più di tanto spazio sui nostri media. Dovrebbero invece interessarci, perché anche il Mediterraneo è molto esposto al rischio d’incendio e il riscaldamento globale non farà altro che accrescerlo nel prossimo futuro. Se già oggi una crisi come quella australiana appare devastante e fuori controllo (il sindaco dell’Isola dei Canguri, Michael Pengilly, ha detto: “La costa nord è come fosse stata colpita da una bomba nucleare”), come possiamo pensare di affrontare situazioni peggiori? Dobbiamo cominciare a pensare l’impensabile, anche perché a fine giugno 2019, in Francia, vicino a Montpellier, si sono registrati 46 gradi, la temperatura più elevata di sempre a questa latitudine. Se valori simili durassero mesi, come avvenuto nel 2003, combinati con una siccità come quella del 2017 nel Nord Italia, avremmo la tempesta perfetta anche noi. In piccolo, a fine ottobre del 2017 l’inedito incendio sul Rocciamelone in Val di Susa, ci ha fatto vedere la dimensione nuova di questi fenomeni, con fumo e ceneri che sono arrivati perfino su Torino. Serve dunque lo sforzo internazionale per ridurre le emissioni climalteranti affinché le temperature globali non superino un aumento di un paio di gradi a fine secolo (e già ne vedremo delle belle anche così), serve investire su prevenzione e mezzi antincendio, ma soprattutto serve capire che siamo già dentro un’emergenza, che il cambiamento climatico è già un problema serio e non un’ipotesi incerta per un lontano domani. Il dramma degli australiani che fuggono dalle fiamme deve rappresentare una lezione e un allenamento psicologico per tutti gli abitanti del pianeta: come c’insegna il filosofo francese Jean-Pierre Dupuy in Per un catastrofismo illuminato. Quando l’impossibile è certo (Medusa edizioni, 2011), solo accettando di essere già dentro la catastrofe potremo cercare di ridurne gli effetti, di salvarci da essa. Continuare a ignorarla non può al contrario che peggiorarne le conseguenze.

Zalone e Sardine: è finita la rabbia

Proprio mentre si sente nel mondo (molto vicino all’Italia) rumore di guerra e odore di sangue, qualcosa dentro questo Paese diventa diverso. Persino in questi giorni alcuni fatti che sembrano un annuncio: il tempo triste espresso dalle parole “è finita la pacchia” forse è scaduto.

La pacchia, ricorderete, era salvare disperati in mare, a opera di volontari (Ong) sostenuti, per misteriosi interessi mai svelati, da un ricco ebreo di nome Soros. “La pacchia” consisteva nel dare ai sopravvissuti un luogo in cui sopravvivere. Un sindaco l’aveva fatto, accogliendo i profughi nel suo piccolo paese di Riace, dove ha offerto case e lavoro. È diventato un eroe nel mondo. In Italia (sotto il governo Salvini) è stato arrestato e processato subito. Ma seguiamo gli eventi. Un primo fatto un po’ imbarazzante per gli esperti che avevano autorevolmente comunicato “Attenti, in 500 mila sono pronti a sbarcare in Italia” è che, a partire da quell’annuncio, gli arrivi in scoglio o in spiaggia sono scesi a poche migliaia di persone, meno che alla stazione di una città di media grandezza. Tutti i poliziotti che dovrebbero (e vorrebbero) occuparsi di ’ndrangheta e di medici aggrediti negli ospedali e nelle ambulanze, però, sono ancora all’erta sulle rive del mare.

Il secondo fatto ha colto di sorpresa i migliori esperti del cosa accadrà domani. Il domani, totalmente imprevisto è arrivato per conto suo. Sono comparse le sardine, senza discorsi e senza bandiere. Sono comparsi a milioni per dimostrare che esiste un popolo che non si presta a fare da polvere da sparo per le guerre personali di incattiviti leader e semi-leader che esigono di essere i soli a parlare a nome degli “italiani”. Per “italiani” intendono coloro che stanno al loro posto di comparse e applaudano, se possibile con urla xenofobe. Il terzo fatto è soltanto un film (Tolo Tolo di Checco Zalone) così abile e astuto nel disinnescare la miccia dell’odio razziale che segna o registra una fuoriuscita dal mondo dell’odio, fino a oggi esaltato e presentato come dovere patrio. Lo vedi e, salvo l’on. La Russa, che si è dichiarato pentito di essere entrato in sala, c’è l’impressione di una discontinuità che il governo e il Parlamento non vedono, ma “gli italiani” sì, e che è molto forte. Il film, infatti, pur essendo il contrario di ogni sillaba della violenta predicazione leghista e semi-fascista che domina discorsi e politica sull’immigrazione, ha un successo immenso. Le sale sono piene come le piazze delle Sardine, anche se fra i due strani fenomeni non c’è alcun rapporto. Salvo forse, che molti “italiani” incalzati dalla grande bugia sull’invasione, hanno esaurito la quota di odio che una persona normale può sopportare.

Tre fatti gravi e contrari sembrano negare ciò che ho scritto fino a questo momento. Il primo è che tutto quello che ho detto avviene fra i cittadini, ma non fra i politici di tutte le provenienze, culture, non culture e orientamento di carriera personale (una volta si sarebbe detto “di orientamento politico”). Il primo, che è anche il tema di un appassionato appello di Luigi Manconi (Repubblica, 3 gennaio) è che nessun interesse o impegno si intravede fra i politici, tutti i politici, zitti e distratti, per rimuovere le folli “leggi sicurezza” di Salvini, pura vendetta contro chi è riuscito a non annegare. Le leggi sono intatte e in vigore, marchiano il prestigio della Repubblica e, a giorni, metteranno sulla strada, senza diritti e senza difese, migliaia di profughi con i loro bambini.

Ma ciascun partito sta combattendo contro se stesso, ciascun politico è alle prese con la domanda “chi mi darà un posto in Parlamento?”. E ciascun leader sbiadisce sullo schermo nonostante le ore riservategli, mentre cresce il senso di solitudine per gli italiani e di abbandono crudele e pianificato per gli immigrati. E ciò mentre in Italia mancano 500 mila persone, figli, lavoro, previdenza, e mentre gli italiani giovani e preparati scappano all’estero. Salvini diventa personaggio di Zalone quando si aggira nei comizi promettendo (lo dice davvero): “Farò fare più figli agli italiani”.

La seconda ragione di paura e sconforto è che nessun gruppo, al Senato, ha dato i nomi del suo e dei suoi componenti che faranno parte della commissione Segre contro l’odio. Ricordate? Molti hanno fatto finta di approvare. Ma circa metà dei senatori della Repubblica presenti sono restati seduti al momento del saluto alla senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz.

Il terzo inganno, che continua, è la Libia. Viaggi vuoti, senza un argomento, senza un senso, senza una conclusione su cui riferire, finta partecipazione agli eventi che possono in ogni momento diventare tragici. L’Italia non c’è nel mondo, non parla a nessuno e nessuno parla all’Italia. Tutti coloro che sono vicini alla stufa spenta del potere, ti assicurano che non sono né di destra né di sinistra. La realtà (fa paura) è che non sono.

Calenda preferisce i soliti pop corn

“Mi auguro che l’esecutivo cada e si vada a elezioni, perché la rappresentanza si recupera alle urne. Siamo distanti da tutto l’esecutivo, anche da chi lo compone, perché passano le giornate a fare verifiche di governo”. Quiz del giorno: chi l’ha detto? Salvini? La Meloni? Un redivivo Berlusconi? No: Carlo Calenda, leader di Azione. Ovvero, per chi non ricordasse, l’ultimo tentativo di partito di centro-centrosinistra che nei sondaggi lotta strenuamente per sfondare il 3 per cento. Però, ecco, per quanto annacquata, una parvenza di sinistra il nostro Calenda potrebbe almeno far finta di mostrarla, visto che alle scorse Europee – era maggio, mica dieci anni fa – coi voti del Pd è diventato eurodeputato. E invece meglio imbracciare i fucili e sparare contro il governo giallorosa come un leghista qualunque: “Andiamo subito a elezioni!”. Certo, così si può passare a un’analisi della sconfitta tutta nuova, lamentarsi con gli alleati (ma pure con se stessi) e magari fare un’altra scissioncina. Godendosi Salvini presidente del Consiglio, naturalmente pop corn alla mano come nella migliore tradizione recente.

La madre dei fratellini: “Mica abbiamo frodato…”

“Stiamo smontando tutto, non ci hanno dato alternative”. Maniche rimboccate, sigaretta in bocca e accanto due aiutanti improvvisati, smaniosi di velocizzare il lavoro, prima che faccia buio. Dentro un chiosco abusivo, ricavato con teli di plastica e lamiere di fortuna, a parlare al Fatto è S., l’uomo accusato di sfruttamento del lavoro minorile dalla polizia di Catania. Gli agenti hanno sorpreso i suoi figli – due bambini di 9 e 10 anni – intenti a gestire “l’attività commerciale di famiglia”: ovvero un bar abusivo, dentro una struttura abusiva, in un immobile di proprietà del Comune occupato abusivamente. La notizia del blitz delle forze dell’ordine da ieri rimbalza ovunque, e così alla ribalta è tornato Librino: la città nella città.

Periferia del capoluogo etneo, progettato e costruito negli anni Settanta, è diventato in breve tempo un grande quartiere dormitorio. Quasi centomila persone da queste parti hanno imparato a convivere con disagio, promesse eterne, mafia e abusivismo dilagante.

Al civico 9 di viale Bummacaro, uno dei tanti vialoni disegnati dall’architetto giapponese Kenzo Tange, non avere un luogo in cui ritrovarsi per ingannare il tempo è la normalità. In strada, mentre vengono smontate tende e addobbi natalizi che a modo loro abbellivano il fatiscente chiosco, ci sono alcuni abitanti del quartiere. In coro ripetono tutti la stessa cosa: “Bisogna raccontare la verità in questa vicenda. Da domani, anche senza chiosco, apriremo sedie e tavoli e continueremo a ritrovarci”. “Il nostro bar esiste da meno di due anni”, racconta uno di loro, usando di proposito il plurale. “Qui non esiste lo Stato e quando finiamo di lavorare non sappiamo cosa fare. Dentro lo gestivamo noi del quartiere, tra una giocata a carte e una partita a biliardino capitava di bere qualcosa… che male c’è?”.

La ricostruzione delle forze dell’ordine – impegnate in questi primi giorni del nuovo anno, su disposizione del questore Mario Della Cioppa, in controlli straordinari per contrastare l’illegalità diffusa nel quartiere – svela però una storia diversa. I due fratellini si sarebbero occupati della cassa, ma soprattutto anche di vendere bevande alcoliche e fuochi pirotecnici illegali. Uno di loro ne avrebbe acceso qualcuno durante i controlli.

Nonostante una foto, divulgata dalla polizia, in cui uno dei figli viene immortalato dietro un bancone improvvisato (una sorta di mela gigante), il padre replica alle accuse. “Lo scatto è stato fatto quando gli agenti erano già entrati e uno dei bambini stava solo prendendo dell’acqua… Io avevo detto loro di stare seduti, ma non mi hanno ascoltato. I miei figli vanno a scuola regolarmente e si trovavano dentro il gazebo perché in questo periodo ci sono le vacanze natalizie”, continua l’uomo. A Librino, la dispersione scolastica ha un tasso medio del 26%, con picchi, a seconda degli istituti, del 37%.

Sul posto non è presente il figlio più grande, maggiorenne, anche lui denunciato. E nemmeno la madre, ma al telefono la signora decide di parlare. “Non abbiamo frodato nessuno. Gli alcolici? Ma al massimo tenevamo nel congelatore solo dei gelati comprati in un discount”, dice la signora, dimenticando forse le diverse bottiglie immortalate nella foto della polizia, proprio dietro alla macchinetta del caffè. E i fuochi sequestrati? “Erano stati messi da parte perché volevamo spararli il giorno del mio compleanno. A Catania ormai si spara sempre, anche durante i funerali. Lei è informato di questo?”, chiede. “I bambini – continua – avevano i famosi cipollini. Fanno una scintilla quando vengono sbattuti a terra, sono petardi innocenti…”.

I lavori di smontaggio, intanto, non si fermano. Sedie e tavoli non ci sono più. Così come il bancone, ricavato da un chiosco personalizzato a forma di mela e adesso finito chissà dove. Dall’interno, si vede anche l’ingresso di una sorta di magazzino. Ovviamente abusivo. “Il 30 per cento degli immobili pubblici a Librino si trova in questa situazione”, spiega Dario Gulisano, responsabile politiche abitative Cgil. “Buona parte degli occupanti affronta un reale disagio, il resto è fatto da persone che non vivono in stato di povertà. Si tratta di veri e propri sciacalli sociali che tolgono un diritto a chi ne ha bisogno. C’è il sentore che dietro queste occupazioni ci sia anche la mano della mafia…”.

Nei controlli di questi giorni, che hanno riguardato la repressione dei reati commessi in danno dei minori e gli illeciti in materia di invasione di edifici pubblici, sono stati accertati e contestati 23 reati, indagate 11 persone in stato di libertà, controllate oltre 50 persone e molteplici attività commerciali, risultate totalmente abusive. Persino due supermercati. Sul caso di questa famiglia si concentreranno ora le verifiche dei servizi sociali del Comune. E a Librino, intanto, la vita continuerà. Come sempre.

Foggia, salta in aria il Suv di un testimone antimafia

Questa volta a Foggia tutti hanno sentito il botto, l’ennesimo da quando è iniziato il 2020. Una bomba, dall’alto potenziale distruttivo e dalle notevoli dimensioni, è esplosa la notte del 3 gennaio sotto l’auto di un testimone antimafia. Cristian Vigilante, responsabile delle risorse umane di una nota impresa sanitaria locale, la Rssa “Il Sorriso”, si è salvato per pura fortuna. “È terrorizzato, da ieri è in un posto al sicuro ma è preoccupato per la moglie e i suoi due gemelli”, racconta il fratello Luca, anche lui dirigente in alcune cliniche private foggiane. L’esplosione ha sventrato la Discovery Land Rover, danneggiando almeno una decina di auto parcheggiate vicino e facendo spaccare i vetri delle abitazioni ai primi piani di alcuni appartamenti della zona. Vigilante è un testimone dell’inchiesta “Decima Azione” che nel novembre 2018 portò in carcere 30 persone tra affiliati, fiancheggiatori e vertici delle famiglie mafiose foggiane Moretti-Lanza e Sinesi-Francavilla. “Grazie alla sua testimonianza vennero arrestate due persone che pretendevano assunzioni nella struttura sanitaria, la gravità del messaggio è chiara, vogliono soffocare quei pochi e timidi tentativi di denuncia di questo territorio” – evidenzia il Procuratore capo della Repubblica di Foggia Ludovico Vaccaro – “Vogliono creare un clima di intimidazione generalizzato, così non c’è più bisogno delle minacce esplicite, basta la bomba a creare una minaccia ambientale”. A Vigilante infatti, in questo anno non sono mai giunte richieste estorsive o minacce di alcun genere. Un copione che negli ultimi giorni si è ripetuto con impressionante precisione, anche i titolari dei due bar bruciati durante la sera di San Silvestro hanno raccontato agli inquirenti la stessa cosa. Della bomba sotto la macchina si occupa ora la Procura antimafia di Bari che dovrà anche capire se vi sono collegamenti, mafiosi, tra tutti questi episodi. Le indagini sono in corso ma è difficile pensare che in città si posa compiere un attentato senza che la Società Foggiana non ne sia al corrente.

“Ora che il terrore rischia di prendere il sopravvento, Foggia non deve arretrare di un solo millimetro, continuando ad avere fiducia nello Stato, che ha già dimostrato di saper mettere all’angolo la delinquenza comune e la criminalità organizzata. Le istituzioni continueranno a confermare tutto il sostegno alle azioni necessarie, a cominciare da un incremento di mezzi e uomini e dalla nascita della Dia a Foggia, di cui avvertiamo una urgenza non più differibile”, ha dichiarato il sindaco Franco Landella. Il Prefetto Raffaele Grassi ha disposto adeguate misure di tutela nei confronti di Vigilante, oltre a quelle già assunte in favore dei titolari degli esercizi commerciali danneggiati a fine anno.

Ex Ilva, martedì la decisione del Riesame sull’Altoforno 2

Martedì prossimo si saprà il destino dell’ex Ilva di Taranto. Il Tribunale del Riesame si pronuncerà infatti sul ricorso presentato dai legali dell’Ilva in As contro la decisione del giudice Francesco Maccagnano di respingere l’istanza di proroga della facoltà d’uso per l’Altoforno 2 dello stabilimento siderurgico pugliese, sequestrato a giugno 2015 nell’ambito dell’inchiesta sulla morte dell’operaio Francesco Morricella. Sempre il 7 gennaio termineranno anche le operazioni preliminari di spegnimento e dal giorno seguente, senza altre disposizioni e secondo il cronoprogramma del custode giudiziario, l’impianto dovrebbe fermarsi.

Arcelor Mittal già da tempo ha comunicato di voler ricorrere alla cassa integrazione straordinaria per 3.500 lavoratori. E proprio il 30 dicembre scorso è ripartita, senza accordo sindacale, la Cassa integrazione ordinaria (Cigo) per 1.273 dipendenti che durerà altre 13 settimane. L’ipotesi di una fumata nera riaccende le preoccupazioni dei sindacati: un nuovo eventuale stop all’Afo2 da parte della magistratura di Taranto, infatti, equivarrebbe a una “tragedia” occupazionale. “Nel solo impianto di Taranto ci sarebbero 4.700 esuberi a causa del drastico calo della produzione. Un’ipotesi che non potremmo mai avallare. Se si ferma l’Afo2 saremo pronti ad una trattativa sul modello dell’Ast di Terni”, dice per tutti Rocco Palombella, segretario generale Uilm, ricordando la famosa vertenza sul piano industriale di Acciai Speciali Terni guidata anche allora dallo stesso ad, Lucia Morselli, che vide un braccio di ferro tra azienda e sindacati lungo quattro mesi tra incontri e scontri e scioperi. A preoccupare i sindacati anche il timore di poter essere estromessi dalla trattativa portante, quella che il governo si è impegnato a portare a termine con Mittal.

Quella vana resistenza del popolo Mapuche: “Benetton intoccabili”

“Non mi illudevo di convincere Luciano Benetton a rinunciare al milione di ettari che la famiglia possiede in Patagonia. Ma almeno aprire una trattativa con il popolo dei Mapuche che rivendica le terre ancestrali, grazie alla mediazione dell’Università di Buenos Aires. Invece ho trovato un muro. Ho avuto contatti con la sua compagna, mi sono stati forniti documenti. Alla fine ho dovuto arrendermi. Anche lui è espressione del capitalismo neoliberista”. C’è delusione nelle parole che il professor Massimo Venturi Ferriolo soppesa, mentre – nello studio a due passi dal Politecnico di Milano, dove ha insegnato Estetica – racconta di una riconciliazione impossibile. Nell’autunno del patriarca di Ponzano Veneto, ormai 84enne, impegnato a raddrizzare le sorti del gruppo, non c’è spazio e forse neppure tempo per occuparsi di quella ferita etnica aperta.

“Da noi Benetton incarna la figura di un imprenditore progressista, antirazzista. In Sudamerica ha un volto completamente diverso. Il sospetto mi è venuto quando qualche collega argentino ha cominciato a chiedermi: ‘Non sai cosa fa qui da noi?’ Allora ho voluto approfondire, studiare, informarmi”. Pochi sanno che Venturi Ferriolo, nell’agosto 2018 si dimise dal comitato scientifico della Fondazione Benetton a Treviso, che si occupa di promozione culturale e ambientale. Da pochi giorni era crollato il ponte Morandi a Genova, Autostrade era già nel mirino, la famiglia era travagliata dai problemi. A luglio era mancato il fratello più giovane, Carlo, che si è sempre occupato delle proprietà in Patagonia. Gilberto, la mente finanziaria, malato, si sarebbe spento in ottobre. Venturi Ferriolo si dimise a causa del conflitto permanente dei Benetton, moderni latifondisti, con i Mapuche, che vivono in Argentina e Cile. Un popolo oppresso, depredato, accusato di azioni violente e, perfino, di terrorismo dalle autorità. Ma a marzo un giudice li ha assolti dall’accusa di occupazione abusiva e furto di bestiame, invocando una soluzione politica, non giudiziaria.

Il professore scrisse all’imprenditore-mecenate una lettera in cui chiedeva conto di quello che egli aveva interpretato come un tradimento di valori culturali condivisi. Luciano Benetton la prese molto male. Eppure mandò Laura Pollini, ad di Fabrica (il laboratorio creativo del Gruppo) per un chiarimento. “Speravo che avrebbero aperto le terre ai Mapuche. Mi è stato detto che gli eredi di Carlo hanno messo il veto. ‘Che dicano pure quello che vogliono…’. Questa la frase con cui hanno liquidato la questione”.

Venturi Ferriolo ha così deciso di uscire allo scoperto, pochi giorni dopo la notte di Natale, in cui un gruppo di mapuche ha occupato la fattoria El Maitén (120 mila ettari) “per la necessità primaria di continuare a esistere nel nostro territorio”. “Solo il Fatto Quotidiano ne ha scritto. Tutti gli altri giornali zitti. I Benetton sono intoccabili”, conclude il professore-filosofo. Da molto tempo si parla delle terre contese. Nel 2004, con il sindaco di Roma Walter Veltroni, tentò una mediazione anche Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace. Che a Benetton disse: “Lei è un antico signore feudale”. L’unico risultato fu l’offerta di donare 7.500 ettari agli indios, che rifiutarono sdegnosamente. Anche perché sono i protagonisti di una tragica storia di colonialismo europeo, spoliazione dell’Argentina, susseguirsi di governanti compiacenti e morti misteriose.

L’attivista Santiago Maldonado, 28 anni, scomparve nel 2017 dopo una manifestazione dispersa dalla polizia e il suo corpo fu trovato otto mesi dopo in un fiume. Rafael Nahuel, 22 anni, fu ucciso mentre le truppe speciali sgomberavano i Mapuche a Bariloche. In Cile, un anno fa, Camilo Catrillanca, 24 anni, venne ammazzato mentre guidava un trattore, forse dai carabineros. I Benetton non c’entrano con quelle morti, che però dimostrano il clima repressivo che circonda i Mapuche, accusati dalle autorità (senza prove) di rapporti con le Farc colombiane, i movimenti curdi e l’Eta.

La sostanza è fatta di potere e ricchezza. I 920 mila ettari dei Benetton sono vasti come le Marche. Nel 1896 il presidente argentino Uriburu (violando la legge) li donò a dieci cittadini inglesi, i quali (violando la legge) li rivendettero a una compagnia privata. Le azioni passarono di mano, la società divenne nel 1982 la Compañia de Tierras Sud Argentino, il cui controllo fu acquistato dai Benetton nel 1991 per 50 milioni di dollari, attraverso Holding Edizione Real Estate. Oggi è la più grande proprietà terriera argentina, con 260 mila ovini e 16 mila bovini. Luciano Benetton sostiene che l’acquisto fu legale e i Mapuche non furono cacciati. Questi ultimi dicono che nessuno li può privare del diritto alle terre ancestrali, sancito dalla Costituzione argentina. Non a caso il nome significa “uomini della terra”. Ma laggiù, nel sottosuolo, si cercano anche petrolio e ricchezze minerarie. Una tentazione ghiotta e irrinunciabile per gli United colors of dollar.

Il mistero degli operai nei cantieri: ci sono, però nessuno li vede

“Cantieri deserti. È inaccettabile: le autostrade liguri ormai sono costellate di birilli, corsie chiuse, cartelli di ogni genere. Ma poi spesso non vedi operai al lavoro. Che cosa sta succedendo?”. Alice Salvatore, consigliere regionale M5S, pone una domanda che nelle ultime settimane molti liguri si sono fatti. Tra gli altri anche Maurizio Rossi, ex senatore eletto con Scelta Civica, che dalla sua emittente tv Primocanale ha più volte chiesto spiegazioni ad Aspi: “In tanti ci domandiamo perché le autostrade della Liguria siano piene di cantieri, ma spesso capiti di non vedere nessuno che ci lavora. Il dubbio è lecito: viene da chiedersi se Autostrade non riduca la circolazione a una sola corsia soltanto per alleggerire i viadotti del peso delle auto perché ci sono dei problemi strutturali. Ma si potrebbe anche pensare che i lavori procedano a rilento perché non si investe a sufficienza. Più volte abbiamo chiesto chiarimenti, ma non abbiamo ricevuto informazioni adeguate”.

Rossi si occupa di autostrade già dai tempi del suo impegno in Senato: “In Commissione eravamo riusciti a diminuire dal 40 al 20 per cento la quota dei lavori che le concessionarie potevano affidare in house, cioè a società del gruppo. Ma poi la modifica, essenziale anche per la sicurezza e la corretta manutenzione, fu bocciata”.

Nei mesi scorsi Autostrade aveva annunciato un “piano eccezionale” di interventi in Liguria: si era parlato di 105 cantieri per un totale di quasi 9 milioni di investimenti. Meno, aveva notato qualcuno, di quanto previsto come liquidazione per l’ex amministrazione delegato Giovanni Castellucci al quale erano destinati 13 milioni (Autostrade, però, ha recentemente bloccato il pagamento della seconda tranche che doveva essere corrisposta a inizio gennaio).

Ma il dubbio, come ha verificato il cronista nelle scorse settimane, resta: sulla A7 tra Genova e Milano in diversi cantieri non erano visibili operai. Stessa scena sulla A10, la Savona-Genova. Autostrade respinge gli addebiti: “Se non si vedono operai, non significa che i lavori non siano in corso. Talvolta gli addetti stanno lavorando in zone non visibili, come alla base dei viadotti o nei cassoni posti sotto la sede stradale. Altre volte è una semplice questione di turnazione”.

I Cinque Stelle hanno deciso di presentare un esposto sulle autostrade liguri alla Procura. Tra gli episodi citati nel documento c’è il recente crollo di una parte della volta della galleria della A26 (Genova-Gravellona Toce) in prossimità di Masone: “L’ultimo crollo conferma una situazione fuori controllo quanto meno per la manutenzione, ma anche per la prevenzione in riferimento al rischio idrogeologico e idraulico… Un utente, nei giorni precedenti il crollo, aveva segnalato infiltrazioni d’acqua dalla volta senza che vi fosse un pronto intervento del gestore”. Ma il nodo dell’esposto è un altro: il concedente, cioè lo Stato, dovrebbe poter svolgere i controlli di sicurezza, mentre in Italia le verifiche finora sono state svolte da società del gruppo Autostrade (Spea). E anche oggi, dopo le inchieste, Aspi ha deciso di affidarsi a soggetti terzi, sempre però indicati dal concessionario.

Il M5S nell’esposto ricorda una direttiva europea in cui si stabilisce che “gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le strade aperte al traffico siano soggette a ispezioni di sicurezza al fine di individuare le caratteristiche connesse alla sicurezza stradale e di prevenire gli incidenti”. Ecco la questione: “La Direzione generale” del ministero delle Infrastrutture “non è mai stata in grado di svolgere un efficace monitoraggio su tutte le infrastrutture (viadotti e tunnel) che rientrano nelle concessioni dei 19 gestori autostradali”.

È lo stesso concetto più volte ripetuto da Francesco Cozzi, procuratore di Genova: “Non è possibile che sia la società concessionaria ad affidare le verifiche tecniche. Non era sensato che fosse una società controllata a compierle, ma non è opportuno nemmeno che siano svolte da terzi selezionati dal concessionario”. In sostanza: a controllare deve essere il concedente (lo Stato) o un soggetto indicato dal ministero, perché alla base delle verifiche devono esserci gli interessi del proprietario delle autostrade. Quindi la sicurezza degli automobilisti e la conservazione delle opere.

Intanto, però, in Liguria l’attenzione resta concentrata su questo weekend: il 6 sarà la giornata del grande rientro e il 7 si attendono centinaia di tir diretti ai porti di Genova e Savona. La riapertura della galleria Berté dovrebbe, però, arrivare tra martedì e mercoledì prossimi.