Autostrade vuole trattare. E si fa bella con i rimborsi

Il nodo si fa sempre più stretto per Autostrade per l’Italia con il governo che potrebbe prendere una decisione sulla revoca della gestione di oltre 3 mila chilometri di rete autostradale in uno dei primi Cdm dopo la Befana. Così, dopo la carta del dialogo giocata dall’Associazione delle società concessionarie delle autostrade, ora anche Aspi si dice pronta a trattare per salvare la concessione ed evitare che “sia distrutto un patrimonio industriale del Paese”. È l’ad del Gruppo Roberto Tomasi, in un’intervista al Corriere, a mitigare il confronto con l’esecutivo sulla possibile revoca che, secondo quanto previsto dall’articolo 35 del Milleproroghe, prevede oltre all’affidamento temporaneo ad Anas anche il taglio dell’indennizzo che passerebbe nel caso di Aspi da 23 miliardi a 7. Il provvedimento, che la prossima settimana inizierà il suo iter alla Camera, crea le precondizioni per consentire a Palazzo Chigi di regolare i conti con Aspi dopo il crollo di Genova. Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, da parte sua, sta mettendo insieme i pareri dell’Avvocatura dello Stato e pure della Corte dei Conti che saranno utili per blindare le decisioni del governo.

La revoca e un indennizzo ridotto – spiega Tomasi – rappresenterebbero però per il gruppo dei Benetton “il rischio fallimento” con Atlantia che ha iniziato il 2020 bruciando altri 360 milioni di capitalizzazione. Insomma, la minaccia paventata fin qui da Aspi sulla possibile risoluzione automatica della Convenzione unica, lascia ora il posto al dialogo e alla richiesta di compassione “nell’interesse dei 7 mila lavoratori di Aspi, degli stakeholder e di tutti gli italiani”.

Un messaggio che si affianca a un nuovo “piano straordinario per assistere e informare gli automobilisti”, che Aspi ha comunicato per la A14 Bologna-Taranto, dove durante i rientri dalle festività è previsto traffico intenso anche a causa dei viadotti sequestrati dall’autorità giudiziaria: gli automobilisti potranno chiedere rimborsi in caso di criticità del traffico nelle giornate del 5, 6 e 7 gennaio. “In caso di code significative per i restringimenti, dall’8 gennaio sarà possibile chiedere rimborsi del pedaggio”, ha detto Aspi.

Non solo governo. I guai nelle Regioni

Sono diverse le inchieste delle Procure italiane che potrebbero avere ripercussioni anche sulla politica locale.
Calabria: uno degli ultimi esempi risale a solo pochi giorni fa con il blitz dell’operazione “Rinascita-Scott” della Procura di Catanzaro. Sono scattati 334 arresti, gli indagati ammontano a 416. La Dda di Catanzaro ha smantellato la cosca Mancuso attiva in provincia di Vibo Valentia. Ma, oltre ai boss, nell’indagine sono finiti anche ex parlamentari, ex consiglieri regionali e sindaci. I politici arrestati sono il sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo (ex Pd), il consigliere regionale Luigi Incarnato (la misura dei domiciliari in questo caso è stata revocata dal Tribunale del Riesame) e l’ex parlamentare Nicola Adamo. Per quest’ultimo, accusato di traffico di influenze, è stato disposto il divieto di dimora in Calabria. E poi c’è Giancarlo Pittelli, ex senatore di Forza Italia, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. “È la più grande operazione dopo quella che portò al maxi-processo di Palermo a Cosa Nostra”, ha detto il giorno del blitz il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. “Oggi è giornata storica e non solo per la Calabria – ha aggiunto –. Ho dedicato più di 30 anni del mio lavoro a questa terra: smontare la Calabria come un Lego e poi rimontarla piano piano”.
Lombardia: ha rappresentato un terremoto anche l’indagine denominata “mensa dei poveri”. Al centro, la figura dell’ex responsabile di Forza Italia a Varese Nino Caianiello, detto Jurassic Park, presunto “burattinaio” di un sistema di tangenti, appalti e nomine pilotate e finanziamenti illeciti. In un filone di questa inchiesta era finita ai domiciliari anche l’ex eurodeputata Lara Comi. Misura per lei revocata dal Tribunale del Riesame. La Comi era accusata di corruzione, truffa aggravata al Parlamento europeo, finanziamento illecito e false fatture.

Voli, soldi e potere: le indagini che fanno tremare la politica

Il 2020 sarà un anno importante per le inchieste che hanno coinvolto o anche solo sfiorato la politica italiana. Si conoscerà l’esito di molti processi e pure di parecchie indagini. Da Matteo Salvini a Luca Lotti, tanti politici si ritrovano a dover affrontare qualche grana giudiziaria.

In casa Lega ce ne se sono diverse da risolvere. Per il leader del Carroccio ed ex ministro, per esempio, si attende la decisione della Giunta per le autorizzazioni a procedere al Senato per il caso Gregoretti (la vicenda riguarda 131 migranti trattenuti per cinque giorni a bordo della nave della Guardia Costiera). Non solo. Quest’anno si saprà anche l’esito di un’altra inchiesta in cui Salvini è indagato per abuso d’ufficio, quella che riguarda alcuni voli di Stato. Nel suo stesso partito si contano altri indagati, come l’ex sottosegretario Armando Siri accusato di corruzione.

Quello che verrà potrebbe non essere un anno spensierato anche per alcuni renziani. Luca Lotti (rimasto nel Pd dopo la scissione di Matteo Renzi, per fondare Italia Viva) deve affrontare un processo per favoreggiamento a Roma. A Firenze c’è l’inchiesta sulla Fondazione Open. Qui la Procura ha indagato il suo ex presidente Alberto Bianchi per traffico di influenze e finanziamento illecito. Nei mesi scorsi sono stati anche perquisiti alcuni finanziatori della Open (non indagati).

E poi ci sono diversi altri procedimenti in cui, seppure i politici non sono indagati, hanno svelato interessanti retroscena. Come l’inchiesta di Perugia sul Csm o quella sull’Air Force di Renzi.

 

Lo scandalo Consip

Dal 15 gennaio, Luca Lotti & C. a processo per favoreggiamento

Inizierà il prossimo 15 gennaio il processo a Luca Lotti, ex ministro dello Sport, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e fedelissimo di Matteo Renzi (anche se con la scissione è rimasto nel Pd). È imputato di favoreggiamento nell’ambito del filone dell’indagine “Consip” che riguarda chi spifferò all’ex amministratore delegato della Centrale acquisti, Luigi Marroni, l’esistenza di un’inchiesta napoletana sulla società che gestisce gran parte dei maggiori appalti pubblici. Con Lotti a processo ci sono finiti anche l’ex comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette (accusato di rivelazione di segreto) e l’ex comandante della Legione Toscana, Emanuele Saltalamacchia, imputato di favoreggiamento. A processo anche l’ex presidente della fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni, anche questi accusato di favoreggiamento. Tutti gli imputati hanno sempre respinto le accuse.

 

L’aereo di Stato e la fondazione

Le inchieste sull’Air Force Renzi e sui fondi & favori del caso Open

Proseguono da mesi gli accertamenti della Finanza sugli accordi sottoscritti per l’Airbus A340-500, preso in leasing dalla compagnia Etihad ai tempi del governo di Matteo Renzi per effettuare voli di Stato al servizio di Palazzo Chigi. La Procura di Civitavecchia ha un fascicolo aperto sul crac di Alitalia ed è nell’ambito di questa inchiesta che sono stati delegati gli approfondimenti. L’ex premier Renzi non è stato sfiorato dalle indagini dei pm di Civitavecchia. Come pure non è sotto inchiesta a Firenze dove invece alcuni suoi fedelissimi sono finiti indagati nel fascicolo che riguarda la Open: l’ex presidente della Fondazione Alberto Bianchi è accusato di traffico di influenze e finanziamento illecito. Quest’ultimo reato è contestato anche a Marco Carrai, che nella Open è stato membro del Cda. Al centro dell’inchiesta c’è una consulenza affidata allo studio legale Bianchi nel 2016 dalla Toto Costruzioni. Per i pm nascondeva un finanziamento.

 

Finanziamento illecito ai partiti

Bonifazi (Iv) e Centemero (Lega), i due tesorieri sotto accusa

Il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, rischia il processo. E come lui anche l’ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi (ora in Italia Viva). I pm di Roma nei mesi scorsi hanno chiuso l’indagine sui flussi di denaro partiti dall’imprenditore Luca Parnasi e indirizzati, secondo le accuse, alla politica. Finanziamento illecito è il reato contestato. Per quanto riguarda il leghista al centro dell’inchiesta, c’è un finanziamento da 250 mila euro erogato tra il 2015 e il 2016 dalla Immobiliare Pentapigna srl (in passato riconducibile a Parnasi) alla “Più voci”, onlus di area leghista. La Procura è convinta che la “Più Voci” sia “riconducibile alla Lega Nord quale sua diretta emanazione e comunque costituente una sua articolazione”. Per Bonifazi invece l’indagine riguarda 150 mila euro pagati dalla Immobiliare Pentapigna Srl a cavallo delle scorse elezioni politiche per uno studio di ricerca: per i pm la ricerca era un modo per camuffare il contributo economico.

 

Ipotesi di abuso e sequestro

Salvini nei guai per i voli di Stato e i migranti sulla nave Gregoretti

Matteo Salvini ha qualche grana giudiziaria da risolvere. La prima riguarda il “caso Gregoretti”, la nave della Guardia costiera italiana sulla quale nel luglio scorso 131 migranti sono stati trattenuti per cinque giorni. L’allora ministro è finito indagato per sequestro aggravato di persona e il 20 dicembre 2019 il Tribunale dei ministri di Catania ha chiesto il processo e inviato gli atti alla Giunta per l’autorizzazione a procedere al Senato, che ancora non decide. C’è un fascicolo sull’ex vicepremier anche in un altro Tribunale dei ministri, quello di Roma. Qui Salvini è indagato per abuso d’ufficio nell’ambito di un’inchiesta su alcuni voli di Stato utilizzati quando era ministro. La Procura di Roma, dopo aver ricevuto il fascicolo dalla Corte dei conti, lo ha iscritto nel registro degli indagati come atto “dovuto” e ha trasmesso le carte al Tribunale dei ministri. La vicenda riguarda alcune trasferte su velivoli di Polizia e Vigili del fuoco. Alcuni voli sono avvenuti su un Piaggio P-180, noto come “la Ferrari dei cieli”.

 

Il denaro del Carroccio

Dalla caccia ai 49 milioni all’associazione Maroni

L’inchiesta sui 49 milioni della Lega che devono essere restituiti allo Stato pare vicina a una svolta. I pm genovesi Francesco Pinto e Paola Calleri, insieme con la Guardia di Finanza, a dicembre hanno sentito almeno due testimoni. Il nuovo filone riguarda i 450 mila euro (secondo l’accusa parte del denaro proveniente dalla truffa ai danni del Parlamento) che dalle casse della Lega sarebbero andati all’associazione Maroni Presidente e da qui a due tipografie lombarde cui sarebbe stato commissionato materiale elettorale che, a detta dei pm, non sarebbe stato realizzato. Alla fine, il denaro sarebbe tornato nelle casse del Carroccio. Movimenti effettuati in diverse tranche dal 2013 all’aprile 2018, quindi già durante la segreteria di Matteo Salvini. Finora sul fascicolo degli indagati, con l’ipotesi di riciclaggio, è iscritto solo Stefano Bruno Galli (in foto), già ai vertici dell’associazione Maroni Presidente e oggi assessore della giunta regionale lombarda di Attilio Fontana.

 

L’hotel Metropol

L’ex portavoce del leader della Lega e gli affari con i russi

Il cosiddetto “caso Moscopoli” è esploso nel giugno scorso. Corruzione internazionale è il reato per il quale indaga la Procura di Milano che ha aperto un fascicolo sulla base di alcuni articoli pubblicati su L’Espresso. Al centro c’è l’incontro nell’hotel Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018. Presente Gianluca Savoini, all’epoca portavoce di Salvini per le questioni russe. Al tavolo sei persone, tre italiani (oltre a Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda e il manager Francesco Vannucci) e tre russi. Si discute di un carico di 1,5 miliardi di dollari dal quale fare uscire 65 milioni per la Lega e per finanziare le elezioni europee del maggio scorso. Il tutto registrato in un audio il cui autore ad oggi è ancora ignoto. Così a luglio scattano le perquisizioni e i sequestri a carico dei tre indagati (Savoini, Meranda, Vannucci). I pm cercano dunque la prova dell’accordo. Eni non è coinvolta.

 

I rapporti con Arata e San Marino

Siri, i 30 mila euro promessi e il mutuo senza garanzie

Tra i leghisti finiti sotto inchiesta c’è anche il senatore Armando Siri. L’ex sottosegretario è indagato a Roma per corruzione per aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire l’ex parlamentare forzista Paolo Arata in cambio di 30 mila euro, dati o promessi. A prova di ciò per i pm c’è un’intercettazione fra Arata e il figlio in cui si parla della “somma di denaro pattuita a favore di Siri per la sua attività di sollecitazione dell’approvazione di norme che l’avrebbero favorito”. L’indagine romana è ancora in corso. Ma Siri è finito sotto inchiesta anche a Milano: in questo caso i pm contestano l’autoriciclaggio a causa di un prestito ottenuto – secondo i pm senza le dovute garanzie – da un istituto bancario di San Marino. Per quanto riguarda l’indagine milanese, la Giunta per le autorizzazioni del Senato ha dato il via libera ai magistrati per poter sequestrare due pc e sms, email e altri contenuti del cellulare di un collaboratore di Siri.

 

Csm: i giochi svelati dal trojan

Le nomine dei procuratori capo suggerite da toghe e politici

Durante l’estate del 2019 Palazzo dei Marescialli si è trovato sull’orlo dello scioglimento: un’indagine della Procura di Perugia ha scatenato un terremoto nel Consiglio superiore della Magistratura (Csm). Tutto è nato da alcune accuse mosse contro Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm, ex Csm, pm di Roma sospeso, finito sotto inchiesta per corruzione per alcune utilità, come soggiorni all’estero, pagati da un imprenditore. In questo fascicolo nessun politico è indagato, ma il trojan installato sul cellulare di Palamara ha svelato lo scenario della politica al tavolo con le toghe per discutere delle nomine dei futuri capi delle Procure. Viene fuori così un incontro notturno tra 5 togati del Csm, poi dimissionari e due parlamentari: Cosimo Ferri, ora a Italia Viva, magistrato in aspettativa e Luca Lotti, deputato Pd: per la nomina a procuratore di Roma volevano puntare sul pg di Firenze Marcello Viola (a sua insaputa). Ferri e Lotti non sono indagati.

 

Torino in bilico

Appendino, il debito da 5 milioni e la tragedia di piazza San Carlo

La sindaca di Torino Chiara Appendino si prepara ad affrontare due processi importanti col rito abbreviato. Il 6 febbraio i pm Enrica Gabetta e Marco Gianoglio terranno la requisitoria nel processo sul caso Ream, in merito all’iscrizione a bilancio di un vecchio debito da 5 milioni di euro. La sindaca è indagata per falso in atto pubblico e abuso d’ufficio in concorso con l’assessore al Bilancio Sergio Rolando, il direttore finanziario della città Paolo Lubbia e l’ex capo di gabinetto, Paolo Giordana. In caso di condanna per abuso, Appendino rischierebbe la sospensione in base alla legge Severino. Il 21 febbraio, poi, la sindaca e altri quattro imputati affronteranno il processo, sempre in abbreviato, per gli incidenti di piazza San Carlo del 3 giugno 2017: il pm Vincenzo Pacileo li accusa di disastro, lesioni e duplice omicidio colposo (per le morti di Erika Pioletti e Marisa Amato).

 

La passione dell’urbanistica

De Luca in aula per gli illeciti di piazza della Libertà a Salerno

Per dirla con le parole dei Figli delle Chiancarelle, la pagina social che da quasi un decennio satireggia il deluchismo, il processo sui presunti illeciti nella realizzazione di piazza della Libertà a Salerno, l’ultima e residuale pendenza penale del governatore dem della Campania, Vincenzo De Luca, “va avanti alla velocità di un pachiderma zoppo”. È iniziato il 9 marzo 2018, per reati risalenti al 2010-12, e colleziona ritardi e rinvii de plano. Gli imputati sono 26 tra amministratori comunali, funzionari pubblici e imprenditori accusati a vario titolo di falso, turbativa d’asta, peculato e false fatturazioni. De Luca è coinvolto da ex sindaco di Salerno che volle ridisegnare l’urbanistica della città, fino a stravolgere il lungomare con il Crescent – per il quale è stato assolto da un’accusa di abuso d’ufficio – e la sottostante piazza della Libertà. L’imputazione per falso di De Luca comunque non è a rischio legge Severino: resterebbe in carica anche in caso di condanna.

Il Sap infila Salvini nella calza. I frati: “Non è un comizio”

Sul palco, assicurano gli organizzatori, Matteo Salvini non salirà ma di certo una porzione di carbone se l’è già guadagnata. Befana con sorpresa per i frati dell’Antoniano di Bologna che al consueto appuntamento annuale organizzato dal sindacato di polizia Sap si ritroveranno il leader della Lega. Una scelta che ha lasciato un po’ interdetti i frati: “Non vogliamo che diventi un appuntamento elettorale, non è questo lo spirito della festa”. Da più di vent’anni i poliziotti organizzano nel teatro dell’Ordine francescano una festa per le famiglie e i bambini: musica, animazione e la consueta Befana che lascia calze piene di dolci e carbone. Presenziano anche politici più o meno locali e personalità varie: tra gli altri Pier Ferdinando Casini, attuale senatore, Maurizio Cevenini consigliere regionale molto amato in città tragicamente scomparso, Gianni Morandi e persino Alvaro Vitali, noto ai più come Pierino.

Quest’anno l’ospite d’onore però sarà l’ex ministro degli Interni, che ha già inserito l’appuntamento tradizionale nel suo tour elettorale in Emilia-Romagna. Scorrendo gli eventi della sua pagina ufficiale Facebook, infatti, si nota che quel giorno Salvini ha segnato ben tre appuntamenti: la mattina presto a Lugo di Romagna (in provincia di Ravenna), Bologna e poi nel pomeriggio a Bondeno, nel Ferrarese. Difficile distinguere l’uno dagli altri. “Non sapevamo che lo avessero invitato, l’organizzazione a noi non compete, il punto è la campagna per le prossime elezioni del 26 gennaio, non possiamo e non vogliamo prendere le parti politiche di nessuno perché la Chiesa accoglie tutti indistintamente. Salvini l’ha presentata come una tappa del suo tour, l’ha annunciata come tale e per noi questo è un problema. Abbiamo manifestato le nostre perplessità al Sap, la festa è per i bambini, non vogliamo sia strumentalizzata”, sottolinea fra’ Giampaolo Cavalli, direttore dell’Antoniano, in tour in Cina con i bambini del Piccolo Coro.

“Io sarò a Pechino, ma ho avuto rassicurazioni dal segretario regionale Tonino Guglielmi che non diventerà un evento politico e mi fido di lui”. Meno forse di Salvini, abituato a prendersi spazi ovunque e dovunque. “Siamo francescani e seguiamo gli insegnamenti di accoglienza, crediamo sia il modo per costruire una società migliore, chiunque entri in Antoniano da qualsiasi luogo arrivi si sente accolto. La carità, espressione della fede cristiana, è il fondamento delle attività, lo stile che vuole contraddistinguere chi opera qui”. Punto e a capo, insomma.

Lo scorso febbraio la onlus dei francescani, dopo tre anni di collaborazione con la Prefettura di Bologna per l’accoglienza di richiedenti asilo, decise di ritirarsi dalla partecipazione ai bandi per l’accoglienza straordinaria di richiedenti asilo e protezione internazionale. Alla luce dei nuovi bandi, infatti “non si sarebbe più in grado di rispondere ai valori di una buona accoglienza e ai bisogni dei migranti attraverso professionalità specifiche di giovani e motivati lavoratori”.

Nessun problema per Gugliemi, rappresentante di 1000 poliziotti solo sul territorio emiliano-romagnolo: “Il Sap organizza questa festa per i bambini da almeno due decenni, io personalmente ho una lista di inviti pronta per tutti i politici regionali che aggiorno ogni anno, non capisco la polemica, mi sembra strumentale”.

Sbagliata anche l’accusa di essere un’organizzazione di destra, nonostante l’elezione a deputato con la Lega dell’ex presidente nazionale del Sap, Gianni Tonelli: “Abbiamo anche poliziotti iscritti che militano nel Movimento 5 Stelle o nel Partito democratico, ma non lo si dice mai. Spero vengano anche Stefano Bonaccini e Luigi Di Maio, ho invitato anche Nicola Zingaretti e mi ha già confermato la sua presenza Anna Maria Bernini, capogruppo al Senato di Forza Italia, e forse ci sarà anche Vittorio Sgarbi, candidato in sostegno della Borgonzoni. Anche cinque anni fa, quando si andò al voto per la Regione, in anticipo sui tempi organizzammo lo stesso l’evento, venne il consigliere regionale simbolo del Pd, Cevenini, ma nessuno si lamentò in quel caso”.

Il sogno dem di un’intesa anti-De Luca

I più contenti dell’assenza della Campania tra le regioni da mettere a gara sulla piattaforma Rousseau per la presidenza in quota M5S sono i pidini napoletani. “Ci auguriamo che sia un segnale di apertura, un incoraggiamento ad avviare trattative che finora non ci sono state” spiegano fonti della segreteria provinciale Pd “da parte nostra, c’è la disponibilità ad aprire su un nome terzo di alto profilo”. Ma chi, in casa del partito di Nicola Zingaretti, metterebbe la faccia nel chiedere ufficialmente al governatore uscente Vincenzo De Luca di fare un passo indietro? Riavvolgiamo il nastro alle prime interviste rilasciate da Marco Sarracino dopo l’elezione a segretario del Pd di Napoli, avvenuta un mese fa da candidato unico. Il filo conduttore delle sue dichiarazioni: “Vorrei lavorare a un’alleanza coi grillini partendo dalla riconferma di De Luca”. Parole che in casa Cinque Stelle hanno il significato di un ossimoro.

Come è noto anche ai sassi, infatti, l’ipotesi di un De Luca bis è il principale ostacolo all’intesa. Cinque anni di insulti tra il governatore e Luigi Di Maio – e la sua fedelissima capogruppo in consiglio regionale, Valeria Ciarambino – non si cancellano con un tocco di bacchetta. E quando De Luca, poco dopo la nascita del Conte 2, alzò il telefono per chiamare il più moderato tra i consiglieri pentastellati, Tommaso Malerba, e sondare con prudenza e discrezione la possibilità di un dialogo di fine legislatura, fu sputtanato quasi in diretta da una raffica di comunicati sbeffeggianti.

“Solo chi vive a Roma e non conosce la realtà locale può pensare che sia ancora possibile chiedere a De Luca di ritirarsi: è in campagna elettorale da mesi a suon di delibere e determine ‘mancia’ ed ha già pronte le liste civiche di sostegno” sostiene una fonte grillina del consiglio regionale campano, che però concorda sul tipo di segnale lanciato sul Blog delle Stelle. “È un invito a prendere un altro poco di tempo per trattare. Ma forse è stata una mossa avventata, c’è il rischio di restare fermi e perdere tempo mentre gli altri corrono”.

Lo stallo è figlio della mai risolta contrapposizione tra le due anime pentastellate napoletane, quella filo centrosinistra di Roberto Fico, e quella che ha maldigerito l’accordo nazionale col Pd che fa capo a Luigi Di Maio. La prima ha in mente un nome solo: il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, provando a convincere i dem a seguirli. La seconda vorrebbe ricandidare Ciarambino, legittimandola con le regionarie su Internet e qualche lista civica. Ma il tavolo della discussione in Campania tra Pd e M5S semplicemente non c’è. Non sono riusciti a incontrarsi nemmeno per le suppletive al Senato del 23 febbraio. Si torna a votare per il collegio Napoli-Arenella in cui fu eletto il compianto Franco Ortolani. Il M5S lo vinse con oltre 30 punti di vantaggio.

Restituzioni, fronda a 5Stelle: “Basta soldi sul conto privato”

Ormai si ribellano apertamente e rivendicano lo scontro frontale. Uno, due, tre e chissà quanti altri parlamentari del Movimento sono pronti a farsi cacciare da qui a pochi giorni, nel nome delle restituzioni che non vogliono più effettuare, perché ufficialmente contestano destinazione e utilizzo di tutti quei soldi. E ai piani alti del M5S, il capo Luigi Di Maio e il collegio dei probiviri sono placidamente pronti a calare la scure su almeno una decina di “irriducibili”. “Tanto molti di quelli che vogliono tenersi i soldi sosterranno comunque il governo, non rinunceranno mai alla poltrona” è il rude ragionamento che fanno lassù.

I conti, in tutti i sensi, verranno fatti in una riunione a Roma dopodomani (ma potrebbe slittare a mercoledì) tra i probiviri e i capigruppo di Camera e Senato. Poi nel giro di qualche giorno verranno avviate le procedure, con misure differenziate. Ossia, con la sospensione dal gruppo per chi risulterà ancora indietro di qualche mese rispetto alla scadenza del 31 dicembre (entro cui bisognava aver effettuato i versamenti fino al mese di ottobre). E l’espulsione per chi non ha dato nulla nel 2019. Un criterio per provare a mettere ordine nel caos delle restituzioni, eterna croce per il Movimento. E ad alimentare la confusione contribuiscono ritardi e disservizi tecnici. Perché tra fine dicembre e le ultime ore in diversi si sono messi del tutto o quasi in pari. “Ma sul sito tirendiconto.it non figurano gli ultimi pagamenti” lamentano.

È accaduto anche a big come il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, che ha versato tutto. O all’ex sottosegretario Simone Valente: “Ho pagato i mesi in arretrato, devo solo caricare il bonifico per il mese di ottobre”. Ma c’è anche chi non ne vuole proprio sapere. Comunque una grana per i vertici, che anche ieri hanno inondato i parlamentari inadempienti di email con l’invito a mettersi in regola. Un pressing iniziato settimane fa, con una missiva che a molti era parsa come vergata da Davide Casaleggio: “Hai il dovere morale di restituire nei confronti degli attivisti”. Ma non poteva essere così semplice. E presto potranno rotolare teste. Anche a Palazzo Madama, dove la maggioranza di governo non gode di largo margine. E il più in bilico pare il senatore pugliese Alfonso Ciampolillo, che non versa dal giugno 2018. I 5Stelle lo danno ormai con un piede e mezzo fuori (“non lo vediamo praticamente più”). Altri quattro non hanno versato nulla nel 2019. Ma pare che Luigi Di Marzio, Cristiano Anastasi e Fabio Di Micco stiano saldando il pregresso. Mentre resta aperto il caso del siciliano Mario Michele Giarrusso, alla seconda legislatura, che giorni fa si è così giustificato sul Corriere della Sera: “Quei soldi li ho dovuti accantonare per affrontare cause civili e penali che sono state intentate contro di me per quanto ho fatto nell’ambito della mia attività politica”. E non sembra aver voglia di cambiare idea.

Poi c’è il vento di mini-rivolta che spira forte dalla Camera. Con la deputata campana Flora Frate che non si pente di non aver versato nulla nell’ultimo anno: “Aveva senso parlare di restituzione quando i soldi andavano al bilancio dello Stato, a beneficio della collettività e non a un conto corrente privato al quale non abbiamo facoltà di accesso diretto e di cui ignoriamo la movimentazione bancaria”. E si riferisce ovviamente al conto su una banca di Milano, intestato a Di Maio e agli ex capigruppo Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva. “Sarò ben lieta di fare la mia parte quando avremo un sistema non più discrezionale e che privilegi la reale volontà del donante, libero di scegliere a chi destinare le proprie risorse”, aggiunge all’AdnKronos.

I deputati ne discuteranno in un’assemblea, mercoledì. Ma nell’attesa in diversi restano sulle barricate. Per esempio Andrea Vallascas: “Il mio è un personale sciopero bianco, nessuna intenzione di tenermi i soldi: non appena avrò l’Iban del fondo statale indicato dal gruppo proseguirò con quanto pattuito durante le elezioni”. Però non è affatto detto che glielo diano, l’Iban. E forse neanche se lo aspetta il deputato pescarese Andrea Colletti, che non versa da marzo. “Ho rendicontato tutto, ma non verserò più nulla finché i soldi continueranno ad andare su un fondo privato” spiega al Fatto. “Tanto più – ricorda Colletti – che in caso di fine della legislatura quel denaro andrebbe all’associazione Rousseau, e parliamo di oltre 3 milioni”. Un nodo. Più o meno come la complessità del sistema delle restituzioni, evidente perfino ai vertici. Modifiche alle attuali norme verranno discusse, giurano. Ma prima arriverà la mannaia. Per mostrare che c’è ancora chi comanda.

Pisano scivola sulla password di Stato

Come sempre, c’è confusione sotto il cielo digitale. La polemica d’inizio gennaio vede protagonista la ministra dell’Innovazione tecnologica e della digitalizzazione, Paola Pisano, che ieri mattina durante la trasmissione Eta Beta (Radio1) ha raccontato la sua visione del futuro, scatenando non poche polemiche.

“Con l’identità digitale – ha detto – avremo un’unica e sola user e password per accedere a tutti i servizi digitali della Pubblica Amministrazione, ma potrebbero anche essere utilizzati per accedere ai servizi digitali del privato. Per esempio il conto in banca, prenotare un’auto in sharing, andare al cinema, comprare su Amazon. Ogni volta che abbiamo una user e una password, dovrebbe essere data dallo Stato, perché è lo Stato l’unico soggetto che ha davvero certezza che quello è quel cittadino”.

Polemiche fin qui non immotivate: utilizzare una sola password per diversi servizi è considerata la pratica che più di tutte mette in pericolo la privacy online. Sceglierne una difficile, cambiarla spesso e diversificarla è il fondamento della sicurezza informatica. Certo, la condizione ideale nel caso delle utenze per l’identità digitale è che le fornisca e se ne faccia garante lo Stato. Lascerebbe però perplessi se con esse si potesse accedere anche ai servizi privati.

È impensabile sia ipotizzare che le credenziali utilizzati per la cartella clinica possano essere in qualsiasi modo intercettate dai privati, sia che viceversa lo Stato possa poi avere contezza degli acquisti o dei movimenti online degli utenti se non competono alla sfera pubblica.

E infatti nel pomeriggio la ministra ha twittato una precisazione necessaria, anche perché Matteo Renzi si è presto fatto carico della battaglia, dimentico del suo passato da sostenitore dei documenti d’identità ai social network tramite Luigi Marattin.

“Vediamo di sgombrare il campo da ogni equivoco – ha detto la Pisano – l’identità digitale sarà rilasciata dallo Stato e servirà a identificare il cittadino in modo univoco verso lo Stato stesso. In futuro, per aziende e cittadini che lo vorranno, potrebbe essere ulteriore sistema di autenticazione”. Insomma, il riferimento era al già esistente sistema di identificazione digitale (Spid) e alla possibilità di chiedere – un giorno e se necessario – una ulteriore conferma che a utilizzare un servizio (ad esempio il conto in banca) sia davvero il titolare.

Come potrà essere fatto non è stato ancora spiegato, si può ipotizzare (e auspicare) che avverà garantendo tutti i livelli di separazione necessari tra i dati e le attività degli utenti. Anche perché “le strategie sul digitale sono un pezzo fondamentale del programma di governo – ha detto il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia -. Le regole di funzionamento della società digitale non sono settoriali ma riguardano ogni ambito della vita sociale ed economica. Sarà necessaria la massima condivisione politica nel Paese e in Parlamento, con una pianificazione finanziaria a lungo termine”.

Di Maio e Zingaretti, tregua tra giallorosa. Conte parla ai ribelli

Non si vedevano da prima delle Regionali in Umbria, quando decisero insieme di scattare la sfortunata foto di Narni. Doveva essere il battesimo di una coalizione che avrebbe corso unita in tutte le tornate amministrative. Poi, sappiamo come è andata. Ora, tre mesi dopo quell’incontro e alla vigilia del voto che li vede avversari in Emilia-Romagna e Calabria, Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio sono tornati a vedersi. Un caffè, ieri mattina a Palazzo Chigi, per fare il punto sullo stato dell’arte del governo giallorosa: si cercavano da tempo, fanno sapere entrambi gli staff, che evitano di caricare di troppi significati quella che dovrebbe essere “normale amministrazione” per i leader dei due principali partiti che sostengono il governo Conte.

“Ne avevano bisogno per problemi interni o per bisogno di visibilità”, taglia corto Italia Viva con Ettore Rosato. Che pure rientra nel giro di “consultazioni” che Zingaretti ha fatto in questi giorni: una telefonata con Conte prima di Natale, una serie di incontri con i suoi colleghi dem – Andrea Orlando, Roberto Gualtieri e Dario Franceschini –, una cena con il segretario di Articolo 1 Roberto Speranza e infine una telefonata con Matteo Renzi, che ancora non è rientrato dalle vacanze sulle Dolomiti.

Giurano, però, che il tema delle fibrillazioni interne alla maggioranza non sia stato l’oggetto del colloquio. Almeno non per quel che riguarda le ambizioni del partito fondato dall’ex rottamatore né la diaspora che sta attraversando i Cinque Stelle. Piuttosto si è discusso di alcune delle prossime questioni che arriveranno al tavolo di governo già da dopodomani, con il chiaro intento – almeno da parte del segretario dem, da tempo alla ricerca dell’“anima” della maggioranza – di “rilanciare lo spirito della coalizione”.

La prima è la giustizia: il vertice di maggioranza convocato per il 7 non è ancora stato confermato. Ma certo – dopo l’entrata in vigore della riforma della prescrizione firmata dal ministro Bonafede – il Pd vuole dimostrare di non aver ceduto su un fronte assai caldo e continua a minacciare il voto di una propria proposta di legge. L’altra è la revoca della concessione ad Autostrade: titolare del dossier è la ministra dem Paola De Micheli e Zingaretti ha tenuto a ribadire a Di Maio, da sempre esplicito sullo stop al contratto con i Benetton, che la materia è spinosa e che la decisione deve essere collegiale. Il fronte che non li vede contrapposti, invece, è quello della nuova legge elettorale: l’ipotesi di un sistema spagnolo e quella di un proporzionale con sbarramento al 5 per cento sono ancora aperte e nessuno dei due ha particolari pregiudiziali, ma sono entrambi consapevoli che solo la seconda metterebbe d’accordo anche la componente renziana della maggioranza.

Sarà uno degli argomenti di discussione del “conclave” che il Pd ha in programma per il 13 e 14 gennaio, quando riunirà i suoi in un ex monastero vicino Rieti. Da lì dovrebbe uscire l’agenda di governo che i dem porteranno in dote a Conte, che ha chiesto alla maggioranza un cronoprogramma con cui rilanciare l’azione dell’esecutivo. Lo stesso faranno i Cinque Stelle, che riuniranno i gruppi parlamentari per buttare giù le priorità su cui, secondo loro, devono concentrarsi i prossimi mesi di legislatura.

A Conte toccherà fare la sintesi. Anche se per chiudere il cerchio aspetterà l’esito delle Regionali del 26 gennaio.

Ieri, il premier è tornato a invocare unità nella maggioranza che, al di là delle “varie questioni in sospeso”, deve concentrarsi sul “rilancio del Paese” se non vuole comportarsi in maniera “imperdonabile” e “incomprensibile”. È l’ennesimo appello a quei “contiani” che si agitano nel Movimento: “Le notizie che riguardano alcuni parlamentari non avranno alcuna ripercussione né sulla tenuta, né sul cronoprogramma del governo”. Anche se dovesse nascere un nuovo gruppo, tradotto, non sarà una tragedia (almeno alla Camera).

“Il gioco è cambiato”: via le truppe

The game has changed. Il gioco è cambiato, scrive il New York Times. La frase è mutuata dalla analoga affermazione, “the game has changed”, pronunciata dal Segretario alla Difesa, Mark Esper.

Il Nyt, insieme a tutti gli osservatori, si chiede cosa abbia prodotto questa svolta in una Amministrazione che sostiene ancora di puntare alla “de-escalation” del conflitto e aveva promesso di ritirare le proprie truppe dall’area.

Eppure il Pentagono sta per dispiegare altri 2800 soldati oltre ai 750 già impiegati nelle scorse settimane. Nel maggio del 2019 aveva diffuso piani che parlavano di portare nuovamente il numero dei soldati Usa nel Medio Oriente a 120 mila, un numero che si avvicina a quello del 2003 in occasione dell’invasione dell’Iraq.

Che il gioco sia cambiato è dunque evidente. Trump, secondo molti, starebbe cercando di oscurare l’impeachment che si dovrà svolgere nelle prossime settimane in Senato.

I numeri sono dalla sua parte, ma come si è visto nella fase istruttoria al Congresso, il clamore del “processo” incide sulle sue fortune mediatiche. E quindi alzare la tensione potrebbe essere un buon escamotage per smorzare l’attenzione sull’Ukrainagate.

D’altra parte, la gestione della politica estera è stata finora il suo tallone d’Achille: troppe oscillazioni, incertezze tra una politica di falchi d’assalto, come avrebbe consigliato l’ex consigliere alla Sicurezza John Bolton, erede della fase di Dick Cheney, o un’aggressività gestita con più diplomazia, come sembrava alludere Mike Pompeo.

Ma se uccidi una figura come Soleimani, nel modo più irriguardoso del diritto internazionale, praticando l’omicidio politico diretto e creando una obiettiva escalation della guerra, in realtà vuoi fare la guerra.

La figura del generale ucciso aiuta a capire il disegno degli Usa. Emissario dell’Iran per i Paesi dell’area e artefice della condotta militare suggerita da Teheran ad amici e alleati, da Hezbollah alle milizie sciite irachene, Soleimani era il simbolo della geopolitica militare dell’Iran e quindi averlo eliminato significa maggior interventismo nella complessa regione. Soprattutto se prosegue la linea della pacificazione con i Talebani nel vicino Afghanistan. A quel punto l’Iran, lo storico rivale, rimane il nemico finale da sconfiggere affermando pienamente la vecchia dottrina Cheney di cui Trump sembra ora voler seguire nuovamente le orme.

Se il gioco è cambiato, dunque, al di là dei giudizi sulla politica estera del passato e sulla dipendenza italiana da Washington, sarebbe il caso di trarre le conseguenze e, come Italia ed Europa, fare i passi necessari.

Ieri la Nato ha annunciato la sospensione della missione in Iraq basata su alcune centinaia di soldati (una dozzina gli italiani) finalizzata ad addestrare le forze armate irachene. “La missione Nato continua, ma le attività di addestramento sono sospese”. Contemporaneamente Mike Pompeo si è detto pubblicamente “deluso” del mancato sostegno degli europei – citando solo Francia, Germania e Gran Bretagna e non l’Italia.

L’Italia però ha anche altri 926 soldati impegnati nella missione “Prima Parthica” all’interno della coalizione contro l’Isis e schierati soprattutto a Erbil e Baghdad per l’addestramento delle Forze di Sicurezza curde (Peshmerga) e irachene. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha ieri rimarcato l’importanza della lotta all’Isis.

Ma se il gioco è cambiato sarebbe meglio prenderne atto e dare alcuni segnali chiari: ritirare le truppe italiane nella missione Nato e riconsiderare la missione anti-Isis con una maggiore autonomia europea. Anche solo annunciare un ripensamento costituirebbe un fatto nuovo e un segnale che si torna a fare politica internazionale.

L’Italia chiede moderazione, ma non ritira le sue missioni

Dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani nel raid americano di due giorni fa, dal governo italiano arriva l’appello alla moderazione. E fonti dell’esecutivo assicurano che non c’è alcuna ridiscussione in corso sul ritiro dei contingenti italiani in Iraq e in Afghanistan, né a livello di governo italiano, né a livello della coalizione internazionale presente sul campo. Almeno per adesso. Perché poi in Italia a febbraio si voterà il rinnovo delle missioni internazionali.

Nonostante una certa perplessità rispetto all’azione decisa da Trump (di cui non risulta chiara la strategia) dall’Italia non è arrivata una condanna, come d’altra parte dagli altri alleati dell’America.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a quanto si riferisce da Palazzo Chigi, ha attivato tutti i canali diplomatici e si sta prodigando affinché l’Ue possa esercitare “un ruolo fondamentale e offrire un contributo determinante” per stemperare la tensione crescente tra Usa e Iran. Il premier ieri ha espresso “forte preoccupazione” per la situazione: una telefonata con la Cancelleria Angela Merkel potrebbe avvenire oggi o al massimo domani.

Mentre c’è chi chiede al governo di riferire nelle sedi istituzionali. Francesco Laforgia di LeU sollecita un’informativa di Conte in Parlamento, mentre Angelo Bonelli dei Verdi chiede che venga chiarito immediatamente “il ruolo che la base americana di Sigonella, in Sicilia, ha giocato nell’attacco militare mediante l’utilizzo dei droni, che ha portato all’uccisione di Soleimani”. In particolare a essere chiamato in causa è il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Che ha fatto sapere che le missioni militari italiane “continuano come programmato, seppure con un innalzamento delle misure di sicurezza previste in situazioni di questo tipo, come deciso con la coalizione”. Sono “temporaneamente” sospese le attività di addestramento delle forze irachene che in pratica, “significa soprattutto limitare le attività fuori dalle basi”. La misura riguarda “tutte le missioni”, con “un focus particolare nei teatri vicini o collegati all’Iraq, come il Libano e l’Afghanistan”. Fonti della Difesa spiegano che a livello di vertici militari c’è un confronto e un dialogo in atto con gli altri Paesi della coalizione. E sottolineano che i militari italiani in Iraq sono ben visti anche dalla parte irachena, e che in Libano, dove l’Italia guida Unifil, l’apprezzamento è generale.

Intanto, Matteo Salvini, unico leader italiano a complimentarsi con il presidente Trump per l’uccisione di Soleimani, accusa Conte di “essere ignorato e assente” sul piano internazionale. E torna a ribadire via social la sua posizione a difesa dell’azione degli Usa.

In più d’uno provano poi a mettere sulla graticola il ministro degli Esteri Luigi Di Maio per la sua foto all’aeroporto di Madrid dove ha passato il Capodanno insieme alla fidanzata Virginia Sala: dopo Forza Italia con Maurizio Gasparri, l’eurodeputato del Pse Giuliano Pisapia, già sindaco di Milano, affonda il colpo: “Si rende sempre più necessaria una risposta simmetrica, dura e immediata da parte delle istituzioni europee mentre il nostro ministro degli Esteri, in vacanza, assiste silente all’escalation militare alle nostre porte”. Scudisciate che durano 24 ore prima che Di Maio si faccia sentire (su Fb) per esprimere apprezzamento per “l’invito alla moderazione e alla de-escalation dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell”. Va detto che nei 5 Stelle il vicepresidente del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo ha definito “pericolosissima, irresponsabile e sconsiderata” la decisione di Trump. E chiede all’Italia di condannarla, senza accodarsi ad altri.

E l’Europa? Fonti governative definiscono come positivo un eventuale maggior impegno “politico, diplomatico e militare” per fermare l’escalation tra Usa e Iran. Ma notano come finora la Ue non sia stata in grado di metterlo in campo. Per l’Italia c’è una fonte di preoccupazione in più: la Libia. Con l’aiuto militare votato dal Parlamento turco in favore del premier del governo nazionale, Al Serraj, e la Russia al fianco del generale della Cirenaica, Haftar, l’Europa e l’Italia sono sempre più marginalizzate. Ora c’è il timore di un disimpegno ulteriore europeo (quello degli Usa è già un fatto) nel Paese. Ma resta confermata la missione dei ministri degli Esteri nel Paese con Borrell il 7. E da lì, si capirà quanto l’Europa ha intenzione di impegnarsi: resta in discussione l’imposizione del cessate il fuoco. Anche con una no fly zone, non di facile realizzazione e tutta da concordare.