Befana di governo, Sánchez convince gli indipendentisti

Las campanadas dell’orologio di Puerta del Sol a Madrid hanno portato agli spagnoli per il 2020 12 settimane di paternità e una misura sociale in più per tagliare le tasse alle famiglie meno abbienti. Ci sarà pure chi vede arrivare una nuova bolla immobiliare, ed è vero che i numeri economici parlano di una crescita leggermente in frenata nel 2019 per la Spagna, ma che il governo di Pedro Sánchez abbia “suonato bene” e continui “a suonare bene agli spagnoli”, come nelle parole di uno dei rivali del premier, l’indipendentista e portavoce di Esquerra republicana al Cogresso, Gabriel Rufian, è oramai certo.

Tanto che al secondo tentativo e dopo due elezioni in un anno, l’esecutivo socialista eternamente uscente e appeso al filo dei rimpasti, pare stia per trasformarsi nel tanto atteso “governo progressista di coalizione”. E per non perdere la buona congiuntura – il presidente del Parlament, “Quim” Torra destituito dalla Giunta per le elezioni e quindi non abile a negoziare, il suo predecessore in autoesilio Carles Puigdemont accontentato con lo stop di Bruxelles all’ordine di cattura europeo – la fiducia Sánchez ha iniziato a farsela votare ieri, in piene vacanze natalizie. Il primo risultato fallimentare atteso: niente maggioranza assoluta, su 175 deputati necessari, Sánchez e Iglesias ne avranno al masismo 167, oggi, domenica 5, mentre gli spagnoli aspettano la cabalgata dei re Magi (quest’anno politicamente corretta, Baldassarre non avrà la faccia dipinta, ma sarà nero per davvero) e si scambiano i regali. È martedì 7 che Sánchez dovrebbe ottenere invece la fiducia a maggioranza semplice.

A rendere possibile la formazione del governo di coalizione rosso-viola con la sinistra di Podemos di Pablo Iglesias – il primo della democrazia spagnola – saranno proprio i 13 indipendentisti, che già ieri, come annunciato, si sono astenuti, nonostante l’affaire Torra. A convincere Rufian nonché il vicepresidente della Generalitat Pere Aragones a dare luce verde all’esecutivo è stato il punto del patto di governo sulle autonomie, vedi questione catalana. Nessun referendum, come accusano le destre che ieri con il leader di Vox Santiago Abascal hanno accusato il socialista di “aver commesso il più grave inganno elettorale della democrazia”, ma di fatto la concessione di una consultazione sull’indipendenza non vincolante nei risultati, ma soprattutto la riapertura di quel tavolo negoziale chiuso in malo modo a febbraio con la fine del primo governo Sánchez appoggiato dagli indipendentisti catalani. A questo la coalizione rosso-viola ha aggiunto ulteriori concessioni economiche nonché l’ulteriore decentramento delle sedi di alcune istituzioni pubbliche. “Non si romperà la Spagna e non si romperà la Costituzione, l’unica cosa che stiamo rompendo è il blocco al governo progressista democraticamente eletto dagli spagnoli”, ha esordito a las Cortes un Sanchez in grande spolvero, rispondendo al leader dei Popolari, Pablo Casado che lo aveva apostrofato come “sociopatico e presidente fake”, accusandolo di aver rotto il patto costituzionale. “Fortunatamente la Costituzione è più grande del Pp”, ha ironizzato a Casado che minaccia di rivolgersi al Tribunale costituzionale se il nuovo esecutivo non torna a commissariare la Catalogna. “Non c’è altro modo di risolvere questo conflitto che il dialogo”, ha tagliato corto il premier, invocando un “nuovo patriottismo sociale come argine alle destre”. Ora non resta che “sperare che il nuovo governo di coalizione sia all’altezza del patto sottoscritto”, per usare le parole del futuro vice, Iglesias.

La “Traversata” di Lançon per “reimparare a vivere”

Philippe Lançon lavora con le parole: i terroristi gliele hanno tolte di bocca, portandosi via parte della sua mandibola con una scarica di proiettili all’impazzata. Era il 7 gennaio del 2015, e Philippe uno dei tanti giornalisti e vignettisti presenti alla riunione di redazione di Charlie Hebdo: dodici persone sono morte lì dentro o nei pressi; undici sono rimaste ferite, tra cui Lançon, tornato alla vita dopo una lunga e perigliosa Traversata, come il suo mémoire in libreria con i tipi di e/o da mercoledì, pubblicato per la prima volta in Francia nel 2018 con il titolo Le Lambeau (il lembo, il brandello, ndr) e già vincitore del Femina e del Prix Renaudot Spécial.

Due ospedali, cinque stanze, quindici operazioni chirurgiche, nove mesi di ricovero: una gestazione, un parto a nuova vita con la scrittura a fare da ostetrica. Il cronista, a cui hanno ammazzato le parole in gola, ha potuto “reimparare a vivere” solo vomitando le parole su carta: ne è uscito un libro struggente, da affrontare armati di lacrime, senza il conforto di nessuno, nemmeno degli Antichi Maestri. “Nulla che è così, è così”, sta scolpito citando Shakespeare della Dodicesima notte – proprio la notte della Befana, la vigilia dell’attentato –, ultima pièce a cui ha assistito Lançon prima della strage. La recensione non l’ha più scritta, ma ha continuato a rileggere quell’opera “come un enigma, per trovarci segnali o spiegazioni di quanto stava per succedere”. È il rischio che si corre anche con questo libro, una “particolare opera di finzione che è l’eccesso brutale di realtà”.

Così, sospesa tra incubo e magia, scorre questa “traversata ospedaliera”, questo “soggiorno insulare e psichico”, tra amuleti salvavita – come il saggio di jazz Blue Note – e triviali tranche de vie: è quasi impossibile districare l’onirico dal reale perché Lançon, come Houellebecq, si dimostra un bravo romanziere, e “un bravo romanziere ha sempre ragione… Quando si sopravvive, tutto il resto gli è sottomesso”. E di Sottomissione si sta appunto parlando in quell’inizio dell’anno in Francia: in tv, nelle redazioni dei giornali, persino in ospedale. Proprio di quell’ultima fiction di Houellebecq discute la dottoressa Chloé in pausa pranzo, interrotta dall’allarme di sala: c’è un paziente da operare d’urgenza, il suo nome è Philippe Lançon, in ambulanza si è premurato di tirare fuori la carta d’identità e la tessera sanitaria. Il puntiglio del piccoloborghese sopravvive a tutto: i difetti, così come i morti, non lasciano mai soli i vivi. Nel “silenzio e sangue” della redazione falciata Lançon ricorda molti dei compagni massacrati: Charb dal volto sfigurato; il cervello che esce dal cranio di Bernard Maris; Tignous, “morto con la penna in mano come a Pompei”; Wolinski addossato alla parete.

Nel limbo della degenza i morti si sovrappongono ai vivi, alcune relazioni si ricuciono, altre si sfilacciano, come le ferite sul corpo di Philippe: i fantasmi sfilano insieme coi genitori ottantenni, il fratello Arnaud, la compagna Gabriela, l’ex moglie Marilyn, le infermiere… Nel limbo tra vivi e morti sta Philippe, un “mostro” afono, che sfrutta i “punti interrogativi come ganci a cui reggersi”. Sta lì sospeso Philippe, sull’abisso tra “chi è rimasto dalla parte giusta della vita” e “chi è precipitato nell’orrore”. Nessun ponte collega le due sponde, nessuna riconciliazione o sutura sono possibili: “In mezzo resta un buco”. E chi ha tentato la Traversata vi è finito dentro. Non è morto, è vero, ma continuerà per sempre a zoppicare.

“La satira resta viva, ma pochissimi ormai la capiscono”

Fare satira è sempre più complicato. Ma la questione non è su cosa si può ancora scherzare. La domanda da porsi oggi è: le persone hanno ancora l’educazione e la cultura per comprendere la satira? In realtà sempre meno persone sanno leggere un disegno satirico ed è per questo che la satira sta sparendo. Ormai per i giornali il disegno satirico è solo fonte di seccature. Anche il New York Times non pubblica più vignette politiche. Ma è grave, perché è una forma di espressione giornalistica, con una sua storia di contestazione dei poteri, e di commento politico, che sparisce. I social hanno il loro peso: persone concentrate solo sul proprio ombelico si sentono prese di mira ogni volta che si esprime un’idea diversa dalla loro. Come se esprimere un parere implicasse per forza che si stia attaccando qualcuno. Non è così. Noi continuiamo per la nostra strada e rifiutiamo di fare disegni insipidi solo per evitare attriti. Continueremo a dare fastidio”. Charlie Hebdo non è cambiato, ci rassicura Gérard Biard. Il caporedattore del giornale satirico si è preso qualche giorno di riposo prima di tornare a Parigi e affrontare una settimana che si annuncia pesante. Martedì sono cinque anni e i “giornalisti amano i conti tondi”, scherza. Il 7 gennaio 2015 due terroristi, i fratelli Kouachi, dicendo di agire in nome di Allah, hanno aperto il fuoco nella redazione di rue Nicolas-Appert, a Parigi. Il giornale pagava per volere restare libero di dire la sua sempre e comunque, decidendo per esempio di ripubblicare le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands-Posten o di ironizzare sul leader dello Stato Islamico al Baghadadi. Quel giorno 12 persone sono morte, tra loro Charb, il direttore, i disegnatori Cabu, Wolinski, Tignus e l’economista Bernard Maris.

Cinque anni dopo, come sta Charlie?

Sono arrivati nuovi giornalisti e disegnatori che nel 2015 non c’erano e non portano il peso di quegli eventi. Questo ci trasmette, se non spensieratezza, almeno della leggerezza e ci permette di proiettarci nel futuro. Il giornale ha ritrovato il suo livello di lettorato classico. Vendiamo 25 mila-30 mila copie a settimana e abbiamo circa 30 mila abbonati. Il costo della sicurezza però resta elevato.

Vi sentite ancora minacciati?

Sempre. Ormai gli insulti e le minacce, anche di morte, sono quasi una normale forma di espressione sui social, ma che per quanto ci riguarda non sempre restano virtuali. Quando riceviamo messaggi con le foto di piccole bare ci verrebbe da ridere, ma sporgiamo denuncia.

È cambiato qualcosa nel vostro lavoro?

Sul piano editoriale no. Non ci vietiamo niente, come sempre. Ma ormai siamo obbligati a spiegare ogni disegno, ogni commento. Siamo condannati a giustificarci sempre. Inoltre, come tutti i media, siamo confrontati a una forma nuova di censura, non istituzionale e difficile da contrastare perché agisce in nome di valori condivisibili come la lotta all’omofobia o al sessismo. Una censura che vieta di riportare delle dichiarazioni o di citare un’opera, un film ma che, così facendo, chiude la porta al dibattito democratico. A questo tema dedichiamo il numero del 7 gennaio.

A maggio inizia il processo per gli attentati a Charlie Hebdo e al supermercato kosher. Cosa vi aspettate?

Per quanto mi riguarda, mi interesserà leggere i commenti e seguire i dibattiti. Sui fatti, a parte improbabili colpi di scena, non emergerà nulla di nuovo. I principali responsabili non ci sono più e alla sbarra compariranno solo personaggi secondari.

Come lo vivrete al giornale?

Ci sembra essenziale che a coprire il processo siano due di noi, un giornalista e un disegnatore, che non erano presenti nel 2015. Questo processo deve avere luogo. Sarà simbolico. C’è chi dice che 5 anni sono troppi. Io penso che si avrà la giusta distanza per rianalizzare i fatti e riaprire i dibattiti. Ci dirà a che punto sta la società francese.

Ci farete una copertina satirica?

Ah, perché no? Quando commentiamo una catastrofe, il primo degli insulti che ci viene rivolto è: ‘Non lo avreste mai scritto su di voi nel 2015’. Ma chi dice così non ha mai aperto il giornale. Ci siamo già presi gioco di noi stessi con la famosa copertina del profeta in lacrime e la scritta: ‘Tutto è perdonato’. Non è stato facile, ma lo abbiamo fatto.

Altro che missili, il pirata iraniano spara malware

Nel dicembre 2018, un tribunale federale di Atlanta incriminò due iraniani con l’accusa di aver creato e distribuito il ransomware SamSam allo scopo di bloccare i sistemi informatici indispensabili delle città ed estorcere migliaia di dollari per sbloccarli. L’attacco informatico era stato una violazione del Computer Fraud and Abuse Act: “Ha minacciato la salute e la sicurezza pubblica”. dichiarò il procuratore. Il malware SamSam paralizzò diversi servizi online di Atlanta per più di una settimana: i computer dei tribunali smisero di funzionare e la macchina della giustizia si bloccò, i residenti non riuscivano a pagare le fatture online e i poliziotti furono costretti a scrivere i rapporti a mano. Insomma, il caos. È questo lo spettro che si aggira ora negli Stati Uniti: il timore che fra tutte le forme di vendetta che Teheran potrà scegliere, la cyberwar sarà una di queste: e sarà devastante.

Nel giugno scorso, mentre l’America accusava l’Iran degli attacchi alle petroliere nel Golfo di Oman, Chris Krebs, direttore della cybersicurezza nazionale Usa, già si pronunciava riguardo “l’aumento di attività digitali maligne dirette contro industrie e agenzie governative americane, compiute da attori iraniani”. “L’Iran userà le risorse a disposizione per vendicarsi senza scatenare una guerra totale, mi aspetto attacchi nelle reti dove gli hacker iraniani hanno già accesso” ha ribadito Jake Williams, ex hacker della Nsa. Questa battaglia è iniziata in Rete già un decennio fa, quando gli hacker americani attaccarono la struttura per l’arricchimento dell’uranio Natanz, nel 2010, con il virus Stuxnet per poi subire bombardamenti digitali, seppure rudimentali, per i 18 mesi successivi. Che una cyberbrigata della Repubblica islamica sia stata creata reclutando i migliori informatici e studenti del Paese, è noto da anni.

Compagnie di sicurezza informatica come la FireEye o alcuni esperti Microsoft hanno già specificato mesi fa quanto gli iraniani del gruppo APT33, conosciuti anche come Magnallium o Elfin, siano spregiudicati, assetati di password delle più disparate organizzazioni: cercano punti deboli in potenziali bersagli per semplici intrusioni, spionaggio a lungo termine o distruzione immediata degli obiettivi. Nel 2012 in tilt i desktop dei computer di una delle compagnie più ricche al mondo, la Saudi Aramco, colpita dagli hacker iraniani con il virus Shamoon. Quasi tutti i file dell’azienda furono cancellati per essere rimpiazzati da centinaia di immagini della bandiera americana che andava a fuoco. Dallo Stato sciita partì il traffico intensissimo del 2015 che distrusse la capacità di funzionamento dei server delle banche americane Capital One, Jp Morgan, Bank of America. Se l’entrata alla fortezza bellica dell’esercito a stelle e strisce è impenetrabile, non lo sono le porte girevoli dei casinò: gli iraniani dalle loro postazioni sono riusciti a raggiungere le dune sabbiose di Las Vegas. Nel 2015 l’azzardo vero fu quello del tycoon Sheldon Adelson, proprietario di casinò, che si pronunciò a favore dell’uso della bomba nucleare contro Teheran, per essere attaccato subito dopo dagli informatici sciiti, che mandarono il suo impero del gioco in black out. Già attivi nei vicini stati del Golfo, gli iraniani negli ultimi anni hanno messo in difficoltà compagnie private negli Emirati arabi, Qatar e Kuwait.

Come in tutte le guerre – e la sfera digitale è solo l’ultima frontiera di confronto tra Stati nemici – si usano le false flag, bandiere false per ingannare il nemico. Gli hacker russi del gruppo Turla si sono finti iraniani e lo hanno scoperto i britannici quando hanno appurato furti di documenti segreti in 35 Paesi. Che i gruppi russi utilizzino infrastrutture iraniane per operazioni complesse nei loro cyberattacchi e alimentare caos nella rete mondiale è un’ipotesi non insensata di alcuni analisti che ritengono come nel 2020 non sia più possibile ignorare che il pericolo arriva dal web.

“Mossa errata, Teheran ha un martire in più”

“Ha dato un pretesto e un nuovo martire a Teheran, che potrebbe veder crescere il proprio peso internazionale. Così come Russia e Turchia rafforzeranno inaspettatamente il loro ruolo di mediatori nella regione. Per l’uccisione di Qassem Soleimani da parte degli Usa, Fabio Mini, ex capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa, vede conseguenze “non previste e paradossali”.

La Nato ha sospeso le missioni di addestramento e rafforzato la sicurezza delle basi. I soldati italiani sono in pericolo?

Al momento non vedo una minaccia diretta, perché le operazioni in cui sono impegnati non sono finalizzate ad azioni di guerra. Però agiscono nel quadro Nato e se quest’ultima è nel mirino lo sono anche loro.

I Verdi chiedono al governo di chiarire il ruolo della base di Sigonella.

A Sigonella c’è un centro in cui vengono gestiti droni, ma è italiano. Difficile ipotizzare che gli italiani si possano essere messi a fare operazioni contro l’Iran.

Ieri un razzo è caduto a un km dall’ambasciata Usa a Baghdad. Ci sarà un effetto domino in Paesi in cui Teheran esercita una forte influenza, come Siria e Libano?

È la cosa a cui si pensa immediatamente se si sta alle dichiarazioni fatte a caldo dagli iraniani e alla mentalità che in genere si attribuisce loro. Ma in questo caso vedo una serie di incongruenze.

Quali?

In primis la natura dell’uccisione di Soleimani. Se avesse voluto davvero eliminare il pericolo che le forze Al Quds facessero azioni contro le sue forze, Washington avrebbe potuto agire prima. Soleimani comandava le brigate da vent’anni.

Le Presidenziali negli Usa si avvicinano a grandi passi.

Appunto. E ammazzarlo adesso è stata una decisione che potrebbe avere conseguenze inaspettate. Da una parte molti ai vertici delle istituzioni non ne potevano quasi più di Soleimani, uno che agiva nell’ombra e non riferiva al governo ma direttamente all’ayatollah Khamenei. E questo lo poneva in una posizione scomoda nei confronti dell’esecutivo. D’altra parte sono anni che Teheran non mette a segno attentati o azioni eclatanti contro gli Usa. Quindi Trump è riuscito a dar loro un pretesto: ora hanno un martire ammazzato dai cattivi americani.

Da un regime alle prese con due anni di proteste di piazza causate da una forte crisi economica e indebolito dalle sanzioni Usa ci si attenderebbe una risposta forte.

È il primo paradosso. Nonostante siano probabili azioni di ritorsione in Israele, Palestina, Libano e nei paesi in cui arriva la mano sciita, è possibile che Teheran decida di non rispondere con atti eclatanti. E se non lo farà guadagnerà molti punti in ambito internazionale.

Un sostegno che potrebbe rinvigorire le trattative per rinnovare l’accordo sul nucleare del 2015?

Sì. In questo momento i governi stanno prendendo posizione contro la dissacrazione del diritto internazionale, della politica e della diplomazia che la decisione di Trump porta con sé. Ora gli Stati europei devono agire di conseguenza. È arrivato il momento che l’Europa dica a Washington ‘se non volete un altro trattato, lo facciamo noi o rinvigoriamo quello che c’è’.

L’Ue ha questa forza?

Dipende. L’Unione a 28 Stati no, evidentemente troppo divisa. Ma Francia e Germania ce l’hanno. Innanzitutto potrebbero chiedere una condanna dell’atto alle Nazioni Unite, anche se è un’azione meramente simbolica.

Parigi e Berlino si sono limitate a chiedere il rispetto dell’accordo, ma lo hanno chiesto all’Iran.

Vede? Questa è la risposta alla sua domanda.

E l’Italia?

L’Italia è in coma, narcotizzata dalle vicende di politica interna. Sul piano internazionale non esiste.

Russia e Turchia, invece, un ruolo di mediazione possono averlo, in ragione del credito che hanno acquisito nell’area negli ultimi anni.

Sì, sono altri due attori del paradosso, hanno tutto da guadagnare da questa mossa. Ankara diventa un interlocutore e rafforza le posizioni prese sulla Libia, Mosca vede l’alleato Iran passare da vittima invece che da carnefice e rinsalda il proprio ruolo di mediatore nella regione. Non credo che Trump abbia previsto nulla di tutto ciò.

“Morte all’America”: razzi sulle basi Usa in nome di Soleimani

Una giornata gonfia di tensioni, lutti, minacce, esplosioni, con epicentro a Baghdad e forti scosse percepite a Teheran e a Washington, ma anche a Bruxelles, dove la Nato ordina la sospensione dell’addestramento delle truppe irachene – troppo alto il rischio d’incidenti in queste ore – e ovunque nel Medio Oriente e in Europa. La coalizione anti-Isis ridimensiona l’attività: dunque, un’azione surrettiziamente compiuta per combattere il terrorismo integralista ha come effetto di ridurne il contrasto.

All’alba del giorno dei funerali, a Baghdad, del generale iraniano Qassim Soleimani, assassinato nella notte tra giovedì e venerdì in un’operazione statunitense, un convoglio delle milizie irachene sarebbe stato attaccato a nord di Baghdad, a Camp Taji: ci sarebbero sei morti e tre feriti gravi; fra le vittime, un comandante del gruppo paramilitare filo-iraniano Hashed Al Shaabi, Shibl al Zaidi. Ma le notizie in merito sono contrastanti. La coalizione anti-Isis smentisce raid nella zona e miliziani filo-iraniani parlano d’un attacco a un convoglio di medici, che l’esercito iracheno nega. In serata, due razzi – o due colpi di mortaio – sono caduti nella Zona Verde di Baghdad, l’area teoricamente super-protetta, delle Istituzioni e delle ambasciate. Secondo Conflict News, invece, un razzo è caduto nella Zona Verde e un altro vicino alla base aerea di Balad, che ospita soldati Usa: tre feriti.

Ieri mattina, migliaia di iracheni hanno partecipato a Baghdad alle onoranze funebri di Soleimani e del suo principale luogotenente in Iraq, Abu Mehdi al-Mouhandism, scandendo lo slogan “morte all’America”. Il corteo ha percorso le vie del distretto di Kazimiya, dove c’è un santuario sciita. Nella zona verde, s’è poi celebrato un funerale nazionale, alla presenza di leader iracheni, anche del premier dimissionario Adel Abdel Mahdi. Martedì, a Teheran, Soleimani avrà esequie iraniane. Già ieri, mentre si svolgevano le cerimonie a Baghdad, manifestanti iraniani hanno bruciato bandiere Usa e israeliane. E il presidente Hassan Rohani ha promesso alla figlia del generale che la morte del padre “sarà vendicata”.

Mentre ci s’interroga se e quando scatterà la ritorsione iraniana, gli Usa rinforzano i loro dispositivi militari nella Regione: le cifre variano a seconda delle fonti, ma 700 soldati sarebbero già stati trasferiti, 2.800 sarebbero in movimento, altri s’apprestano a partire. Coinvolti gli effettivi di stanza ad Aviano, nel Friuli, e utilizzato lo scalo di Sigonella. L’entità delle truppe mobilitate non lascia presagire, per ora, operazioni offensive su larga scala. E, anzi, il Pentagono dice che non sono previsti per ora nuovi attacchi. Piuttosto, si cerca di prevedere e di parare le ritorsioni. Al momento, “non esiste alcuna specifica, credibile minaccia dall’Iran”, afferma il Dipartimento per la Sicurezza, segnalando, però, il rischio di un’ondata di cyber attacchi. Una tempesta di messaggi anti-americani è già registrata sui social. Secondo il vice-comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, contrammiraglio Ali Fadavi, Washington inviato un messaggio per vie diplomatiche a Teheran chiedendo che la rappresaglia sia “proporzionata”: “Gli americani devono attendersi una severa vendetta non limitata all’Iran”, dice Fadavi. E l’esercito iraniano avverte: “Decideremo noi modo e tempo”. L’attività diplomatica è intensa: il ministro degli Esteri iraniano Zarif ha detto all’omologo russo Lavrov che “l’azione Usa è una palese violazione del diritti internazionale” e, parlando al collega del Qatar al-Thani, ha affermato che “l’Iran non vuole un escalation della tensione”.

Ma lo stesso Zarif prospetta al Segretario generale Onu Guterres “conseguenze incontrollabili”. E l’ambasciatore dell’Iran all’Onu Ravanchi avverte che “azione militare chiama azione militare”, dopo avere trasmesso una lettera del governo di Teheran al Consiglio di Sicurezza. L’Iran denuncia nell’uccisione di Soleimani “un atto di terrorismo” da parte degli Usa: “Gli americani sono ipocriti: pretendono di combattere il terrorismo, ma in realtà combattono coloro che combattono i terroristi”. Il presidente francese Macron chiama l’omologo iracheno Salih e invita l’Iran a rispettare l’accordo nucleare, già parzialmente violato, mentre la Cina chiede a Washington di non abusare della forza. Il Segretario di Stato Usa Pompeo lamenta che gli europei non siano stati d’aiuto. Tace, invece, per un giorno, il presidente Trump, cui il New York Times contesta di non divulgare informazioni sull’Ukrainagate – siamo sul fronte impeachment –. I ministeri degli Esteri di vari Paesi chiedono ai loro concittadini di evitare viaggi in Iran e Iraq e la Nazionale Usa di calcio annulla uno stage in Qatar per sperimentare le installazioni del Paese in vista del Mondiale del 2022. C’è fermento per l’andamento del petrolio e dei mercati, alla riapertura dei corsi lunedì.

L’autorequisitoria

Come previsto, la memoria difensiva di Salvini sul caso Gregoretti ha sortito l’effetto opposto a quello sperato: ha rafforzato l’accusa. Doveva essere un’arringa: gli è uscita una requisitoria. Se fosse stato zitto e avesse spedito al Senato una risma di fogli bianchi, forse l’avrebbe scampata. Invece ha scritto 9 pagine più allegati e s’è impiccato da solo. Convincendo persino i renziani – il che è tutto dire – a dare l’autorizzazione a procedere. E meritandosi la difesa d’ufficio di Sansonetti sul Riformatorio, le cui dichiarazioni innocentiste sono letali per ogni inquisito. Se ti difende Sansonetti, è peggio di Taormina: vuol dire che sei colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Se poi hai pure la Bongiorno come avvocato, sei spacciato. Dev’essere stata la volpe del foro a suggerirgli di ignorare totalmente il capo d’imputazione: cioè il presunto sequestro di 131 migranti bloccati per 6 giorni su una nave militare italiana in un porto italiano. Uno normale ci avrebbe dedicato almeno due parole: lui manco una sillaba.

Per tutte e 9 le pagine, il Cazzaro tenta di dimostrare (peraltro invano) che non decise lui, ma Conte e tutto il governo: come se un tizio accusato di omicidio, anziché negare di averlo commesso e fornire un alibi, si difendesse dicendo che aveva dei complici. Purtroppo non ha trovato una sola frase scritta o detta da Conte o da un ministro che condividesse o anche solo commentasse il blocco della Gregoretti. A parte le sue, pronunciate dalla spiaggia del Papeete, che però si guarda bene dal citare. Per un motivo semplice: Salvini non parlava più con Conte né con Di Maio e rivendicava l’altolà alla nave militare come una sua decisione esclusiva. Non diceva mai “noi” o “il governo”, ma sempre “io”, per farsi bello con i fan. “Non darò nessun permesso allo sbarco finché dall’Europa non arriverà l’impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Io non mollo”, “Ho dato disposizione che non venga assegnato nessun porto prima che ci sia sulla carta una redistribuzione in Europa di tutti i 140 migranti” (Ansa, 26.7). “Nelle prossime ore darò l’autorizzazione allo sbarco perché abbiamo la certezza che i migranti non saranno a carico degli italiani” (Ansa, 31.7). Ora che rischia il processo, ripassa al “noi”. Come Gigi Proietti nello sketch dell’avvocato azzeccagarbugli che esamina la posizione del cliente villico: “Qua se li inculamo noi… qui se li stra-inculamo… qua invece che m’hai combinato? Qui te se inculano. E pure qua te se inculano a te!”. E l’altro: “Avvoca’, ma quando se li inculamo semo sempre in due e quando lo devo pijà in culo son sempre solo? No, per sapere, che me regolo”.

“Fu la Pfm a mollare Ivan, non lui a lasciarci”

Caro Fatto Quotidiano, l’intervista di Andrea Scanzi ad Anna Graziani contiene delle inesattezze riguardanti il rapporto tra Ivan e Pfm. Prima di scrivervi ho parlato con Anna, chiarendomi con lei e avendo conferma di come Ivan le raccontò all’epoca una verità edulcorata, probabilmente per proteggerla in un momento in cui la sua carriera non era ancora esplosa.

Le cose andarono così. Io e Ivan ci conoscevamo sin dai tempi dei Quelli e dell’Anonima Sound. Le due band parteciparono a un Cantagiro a fine Sessanta. Siamo entrambi abruzzesi ed è difficile che due abruzzesi non si dicano le cose in faccia, guardandosi negli occhi. Non fu una scelta di Ivan non entrare nella Pfm, ma fu una decisione di Pfm. Fui io che proposi alla band Graziani, per via della sua vocalità particolare e in nome dell’amicizia che ci legava come conterranei. Ivan all’epoca lavorava con Herbert Pagani nel campo della pubblicità, faceva jingle e vi partecipava sia vocalmente, sia come strumentista.

Nel 1975 cercavamo una voce solista con una personalità diversa dalle nostre, che ci permettesse di dedicarci completamente alla parte strumentale per il progetto del nuovo disco. Pensavamo che la sua voce, unita alla Pfm, potesse generare un “effetto Yes”. L’album, forte e particolare, era Chocolate Kings. Chiesi a Ivan di provare con noi e per l’occasione lo portammo in tour con noi in Europa. Durante quel viaggio a Parigi andò al Louvre per poter ammirare la Monna Lisa e su quella visita in seguito ci scrisse anche una canzone. A Londra lo portammo alla Manticore e fece la conoscenza della nostra casa discografica. La voce era bella e particolare, ma a dire della Manticore non era adatta e non era in sintonia con la musica di Pfm. A ciò si aggiunse la difficoltà della padronanza della lingua inglese. Al nostro rientro in Italia, con dispiacere, dissi a Ivan che il suo inserimento nella band non era possibile. Data la nostra amicizia lo introdussi però alla Numero Uno e lo raccomandai come cantautore. Tenne il materiale che avevamo cominciato a scrivere insieme, compreso Il topo nel formaggio che è sua ma che dovevamo suonare insieme, e incise il disco I lupi. La sua carriera cominciò a sbocciare. La scelta per la nuova voce in Pfm cadde su Bernardo Lanzetti.

Riguardo alla mia ex moglie, che secondo Anna avrebbe “comandato” Pfm, non è assolutamente così. Noi avevamo un manager con il quale condividevamo le scelte e questo era Franco Mamone. La mia ex moglie era semplicemente la commercialista della band. Quanto all’uscita di Mauro Pagani: è stata una sua scelta, di comune accordo con la sua consorte di allora, anche perché all’epoca passavamo troppi mesi l’anno all’estero.

Il calcio è nel pallone: ha perso l’identità, i riti e persino i tifosi

Il Natale, col suo contorno di Feste insopportabili, ha però il pregio di togliere di mezzo almeno per una decina di giorni il pallone (fino a un certo punto, perché c’è pur sempre il calciomercato). Con Giancarlo Padovan, che è del mestiere, abbiamo scritto un libro: Storia reazionaria del calcio. I cambiamenti della società vissuti attraverso il mondo del pallone. È un libro in cui si parla, e molto, di calcio, ma non è un libro sul calcio. Abbiamo preso il calcio come uno degli specchi della società. Quali sono i Demoni del mondo di oggi? L’Economia e la Tecnologia. Ebbene Economia e Tecnologia, sia separatamente, sia strettamente intrecciate fra loro, stanno via via svuotando il calcio di quei contenuti identitari, comunitari, rituali, simbolici, mitici che per più di un secolo hanno fatto la fortuna di questo gioco. I più importanti sono i motivi identitari e comunitari. Come si fa a identificarsi in una squadra che gioca con dieci o undici stranieri, con giocatori che cambiano società ogni anno e anche all’interno dello stesso campionato con tanti saluti alla regolarità della competizione, con presidenti americani o cinesi?

E se gioca in trasferta la squadra lascia la maglia tradizionale negli spogliatoi per indossarne un’altra in funzione degli sponsor. Non esistono più i giocatori simbolo, i Rivera, i Mazzola, i Riva, i Bulgarelli, gli Antognoni (l’ultimo portabandiera di questo calcio d’antan è stato Totti). La tv si è impadronita del calcio, inteso più come spettacolo che come sport, spodestando il calcio da stadio cioè il vero calcio che dal 1982 ha perso più del 40 per cento degli spettatori. Chiunque mastichi calcio sa che differenza c’è, innanzitutto emotiva ma anche tecnica, fra vedere una partita sul campo e vederla in tv, tra una chiacchierata e l’altra, un’incursione nel frigo, una risposta al cellulare. Il calcio è un rito, una Messa laica che, come tale, vuole una concentrazione assoluta.

Una volta, ma qui parliamo di molto tempo fa, a parte gli stronzi in tribuna d’onore, non c’era la divisione sugli spalti a seconda dello status sociale. L’operaio si poteva trovare a fianco del piccolo o medio imprenditore. Era la funzione comunitaria, interclassista, di quello che, insieme al ciclismo, era il grande sport nazionalpopolare.

Come se non bastasse è stato introdotto il Var. Tre arbitri nei sotterranei dello stadio, vestiti grottescamente in tenuta di gioco, rivedono sui monitor l’operato dell’arbitro in campo perché sia esclusa ogni possibilità di errore (l’arbitro è diventato in pratica un impiegato, un impiegato della Tecnica, come siam tutti). È l’illusione, tutta moderna, di poter controllare tutto ed eliminare l’errore. Ma questa possibilità non si dà in natura. Il film Rashomon di Akira Kurosawa ci dà in questo senso una lezione. Nella prima scena si vede una coppia, un samurai con la moglie, che in una foresta viene assalita da dei banditi. Lei viene stuprata, lui ucciso. Ci sono poi anche altri che hanno assistito al delitto. Al processo vengono ascoltate le varie testimonianze, compresa, via medium, quella dell’ucciso.

A ogni testimonianza Kurosawa fa rivedere la scena iniziale senza cambiare un solo fotogramma. E tutte appaiono verosimili. Del resto la stessa fisica moderna ha ammesso che non esistono verità oggettive, ma che tutto dipende dal punto di vista dell’osservatore. E Nietzsche, da par suo: “Non esiste la realtà, ma solo le sue rappresentazioni”.

Ma la cosa veramente insopportabile del Var è che se la tua squadra segna un gol non puoi esultare. Fermi tutti, c’è il Var. Si crea una sorta di assemblea fra arbitro in campo, guardalinee, quelli del Var, il quarto uomo, che può durare anche quattro o cinque minuti. Solo quando l’arbitro, dopo le varie consultazioni, indica il cerchio del centrocampo, il che vuol dire che è gol, o il punto da cui deve essere battuto il presunto fuori gioco, ci si può abbandonare alla gioia o alla disperazione. Ma la situazione è surreale perché in quel momento in campo non sta succedendo nulla. Inoltre la partita è come un racconto, non può essere interrotta per qualcosa che non ha nulla a che vedere con ciò che in quel momento sta succedendo sul campo. È come inserire un piccolo saggio, perfetto, perfettissimo, fra due terzine di Dante. Si perde tutta la poesia.

Domani ricomincia la rumba. Le partite, sempre per esigenze televisive ed economiche, vengono spalmate su tutto l’arco della settimana. Il venerdì l’anticipo di B, il sabato la B e due anticipi di A, la domenica a mezzogiorno altra partita, alle tre del pomeriggio si giocano quelle meno interessanti, alle 18.30 una gara di medio valore, alle 20.45 il clou della giornata, il lunedì c’è il posticipo di A, il martedì e il mercoledì la Champions, il giovedì quella competizione comica che è l’Europa League. E così il cerchio si chiude. Una overdose che potrebbe stroncare un vampiro per eccesso di sangue.

Chi suona la musica anni 20. I dieci artisti del decennio

Fanno la fila in migliaia davanti alla soglia dove si certifica il Successo. Pochi riescono a oltrepassarla. I dischi non si vendono, i talent illudono e nessuno, big compresi, può sottrarsi a tour senza fine. Allo stesso tempo, i download non garantiscono guadagni cospicui: per restare sulla breccia serve il grande pubblico. Non importa l’età, né da quanto ci si provi. Alcuni dei seminuovi sono già oltre: Ultimo, Achille Lauro, Liberato. E se negli ultimi due anni il migliore sulla piazza si è rivelato Salmo (e 90 min il pezzo più incendiario), tanti faraoni del pop sono più autocelebrativi del museo delle cere, mentre il rock alternativo ha perso il passo. Ecco dieci buone scommesse per il 2020. Brunori Sas.Il nuovo Dalla? Dario di anni ne ha 42, con quattro album all’attivo. A giorni esce Cip!, fuori dalle secche della piccola produzione: due superbi singoli come Al di là dell’amore e Per due che come noi (verso cult: “Che poi chi l’ha detto che è peggio un culo di un cuore”) lo attestano come una firma imprescindibile per spessore e smagatezza.

Diodato. La grazia delle canzoni. Antonio da Taranto tornerà a Sanremo, dove si fece notare nel 2014 con la folgorante Babilonia. Tre album tra incanti privati e omaggi alla grande musica. Il quarto sarà Che vita meravigliosa, come la struggente ballata scelta da Ozpetek per La dea fortuna. Versi cult: “Ma sei la vita che ora ho scelto/ e di questo non mi pento/ anche quando si alza il vento”.

Anastasio. Il pontiere. Vinse XFactor 2018 dopo averne disintegrato il format riscrivendo da punti di vista inusuali De Gregori, De André e i Pink Floyd. Ha ripensato in chiave post-rap un testo sacro ai romani come Il fattaccio del Vicolo del Moro, scippandolo a Proietti. Può sbancare il Festival con la prossima mina. Vecchio e nuovo sono categorie superate, nella sua poetica.

Willie Peyote. Altro che Jova. “Ci sposa un prete vestito da Elvis/ E poi scopiamo in quattro lingue diverse”, nota sarcastico ne La tua futura ex moglie. Willie è la prova che se hai le parole giuste nella cartucciera il rap può essere un’arma da luna park. Colpisci e non uccidi nessuno. Sense of humour, ritmi vorticosi, indole world, un sabaudo distacco dalle passioni. Cinque album, verso un tour che promette faville. Anche senza i numeri da spiaggia di Lorenzo.

Fulminacci. Il finto giovane. Scrive canzoni “alla vecchia”, con uno spiritaccio così post-indie da sembrare canonico, più figlio di Battisti che non fratellino di Calcutta. Filippo ha 22 anni, vive ai margini di Roma ma il suo non è l’epos di periferia: anzi, lui dislocato ci sta come un pisello nel baccello. L’importante è cercarsi dentro La vita veramente, come nell’album. Consimili da tener d’occhio: Scarda e Avincola.

Franco126. Sulle tracce del Califfo. 126 sono gli scalini di Via Glorioso, dove si riuniva la crew di Franco. Che poi si chiama Federico, ed è mimetico anche nello stile: dal trap alla canzone d’autore, un passo dopo l’altro con Carl Brave, Paradiso, Gemitaiz, Fabri Fibra. Ma per lui va prenotata una Stanza singola, come l’album. È poeta trasteverino, nato stanco ma con le braci dentro, e il mito di Califano, con cui duetta virtualmente su Cos’è l’amore.

Junior Cally. Giù la maschera. Chi è il presunto big scelto da Amadeus? Un rapper romano di quelli sporchi e cattivi, che a lungo ha celato il volto dentro una maschera antigas. Poi se l’è tolta ed è spuntato Antonio: 100 milioni di stream per Ricercato e un talentaccio dietro al solito turpiloquio da pseudo-bullo. Scandalizzò la Panicucci nel Capodanno 2019. All’Ariston tremano.

Tha Supreme. Vita da avatar. Davide Mattei, 18 anni, da Fiumicino. Una sola foto in circolazione, sui social e sul palco mostra un avatar. Un fenomeno di artista-produttore: l’album 23 6451 (nel linguaggio Leet significa “Le basi”) ha polverizzato ogni record di stream. Dietro l’ipnosi del singolo Blun7 a Swishland, i codici criptati dei teen: si parla di sostanze sospette.

Pinguini Tattici Nucleari. Il prossimo Stato. Bergamaschi, quattro dischi in dieci anni, caleranno l’asso al Festival con un effervescente Ital-pop che ricorda (con più spensieratezza) quello de Lo Stato Sociale. Attenzione a non finire surclassati, proprio a Sanremo, dagli Eugenio in Via di Gioia, l’altra band “calda”, vincitrice annunciata della gara tra i giovani.

Madame. L’anti-Barbie. Classe 2002, la vicentina Francesca è un portento: sperimenta un suono “crudele” e disperato dentro la cornice del rap, raccontando il suo disagio adolescenziale con una cifra molto più inquietante di ragazzine-colleghe come Sofia Tornambene. Ammirata da Marracash, scelta da Ronaldo per le stories su Instagram. Sciccherie è l’inno delle giovani che non si sentono bambole da Photoshop.