Las campanadas dell’orologio di Puerta del Sol a Madrid hanno portato agli spagnoli per il 2020 12 settimane di paternità e una misura sociale in più per tagliare le tasse alle famiglie meno abbienti. Ci sarà pure chi vede arrivare una nuova bolla immobiliare, ed è vero che i numeri economici parlano di una crescita leggermente in frenata nel 2019 per la Spagna, ma che il governo di Pedro Sánchez abbia “suonato bene” e continui “a suonare bene agli spagnoli”, come nelle parole di uno dei rivali del premier, l’indipendentista e portavoce di Esquerra republicana al Cogresso, Gabriel Rufian, è oramai certo.
Tanto che al secondo tentativo e dopo due elezioni in un anno, l’esecutivo socialista eternamente uscente e appeso al filo dei rimpasti, pare stia per trasformarsi nel tanto atteso “governo progressista di coalizione”. E per non perdere la buona congiuntura – il presidente del Parlament, “Quim” Torra destituito dalla Giunta per le elezioni e quindi non abile a negoziare, il suo predecessore in autoesilio Carles Puigdemont accontentato con lo stop di Bruxelles all’ordine di cattura europeo – la fiducia Sánchez ha iniziato a farsela votare ieri, in piene vacanze natalizie. Il primo risultato fallimentare atteso: niente maggioranza assoluta, su 175 deputati necessari, Sánchez e Iglesias ne avranno al masismo 167, oggi, domenica 5, mentre gli spagnoli aspettano la cabalgata dei re Magi (quest’anno politicamente corretta, Baldassarre non avrà la faccia dipinta, ma sarà nero per davvero) e si scambiano i regali. È martedì 7 che Sánchez dovrebbe ottenere invece la fiducia a maggioranza semplice.
A rendere possibile la formazione del governo di coalizione rosso-viola con la sinistra di Podemos di Pablo Iglesias – il primo della democrazia spagnola – saranno proprio i 13 indipendentisti, che già ieri, come annunciato, si sono astenuti, nonostante l’affaire Torra. A convincere Rufian nonché il vicepresidente della Generalitat Pere Aragones a dare luce verde all’esecutivo è stato il punto del patto di governo sulle autonomie, vedi questione catalana. Nessun referendum, come accusano le destre che ieri con il leader di Vox Santiago Abascal hanno accusato il socialista di “aver commesso il più grave inganno elettorale della democrazia”, ma di fatto la concessione di una consultazione sull’indipendenza non vincolante nei risultati, ma soprattutto la riapertura di quel tavolo negoziale chiuso in malo modo a febbraio con la fine del primo governo Sánchez appoggiato dagli indipendentisti catalani. A questo la coalizione rosso-viola ha aggiunto ulteriori concessioni economiche nonché l’ulteriore decentramento delle sedi di alcune istituzioni pubbliche. “Non si romperà la Spagna e non si romperà la Costituzione, l’unica cosa che stiamo rompendo è il blocco al governo progressista democraticamente eletto dagli spagnoli”, ha esordito a las Cortes un Sanchez in grande spolvero, rispondendo al leader dei Popolari, Pablo Casado che lo aveva apostrofato come “sociopatico e presidente fake”, accusandolo di aver rotto il patto costituzionale. “Fortunatamente la Costituzione è più grande del Pp”, ha ironizzato a Casado che minaccia di rivolgersi al Tribunale costituzionale se il nuovo esecutivo non torna a commissariare la Catalogna. “Non c’è altro modo di risolvere questo conflitto che il dialogo”, ha tagliato corto il premier, invocando un “nuovo patriottismo sociale come argine alle destre”. Ora non resta che “sperare che il nuovo governo di coalizione sia all’altezza del patto sottoscritto”, per usare le parole del futuro vice, Iglesias.