“Ero arrivata a un passo dal sogno di sempre. Me lo hanno rovinato”

Tra i 455 vincitori di concorso esclusi dalle assunzioni dei nuovi agenti di Polizia c’è un nome particolare: Emanuela Loi. Non è solo un’omonima della più giovane agente della scorta di Paolo Borsellino, uccisa a 24 anni in via D’Amelio dal tritolo di Cosa Nostra. È sua nipote, la figlia di Marcello Loi, il fratello minore di Emanuela, diventato anche lui agente dopo la strage del luglio 1992. Una missione, quella di servire lo Stato, scritta nel dna della famiglia. “È inevitabile, quando hai genitori che fanno questo mestiere”, dice. “Ci nasci, ce l’hai dentro. Per questo la mia situazione è ancora più insopportabile. Sono arrivata a un passo dal mio sogno e me l’hanno rovinato”.

Quando ha deciso che voleva fare la poliziotta?

L’ho detto, ci sono nata. Naturalmente l’esempio della zia ha avuto il suo peso. Quando è stata uccisa, mamma era incinta: sono nata a novembre 1992. Sono cresciuta guardando a lei. Adesso giro per le scuole, non perdo mai un evento o una commemorazione. Cerco di coltivare il valore della memoria. E credo che la nostra vicenda sia anche una mancanza di rispetto verso chi, come lei, per lo Stato ha dato la vita.

Lei ha appena compiuto 27 anni. Quando ha fatto il concorso ne aveva 25, sarebbe rientrata anche nei nuovi limiti.

Certo, ma nel frattempo ne ho compiuti 26, e questo basta. E non ho fatto il servizio militare, altrimenti sarei arruolabile fino a 29 anni. Alla faccia della smilitarizzazione della polizia. Già è stato un miracolo trovare un concorso aperto ai civili…

Perché, sono rari?

Non ne facevano da vent’anni.

Che percorso di vita ha alle spalle?

Ho fatto il liceo scientifico, poi mi sono iscritta a Scienze motorie, senza laurearmi. Avevo qualche progetto, mi sarebbe piaciuto aprire un affittacamere qui nel cagliaritano, dove vivo. Ma ho messo da parte tutto, perché il sogno di entrare in polizia veniva prima. Così, adesso che ho 27 anni e una figlia, non ho mai avuto un impiego stabile, e a portare avanti la famiglia è il mio compagno, che fa il commerciante.

Le prove scritte come sono andate?

Molto bene, ho fatto 9,125 su 10. Sette risposte sbagliate su 80 domande. Quando quell’emendamento ci ha escluso sono state ripescate persone che avevano fatto 8,2, che avevano sbagliato 10 domande più di me.

Si è fatta un’idea del perché di questa scelta?

Davvero, non ne ho idea. Mi sembra qualcosa di inspiegabile. Soprattutto perché a volerlo è stata la Lega, che a parole è sempre dalla parte delle forze dell’ordine. Ci siamo rivolti anche a Salvini, quando era ancora ministro, e ci ha detto che quelle erano le nuove regole, che lui non poteva farci nulla. Intendiamoci, non c’è nulla di male a voler ringiovanire il corpo di polizia, e nemmeno a privilegiare chi ha un’istruzione superiore. Ma se da un lato si escludono i laureati, e dall’altro i militari sono ammessi anche se più anziani, trovare il senso è difficile.

Siete fiduciosi in vista della decisione del Tar sul merito della vicenda, prevista per aprile?

In realtà no: anche se Tar e Consiglio di Stato in via incidentale ci hanno già dato ragione, è probabile che il vero nodo sia la costituzionalità della norma. Quindi il Tar potrebbe sollevare una questione davanti alla Consulta e ci vorrebbero altri mesi. Nel frattempo noi rimaniamo a casa. Servirebbe una soluzione politica.

Che però non arriva.

A parole ci vengono incontro tutti, dal Pd a Fratelli d’Italia fino alla stessa Lega, che pure è la responsabile di questa situazione. Poi, però, i 6 emendamenti presentati in legge di Bilancio per risolvere la questione sono stati ritirati spontaneamente. Ora speriamo nel Milleproroghe.

La storia

Emanuela Loi, nata a Cagliari nel 1967, è stata la prima poliziotta italiana a essere uccisa in servizio. Insieme a lei, il 19 luglio 1992, morirono Paolo Borsellino, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano e Claudio Traina

Polizia, l’assurda avventura dei 455 “idonei con riserva”

Ieri, quando abbiamo raccontato la storia dei 251 magistrati “parcheggiati” in attesa del decreto di nomina (firmato poche ore dopo l’uscita dell’articolo) siamo stati travolti dai commenti su Facebook. Decine di giovani ci hanno chiesto di raccontare anche la loro vicenda, se possibile ancor più macroscopica, di burocrazia all’italiana: quella dei 455 “idonei con riserva” al concorso per allievi agenti della Polizia di Stato, bandito il 18 maggio del 2017, ormai più di due anni e mezzo fa. Hanno dai 26 ai 30 anni, molti sono laureati, hanno superato le prove scritte con punteggi altissimi (tra 8,8 e 9,5 su 10). Sono idonei dal punto di vista medico, fisico e psicologico. Eppure, per una discriminazione retroattiva voluta dalla Lega, non possono entrare in servizio.

Il motivo è semplice: sono troppo vecchi. E in effetti il decreto Madia del 2017 sul riordino delle carriere ha abbassato, per l’ingresso in Polizia, il limite di età a 26 anni, rendendo obbligatorio il diploma di scuola superiore. Peccato che queste modifiche siano posteriori (di una decina di giorni) al bando di concorso, che invece citava i vecchi requisiti, gli stessi dal 1982: età massima 30 anni, istruzione minima licenza media. Ed è su quelle norme che i candidati facevano legittimo affidamento.

Il pasticcio succede a febbraio 2019, quando il Parlamento approva il ddl semplificazioni. Un emendamento a firma Lega autorizza il ministero dell’Interno ad assumere 1.851 nuovi agenti sulla base della graduatoria risultante dal concorso, “purché in possesso, alla data del 1° gennaio 2019, dei requisiti di cui all’art. 6 del d.p.R 335/1982, nel testo vigente”. Cioè quello modificato dal decreto Madia. Così, di punto in bianco, circa 1.400 candidati tra i 26 e i 30 anni – compreso chi li ha compiuti nel frattempo – si ritrovano esclusi dalle assunzioni in base a una norma successiva a quella che disciplinava il loro concorso. E il titolo di studio non conta: o meglio, il diploma superiore è diventato obbligatorio, ma se hai compiuto 26 anni sei comunque fuori. Persino con la laurea. C’è di più: per chi ha fatto il servizio militare i requisiti non valgono. Si è ammessi anche con la licenza media, e il limite di età è alzato di tre anni (fino a 29).

Gli esclusi ricorrono al Tar, che fissa l’udienza per aprile 2020. Nel frattempo, in via cautelare, ammette i ricorrenti alle prove psicofisiche: i 455 che le superano diventano “idonei con riserva”. E aspettano di essere convocati per il corso di formazione, partito lo scorso 29 agosto. Ma la chiamata non arriva e serve un nuovo ricorso cautelare al Tar, che, di nuovo, dà loro ragione. Ora i 455 sono bloccati, senza lavoro né stipendio, in attesa del Consiglio di Stato che dovrà pronunciarsi sul ricorso del ministero. In questo limbo chiamato Italia.

Manutenzione ed esubero del personale: l’esempio spagnolo in caso di non rinnovo

Il confronto tra Italia e Spagna sulle autostrade è sconcertante: negli ultimi 40 anni gli spagnoli hanno costruito 13.500 km di nuove autostrade, noi solo 1.000. Oggi la rete spagnola (15.500 km) è più del doppio della nostra (6.950 km), mentre 40 anni fa era solo la metà. Ma ciò che colpisce è soprattutto la differenza nella politica verso il settore: da noi si dà per scontato che le concessioni siano eterne, vuoi perché si continua a prorogarle, anche più volte, vuoi perché dopo la scadenza il governo intende rimettere in gara la concessione anche se l’autostrada è già stata ampiamente ammortizzata (e di gare se ne fanno poche).

Ben diversa è la politica spagnola. Con l’inizio di quest’anno verranno eliminate le barriere su circa 500 km di autostrade che diverranno gratuite. Continua così una politica iniziata già da qualche anno: il governo spagnolo ha deciso che quando scadono le concessioni non le prorogherà né le rimetterà in gara, ma abolirà invece i pedaggi.

Si pongono due problemi: la manutenzione e l’esubero di personale. La manutenzione viene assegnata con un contratto messo a gara, riducendone così i costi. Si tratta di un costo modesto rispetto a quanto pagato con i pedaggi, e se ne fa carico lo Stato. Per il riassorbimento del personale addetto ai 500 km che divengono da oggi gratuiti è, invece, scontro tra il governo e Abertis, la controllata da Atlantia e Acs. Abertis sta perdendo gran parte delle concessioni in Spagna ed è danneggiata dalla politica del governo cui non può però opporsi sul piano giuridico (in Spagna non ci sono gli indennizzi miliardari elargiti in Italia). Abertis cerca di ostacolare il governo abbandonando la manutenzione prima che sia operativo il nuovo contratto e sollevando il problema del personale. Il governo è disposto a farsi carico solo di una parte (alcuni verranno reimpiegati nella manutenzione) lasciando ad Abertis l’onere di “riciclare” gli altri.

Ciò che colpisce poi è la capacità degli spagnoli di agire con rapidità e determinazione: lo Stato si è ripreso l’autostrada il giorno dopo la scadenza della concessione, anche se non erano ancora stati risolti i nodi del personale e della manutenzione. Da noi tutto è sempre rinviato, prorogato. Ad esempio, la concessione dell’Ativa (tangenziali di Torino sino a Quincinetto) è scaduta ad agosto 2016 e quella della Torino-Piacenza è scaduta a giugno 2017. In attesa di un’eventuale rassegnazione per gara le due autostrade (controllate dal gruppo Gavio) continuano da anni a essere gestite in proroga dallo stesso concessionario. Forse prima il ministero delle Infrastrutture poteva dire di non avere la struttura con cui subentrare nella gestione, ma ora col decreto Milleproroghe è stato stabilito che a subentrare, in caso di revoca o decadenza, sarà l’Anas: perché allora non iniziare da subito con le due concessioni scadute?

Si obietterà che sia più logico attendere che queste concessioni siano riassegnate per gara e che, quindi, subentri direttamente l’aggiudicatario evitando il doppio passaggio. Ma perché dovrebbero essere riassegnate per gara? Sono autostrade già ammortizzate, che non richiedono nuovi investimenti e con indennizzi di subentro minimi. Lo Stato, che già ricava un grande gettito dal settore, potrebbe renderle gratuite con poco onere.

Gli economisti insegnano che l’abolizione dei pedaggi (o la riduzione al solo costo marginale) aumenta il benessere collettivo, per vari motivi che tralascio di richiamare. Solo una minima parte dei pedaggi su queste autostrade serve alla manutenzione, il resto è in sostanza un’imposta. L’unico motivo per rimettere in gara queste concessioni può essere l’ingordigia dello Stato di farsi anticipare dal nuovo concessionario il valore attuale (fortemente scontato) del flusso atteso di pedaggi/imposte. Si continua a svendere beni pubblici, tanto a pagare sono i “pedaggiati”.

In Spagna costruiscono nuove autostrade e le rendono gratuite quando scadono le concessioni. Da noi non si costruisce più, ma si continua a pagare su autostrade già ammortizzate da anni.

“Indagini su Lega e Morandi a rischio: manca il personale”

“Chi nu cianze nu tetta. A Genova si dice così, se non piangi non ciucci il latte. Bisogna pur dirlo come più volte è stato fatto nelle sedi competenti. Altrimenti si diventa conniventi: la nostra Procura, che deve occuparsi del Morandi, è scoperta per il 28% degli organici amministrativi e per il 13% dei magistrati. Ne vanno di mezzo le inchieste”.

Francesco Cozzi, lei guida la Procura di Genova dal 2016. Negli ultimi anni nessun ufficio giudiziario è stato sotto i riflettori come voi…

Non c’è solo il ponte… Abbiamo l’inchiesta sui 49 milioni della Lega, quella sul crac del colosso dei buoni pasto Qui! Group con un passivo di oltre 300 milioni. Poi Carige e le cosiddette spese pazze dei consiglieri regionali. E prima le indagini di criminalità organizzata e stupefacenti che hanno portato a sequestri di tonnellate di droga. Per non dire delle gare truccate per il Terzo Valico e le inchieste sugli uffici giudiziari della Toscana.

Ma restate pesantemente sotto organico.

Per decenni non si sono fatti concorsi, oggi ne vediamo le conseguenze. È paradossale: c’è disoccupazione ma restano posti vacanti in servizi essenziali, come Asl e uffici giudiziari. Non voglio polemiche, ma… mi chiedo se ci siano le stesse carenze negli studi di quiz e talk show.

Si pensa più a vallette che a cancellieri?

Mi fermo ai dati: noi dovremmo avere 30 pm, ce ne sono 26. Due sono impegnati solo per ponte e autostrade. Ma il problema è soprattutto la mancanza di amministrativi che rendono un servizio fondamentale.

Prevede ritardi nei processi come quello sul Morandi?

Senza impiegati la giustizia non va. In procura invece di 173 sono 119.

Quali le conseguenze?

Mi preoccupa ad esempio l’esecuzione penale. La condanna è inutile se poi ci sono problemi nell’esecuzione.

Parliamo di reati che contribuiscono alla percezione di insicurezza e illegalità…

Penso alle condanne sotto i quattro anni per cui è prevista la sospensione in attesa della richiesta di pene alternative. Per esempio per falso, truffa e stupefacenti. Ma anche reati stradali.

Le inchieste sul ponte rischiano di far crollare la Procura?

Adesso con il crollo nel tunnel sulla A26, a Masone, è stato impegnato un terzo pm.

Quanti fascicoli avete aperto sulle autostrade?

C’è quello sul Morandi. Poi uno sui report falsificati, un terzo sui viadotti. Ora, dopo diversi crolli, ci stiamo occupando di barriere antirumore e tunnel.

A che punto è l’inchiesta sul ponte?

I periti hanno chiesto una proroga dei termini fino a marzo. È un lavoro complesso: 40 quesiti e decine di indagati. Impossibile dire quando arriverà il processo, non dipende solo da noi.

Si teme la prescrizione.

All’inchiesta sul ponte si applica la vecchia legge. Ma per alcuni illeciti che abbiamo contestato, come il disastro colposo, i termini arrivano a quindici anni. Se le ipotesi di reato saranno confermate, ce la faremo.

A Roma non vi ascoltano?

Per decenni il problema è stato ignorato. Ultimamente hanno cercato di aiutarci, di darci impiegati distaccati da altre amministrazioni. Siamo arrivati al punto, con la collaborazione del Comune, di cercare case a prezzi agevolati per chi si trasferiva a Genova per un periodo. Ma non basta. Per far funzionare la giustizia servono magistrati e cancellieri preparati. Esperti. Ormai passo il tempo a tentare di tamponare le falle. Ma il primo gennaio ho firmato il pensionamento di altri tre dipendenti. Non si può andare avanti così.

Il ministero nella relazione sull’ispezione generale alla procura di Genova ha scritto che è un ufficio ben organizzato con produttività medio alta. Fa piacere, ma non posso chiedere al personale nuovi sacrifici. Chi deve agire non parli, agisca.

Tempi stretti sulla revoca. E Aiscat prova a trattare

L’Associazione delle società concessionarie delle autostrade (Aiscat) prova a trattare. Chiedendo al governo l’apertura di un negoziato ora che l’esecutivo ha annunciato decisioni imminenti per il settore. E che potrebbero portare alla revoca delle convenzioni in essere con Autostrade per l’Italia dopo il crollo del ponte Morandi. Un appello “al buon senso” formulato dal direttore generale di Aiscat, Massimo Schintu, preoccupato dagli effetti del decreto Milleproroghe. Il provvedimento la prossima settimana inizierà il suo iter alla Camera e prevede che Anas subentri ai privati in casa di revoca, decadenza o risoluzioni delle concessioni.

Una norma che crea le precondizioni per consentire a Palazzo Chigi di regolare i conti con il concessionario dopo il crollo di Genova, ma che è anche l’impalcatura giuridica per rimettere in discussione l’esistente e per immaginare una nuova prospettiva: arrivare a garantire nell’intero settore delle concessioni più concorrenza e soprattutto più efficienza gestionale. “Sediamoci a un tavolo e facciamo un negoziato. Noi siamo per il dialogo”, ha detto Schintu all’AdnKronos dopo aver messo nel mirino il provvedimento che “lede i diritti di tutto il settore”.

Una partita che si incrocia con l’altro dossier che scotta, quello che riguarda Aspi e il pressing del Movimento 5 Stelle per togliere le concessioni ai Benetton come promesso ai familiari delle vittime di Genova. Luigi Di Maio lo ha messo in cima alle priorità in vista della ripresa dopo le festività natalizie. Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, da parte sua, sta mettendo insieme i pareri dell’Avvocatura dello Stato e pure della Corte dei Conti che saranno utili per blindare le decisioni del governo. In cui non ci sono veti espliciti, ma resistenze sì. Ieri, ad esempio, sono tornati a farsi sentire i renziani che prima di Natale si erano messi di traverso sulla norma del Milleproroghe sul subentro di Anas in caso di cessazione anticipata delle concessioni.

La deputata Raffaella Paita, oggi capogruppo di Italia Viva in commissione Trasporti a Montecitorio, dopo essere stata a lungo maggiorente del Pd in Liguria, ne fa una questione di metodo ma soprattutto di merito: “Per un anno e mezzo abbiamo assistito a esternazioni sulla revoca della concessione di Aspi. La sensazione, che ormai è una certezza, è che ad oggi non ci siano idee chiare sul modello alternativo di affidamento della gestione: se la proposta è quella di cambiare il sistema concessorio in Italia, allora vogliamo discutere molto approfonditamente sul modello alternativo che non può in alcun modo ipotizzare una nazionalizzazione. Pensare in questo momento di passare le competenze ad Anas senza aver riformato il tema dei controlli e l’operatività dell’azienda è un errore. Così come è altrettanto urgente una riforma del ruolo di controllo del ministero che non c’è stata in questo anno e mezzo”. Insomma, certamente “servono regole chiare, controlli chiari, un nuovo rapporto pubblico-privato”. Ma il modo “in cui si sta gestendo, a colpi di decreti e non con una riforma organica, la materia concessoria, rischia di provocare due effetti certi: la fuga degli investitori stranieri, che si orienteranno in Paesi dove c’è certezza delle regole, e ricadute occupazionali gravissime”.

Accanto ai nodi politici da sciogliere, c’è poi la questione della controffensiva di Aspi. Secondo un’anticipazione del Sole 24 Ore, la società concessionaria starebbe prendendo in considerazione l’idea di invocare addirittura la risoluzione automatica della convenzione a fronte delle nuove norme intervenute con il Milleproroghe. Ma forse teme solo che il governo potrebbe anticiparla invocandone la nullità.

Blocca-Prescrizione, viva la riforma purché non si faccia

Già un anno fa, la legge “spazza corrotti” aveva previsto il blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado. Come stabilito, la norma è entrata in vigore il 1° gennaio 2020, ma dopo 12 mesi di “moratoria” e di sostanziale disinteresse si è scatenato ora il dibattito. Che presenta tutti i sintomi di una malattia ricorrente nel nostro Paese.

Quella che porta a riconoscere in teoria l’insostenibilità di determinate situazioni per poi tenerle ostinatamente fuori del proprio raggio di azione ogni volta che si tratti di porvi concretamente rimedio. Chi non ricorda – febbraio 2015 – lo sdegno e la promessa unanimi di introdurre una nuova disciplina proprio sulla prescrizione? La Cassazione aveva annullato senza rinvio le condanne inflitte dalla magistratura di Torino in primo e secondo grado nel processo Eternit, dichiarando l’estinzione del reato di “disastro” per intervenuta prescrizione. La motivazione era che il decorso della prescrizione comincia con la consumazione del reato, che non può protrarsi oltre il momento in cui la chiusura degli stabilimenti (giugno 1986) aveva comportato la fine delle emissioni di polveri e residui della lavorazione dell’amianto. Nonostante che, dopo tale chiusura, ancora per molti anni si fosse dovuta registrare una terribile epidemia di morti e malattie causate da quelle emissioni. La sentenza della Cassazione fu rubricata sotto la voce summum jus, summa iniuria e fu tutto un fiorire di giuramenti solenni per ridurre in futuro le possibili ingiurie. Per esempio fissando il decorso della prescrizione (come in altri ordinamenti) non dalla consumazione del reato, ma dalla sua scoperta. Ma sono trascorsi cinque anni e tutto è rimasto come allora.

Sul tema specifico del dibattito in atto, preliminare a ogni altra è la considerazione che in Italia si producono centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che ovunque funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a concludere, da noi è diventato un fenomeno patologico. Da misura circoscritta a pochi casi limite che il troppo tempo trascorso rende non più conveniente trattare, la prescrizione si è trasformata in una voragine gigantesca che inghiotte un’enormità di processi. E invece che giustizia si ha il suo opposto: denegata giustizia, per le vittime come per i presunti responsabili.

In tutti i Paesi europei (salvo la Grecia) la prescrizione si interrompe definitivamente o con il rinvio a giudizio o con la sentenza di primo grado. In Italia invece – prima della riforma del 1° gennaio – non c’era alcun blocco definitivo, ma solo sospensioni temporanee. Erano diffuse, pressanti e autorevoli le sollecitazioni affinché il nostro Paese si allineasse al resto d’Europa. Ma, di nuovo, ecco lo scarto fra la teoria e azione, perché molti di coloro che erano favorevoli al blocco definitivo, oggi invece (a fronte di un inizio di esecuzione concreta) fanno marcia indietro. Di “pentiti” se ne trovano un po’ dovunque, fra i magistrati, i giuristi, i politici e i pubblicisti (solo la classe forense era ed è rimasta ostile). E la polemica viene sempre più assumendo toni da curva ultrà, con l’impiego di slogan tipo orrore, bomba atomica, ergastolo processuale, macigno sullo stato di diritto e via salmodiando.

L’argomento principale contro la nuova prescrizione è che senza una congrua accelerazione dei processi avrebbe effetti nefasti: dopo la sentenza di primo grado si aprirebbe la prospettiva di una pendenza perpetua dei processi, non essendo più previsto un termine entro cui debbano essere conclusi. Ora, è vero che alcuni processi potrebbero restare pendenti in appello per un tempo più lungo, ma il rischio è circoscritto ad alcuni casi soltanto e certamente non riguarda “tutti” i processi, come invece cercano di far credere le prèfiche che parlano di processi destinati a “durare all’infinito”. Si tratta comunque di una eventualità che potrà essere adeguatamente “governata” operando sui margini di miglioramento dell’organizzazione del lavoro in appello; fase in cui si registra il “record” di durata del processo: 749 giorni – secondo una statistica del Sole 24 Ore – quasi il 48% dei 1.586 complessivi, calcolati tenendo conto anche dei tempi di procura, tribunale e Cassazione. Tale eventualità, inoltre, sarà ampiamente bilanciata dall’azzeramento dei casi in cui, con la prescrizione, la giustizia deve riconoscere il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità. E ciò con riferimento ai processi che sono arrivati al vaglio del tribunale, di regola quelli di maggior rilievo, per i quali appunto si pone con più intensità il problema di evitare un default dello Stato.

Quanto all’accelerazione del processo, siamo alle solite. Tutti pronti a chiederla in teoria, per poi rivelarsi – in pratica – timidi, restii o di fatto contrari. In altre parole, tutti gridano di volere “più giustizia”, ma poi molti operano come se l’obiettivo fosse “meno giustizia”, quanto meno per sé e per i loro sodali. Sicché la durata interminabile dei processi è funzionale alla tutela di determinati interessi, quelli in capo ai soggetti cui il controllo di legalità gli dà l’orticaria. I “galantuomini” a prescindere, cioè le persone giudicate comunque “perbene” in base al censo o alla collocazione sociale, per le quali la “vecchia” prescrizione ha avuto un ruolo decisivo fino a determinare una grave asimmetria nel sistema. I “galantuomini” possono contare su difensori costosi e agguerriti in grado di sfruttare l’opportunità di eccezioni d’ogni tipo generosamente offerta da una procedura malandata. Per loro il processo può ridursi soprattutto ad attendere che il tempo si sostituisca al giudice. Mentre per i cittadini “comuni”, il processo – per quanto di durata biblica – riesce più spesso a concludersi, segnando vita, interessi e relazioni delle persone.

La prescrizione come congegnata prima della riforma è stata dunque (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro di un sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolve nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove in realtà è la prescrizione infinita (senza stop definitivo) che fa durare all’infinito certi processi. Ciò dovrebbe preoccupare sul versante costituzionale della ragionevole durata dei processi anche coloro che si pongono questo problema per la riforma della prescrizione. Il doppio processo costituisce di per sè un ossimoro costituzionale davvero insostenibile.

In ogni caso, gli effetti della nuova prescrizione si produrranno soltanto tra qualche anno. C’è tutto il tempo per modificare il processo accelerandolo. Anzi, il timore (poco consistente) di effetti nefasti dovrebbe spingere tutti a utilizzare seriamente questo tempo per interventi comunque necessari. Anche per ridurre sensibilmente il gran numero di prescrizioni che altrimenti continuerà a verificarsi in procura e in tribunale. Purché si guarisca – alla buon’ora – dalla malattia dello scarto fra mera teorizzazione e traduzione in cifra operativa di quanto serve per una moderna giustizia giusta.

Paperoni ’18: B., Bongiorno, Conte e Renzi

Forse non è il leader di un tempo, ma Silvio Berlusconi rimane il più ricco politico italiano: 48.022.126 milioni di euro guadagnati nel 2018. Segue, a grande distanza, l’ex ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno: 2.403.772 milioni di euro, in leggero calo rispetto al 2017, forse per la cessione di numerose azioni (2500 di Cerved Information Solutions, 1312 di Poste Italiane e 13 mila di Terna).

Terzo il premier Giuseppe Conte che, secondo l’ultima dichiarazione dei redditi, ha guadagnato oltre un milione di euro. Un netto aumento rispetto all’imponibile dell’anno precedente di 370.014 euro. Come spiegato da fonti di Palazzo Chigi, è dovuto al fatto che quando Conte è diventato presidente del Consiglio ha dovuto chiudere tutti gli incarichi pendenti emettendo le relative fatture, e, quindi, ha fatturato in un solo anno importi che altrimenti sarebbero stati diluiti nel corso del tempo. Matteo Renzi, fondatore di Italia Viva, nel 2018 ha guadagnato quasi 800 mila euro. Spulciando le sue ultime dichiarazioni online, si scopre che il senatore toscano ha incrementato i propri incassi di più di 700 mila euro in dodici mesi. Renzi ha dichiarato che sono intervenute alcune “variazioni” tra le quali la cessione, il 27 maggio scorso, di “due unità immobiliari” a Pontassieve, in provincia di Firenze, di cui aveva il “possesso al 50%” ovvero la casa e la tavernetta annessa. Altra variazione, la liquidazione della ‘Digistart srl’ con sede a Firenze, che vedeva l’ex premier socio con una quota da 10mila euro. Viene menzionato anche l’incarico di liquidatore della stessa Digistart, fondata con Marco Carrai e che non ha mai operato, come precisato dallo stesso. Quisquilie rispetto a quanto incassato dal deputato di Forza Italia Antonio Angelucci che si conferma il Paperone della Camera dei deputati con 5.105.187 euro di reddito imponibile.

Il più ricco tra i ministri è il dem Dario Franceschini, alla Cultura, che ha dichiarato 200 mila euro. Luigi Di Maio, agli Esteri, non ha ancora fornito la dichiarazione 2019 come la neo ministra Elena Bonetti. Nel centrodestra Giorgia Meloni batte Matteo Salvini: per la leader di Fratelli d’Italia quasi 100 mila euro mentre il leghista ha dichiarato ‘solo’ 70 mila 173 euro. All’interno della casella delle variazioni rispetto all’anno precedente, Salvini ha aggiunto la dicitura “Bg Selection Sicav”, una società di gestione lussemburghese per 1.112,991 azioni. La presidente del Senato Elisabetta Casellati ha un reddito imponibile di 301.598 euro. Tra i senatori a vita che hanno depositato la dichiarazione c’è Giorgio Napolitano con 121.259 euro e Liliana Segre con 246.568 euro.

Restituzioni e altri addii Uno su due è fuori regola

Ascorrere l’elenco, viene in mente Totò: tirendiconto.it è ‘a livella del Movimento Cinque Stelle. E ieri mattina alle 11:30 quando negli uffici milanesi si è chiusa la lista nera dei morosi, dentro c’è finito di tutto. Acunzo Nicola e Bonafede Alfonso, Cappellani Santi e Fico Roberto, Di Marzio Luigi e Taverna Paola. Tutti indistintamente nel calderone degli “inadempienti” che ieri hanno ricevuto l’email di mancato rispetto della scadenza di fine anno. Ministri e parlamentari semplici, presidenti della Camera e sconosciuti senatori, facilitatori e dissidenti.

Centosettanta nomi su 316 eletti: più della metà è fuori regola. Certo, ci sono differenze di rilievo, perché non tutti hanno preso sul serio la tagliola imposta il 31 dicembre scorso: bisognava rendicontare almeno fino al mese di ottobre, pena il deferimento senza appello ai probiviri. Così, c’è chi si è affrettato a recuperare il tempo perduto e ha coperto almeno una parte del debito. Nel lungo elenco, per dire, ci sono molti a cui mancano solo un mese o due (è il caso di Bonafede, Fico e Taverna) e altri che hanno già avvertito di avere problemi “tecnici”, appellandosi al fatto che il meccanismo delle rendicontazioni sia piuttosto farraginoso.

Ma c’è uno zoccolo duro di inadempienti che non si è fatto intimorire dalle minacce del capo politico. Una quindicina di deputati (tra cui i sopracitati Acunzo e Cappellani) non hanno mai restituito nel 2019. E lo stesso vale per 5 senatori (oltre a Di Marzo, anche Anastasi, Ciampolillo, Di Micco e Giarrusso) a cui se ne aggiungono altri 9 che hanno smesso di farlo prima di quest’estate. Secondo quanto disposto da Di Maio, dovrebbero essere di fatto già tutti cacciati (ci sarà tolleranza solo per chi è in ritardo di un paio di mesi). E a Palazzo Madama non è certo una notizia rassicurante per la tenuta del governo giallorosa.

La lista nera, d’altronde, arriva nel giorno in cui altri due deputati annunciano l’addio al gruppo M5S. Una diaspora che è iniziata a dicembre col passaggio di tre senatori alla Lega ed è proseguita a Natale con le dimissioni del ministro Fioramonti. E che rischia, seppur per ragioni opposte, di essere accelerata dall’espulsione di Gianluigi Paragone, decretata a Capodanno. Ieri a salutare sono stati Nunzio Angiola e Gianluca Rospi: avevano già bocciato la legge di Bilancio, ora se ne vanno al Misto indignati dalla “oligarchia” che governa il Movimento. Entrambi, va detto, non erano in cattivi rapporti con Di Maio, nonostante da qualche mese ormai manifestassero dissenso rispetto alla linea ufficiale del gruppo.

Angiola, tarantino, ordinario di Economia aziendale, era stato tra i più strenui sostenitori dell’accordo con Mittal e per questo si è scontrato con i colleghi pugliesi, a cominciare da Barbara Lezzi. Rospi, ingegnere di Matera, era invece stato messo in contatto dallo stesso Di Maio con il ministro della Salute Roberto Speranza, per occuparsi di alcune questioni relative alla Basilicata.

Il tema, però, ormai non è nemmeno più la distanza con il capo politico. Piuttosto lo sfilacciamento complessivo di un gruppo che continua a perdere pezzi, l’irritazione generalizzata verso Davide Casaleggio (che il post sui “10 punti” pubblicato l’altro giorno non ha fatto che aumentare) e pure un certo fastidio per chi “da fuori” – tradotto, Alessandro Di Battista – spara sul Movimento già acciaccato. Mercoledì, alla ripresa dei lavori del Parlamento, i deputati si ritroveranno in assemblea per contribuire alla stesura del “cronoprogramma” con cui Palazzo Chigi ha intenzione di rilanciare l’azione di governo. Sempre che la cacciata dei morosi non diventi l’unico argomento all’ordine del giorno.

Babbo Natale d’Abruzzo, ma senza bando

Ci sono 30 mila euro per la realizzazione di una “pista ciclopedonale” nel Comune di Canosa Sannita (mille anime in provincia di Chieti), 25 mila per la “messa in sicurezza e adeguamento” dell’area camper di Villalago o l’acquisto di un gatto delle nevi per le strade di Santo Stefano di Sessanio, fino ai 20 mila euro per i loculi cimiteriali a Roccacasale, tutti piccoli comuni in provincia de L’Aquila. E così via, per un totale di 80 micro-interventi da poco più di 2,5 milioni di euro. Dopo la vittoria elettorale di febbraio, la prima legge di bilancio in Abruzzo targata centrodestra – e in particolare Lega e Fratelli d’Italia che esprime il governatore Marco Marsilio – è un marchettificio in favore di 80 piccoli comuni che nel 2020 riceveranno dalla Regione fondi per piccoli interventi. Problema: questo avverrà senza alcun bando pubblico. L’emendamento è stato presentato da quattro consiglieri regionali della maggioranza di centrodestra – due leghisti (Pietro Quaresimale e Vincenzo D’Incecco), Marianna Scoccia dell’Udc e Mario Quaglieri di Fratelli d’Italia – ed è stato approvato nella seduta fiume del 27 dicembre scorso che doveva occuparsi del bilancio.

Il caso è stato denunciato dal segretario nazionale di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, che proprio in Regione ha mosso i suoi primi passi in politica prima di essere eletto alla Camera e poi in consiglio regionale durante il mandato del forzista Giovanni Chiodi. “La Lega che si presenta come forza di cambiamento e ha conquistato l’Abruzzo con Fratelli d’Italia ha portato in Regione i peggiori metodi del passato – attacca Acerbo – ovvero una spartizione di tipo clientelare, distribuendo fondi senza alcun criterio che non siano rapporti di scambio politico sul territorio”.

Secondo Acerbo, i micro-interventi sarebbero stati finanziati solo grazie a “rapporti di conoscenza tra i sindaci e i consiglieri regionali”. Motivo? A beneficiarne saranno 80 piccoli comuni abruzzesi su un totale di 305: molti sindaci di questo emendamento leghista non ne sapevano niente e sono stati tagliati fuori. In realtà non è la prima volta che la Regione distribuisce fondi senza alcun bando pubblico ai piccoli comuni: già nel 2015, l’allora giunta di Luciano D’Alfonso (centrosinistra) aveva distribuito con una delibera ad hoc 5 milioni a 123 comuni per interventi sulle strade. In questo caso la differenza è che l’atto è stato proposto dal consiglio regionale.

Gli interventi, che vanno dai 10 ai 100 mila euro, sono i più svariati in base alle esigenze dei comuni: dalla semplice manutenzione delle strade all’acquisto di materiale per rispondere all’emergenza neve fino a un impianto di riscaldamento per la mensa scolastica di Caramanico terme (Pescara) o un’area per cani ad Avezzano (L’Aquila).

Truffa dei “pacchi solidali”, Pazzaglini rischia il giudizio

“Liberiamo le Marche. Qua non ci sono fascisti ma italiani che chiedono regole, ordine, disciplina e rispetto. Non mi dispiacerebbe se andassero a casa il sindaco di Ancona e il governatore, due piccioni con una fava con tutto il rispetto per i piccioni”. Così tuonava Matteo Salvini da Ancona il 23 dicembre aprendo la campagna elettorale per le Regionali: “Non è possibile che ci siano migliaia di persone fuori casa per il sisma”. Stando alle gravi accuse mosse dalla Procura di Macerata al senatore leghista Giuliano Pazzaglini, le Marche intanto dovrebbero essere liberate da chi, nella veste di sindaco di Visso, cuore del cratere, è accusato di aver tratto un profitto di 50 mila euro dalle donazioni per la sua comunità colpita dal sisma.

Ieri è stata depositata la richiesta di rinvio a giudizio per Pazzaglini, eletto in Senato grazie anche alla denuncia di una ricostruzione post terremoto lenta e lacunosa. I reati contestati sono truffa, abuso d’ufficio e peculato, in concorso, solo per abuso d’ufficio, con l’allora presidente della Croce Rossa locale Giovanni Casoni (poi espulso dalla Cri) di Fratelli d’Italia. Leggendo la richiesta inviata al Gip Claudio Bonifazi sembra di ascoltare Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato. Attraverso rocambolesche operazioni, forti della fiducia che gli ignari benefattori riponevano nei loro confronti, infatti, stando alla tesi accusatoria, si facevano confluire parte delle donazioni sui conti della Sybil Project, di Pazzaglini e Casoni e della Simil Iniziative del solo Casoni.

Un’indagine complessa, partita dalla nostra inchiesta sull’acquisto delle casette per i commercianti e la vendita di pacchi solidali, condotta dalla Gdf di Camerino su delega del Procuratore capo di Macerata Giovanni Giorgio che ha portato al sequestro preventivo di quasi 50 mila euro. La Sibyl Project – costituita da Pazzaglini nel 2018 – vendeva pacchi con prodotti locali, confezionati dalla Croce Rossa, fatturati alla Sibyl Project e alla Sibyl Iniziative, con la scritta: “Ripartiamo da qui. Pacco solidale Sisma”.

I pacchi venivano acquistati pensando che il ricavato sarebbe andato ai terremotati, invece finivano nelle tasche dei due. A cadere nella trappola anche la EmilBanca di Bologna, che acquistò 2.200 pacchi fatturando 63.550 euro alla Sibyl Project. “Ci siamo fidati del sindaco e del presidente della Croce Rossa” ha detto a verbale la dirigente di EmilBanca, Giuliana Braido.

Emerge anche che, in un anno, il sindaco si è fatto rimborsare oltre 50 mila euro di spese. Pazzaglini non ha mai chiesto di essere interrogato limitandosi a consegnare una memoria difensiva, mentre lo ha fatto Casoni che ha sostenuto di essere stato solo un esecutore. Alcune casette sono state donate dai Comuni di Meolo e di Taino, altre sono state acquistate dalla Sibyl Project, rivendute alla Sybil Iniziative che, a sua volta, le ha rivendute alla Pro Loco che le ha pagate con 31.900 euro, parte di una donazione di 90.70,48 euro della EmilBanca di Bologna.

Giuliana Braido, a verbale dice che Pazzaglini le chiese che la somma non fosse accreditata sul conto del Comune ma su quello della Pro Loco “in attuazione del progetto criminoso Casoni, nel corso di una riunione alla Pro Loco, comunicava che 31.900 euro erano per l’acquisto dalla Sibyl Iniziative delle casette di legno”, facendo poi alla Pro Loco una sovrafatturazione accertata di 4.300 euro.

I commercianti non avevano più bisogno delle casette, ma il sindaco continuava a chiedere soldi come fece con la Parrocchia di Luino (Va) da cui si fece versare sul conto della Sybil Iniziative 2 mila euro. Così come fece con il Moto Raduno, da cui si fece consegnare 10.300 euro, spariti. Quando non gli venivano accreditati sui conti delle società o consegnati a mano, come nel caso del sindaco di Tenno, che fece un bonifico di 16 mila euro sul conto del Comune, Pazzaglini escogitò di devolvere la somma alla Pro Loco per allestire la pista di ghiaccio, fornita dalla società spagnola, Ixtraice che venne pagata dalla Sibyl Iniziative che, a sua volta, la fatturò alla Pro Loco con una sovrafatturazione di oltre 700 euro. C’è anche l’assegno di 8 mila euro intestato, su richiesta di Pazzaglini, alla Sybil Iniziative e consegnatogli al termine della cena di beneficenza dall’imprenditore Alessandro Guzzini. E quello di 2 mila euro, senza beneficiario, dei fratelli Ridolfi, frutto della vendita di quadri del padre defunto, che verrà incassato dalla compagna di Casoni, Loredana Remigi.