Il partitone degl’inquisiti (56) che rivuole la prescrizione

Passano anni, governi, Repubbliche, leggi Severino e indignazioni popolari. Resta, immobile nel nostro Parlamento, un dato allarmante: dopo quasi due anni di legislatura sono ancora decine i deputati e senatori condannati, imputati e indagati. Con la benedizione esterna di Silvio Berlusconi, condannato a 4 anni per frode fiscale e di recente eletto parlamentare europeo.

Forze fresche Diversi onorevoli sono stati indagati dopo la loro elezione nel 2018. Innanzitutto Matteo Salvini, tre volte indagato per sequestro di persona aggravato. Finora non si è mai arrivati a processo: nel primo caso (Nave Diciotti), il Senato fermò l’inchiesta e nel secondo (Sea Watch), Salvini è stato archiviato. Adesso arriverà in Senato la vicenda della Gregoretti.

Ben noto è anche il caso di Giulio Centemero, tesoriere della Lega: è indagato in due diversi filoni su eventuali finanziamenti illeciti alla Lega. Vicenda simile a quella di Francesco Bonifazi (finanziamento illecito e false fatture), ex tesoriere Pd (ora Italia Viva): i pm indagano sui soldi alle fondazioni legate al Pd. In Parlamento è arrivato il caso di Diego Sozzani (FI), salvato dalla Camera dai domiciliari: per i magistrati ha avuto 10 mila euro di finanziamento illecito da un imprenditore.

E a proposito di Forza Italia, sotto indagine c’è anche Renato Schifani, accusato con altri di aver spifferato l’inchiesta su Antonello Montante, condannato in primo grado a 14 anni per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Recente è la richiesta di rinvio a giudizio per Piero Fassino (Pd): turbativa d’asta per la gestione del Salone del Libro di Torino. Doppia grana per Armando Siri, che aveva già patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta e per sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: è indagato per corruzione e per autoriciclaggio.

A giudizio andrà Isabella Rauti (FdI), ex consigliera regionale del Lazio. I pm sostengono che tra il 2010 e il 2013 abbia affidato consulenze tali da configurare una truffa aggravata ai danni dello Stato.

Rischia il rinvio a giudizio il senatore leghista Giuliano Pazzaglini (ne parliamo a pagina 10) . Sotto indagine è anche il leghista Roberto Marti, che in concorso con altri risponde di tentato abuso di ufficio, falso ideologico aggravato e tentato peculato. L’estate scorsa ha patteggiato 1 anno e 4 mesi la forzista Michela Vittoria Brambilla, indagata per il crac delle Trafilerie del Lario. Intanto sono finiti indagati per corruzione due forzisti campani, Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo. Giuseppina Occhionero (IV) è indagata per falso e infine c’è Renata Polverini, appena uscita da FI e accusata di appropriazione indebita per il periodo in cui era segretaria Ugl.

Sospiri di sollievo C’è chi, per un motivo o per l’altro, ha evitato il processo. Maurizio Gasparri, querelato da Roberto Saviano, è stato giudicato insindacabile dai colleghi senatori. Gli stessi che hanno evitato guai a Cinzia Bonfrisco (Lega, ora a Bruxelles), salvata dall’indagine per associazione a delinquere e corruzione per atto d’ufficio. La leghista Lucia Borgonzoni, candidata alla Regione Emilia-Romagna, ha rischiato il processo per appropriazione indebita, ma con la legge Orlando il reato è ora perseguibile solo su querela e non più d’ufficio. Risultato: pericolo scampato. Anche Maria Cristina Caretta (FdI) a fine 2018 è uscita dal processo sullo scandalo delle tessere del fu Pdl: i reati di falso in scrittura privata e indebito utilizzo dei dati personali sono stati depenalizzati. Ma il caso più eclatante è stato quello di Umberto Bossi: già condannato in passato (nel processo Enimont, 1994, prese 8 mesi) era imputato per truffa e appropriazione indebita per lo scandalo dei fondi della Lega, ma il primo reato si è prescritto e il secondo, perseguibile solo su denuncia del partito, è andato in fumo per la mancata azione di Salvini.

Vecchie storie Il totiano Paolo Romani ha una condanna definitiva a 1 anno e 4 mesi per peculato: durante il suo assessorato a Monza, la figlia usò il cellulare del Comune per 9.811 euro di bollette.

Il senatore Salvatore Sciascia (FI) nel 2001 è stato invece condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi per una storia di tangenti pagate dalla Fininvest alla Guardia di finanza. E sempre in FI c’è Enzo Fasano, condannato per concussione a 2 anni: era il 2007 e la pena è stata indultata.

Condannato in via definitiva è anche Vittorio Sgarbi (Misto), pregiudicato per truffa aggravata ai danni dello Stato e ora è alle prese con un’indagine su alcune opere d’arte autenticate, secondo i pm, nonostante fossero dei falsi.

È invece appena passato alla Lega Antonino Minardo: nel 2014 è stato condannato a 8 mesi per abuso d’ufficio. Luca Lotti (Pd) andrà a processo per favoreggiamento nello scandalo Consip, mentre Ugo Cappellacci (FI) deve difendersi dall’accusa di corruzione. Il dem Piero De Luca è invece ancora sotto processo per bancarotta fraudolenta, mentre Luciano D’Alfonso (sempre Pd) è indagato per falso in concorso con altri. Un’altra dem, Micaela Campana, è imputata per falsa testimonianza per i suoi 39 “non ricordo” pronunciati durante il processo Mafia Capitale. Ancora: il leghista Massimo Garavaglia è stato assolto in primo grado per turbativa d’asta, ma i pm ricorreranno in Appello. Due parlamentari hanno poi scelto il patteggiamento: Giancarlo Serafini (FI) nel ‘94 ha chiuso così un processo per corruzione; Giovanni Tombolato (Lega) nel 2012 ha patteggiato 11 mesi per falso in atto pubblico.

Spese pazze Diversi sono i parlamentari coinvolti nei vari processi sulle rimborsopoli regionali. In Liguria ci sono i leghisti Edoardo Rixi (3 anni e 5 mesi in primo grado), Francesco Bruzzone (2 anni e 10 mesi) e Vito Vattuone, imputato insieme al forzista Sandro Biasotti. In Piemonte aveva patteggiato un anno la leghista Elena Maccanti, mentre Paolo Tiramani (Lega) e Augusta Montaruli(FdI), assolti in Cassazione, aspettano l’appello bis. In Lombardia condanne in primo grado per peculato per i leghisti Ugo Parolo, Jari Colla e Fabrizio Cecchetti, coinvolti nella stessa vicenda del capogruppo in Senato Massimiliano Romeo (1 anno e 8 mesi). Nel Lazio attende il processo il dem Claudio Mancini (ma la prescrizione si avvicina), mentre Bruno Astorre (Pd) è a giudizio per una presunta consulenza gonfiata. In Umbria invece sono imputati per peculato Franco Zaffini (FdI) e Fiammetta Modena (FI); in Basilicata rischia Vito De Filippo(IV).

A bada la linguaIn parecchi hanno problemi a causa di qualche affermazione un po’ troppo spinta. Un anno fa Roberto Calderoli (Lega) è stato condannato a un anno e sei mesi per aver accostato a un orango l’ex ministra Cecile Kyenge. Simone Pillon (Lega) è stato condannato per diffamazione per aver insultato l’Arcigay Omphalos, mentre Vito Comencini (ancora Lega) è sotto indagine per vilipendio per le offese a Sergio Mattarella. Nel febbraio scorso è stato invece indagato per odio razziale il 5 Stelle Elio Lannutti, che aveva twittato un riferimento ai protocolli dei Savi di Sion: a oggi, però, non ha ricevuto alcuna comunicazione sull’indagine.

I volontari Alcuni sono invece “fieramente” indagati. Erasmo Palazzotto di LeU è sotto inchiesta perché considerato responsabile del salvataggio di alcuni migranti in mare con una nave di Mediterranea, la ong di cui è capo missione. Per un atto di disobbedienza civile ormai 20 anni fa era stato condannato al carcere Benedetto Della Vedova, che con altri Radicali aveva distribuito hashish per promuoverne la legalizzazione. Anche il 5 Stelle Paolo Romano rivendica l’indagine a suo carico per aver rivelato materiale protetto da segreto: nel 2015 accusò Renzi di aver utilizzato un volo di Stato per fini privati, diffondendo alcuni dati sui traffici aerei.

Otto mail e zero prove: il voto su Salvini va verso il rinvio

Eora in Senato si comincia a guardare al pallottoliere. Perché sul voto atteso per il 20 gennaio prossimo sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, che i magistrati di Catania vorrebbero processare per la gestione dei migranti a bordo della Nave Gregoretti, i numeri ballano: sulla carta a dire sì al processo a carico dell’ex ministro dell’Interno potrebbero essere in 12 (6 pentastellati, 3 senatori di Italia Viva, uno del Pd, due del Gruppo misto), mentre gli altri 11 (5 leghisti, 4 di Forza Italia, un senatore di Fratelli d’Italia e uno del gruppo delle Autonomie) sarebbero disponibili a salvare il capo della Lega. Se dovesse finire così la relazione del forzista Maurizio Gasparri, favorevole alle ragioni di Salvini, verrà dunque bocciata. E necessariamente si dovrà incaricare un altro relatore di predisporre un nuovo documento da sottoporre al voto in Giunta. Che a quel punto dovrà riconvocarsi e decidere della questione in una data successiva, probabilmente a ridosso, se non addirittura successiva al 26 gennaio, quando si voterà per le Regionali in Emilia-Romagna.

Il che potrebbe togliere a Salvini un argomento di sicura presa elettorale. Perché ora sono in tanti a pensare che il capo della Lega è consapevole di non aver nulla in mano per uscire indenne dal voto al Senato. E quindi cercherà almeno di massimizzare in termini di consensi la faccenda della nave Gregoretti su cui rischia l’osso del collo: una condanna per sequestro aggravato di persona per aver abusato dei suoi poteri di ministro dell’Interno bloccando la procedura di sbarco dei 131 migranti trattenuti a bordo della Gregoretti tra il 27 e il 31 luglio 2019. Il sospetto è fortissimo dopo che ieri Salvini ha svelato le sue carte. “La debolissima memoria difensiva di Salvini e gli allegati sono per lui un boomerang clamoroso che lo inchioda alle sue responsabilità personali: sono quasi stupito di questa strategia difensiva suicida, a meno che non serva per fare la vittima”, ha commentato Pietro Grasso di LeU, uno dei membri della Giunta in cui si deve decidere se Salvini abbia davvero agito per tutelare un interesse dello Stato rilevante costituzionalmente o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo. Oppure no e allora in quel caso deve essere processato.

Via social il capo della Lega giura: “So di aver fatto il mio dovere da ministro dell’Interno, sempre nell’esclusivo interesse della mia Patria”. Cosa che gli è stata riconosciuta, non senza difficoltà, per la gestione dei migranti della nave Diciotti: in quel caso però aveva potuto corredare la sua memoria difensiva di un documento sottoscritto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dai ministri di Luigi Di Maio e Danilo Toninelli che confermarono la collegialità dell’azione di governo.

Una ciambella di salvataggio che risultò determinante e che ora davvero nessuno è disponibile a lanciare all’ex alleato Salvini. Nonostante si sia sforzato di sottolineare nella memoria depositata in Giunta che anche per la Gregoretti “l’interesse pubblico è evidente”. E che “l’attività di tutta la compagine governativa è del tutto sovrapponibile” a quella della nave Diciotti. Per sostenerlo ha allegato agli atti a sua difesa 8 mail in cui si evince che in quei giorni il governo era impegnato nella ricerca di Paesi disponibili al ricollocamento dei migranti: nessuna traccia, invece, nella documentazione che l’ex ministro dell’Interno ha prodotto, della collegialità con cui è stata decisa l’assegnazione del pos (place of safety) fondamentale per lo sbarco tempestivo dei migranti e su cui, a detta dei magistrati, Salvini avrebbe posto arbitrariamente il suo veto. In spregio delle Convenzioni internazionali e in assenza di un pericolo per l’ordine pubblico. Insomma una scelta motivata da ragioni estranee all’interesse pubblico e solitaria anche alla luce di una mancata convocazione del consiglio dei ministri per decidere il da farsi.

“In linea con la prassi consolidata, la gestione dei migranti non rappresentava l’espressione della volontà autonoma e solitaria del ministero dell’Interno, bensì una iniziativa del governo italiano coerente con la politica relativa a flussi migratori definita anche nel contratto di governo” sostiene invece Salvini, citando un passaggio dell’informativa di Conte al Senato, ma sul caso Diciotti. E allegando alla sua difesa un estratto del contratto gialloverde (sui rimpatri), oltre che due dichiarazioni pubbliche sulla nave Gregoretti: una del ministro Bonafede sulla necessità che l’Europa si facesse carico del problema dei migranti. L’altra di Luigi Di Maio, che potrebbe essere un autogol per Salvini. Perché l’allora vicepremier pentastellato richiamava ai suoi doveri l’Europa, ma tirava le orecchie pure a chi non si faceva scrupolo di usare “come pirati” i nostri militari a bordo della nave Gregoretti tenuta ferma ad Augusta.

L’Italia è ferma come l’Europa, ma lì abbiamo migliaia di soldati

In ordine di tempo: cinesi, inglesi, tedeschi, francesi, pachistani, afghani, russi, sauditi. L’americano Mike Pompeo, il Segretario di Stato che per un anno e mezzo ha diretto la Cia, ha spiegato al mondo l’attacco mortale contro il generale iraniano Qassim Soleimani e i comandanti delle milizie sciite in Iraq, ha contattato ministri degli Esteri di Paesi alleati e rivali con un criterio non casuale, anche nella scelta dei tempi. Alle nove di sera l’Italia non era citata nell’elenco. In coda al convoglio europeo, che al solito non si dispone compatto, Roma svolge una funzione più che marginale nel preambolo di guerra tra Usa e Iran, spettatrice silente e però presente con gli americani nei luoghi di tensione.

I militari italiani sono in migliaia tra Baghdad in Iraq e al confine con l’Iran in Afghanistan, sono a capo di una missione internazionale in Libano sulla “linea blu” che divide gli sciiti di Hezbollah da Israele, sono in basi aeronautiche in Kuwait per monitorare l’Isis in territorio iracheno. Nel Kurdistan iracheno di Erbil come nella capitale Baghdad, gli italiani addestrano la polizia locale e non sono esposti a pericoli, se non accidentali. Il ministero per la Difesa, che più dei diplomatici ha dialoghi frequenti con gli americani, per precauzione ha alzato ovunque le misure di sicurezza nelle caserme dei contingenti. Roma ha rapporti cordiali con Teheran e l’Europa ha tentato invano di sottrarsi alle sanzioni americane imposte all’Iran, ma Roma è prudente, né approva né condanna il gesto di Donald Trump che apre l’anno delle elezioni per il secondo mandato alla Casa Bianca. Il ministero degli Esteri di Luigi Di Maio s’affaccia nel vortice dei commenti con una nota firmata Farnesina che, preoccupata, invita al dialogo con un “forte appello alla responsabilità e alla moderazione”, che sembra una formula di una bibita alcolica se non capitasse con le carcasse delle macchine di Soleimani ancora fumanti. Più intrigante e complessa, invece, la lettura dei fatti di Baghdad di fonti che si occupano di governo e di intelligence. Washington fa sapere che ha agito in solitudine con un’azione esemplare dal punto di vista militare, premura (verbale) adottata per non indicare facili bersaglio di ritorsioni (come Israele).

Troppo semplice cercare in Trump soltanto motivazioni di politica interna, più raffinato notare che nell’ultimo periodo l’Iran ha ripreso colloqui, sempre molto riservati e interlocutori, con i nemici sunniti dei Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita per esempio e che l’Iran ha contribuito fattivamente in Iraq alla lotta al terrorismo di Isis. Chi sconta le conseguenze se il caos creato risolleva l’Isis dalla cenere in Iraq come in Libia o in Siria? È un quesito che potrebbe destare l’Europa e la stessa Italia. Con Barack Obama, la stagione democratica e l’accordo poi cancellato da Trump sul nucleare, Bruxelles sentiva vicina Teheran e le imprese investivano e le esportazione e le importazioni aumentavano per poi prosciugarsi e sorradere lo zero. Adesso quel pezzo di mondo che sta a oriente è una faccenda che riguarda i Paesi del Golfo con in testa Ryad, israeliani, americani e i russi di Vladimir Putin. Eppure migliaia di soldati italiani sono laggiù tra l’imponderabile, perché se è vero che gli iraniani non sono impulsivi ma meticolosi, nessuno s’avventura in pronostici sui modi di una vendetta annunciata. Cosicché poco conta e poco cambia che la linea tra Roma e Washington, tra Di Maio e Pompeo, l’abbiano allacciata in ritardo sugli altri. Il messaggio era già chiaro.

“Non sarà guerra vera, ma una lunga serie di attentati”

Un dato è certo. Da ieri gli Usa e l’Iran sono in stato di guerra. Con la differenza che il regime teocratico degli ayatollah sciiti iraniani è imparagonabilmente più debole della pur discreditata Amministrazione Trump, che ha ordinato l’attacco mortale contro il generale dei Pasdaran, Qassim Soleimani, e Abu Mahdi al-Muhandis, il leader delle Unità Popolari sciite dell’Iraq (che prendono ordini direttamente da Teheran), responsabili dei recenti attacchi missilistici contro i militari americani di stanza a Kirkuk e l’assalto all’ambasciata americana a Baghdad.

“Ma non c’è nulla di più pericoloso di un regime armato fino ai denti che, proprio perchè talmente indebolito sotto il profilo socio-economico, non ha nulla da perdere. E oggi il regime iraniano si trova in questa situazione. Innanzitutto a causa della reintroduzione delle sanzioni economiche da parte della Casa Bianca, applicate anche dai Paesi europei e dagli altri alleati, dopo la decisione unilaterale di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare”. L’analisi è di Bernard Guetta, editorialista e saggista francese, tra i più autorevoli esperti internazionali di geopolitica. “Le sanzioni rinnovate un anno fa stanno strangolando l’economia iraniana e, di conseguenza, il popolo iraniano sta sperimentando una crisi inedita che è sfociata il mese scorso in nuove manifestazioni di piazza non solo nelle grandi città” – prosegue Guetta.

Un fatto questo che preoccupa molto il regime: gli ayatollah finora hanno approfittato dell’ignoranza e del fanatismo religioso delle aree rurali per bloccare il tentativo dei giovani istruiti residenti nelle città di ottenere più libertà civili e opportunità di lavoro riservate finora soprattutto ai familiari delle Guardie Rivoluzionarie e delle migliaia di poliziotti creati dal regime per autoproteggersi. Sia nel 2018 sia lo scorso novembre però questa divisione è saltata per l’aumento della povertà e la gente, senza più distinzione geografica e di censo, è scesa in piazza ovunque. “Il risultato è stato il massacro di centinaia di manifestanti e l’arresto di migliaia. Come nel 2018, i cori dei manifestanti accusano il regime di spendere i soldi pubblici per finanziare gli alleati stranieri e non per creare lavoro e aumentare i salari in patria. Ma nel frattempo è accaduto qualcosa di inedito, ovvero che anche i cittadini dei paesi sotto la sfera di influenza iraniana sono scesi a loro volta in piazza per protestare sì contro le pessime condizioni dei servizi pubblici e dell’economia, ma anche per accusare l’Iran di ingerenza. È il caso dell’Iraq e del Libano dove governano partiti e uomini scelti dagli ayatollah iraniani. Ed è anche il caso della guerra in Siria e nello Yemen dove si scontrano per procura Iran e Arabia Saudita”, sottolinea Guetta.

Con le manifestazioni in corso da mesi in Libano, dove governa di fatto il partito sciita armato Hezbollah finanziato da Teheran, e in Iraq dove gli stessi cittadini sciiti protestano e vengono uccisi dalle Forze Popolari agli ordini dei Pasdaran iraniani, per la prima volta le popolazioni hanno detto basta all’egemonia iraniana anche a costo di perdere la vita. A uccidere centinaia di giovani iracheni sciiti sono state proprio le milizie locali guidate neanche troppo da remoto dal fu Soleimani.

“Se non ci sarà una guerra aperta sul campo tra Usa e Iran, come credo e spero soprattutto, di sicuro dobbiamo aspettarci una reazione dura, anzi una serie di reazioni e contro-reazioni molto forti dell’Iran che potranno esprimersi attraverso attentati e scontri contro funzionari e truppe occidentali, dovunque nel mondo. Trump ha deciso da solo di fare questa mossa, logica dal suo punto di vista, ma molto pericolosa”, conclude Guetta.

La longa manus dell’Iran per esempio è arrivata a interferire pesantemente anche in Centro e Sud America dove Hezbollah conta migliaia di agenti. I siti di investigazione giornalistica Politico America e il francese Mediapart hanno ricostruito l’enorme rete di spie del partito armato sciita libanese inviate negli anni oltreoceano. Una di queste, ricercata anche dalla magistratura americana, è l’ex vicepresidente venezuelano, già ministro dell’Energia, Tareq El Aissami. L’Iran ha alleati insospettabili in molte zone del pianeta.

Trump, raid spettacolare per la sua campagna 2020

Con l’attacco che ha ucciso il generale iraniano Qassim Soleimani, Donald Trump getta “dinamite in una polveriera”: l’espressione è di Joe Biden. Trump sceglie d’innescare nel Golfo “una forte escalation” non alla ricerca di maggiore sicurezza per gli Usa, ma di consenso e, quindi, di voti per se stesso. Il giudizio dell’America rispecchia la polarizzazione dell’opinione pubblica: i repubblicani approvano, i democratici criticano. L’azione ordinata dal magnate presidente, probabilmente cogliendo un’opportunità segnalata dall’intelligence e dai militari, getta tutto il 2020 in una prospettiva sinistra di guerra e di sangue: rischia d’innescare un conflitto nella regione e di avere come corollario sussulti di terrorismo un po’ ovunque nel mondo.

E c’è il dubbio che Trump anteponga i suoi calcoli elettorali a ogni altra considerazione. Del resto, la vicenda dell’Ukrainagate, all’origine della procedura d’impeachment in atto, l’ha già dimostrato, su un livello di pericolosità incommensurabilmente inferiore. Trump conta sul fatto che un conflitto coaguli il consenso intorno al presidente: negli Stati Uniti ci vogliono anni perché una guerra, anche ingiusta e assurda come il Vietnam o l’invasione dell’Iraq nel 2003, diventi impopolare. Nell’imminenza dell’inizio del processo in Senato, Trump cede ai falchi anti-iraniani del suo staff e del partito repubblicano e mostra i muscoli. Un po’ come fece Bill Clinton ordinando raid contro Saddam Hussein il 16 dicembre 1998, tre giorni prima del processo di impeachment contro di lui. Furono quattro giorni di bombardamenti, ufficialmente per punire il dittatore di Baghdad che boicottava gli ispettori dell’Onu a caccia di armi di distruzione di massa. L’obiettivo di Trump sarebbe analogo a quello di Clinton: creare una sorta di “contro narrazione”, quella del pericolo di conflitto con l’Iran, da contrapporre a chi punta a rimuoverlo. Ma l’eliminazione di Soleimani, definita dalla speaker della Camera Nancy Pelosi azione “provocatoria e sproporzionata”, crea scompiglio nel Congresso, che non ne era stato avvertito in alcun modo. E s’è subito riaperto il dibattito – un caso di scuola – sui limiti ai poteri di guerra dati al presidente.

Israele –Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è stato informato alle prime luci dell’alba di ciò che stava per accadere. Per una volta è stata la Casa Bianca ad avvertire di un imminente attacco contro obiettivi iraniani e non viceversa. Netanyahu, ad Atene per firmare i protocolli d’intesa per una pipeline che porterà attraverso la Grecia il gas di Tel Aviv in Europa, ha interrotto subito la visita. Perché non c’è dubbio che Israele – primo Paese a schierarsi a fianco di Trump – si aspetta una risposta. Netanyahu ha elogiato il presidente prima di salire sull’aereo per rientrare: “Ha agito rapidamente con forza e in modo deciso”. A metà mattina la radio dell’Idf ha annunciato che tutti i militari israeliani di ogni ordine e grado erano in stato di allerta, contemporaneamente Israele ha alzato la sicurezza nelle sue missioni all’estero.

Russia – La sua uccisione condurrà a “un’escalation della tensione in Medio Oriente”. È il commento del presidente Vladimir Putin. L’azione americana “fa presagire il peggior scenario possibile”, ha detto il Cremlino. Il generale iraniano, che aveva violato le sanzioni americane per raggiungere Mosca, meta di suoi numerosi viaggi, aveva incontrato spesso gli alti gradi dell’esercito russo. Suo obiettivo era concordare dettagli segreti delle operazioni siriane, nella terra di guerra dove Iran e Russia avevano rafforzato un’alleanza militare risalente all’era sovietica. Il generale era devoto “alla protezione degli interessi nazionali”, ha riferito il ministero degli Esteri russo. Per Leonid Slutsky, capo del Comitato Affari Internazionali della Duma, “gli americani hanno oltrepassato la linea rossa”.

Europa – In Europa l’uccisione di Soleimani e gli appelli alla vendetta lanciati dall’Iran sollevano preoccupazioni. Il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha chiesto di mettere fine al “ciclo di violenze e provocazioni”. Emmanuel Macron, che era riuscito a far sbarcare il ministro degli Esteri iraniano Zarif al G7 di Biarritz, la scorsa estate, tentando di sbloccare la crisi, ha chiesto all’Iran “di astenersi da ogni forma di provocazione”. Ieri l’Eliseo ha riferito di una telefonata tra il presidente francese e il russo Vladimir Putin. I due capi di Stato – si legge nella nota – “resteranno in stretto contatto nei prossimi giorni per evitare nuove tensioni”. Preoccupazione è emersa anche a Berlino, dove la portavoce della cancelliera Merkel, Ulrike Demmer, ha chiesto “più prudenza e moderazione” e di cercare “una soluzione diplomatica”. Nel Regno Unito preoccupa la sorte dell’anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliff arrestata tre anni fa con l’accusa di spionaggio e da allora detenuta in un carcere di Teheran.

Il mondo sciita – Contro l’uccisione del generale iraniano si sono levate anche le principali voci sciite, dal Libano all’Iraq, dalla Siria a Gaza. Il leader degli Hezbollah libanesi Sayyed Hassan Nasrallah l’ha giurata agli Stati Uniti, che si sono “macchiati di un grave crimine”. Il raid Usa è una “violazione insolente della sovranità irachena e degli accordi internazionali”, secondo l’Ayatollah Al-Sistani, massima autorità sciita irachena che ha ricordato come Soleimani abbia “portato alla sconfitta dei terroristi dello Stato Islamico”. Bassem Naim, di Hamas ha avvisato: “La sua scomparsa rischia di destabilizzare la Regione”.

Guerra in Iraq nel 1991: così la bomba “intelligente” Usa ammazzò mille civili

Ore 4:20 del 13 febbraio 1991, prima dell’alba a Baghdad: una bomba intelligente, ma non troppo, sganciata durante un bombardamento statunitense sulla Capitale irachena, centra il rifugio antiaereo n. 25 nel quartiere di Al-Amirya e penetra fin dove circa 1.000 persone, quasi tutte donne, bambini, vecchi, attendono che la tempesta di fuoco dal cielo cessi. L’esplosione uccide almeno 408 persone, molte ridotte in cenere. Il Pentagono ammetterà l’errore. L’operazione Desert Storm, che all’inizio di marzo avrebbe condotto alla liberazione del Kuwait dall’invasione irachena, era in corso da circa un mese. Notte tra il 19 e il 20 marzo 2003: l’invasione dell’Iraq inizia con un violento bombardamento missilistico su Baghdad. Il presidente George W. Bush lo decide in anticipo su quanto previsto perché l’intelligence è sicura di potere colpire ed eliminare Saddam Hussein, sui cui movimenti quella notte avrebbe informazioni precise. L’attacco causa un numero incalcolato di vittime civili, ma non danneggia in modo vitale gli apparati civili e militari iracheni e lascia indenne il rais. La presenza militare degli Stati Uniti in Medio Oriente e in particolare nel Golfo è una storia lunga, contrassegnata da errori e tragedie: nel 1983, Beirut, allora capitale di uno Stato fallito, fu teatro di due sanguinosi attentati anti-americani, uno contro l’ambasciata – 63 morti, 17 i cittadini Usa – e uno contro una caserma dei marines: ne morirono 241.

Le tensioni tra Iran e Stati Uniti risalgono al 1979, cioè dalla rivoluzione khomeinista e dalla presa d’ostaggi all’ambasciata degli Usa a Teheran, ma s’erano attenuate nel 2015: l’intesa sul nucleare tra l’Iran e Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania aveva come corollario la levata delle sanzioni. L’ascesa al potere di Donald Trump, dopo una campagna elettorale intrisa di ostilità verso l’Iran, ha però spostato indietro l’orologio della storia: denunciato l’accordo sul nucleare, ripristinate le sanzioni, punture di spillo e provocazioni si sono succedute negli ultimi mesi; e l’Iran finiva per violare, sia pure in modo dimostrativo e fino ad oggi innocuo, i patti sul nucleare.

Ecco, in sintesi, i principali passaggi dell’escalation tra Iran e Usa, ognuno dei quali è praticamente stato accompagnato da inasprimenti delle sanzioni di Washington contro Teheran e da un aumento dello spiegamento militare americano nell’area. Il 12 maggio, quattro navi, tra cui tre petroliere, sono danneggiate da misteriosi attacchi nel Golfo. Gli Stati Uniti accusano l’Iran. Il 20 giugno, la Guardia rivoluzionaria iraniana rende noto l’abbattimento di un drone americano che aveva violato lo spazio aereo iraniano vicino allo Stretto di Hormuz. Trump annuncia una rappresaglia, ma vi rinuncia all’ultimo minuto. Il 14 settembre, attacchi con droni e/o missilistici, rivendicati dai ribelli huthi dello Yemen sostenuti dall’Iran provocano incendi a due impianti petroliferi sauditi. Washington accusa Teheran, che nega ogni coinvolgimento. A metà novembre, suscita l’ira di Teheran il sostegno di Washington alle proteste di piazza esplose nell’Iran dopo un aumento dei prezzi del carburante. Il 29 dicembre, gli Stati Uniti lanciano attacchi aerei contro basi di un gruppo filo-iraniano in Iraq, uccidendo almeno 25 miliziani.

L’ufficiale contadino che non aveva mai studiato la strategia

Dell’uomo che nei piani futuri dell’ayatollah Ali Khamenei sarebbe diventato il prossimo presidente dell’Iran non è rimasto quasi niente, fra i rottami dell’auto che l’attendeva all’aeroporto di Baghdad. Qassem Soleimani alla fine è stato identificato soltanto grazie al grosso anello che portava al dito medio della mano sinistra.

Veniva chiamato “Keyser Soze” il comandante delle Al Quds Force, il corpo speciale delle Guardie della rivoluzione. Soleimani era un eclettico generale che, nell’ombra, da venti anni guidava con mano libera tutte le attività militari dell’Iran, segrete e pubbliche, al di fuori dei confini della Repubblica Islamica. Di lui si diceva fosse “ovunque e in nessun luogo, contemporaneamente”. Enigmatico – inserito dal Times tra le venti personalità più influenti al mondo per l’anno –, le sue trame erano in grado di ispirare fiction di successo, come Homeland, nella parte degli intrighi fra i servizi americani e quelli iraniani. Nel 2013, The New Yorker gli dedicò un lungo ritratto dal titolo The Shadow Commander. Nell’articolo Ryan Crocker, ambasciatore americano in Iraq dal 2007 al 2009 lo descriveva così a chi gli chiedeva se il generale fosse particolarmente religioso: “Non proprio. Frequenta periodicamente la moschea. Ma non è la religione a guidarlo. La sua ispirazione sono il nazionalismo e l’amore per la lotta”.

Il generale non frequentò mai alcuna accademia militare. Nato in una famiglia di contadini l’11 marzo 1957 a Qanat-e Malek, villaggio nell’area montuosa di Kerman, era il più grande di cinque fratelli. A 13 anni iniziò a lavorare nella città di Kerman in una ditta di costruzioni per aiutare la famiglia a far fronte ai debiti lasciati da padre Hassan.

Caduta la dinastia Pahlavi, nel 1979 Soleimani si unì ai Guardiani della Rivoluzione attirando l’attenzione dei suoi superiori durante la repressione di una ribellione curda nell’Iran settentrionale. Fu promosso tenente e gli fu offerto di guidare un’unità dei Pasdaran a Kerman. Forgiato negli otto anni di guerra con l’Iraq ai tempi di Saddam, Qassem Soleimani è stato l’uomo che di recente ha cambiato le sorti della guerra per Bashar Assad, contribuendo in maniera decisiva alla sconfitta dell’Isis in Siria. Tanto che il generale Ramazan Sharif, portavoce dei Guardiani della rivoluzione, in un’intervista a Press Tv ha sottolineato che la morte del comandante della Forze al Quds è una vendetta legata al successo dello stesso Soleimani nella guerra all’Isis; è stata un “duro colpo subito dagli investimenti americani e dei loro alleati: la sconfitta di Daesh ha danneggiato gli americani così loro si sono vendicati con il generale Soleimani per questo fallimento”.

In passato, anche se in una forma limitata, Soleimani aveva anche cooperato con gli americani. Fu lui a ordinare a Moqtada al_Sadr nel 2003 di cessare gli attacchi agli Usa e nel 2010 a far eleggere il primo ministro ad interim iracheno in accordo con Washington. Ancora nell’articolo del New Yorker si ricorda come l’ufficiale mandasse messaggi di sfida agli avversari americani: “Uno dei primi arrivò all’inizio del 2008, quando il presidente iracheno, Jalal Talabani, consegnò un telefono cellulare con un messaggio diretto al generale David Petraeus, che aveva assunto l’anno precedente il comando. Caro generale Petraeus, dovresti sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica per l’Iran nei confronti di Iraq, Libano, Gaza e Afghanistan. E in effetti, l’ambasciatore a Baghdad è un membro della Quds Force. L’individuo che lo sostituirà è un membro della Quds Force”. . Ma il generale non era solo un nemico degli Usa. Israele aveva già provato a eliminarlo. Si racconta che il Mossad nel 2015 era pronto ad assassinarlo a Damasco, ma furono fermati dagli Stati Uniti preoccupati dalle conseguenze sul terreno. Accadeva solo cinque anni fa, ma la Casa Bianca allora aveva un altro inquilino.

Trump: “Il generale Soleimani dovevamo eliminarlo anni fa”

La mezzanotte è passata da poco. Sullo schermo il sistema di puntamento segue i movimenti di un convoglio allo scalo internazionale di Baghdad. Si tratta di due auto sulla pista di atterraggio. Improvvisamente diventano palle di fuoco. Per l’equipaggio del drone che da remoto ha ottenuto il permesso di ingaggiare e che ha fatto partire i missili, la missione è compiuta. Non è Homeland. Non è Fauda. Insomma, non è fiction sulle tensioni in Medio Oriente. È la fine del più cattivo dei cattivi per gli Stati Uniti e Israele. Così muore Qassim Soleimani, capo della Quds Force, il reparto di élite dell’Iran, l’artefice della politica di espansione militare e politica di Teheran fra Siria, Libano e Iraq. Alle 2, l’Iran conferma: “Cinque dei nostri sono morti nell’attacco con i razzi”. Arrivano i primi nomi delle vittime, fra loro anche il leader di Hezbollah in Libano, Muhammad al-Kawtharani e Abu Mahdi al-Muhandis, il numero due delle Forze di mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi), la coalizione di milizie paramilitari sciite pro-iraniane attive in Iraq.

Alle 2:24 Associated Press rivela il nome dell’obiettivo numero uno del raid: il generale Soleimani. Alle 2:39 la Reuters riceve dagli Stati Uniti una nota ufficiale da un funzionario: sono stati gli americani a condurre l’operazione. Il Pentagono conferma: “Gli Usa continueranno ad assumere le azioni necessarie per proteggere la nostra gente e i nostri interessi ovunque nel mondo”. Alla fine, secondo Baghdad, il raid ha fatto dieci morti.

La sequenza è stata mozzafiato e drammatica: la conclusione ha due stati d’animo contrapposti, a Washington pacche sulle spalle, a Teheran lacrime e rabbia. Per capire l’impatto che ha sulla leadership iraniana, la cronaca delle ore successive al raid propone alla televisione il portavoce dei Pasdaran Ramadan Sharif che piange nel dare la notizia, il cronista che è accanto a lui ed è impegnato nella diretta lo abbraccia. Teheran non perde tempo, il generale Esmail Qaani viene nominato nuovo comandante della Forza Quds dei Pasdaran. Gli Stati Uniti di rimando annunciano, tramite fonti del Pentagono alla Cnn, di essere pronti a dispiegare 3.000 soldati della 82esima divisione aviotrasportata; dopo l’assedio all’ambasciata di Baghdad nei giorni scorsi l’amministrazione Trump aveva già deciso l’invio di 750 militari.

L’uccisione di Soleimani era un obiettivo che gli avversari dell’Iran inseguivano da tempo. “Il generale stava mettendo a punto minacce contro diplomatici americani e personale in servizio in Iraq e nell’area – prosegue il Pentagono – e le sue forze Quds sono responsabili della morte di centinaia di americani e del ferimento di altri migliaia”. Inoltre l’alto ufficiale è stato anche il responsabile degli “attacchi contro l’ambasciata americana a Baghdad negli ultimi giorni”. Qualche giorno prima il ministro della Difesa, Mark Esper, dopo la guerriglia a Baghdad e il tentativo di entrare nel compound che ospita la sede diplomatica Usa nella Capitale irachena da parte di dimostranti pro-Teheran, aveva lanciato un monito al nemico numero uno nell’area.

Negli Stati Uniti iniziano la serie di trasmissioni dove esperti raccontano al pubblico cosa è accaduto nella notte. Naysan Rafati, analista senior dell’International Crisis Group, a National public radio, sottolinea quanto sia significativa la morte di Soleimani in Iran: “Questo è un duro colpo per gli iraniani: non c’è stato nessun individuo così profondamente associato alla rete regionale di partner dell’Iran come Soleimani: era un eroe degli alleati di Teheran e un cattivo senza pari per gli avversari”. Norman Roule, ex esperto iraniano della Cia e direttore della National Intelligence: “Il generale era stato incaricato della politica estera dell’Iran nella regione e in sostanza ha usato quell’autorità per creare una serie di milizie basate sul modello degli Hezbollah libanesi”. Alla cronaca della giornata non poteva mancare il tweet del presidente Trump: il generale Soleimani “ha ucciso o ferito gravemente migliaia di americani durante un lungo arco di tempo e stava complottando per ucciderne molti altri… ma è stato preso! Doveva essere fatto fuori molti anni fa!”. Ieri sera il presidente Trump torna sull’argomento: “Non vogliamo un cambio di regime in Iran, non vogliamo la guerra ma siamo pronti a rispondere”. Dall’altra parte del mondo, in Siria, il presidente Assad ricorda l’alto ufficiale e i suoi meriti “contro il terrorismo”.

A Teheran, il leader supremo spirituale Ali Khamenei proclama tre giorni di lutto nazionale. Manifestazioni in piazza, l’ambasciata americana invita i cittadini Usa a “lasciare immediatamente” l’Iraq, le compagnie petrolifere nella zona di Bassora ordinano l’evacuazione di decine di dipendenti. Il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dichiara che la vendetta per Soleimani arriverà “al posto giusto nel momento giusto. Americani, preparate le bare”. Chi ha gli scarponi sul terreno da ieri sera porta sempre l’elmetto.

Lo studente ripetente

L’altro giorno, usando un verbo a lui piuttosto ostico, Salvini annunciava a Libero: “Sto studiando da premier”. Probabilmente per corrispondenza. Non conosciamo i testi né gli esiti di uno sforzo tanto vano. Ma la sua memoria presentata ieri alla Giunta delle Elezioni e delle Immunità del Senato sul caso della nave Gregoretti fa temere il peggio. A meno che non sia stata scritta prima che il nostro prendesse in mano quegli oggetti misteriosi detti comunemente “libri”. Il Tribunale dei ministri chiede l’autorizzazione a processarlo per un reato ministeriale, cioè commesso nelle funzioni di ministro dell’Interno: il sequestro di persona, per aver costretto per sei giorni a bordo della nave della Guardia Costiera 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo il 25 luglio di quest’anno prima di autorizzarne lo sbarco il 31. Reato arduo da dimostrare, ma questo è affare dei giudici, non del Senato.

Salvini risponde che: 1) il suo fu un “intervento di competenza”, cioè agì in qualità di ministro dell’Interno; 2) la decisione fu di tutto il “governo in modo collegiale”, frutto della “attività di tutta la compagine governativa in modo del tutto sovrapponibile a quanto avvenuto per la nave Diciotti” (per cui il Senato negò l’autorizzazione a procedere); 3) l’obiettivo non era politico o propagandistico, ma il “preminente interesse pubblico, rappresentato dalla salvaguardia dell’ordine e della sicurezza, che sarebbero messi a repentaglio da un incontrollato accesso di migranti nel territorio dello Stato”. E allega email di funzionari del ministero e di Palazzo Chigi e due dichiarazioni dei ministri Di Maio e Bonafede che dovrebbero dimostrare il loro pieno accordo con lui. Ora, purtroppo per il nostro studente ripetente, il punto 1 non smentisce, ma anzi conferma la necessità di autorizzare il processo: lo sanno pure i giudici che Salvini agì da ministro, altrimenti non avrebbero chiesto l’autorizzazione a procedere al Parlamento, prevista solo per i reati ministeriali. Il punto 2 non sposterebbe di un millimetro la questione neppure se fosse vero: non tutti gli atti collegiali di un governo sono di per sé leciti (altrimenti non esisterebbero i reati ministeriali) e di essi, anche se sono tutti d’accordo, risponde penalmente solo il ministro competente (altrimenti, per ogni reato ministeriale, si processerebbe l’intero governo). In ogni caso il punto 2 è falso perché – diversamente dal caso Diciotti – il caso Gregoretti non fu mai affrontato collegialmente nell’unica sede deputata, il Consiglio dei ministri, ma fu gestito in solitaria da Salvini dalla spiaggia del Papeete.

Il punto 3 è una frase a caso che Salvini non tenta neppure di dimostrare: per sottrarre un ministro al Tribunale, in base alla Costituzione, il Parlamento deve avere la certezza che abbia agito per un “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” e un “preminente interesse pubblico”. E come fa Salvini a sostenere che, se i 131 migranti fossero sbarcati dalla Gregoretti il 25 anziché il 31 luglio, avrebbero compromesso “l’ordine e la sicurezza” nazionali? Non c’era alcun “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” da tutelare. Quanto al presunto “interesse pubblico”, non era certo “preminente” sul dovere di far sbarcare in Italia una nave militare italiana (che ne aveva diritto, diversamente da quelle private e straniere delle Ong). Gli allegati che, come strombazzava Salvini, dovevano dimostrare il coinvolgimento di Conte sono un misero bluff: il premier non scrisse né disse una sillaba sul blocco della nave, mentre si attivò come sempre per ricollocare i migranti nell’Ue. E quelli che dovevano incastrare Bonafede e Di Maio sono addirittura un autogol: Bonafede commentava lo sbarco già avvenuto, non il precedente divieto di Salvini; e Di Maio, dopo aver ripetuto che dei migranti doveva farsi carico l’Europa, criticava proprio il no di Salvini alla Guardia Costiera: “Non si tràttino i nostri militari su quella nave come pirati. Pieno rispetto per le forze dell’ordine”.

Il guaio è che lo studente ripetente non ha ancora capito perché i giudici vogliono processarlo: infatti, le nove pagine della memoria sono dedicate alla pratica per ricollocare i 131 migranti in Europa e in Vaticano. Ma l’accusa riguarda il rifiuto da lui opposto per 6 giorni alla Guardia Costiera di indicare un porto sicuro (Pos): su quel diniego, che è il cuore dell’accusa, non scrive una parola. Perché sa benissimo che per la Gregoretti, diversamente che per la Diciotti, spettava all’Italia indicare il Pos e che i due casi sono molto diversi. Per quattro motivi. 1) La Diciotti rilevò i naufraghi dopo un’operazione di salvataggio coordinata da Malta, cui spettava l’obbligo del Pos, mentre la Gregoretti ospitava migranti “salvati” in un’operazione tutta italiana. 2) La Diciotti è una nave adibita ai soccorsi in mare, dunque può ospitare decine di persone sotto coperta, mentre la Gregoretti è destinata alla vigilanza sulla pesca e non garantisce un’adeguata sistemazione, infatti i migranti restarono per quasi una settimana sul ponte, sotto la canicola. 3) Dalla Diciotti furono subito fatti sbarcare dal governo donne e bambini; dalla Gregoretti la gran parte dei minori poterono scendere solo per ordine della Procura minorile. 4) L’attesa della Diciotti in porto (agosto 2018) fu decisa perché prima Malta sul Pos e poi la Ue sui ricollocamenti facevano le gnorri; quella della Gregoretti (luglio 2019) fu decisa quando il meccanismo dei ricollocamenti Ue era oliato e non c’erano più dubbi sulla distribuzione dei migranti. Di tutto questo, nella memoria smemorata di Salvini, non c’è traccia. Lo studente non si applica o non capisce. Però ha un’attenuante formidabile: prende lezioni da Giulia Bongiorno.

La rivolta solitaria di Kotich, la “foca bianca”

Pubblicato nel 1893, poi ristampato ne Il libro della giungla, il racconto La foca bianca di Kipling tocca temi evergreen: il potere dei sogni, la volontà di rompere gli schemi, la speranza che incarnano le nuove leve per il futuro. La storia con protagonista la foca Kotich, che in questa edizione deluxe, impreziosita dalle splendide tavole dell’ispanico Roger Olmos, impegnato nella lotta per la difesa degli animali, diventa must have, fa riflettere.

Kotich, unica foca bianca sull’Isola di San Paolo, sperduta nel mare di Bering, cresce animata da coraggio e curiosità sotto l’occhio vigile dei genitori che però, lasciandolo sbagliare, gli regalano l’indipendenza. La rivoluzione e la presa di consapevolezza scattano quando i cacciatori irrompono nel branco, come ogni anno, e conducono decine di cuccioli al macello. Per Kotich è inaccettabile: perché nessuno si ribella alla mattanza?

Deciderà di partire in solitaria, nonostante la sfiducia di tutti, arresi a una realtà cristallizzata, e attraverserà il Pacifico per cinque anni alla ricerca di un’isola in cui trarre in salvo la sua colonia. Dimostrando così come agire per il bene della collettività e di chi si ama è gesto eroico che sconfigge l’individualismo.

 

La foca bianca Rudyard Kipling (e R. Olmos)

Pagine: 48 – Prezzo: 19 – Editore Logos