“Die! Die! Die!”, sbudellament alla Tarantino per Robert Kirkman

Per anni Robert Kirkman ha contribuito a formare l’immaginario collettivo degli anni 2000, prima con i suoi fumetti, poi con la serie televisiva The Walking Dead. Adesso esplora il percorso inverso: prende tutti gli ingredienti dell’intrattenimento di genere, che ha così sapientemente reinterpretato nella sua saga di zombie innocenti e uomini terribili, e li presenta nella loro versione piu estrema, caricaturale. Die! Die! Die! è un fumetto omnibus, che contiene tutti gli altri nella loro essenza non filtrata, primitiva, dunque eccessiva e ridicola. Ci sono quattro fratelli, addestrati per essere assassini da un padre assassino, si scannano tra loro e sterminano i nemici di un’associazione segreta che governa il mondo con omicidi mirati. C’è perfino Barack Obama che si prende un terzo mandato con un colpo di Stato. E non mancano orge, sbudellamenti, feste in maschera, ribaltamenti di fronte. Kirkman e lo showrunner di The Walking Dead, Chris Burnham, costruiscono una trama così inverosimile e contorta che pure loro sembrano incapaci di prenderla sul serio, liquidando personaggi in poche battute e offrendo al lettore verbose spiegazioni per giustificare le loro trovate più spregiudicate. I disegni di Scott Gimple, colorati da Nathan Fairbairn, costruiscono un universo di nasi amputati, arti mozzati, fiumi di sangue alla Quentin Tarantino. Dialoghi e situazioni narrative farebbero svenire qualunque paladino del politically correct, eppure Die! Die! Die! è tutto tranne che un fumetto dissacrante, è puro intrattenimento che diventa satira di un intero settore. Kirkman e soci fanno tutto quello che gli altri sceneggiatori o registi non osano mettere in scena, nel farlo si divertono parecchio (e noi con loro), ma finiscono anche per dimostrare quanto violenti e ridicoli sono gli archetipi su cui si regge la nostra cultura pop.

 

DIE! DIE! DIE! di R. Kirkman, C. Burnham, S. Gimple, N, Fairbairn

Pagine: 188 – Prezzo: 16 – Editore: Saldapress

 

De Nittis, la rivoluzione impressionista

Un bambino distoglie lo sguardo dall’obiettivo per osservare un’anatra che passeggia vicino a lui in giardino. È seduto a una tavola quasi sparecchiata e ha ancora in mano il tovagliolo che si è appena tolto da sopra la blusa per non sporcarsi; accanto a lui, la madre mira il medesimo spettacolo, interrompendo per un attimo il certosino rigirare del cucchiaino con cui sta facendo sciogliere nella tazzina di fine porcellana blu inglese la zolletta di zucchero nel caffè. Sono all’ombra sotto un albero, mentre intorno risplende il sole dell’ora di pranzo. Sono i protagonisti di Colazione in giardino (1883) – in cui Giuseppe De Nittis raffigura la moglie Léontine e il figlio Jacques in una scena quotidiana –, che il Palazzo dei Diamanti di Ferrara ospita fino al 13 aprile, in occasione dell’esposizione De Nittis e la rivoluzione dello sguardo (a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi, Hélène Pinet), che presenta più di 150 opere.

Se tal dipinto assurge al rango di capolavoro assoluto della pittura impressionista – senza temere paragoni con i contemporanei Bal au Moulin de la Galette di Renoir o L’assenzio di Degas (sol per fare due esempi) – è perché De Nittis (pugliese, originario di Barletta) vi imprime tutta la summa del suo genio (un anno dopo, morirà).

Nella differenza della concentrazione dei colori (il verde del prato lontano, il rosa dell’incarnato delle figure), vi è il grande conoscitore delle tante profondità del paesaggio come pure dimostrano i suggestivi Cielo tempestoso, Golfo di Napoli e Procella, quadri del periodo pugliese e napoletano; e ancora, la cura del dettaglio del davantino plissettato della chemisette della moglie richiama i dipinti della mondanità parigina quale il sublime Il salotto della principessa Mathilde, in cui un’abilissima intuizione ottica – una donna al centro del quadro di schiena – mostra immediatamente chi tra le molte figure salottiere è la principessa. Poi, il coro intonato del bianco della tovaglia e delle posate d’argento luccicanti, insieme ai riflessi dei pezzi di cristallo e del laghetto in lontananza testimoniano che abile maestro sia stato nell’utilizzo della luce. E infine, vi è l’istante, e cioè la capacità di imprimere alla pittura la forza di un tempo preciso: De Nittis ha finito di mangiare, il suo bicchiere di vino contiene solo un fondo rossastro traslucido, si è alzato e ha immortalato quel preciso istante, mutuando due concetti tipici della fotografia, il posizionamento del punto di vista e il taglio dell’immagine. C’è dunque tutta la sua rivoluzione dello sguardo in questa mostra immancabile.

 

De Nittis e la rivoluzione dello sguardo

Ferrara, fino al 13.04

Wilson, il buio oltre la psiche

È la notte, sospesa tra sogno e realtà, il frangente in cui l’inconscio rivela la nostra vera natura, col rischio sia spaventosa. Lo pensava il britannico Colin Wilson (1931-2013), figlio di operai che a 16 anni mollò gli studi per coltivare l’ambizione di essere artista-filosofo à la Shaw o Mann. Inizialmente collezionò infiniti no, poi l’incontro con le opere di Dostoevskij, Faulkner, Hemingway, Joyce e Musil, a suggerirgli temi e stili di scrittura differenti, lo salvò, ammise. Divenne iper prolifico, funambolo tra i generi, mixando molti interessi: fantascienza, criminologia, occultismo, metafisica, filosofia, egittologia.

La prima stesura di Riti notturni (ora tradotta per Carbonio dopo Un dubbio necessario e La gabbia di vetro) nacque nelle sale di lettura del British Museum di Londra dove, 17enne e squattrinato, scriveva di giorno e dormiva all’addiaccio di notte. Era la storia di un uomo che strangola una prostituta ma al risveglio non si ricorda più se lo ha fatto o lo ha solo sognato. Non sapendo come trasformare il racconto in romanzo lo mise in stand by e si dedicò a The outsider, saggio del ’56 che lo rese celebre, sulla figura dell’intellettuale-artista, in cui Wilson si riconosceva, che si sente inadeguato, incompreso, e sta ai margini di una società che detesta. Anche Riti notturni, primo capitolo di una trilogia che si può leggere come stand alone e che quando uscì nella versione definitiva nel ’60 gli valse il paragone con Huxley, è popolato da outsider a incarnare il tema del sogno contro la realtà, del desiderio, sovente frustrato, che l’uomo ha di uno scopo che lo assorba interamente. Per Wilson ne esistevano di tre tipi: quelli intellettuali come Nietzsche, gli emotivi come Van Gogh e i fisici come Jack lo Squartatore, sua grande passione.

In una Londra di fine ’50, oscura e soffocante, scossa da una serie di omicidi in stile Jack The Ripper, s’intrecciano le vite di tre outsider, appunto: il ventenne Gerard Sorme (molte le analogie con l’autore), intellettuale misantropo e asociale che campa grazie a una piccola rendita annuale e fatica a portare avanti il suo esordio narrativo, romanzo sul ballerino russo Nijinsky; l’ipersensibile pittore Oliver Glasp, che per non subire critiche rinuncia a esporre, soffrendone mortalmente, e Austin Nunne, omosessuale eccentrico e benestante, esteta, sessuomane con tendenze al sadismo, diavolo tentatore. In lui Sorme s’imbatte per caso e in lui trova anche un obiettivo, finalmente: capirne la psiche, ammaliante ma inquietante. Progressivamente comincerà a dubitare sia Nunne l’assassino di Whitechapel, innescando così un mistery da risolvere e svariati dilemmi psico-filosofici. Che cosa muove la mano di un serial killer? Pura follia? Ribellione al sistema? Il disprezzo di sé e dell’umanità? Quanto influiscono le pulsioni più ataviche, specie quelle sessuali? L’uomo è fatto per stare in società oppure no?

Animato da lunghi dialoghi in interni notturni, quasi flussi di coscienza a sondare il (non)senso della vita, questo è un romanzo che impegna ma ha l’enorme pregio di spalancare porte sulla parte più dolente e nera di ognuno di noi.

 

Riti notturni Colin Wilson

Pagine: 442 – Prezzo: 18 – Editore: Carbonio

La logica infallibile del grande Faulkner, ma verità e giustizia non coincidono mai

Tra i grandi scrittori del Novecento non sono mancati quelli che si sono misurati con la logica intrigante del mistero. Si pensi alla monumentale accoppiata Borges y Bioy Casares o al grande solitario lusitano, Pessoa. Oppure ancora all’americano William Faulkner premio Nobel nel 1949, primo protagonista dell’anno di questa rubrica. A vent’anni dall’edizione che ne fece Einaudi, adesso è la prolifica Nave di Teseo a ripubblicare i sei racconti polizieschi ambientati nella mitica contea di Yoknapatawpha, nel sud degli Stati Uniti, nel Mississippi, che fa da sfondo a tutti i romanzi di Faulkner.

Il libro s’intitola Gambetto di cavallo e prende il nome dal racconto più lungo. A indagare è il procuratore Gavin Stevens, cui non sfugge neanche un dettaglio per risolvere i casi portati alla sua attenzione, notevoli in questo senso Una mano sulle acque e Un errore di chimica. Ovviamente a dominare sono le storie dure di quella parte degli States: “Per lui e per la gente del suo paese la stessa comprensione dell’amore fosse andata perduta nel corso delle generazioni, dal momento in cui il primo di loro aveva dovuto fare la scelta decisiva tra amore e sopravvivenza”. Appunto. Homo homini lupus è soprattutto una questione ancestrale di sopravvivenza, indi soldi e affari, ancorché di potere. Ed è un medicamento magico come sempre lasciarsi avvolgere dalla prosa a spire di Faulkner, una cavalcata senza respiro dalla potente forza centripeta. Laddove il centro è l’essenziale scoperto dall’acuto Gavin, che ha studiato persino Filosofia a Heidelberg, in Germania, nel santuario del kantismo. E la logica è sempre infallibile, anche se verità e giustizia non sono mai la stessa cosa.

 

Gambetto di cavallo William Faulkner

Pagine: 295 – Prezzo: 18 – Editore: La nave di Teseo

La “Sex education” contro il “New Pope”: il 2020 parte forte, ma non fortissimo

L’anno delle serie tv comincia con i Golden Globe: la cerimonia di premiazione è in programma nella notte di domenica a Los Angeles. In attesa di scoprire i vincitori possiamo già dire chi non vincerà. Watchmen, la nuova serie del creatore di Lost Damon Lindelof, non ha ricevuto nemmeno una nomination, mentre l’ultima stagione de Il Trono di Spade si è dovuta accontentare di una sola candidatura (per Kit Harington come miglior attore). A spartirsi le statuette saranno Chernobyl, The Crown e Unbelievable, che hanno ricevuto quattro nomination, seguite da Barry, Succession, Big Little Lies, Fleabag, Fosse/ Verdon, Il Metodo Kominsky e The Morning Show con tre.

Azzardiamo qualche pronostico? Tra le commedie, come già agli Emmy Awards, potrebbe vincere Fleabag, mentre tra le miniserie è molto probabile un successo di Chernobyl. Più difficile indovinare a chi finirà la statuetta per la miglior serie drammatica: se la spuntasse The Morning Show, sarebbe il primo riconoscimento per una serie di Apple Tv+. Fra le categorie dedicate agli attori, sarà molto interessante scoprire a chi andrà il premio come miglior attrice in un drama. Il livello è altissimo perché a contendersi la statuetta ci sono Jennifer Aniston, Reese Witherspoon, Nicole Kidman, la nuova regina Elisabetta Olivia Colman e la serial killer di Killing Eve Jodie Comer.

Messi in soffitta i Golden Globe, il 2020 delle serie tv partirà forte ma non fortissimo. Il titolo più atteso del mese è The New Pope, il sequel di The Young Pope di Paolo Sorrentino, su Sky Atlantic dal 10 gennaio. Netflix risponde con la seconda stagione di Sex Education (17 gennaio) e con Luna Nera, serie italiana sulla stregoneria ambientata nel 17esimo secolo (31 gennaio). Su Amazon Prime Video il 10 esordisce Treadstone, spin-off dei film su Jason Bourne, mentre il 17 Apple Tv+ arricchisce la sua offerta con la serie antologica Little America. I primi due episodi di Storia del nuovo cognome, secondo capitolo della serie tratta dai romanzi di Elena Ferrante, saranno trasmessi al cinema a fine mese: per vederli in tv bisognerà invece aspettare il 10 febbraio (Rai1).

 

La danza macabra della Banca Pop

“Ma il Ferdi non si faceva qualche domanda, quando la banca gli chiedeva di comprare azioni in cambio di un prestito?”. A dicembre, nei giorni in cui il governo si riuniva per salvare la Popolare di Bari, esordiva a Venezia Una banca popolare di Romolo Bugaro, per la regia di Alessandro Rossetto (la premiata coppia di Effetto domino). Nata in parallelo a un imminente film, la pièce segue un gruppo di ricchi professionisti e imprenditori veneti durante una festa in villa all’indomani del fallimento della “Banca Popolare del Nordest”: una festa lussuosa e tamarra, così simile a quelle di cui si pasce l’oligarchia censitaria vicentina che fino al 2015 ruotava servile attorno al presidente della Popolare di Vicenza, Gianni Zonin, che oggi molti fanno finta di non aver mai conosciuto, deplorandone anzi la slealtà, l’ipocrisia, financo la mancata carcerazione.

Scontate e corrive le scene da Grande bellezza in salsa padana, e le chiassose danze latine: meno l’inattesa irruzione alla festa di Gianfranco Carrer, il dominus della Popolare fallita (dunque, nella finzione, l’alter ego di Zonin). In un lungo monologo dinanzi ai convitati ammutoliti, uno straordinario Fabio Sartor dà voce al “cattivo”, a uno di quei “colpevoli” che tutti i governi dichiarano di voler punire e che poi per lo più, dopo mesi di prudente silenzio, tra prescrizioni e magheggi escono dai processi con pochi graffi (per i crac di Vicenza e Veneto Banca, in tribunale, sta andando proprio così). Esacerbato, Carrer evoca le lunghe file di questuanti per anni alla sua porta, ed elenca con dovizia di particolari i prestiti offerti senza garanzie a imprenditori scartellati, gli interventi a tamponare i vizi privati di singoli papaveri in difficoltà, i casi in cui il Cda ha aperto linee di credito per progetti senza futuro, le “pippe sulla funzione sociale” dell’istituto…

“Chi ha prestato i soldi a chi?” si chiede oggi il governo sulla PopBari. Carrer risponde, rivendicando un ruolo centrale nel finanziare tutte le attività del “territorio” (compresi gli stessi stipendi della “povera gente” che lavorava in aziende vive proprio solo grazie ai soldi della banca); spiega il tracollo col disegno di farlo fuori da parte dei grandi gruppi di Milano e Torino (ecco, dunque, le tardive e inusitate ispezioni di Bankitalia); soprattutto, riconduce l’astio nei suoi confronti al fatto che “la gente odia chi la conosce troppo bene”, e non ama chi sa da dove viene e quali debiti ha contratto. Dell’impietosa apologia di Carrer/Zonin si possono contestare molti passaggi, e molti silenzi (i bilanci truccati, le malversazioni, i rapporti oscuri con apparati dello Stato, il tradimento della fiducia dei piccoli risparmiatori, che nella pièce non hanno voce); ma è forte la chiamata di correità di pezzi interi di una società, di un “sistema” ipocrita e corrotto, che interpella le responsabilità di tutti quanti a quella danza macabra hanno partecipato per decenni, senza voler vedere.

 

Padova, Teatro Verdi, dall’8 al 12 gennaio

George Clooney torna in doppia veste: attore e regista

George Clooney è tornato sul set per dirigere e interpretare Good Morning, Midnight, un film di fantascienza prodotto dalla sua Smokehouse Pictures e da Netflix in cui recita con il messicano Demian Bichir (The Bridge, Alien: Covenant) e Felicity Jones (La teoria del tutto). Al centro dell’adattamento del romanzo omonimo di Lily Brooks-Dalton sceneggiato da Clooney con Mark L. Smith le vicende post-apocalittiche di Augustine, un maturo e brillante astronomo che vive isolato in un centro di ricerca nell’Artico e cerca di entrare in contatto in ogni modo con un astronauta a bordo di un veicolo spaziale sulla via del ritorno da Giove verso la Terra che all’improvviso non manda più nessun segnale.

A 25 anni dalla sua prematura scomparsa a soli 41 anni, Massimo Troisi rivivrà sullo schermo grazie a Da domani mi alzo tardi, un lungometraggio diretto da suo nipote Stefano Veneruso e interpretato dall’ attore irlandese di origine italiana John Lynch (Nel nome del padre, Sliding Doors) e da Gabriella Pession. Il film è liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 2007 della sceneggiatrice Anna Pavignano che firma anche (con Veneruso) quest’ultimo copione ispirato alla lunga e appassionata storia d’amore e al fecondo sodalizio artistico che l’hanno legata a lui.

Vi si immagina che Massimo Troisi non sia davvero scomparso nel 1994, ma abbia solo scelto di abbandonare le scene trasferendosi negli Stati Uniti per poi tornare in Italia piuttosto spaesato per ritrovare Anna e l’amico produttore Gaetano Daniele, come lei da sempre al suo fianco. Attraverso i puntuali racconti della donna che rievocano e ripercorrono il loro passato in comune, Massimo ridarà un senso al suo presente e riscoprirà il sentimento che l’aveva sempre legato alla sua arte e alla sua compagna.

 

Il lato oscuro degli antieroi di Eastwood

“C’è una bomba a Centennial Park. Avete trenta minuti”. L’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto è Richard Jewell (Paul Walter Hauser), una guardia di sicurezza sovrappeso, che vive ancora con la madre (Kathy Bates), colleziona armi, compulsa nottetempo il codice penale e vagheggia la divisa da poliziotto. È lui a contenere gli effetti dell’attentato dinamitardo ai Giochi Olimpici di Atlanta del 1996: s’accorge del borsone sospetto, allerta le forze dell’ordine, allontana la gente, salva vite, tante. È un eroe? Così lo celebrano i mass media, e quell’esistenza ordinaria e anonima assurge a un nuovo status, Richard conquista quindici minuti e più di celebrità: meritati.

Eppure, se sfortunato è quel Paese che ha bisogno di eroi, ancor più scellerato è quello che ha bisogno di tritarli un attimo dopo: da conclamato salvatore Richard Jewell diventa sospetto attentatore senza passare dal via. L’Fbi lo mette nel mirino, la Cnn aspetta a dare la notizia, non la reporter dell’Atlanta Journal-Constitution Kathy Scruggs (Olivia Wilde) che per via orizzontale – la giornalista realmente esistita è deceduta, i suoi ex colleghi si sono assai risentiti per l’addebito sessuale, e negli States è divampata la polemica – raccoglie le confidenze del federale Tom Shaw (Jon Hamm) e mette in pagina. Richard barcolla ma non molla, ripesca il numero di un avvocato libertario, Watson Bryant (Sam Rockwell), e prova a difendersi da quell’accusa infamante. Come finirà? È già Storia, piuttosto, conta che del ciccione, sfigatone, zelante e tenace Richard Jewell Clint Eastwood, novant’anni il prossimo 31 maggio, abbia fatto il soggetto della propria trentottesima regia di lungometraggio. Con due obiettivi: continuare a cantare le vite di uomini non illustri alle prese con circostanze straordinarie come nei precedenti Il corriere (2018), Ore 15:17 – Attacco al treno (2017), Sully (2016) e American Sniper (2014); mettere alla berlina la quintessenza del potere nell’America oggi, Fbi e mass media, con ovvi addentellati a Trump. Troppo, perché il film potesse essere politicamente digerito – e la seduzione sessuale messa in conto alla Scruggs ha aperto un terzo fronte in capo al sessismo. Nondimeno, Eastwood va avanti per la sua strada: da sempre poco meno che indifferente allo stile cinematografico, stavolta forse devia un po’ dalla documentazione più ferrea (sceneggiatura di Billy Ray, dall’articolo “American Nightmare – The Ballad of Richard Jewell” di Marie Brenner per Vanity Fair), non tiene troppo il ritmo – né gli spettatori: solo 16 milioni di dollari fin qui incassati in patria – e sicuramente fa di giornalisti e federali poco meno che macchiette, ma l’ottimo Paul Walter Hauser è il suo profeta e l’avvocato Rockwell ha affisso a studio un motto che Clint farebbe proprio: “I fear government more than I fear terrorism”. Dal 16 gennaio al cinema, con licenza di interrogare.

 

Più di se stesso. “Tolo Tolo” fa 8 e mezzo e batte il vecchio Zalone

Tolo Tolo, tanto tanto. Poteva battere solo se stesso all’esordio in sala, e Checco Zalone l’ha fatto: il suo quinto film da attore e primo da regista ha incassato a Capodanno 8.668.926 euro, superando di un milione e mezzo il record di Quo vado?, che il 1° gennaio 2016 si “fermò” a 7.360.192 euro. Ovviamente, Luca Medici ha stracciato anche i debutti giornalieri di due blockbuster nell’anno appena trascorso, Avengers: Endgame (5.377.882 euro) e Il Re Leone (3.137.388 euro), ribadendo che almeno da Trieste in giù non ce n’è per nessuno, né supereroi fumettari né classici Disney riveduti e corretti. Superba la media copia, 7.164 euro per 1.210 schermi (dati Cinetel), sicché resta da chiedersi dove potrà arrivare Tolo Tolo: il termine di paragone non può che essere Quo vado?, che uscito di venerdì realizzò nel primo weekend ben 22.792.615 euro, vale a dire più di un terzo dell’incasso finale (65, 3 milioni).

Quattro anni più tardi qualcosa potrebbe cambiare, e malgrado questo stratosferico esordio non necessariamente in positivo. Tolo Tolo è costato, tra budget di produzione e P&A (Print & Advertising), ossia copie e promozione, circa 23 milioni di euro: il break-even è ufficiosamente fissato a 40 milioni, dato per cui il produttore Taodue e la distribuzione Medusa non stapperebbero più di un chinotto. Il traguardo è alla portata, ma da lì ai 65 milioni del precedente si aggira qualche timore, più o meno confesso. Un nuovo film di Zalone è una festa comandata, non si può non andare a vedere, l’astensione rasenta l’auto-esclusione dal consesso civile, il fenomeno di costume oramai è derubricato a eufemismo, e la risposta in sala nelle prime ventiquattrore ha confermato, ma l’incognita si chiama passaparola, ossia il moltiplicatore sociale di Tolo Tolo. I primi spettatori (174.285) di Capodanno e di ieri quale giudizio trarranno, propaleranno nella cerchia di amici, parenti e rimbalzeranno sui social? Assolutamente positivo, negativo o, per dirla all’americana, mixed? A prendere il polso a Twitter, due sono le reazioni prevalenti: quella politica che, detta con un po’ di colore, Zalone abbia “perculato a sangue leghisti, fascisti e razzisti dimmerda spillandogli pure i soldi”, ovvero abbia fatto seguire all’ambiguo teaser L’immigrato un film decisamente più schierato pro-migranti; quella critica, che per dirla con Nichi Vendola (in cammeo), “si sorrida più che ridere”, contrariamente – il messaggio implicito – a quanto accadesse per i film precedenti. Su queste convergenze parallele, il “tradimento ideologico” e il “tradimento comico”, si gioca il destino di Tolo Tolo: 40, 65 e chi può predire? Altri numeri da giocare sono: 5, i milioni di euro che Luca Medici – scrive il Corriere della Sera – ha messo da parte con la società Mzl di cui è proprietario al 95% – il restante 5% è della madre; 9, le migliaia di euro (lorde) che la compagna di Zalone, Mariangela Eboli, percepisce al mese quale amministratore unico di Mzl; 77, i milioni di euro di ricavi registrati nel 2016 da Taodue. Potenza di Quo vado?, la stessa domanda che tra qualche tempo Zalone dovrà farsi davanti allo specchio: Tolo Tolo esaurisce il contratto con la Taodue di Pietro Valsecchi, e il futuro è incerto.

Anzi, no, Checco ha già le idee chiare, di sicuro ironiche: “Che sarà di noi? Vorrei che Valsecchi venisse a lavorare per me”. Per intanto c’è da incassare, forte del lusinghiero carnet personale – da Cado dalle nubi a Quo vado? sono 174 i milioni già rastrellati al botteghino – e di un trend ottimistico per l’intero comparto cinema in Italia: dopo un primo trimestre negativo, il 2019 s’è più che raddrizzato, con 635 milioni di euro di incassi a fronte dei 555 del 2018, 97 milioni di biglietti staccati rispetto agli 85 dell’anno precedente e una quota di mercato nazionale del 20% (dati Cinetel). Checco, del quale il box office patrio è uso celebrare i film con calendario ad hoc: “anno Zalone”, può fare del 2020 un trionfo per sé e per l’intero sistema cinema, assecondando la tensione ecumenica della sua Quinta sinfonia: Paolo Virzì, sceneggiatore, e Benito Mussolini, voce over; F16, aereo da combattimento, e F24, modello di versamento; Nicola Di Bari e Francesco De Gregori; “lo stronzo resta sempre a galla” e “la gnocca salva l’Africa”; Ennio Flaiano e Caparezza; Sergio Endrigo e Al Bano.

Valsecchi guarda a quei primi 174.285 spettatori, certifica che “Checco Zalone ha riunito gli italiani dentro le sale cinematografiche” e che Tolo Tolo “ha saputo divertire ed emozionare grandi e piccoli al di là di ogni divisione ideologica”. Già, se la vocazione maggioritaria è cosa politica, e politicamente sinistra, Luca Medici in arte Checco Zalone guarda oltre, supera le divisioni e punta al suffragio universale in sala: si scrive Tolo Tolo, si legge Tutti Tutti.

Il Santo Padre pò esse fero e pò esse meme

Dalle citazioni dei film (“Prima regola del fight club: non strattonare il Papa”, “Lo chiamavano Santità”, “Sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma”, di breghiana memoria), ai videogiochi sul tema “Street Fighter”, alle frasi in dialetto romanesco “E poi j’ho detto arzate cornuta, arzate!”. L’episodio di martedì scorso in piazza San Pietro, con il Santo Padre che strattona una fedele che voleva trattenerlo tirandolo per una mano, ha dato vita a una moltitudine di “meme”, diventati subito virali in Rete.

Il Pontefice diventa di volta in volta percussionista, con i muscoli in bella vista, associato a Mike Tyson. Molto riuscita anche l’immagine con Kim Jong-un, dittatore nordcoreano, che con l’espressione esterrefatta dice: “È quello vestito di bianco che ha menato a mi’ zia?”.