“Vivere con lentezza: non basta un solo giorno, serve un anno”

Bruno Contigiani l’ha inventata 13 anni fa, la “Giornata della lentezza”. Era il 2007 e con un gruppo di amici presidiò il centralissimo corso Vittorio Emanuele, a Milano, dando le multe a chi camminava troppo veloce. La provocazione diventò quella sera uno dei titoli dei telegiornali. L’anno dopo, Contigiani pubblicò il libro Vivere con lentezza, che divenne subito un bestseller. Da allora, ogni anno, il primo lunedì di maggio è diventato la “Giornata della lentezza”, che è stata celebrata anche a New York, Londra, Parigi, Tokyo, Shanghai. Il suo libro, che contiene dieci, anzi quattordici Comandalenti, è stato più volte ristampato, fino a diventare Vivere con lentezza. Dieci anni dopo (Papero editore).

Adesso dice basta. “Basta rallentare soltanto per un giorno, per continuare a correre tutto il resto dell’anno”, dice Contigiani. “Ogni giorno è la Giornata di qualcosa, ci sono più Giornate che giorni dell’anno. E queste rischiano di essere una stanca ripetizione, che ci autoassolve e nasconde la nostra reale indifferenza per i problemi che vorremmo ricordare. Basta Giornata della lentezza, dunque. Se vogliamo davvero cambiare non possiamo limitarci a un giorno. Se proprio vogliamo, dichiariamo il 2020 Anno della lentezza. Iniziamo un vero cambiamento, anzi: cambialento”.

Quando lanciò l’idea di “vivere con lentezza”, Contigiani provò a cambiare la sua vita. “Avevo fatto l’allenatore di nuoto, il professore di matematica applicata, l’esperto di nuove tecnologie, il capo ufficio stampa di Ibm Italia e poi di Telecom Italia Corporate. Correvo come un pazzo. Solo grazie al fortunato incontro con uno scoglio, durante un tuffo nel mare di Chiavari, ho avuto l’occasione di iniziare una seconda vita”. Ora vive sulle colline piacentine (“In una sorta di co-housing”, racconta), gestisce con il suo gruppo il sito vivereconlentezza.it, ha un blog su ilfattoquotidiano.it. Ha inventato anche l’iniziativa “Leggevamo Quattro Libri al Bar”, da più di dieci anni fa parte di un gruppo che lavora nelle carceri di Pavia e di Piacenza, con persone detenute per reati comuni o con detenuti “protetti”, animando gruppi di lettura ad alta voce e realizzando il giornale del penitenziario di Pavia Numero Zero. A Jaipur, in India, ha messo in piedi un intervento negli slum della città, con ex bambine e bambini di strada “a cui cerchiamo di dare un futuro autonomo, sostenendoli negli studi universitari. Altri progetti sono dedicati a donne in difficoltà a cui forniamo una macchina per cucire che aiuti nei lavori domestici o per avviare piccole attività commerciali e a lavoratori poveri a cui assegniamo biciclette per consentire gli spostamenti”.

Ora dice basta alla “Giornata della lentezza”: “L’idea me l’ha data una scuola dell’infanzia di Genova, che ha deciso di dedicare tutto l’anno 2020 ad attività lente. Se gli anni Venti del Novecento erano gli ‘anni ruggenti’, i venti-venti saranno gli ‘anni lenti’. Archiviamo i frenetici Anni Dieci. I bambini sono i primi a sentire il bisogno di lentezza, a domandare il rispetto dei ritmi, a chiedere ascolto: almeno per quest’anno proviamo a tornare bambini e rallentiamo. Tutto l’anno. Rallentare fa bene, fa bene al cuore, all’umore, all’amore, all’amicizia, all’ambiente…”.

Ma è possibile nel nostro mondo convulso e sempre connesso? “Ovviamente non potremo andare sempre lenti”, risponde Contigiani, “ma rallentare non significa fermarsi: quando sarà necessario saremo in grado di prendere velocità e scopriremo la rapidità, realizzando in una sola mossa quanto non eravamo riusciti a fare in anni di frenesia. Troveremo il ritmo più adatto a noi. Vivere con lentezza è un gesto d’amore verso noi stessi, verso gli altri e verso il pianeta. Solo se diventa uno stile di vita che dura tutto l’anno, può aver senso celebrare la Giornata della lentezza il primo lunedì di maggio, come fosse un capodanno. Altrimenti: stop”.

A lezione di “guerra psicologica” dal prof. Kgb

Tra i banchi della Mirea, prestigiosa università moscovita, che vanta collaborazioni con i colossi del mondo digitale come Yandex e Samsung, siedono i futuri specialisti di scienze e tecnologia. Ma da qualche mese almeno un migliaio di loro sono perplessi. In particolare gli allievi dell’Istituto di sicurezza e strumenti speciali, il dipartimento che si occupa di sicurezza informatica. “Dottrina della guerra ibrida”, “meme da combattimento”, virus psicologici da usare contro il nemico. Sono solo alcuni dei concetti su cui verteranno le domande del loro professore Vitaly Grigoriev quando li interrogherà in sede d’esame.

“Il fulcro del corso è imparare a conoscere il nemico, la sua ideologia, i suoi metodi di combattimento per vincere”. Alle lezioni del professore Grigoriev si apprende che le bevande energetiche, alcol e droga sono “armi razziali” usate per sterminare geneticamente l’avversario. Si ascoltano dettagli sulla guerra-psicotronica e si prendono appunti sulla neurolinguistica, dottrina militare, Costituzione russa ma anche su teorie del complotto e della cospirazione. “I social media sono armi per distruggere la Russia” proprio come “i movimenti per i diritti umani”. Tra le discipline preferite c’è quella della guerra ibrida mondiale, dove la Russia è bersaglio e non aggressore.

“Troppo difficile credere che accada davvero”. A scoprirlo è stata la giornalista russa Lilja Yapparova, entrata in contatto con parenti degli allievi del cattedratico, increduli dinanzi ai test di “coscienza nazionale” a cui sono sottoposti gli studenti e “altre cose insensate che non meritano neppure di essere chiamate pseudo-scienze”. Né bizzarro, né ambiguo. Piuttosto un veterano di guerra e della materia, fermo nelle sue convinzioni. La firma del professore appare su numerosi articoli scientifici come membro ufficiale dell’Accademia russa delle Scienze. Dal 1986 al 1996 Grigorev ha insegnato al Dzerzhinskij, l’istituto del Kgb, divenuto nel 1992 l’Accademia Fsb, servizi di sicurezza russi, e in un altro centro d’addestramento federale, sempre nel dipartimento comunicazione e informazione.

L’arte della guerra non si inculca sui campi di battaglia. Poiché la guerra dell’informazione è ovunque e il confronto sempre imminente, le strategie della vittoria si devono apprendere in accademia. Raggiunto da giornalisti e parenti, il professore è rimasto fedele alle sue opinioni e metodi d’insegnamento, si è detto pronto a difendersi davanti al rettore, ribattendo che “del concetto di guerra ibrida ne hanno parlato pubblicamente il ministro della Difesa Sergey Shoigu e il presidente Putin. Per caso avete qualcosa contro le dichiarazioni della nostra leadership?”. Agli esami del prossimo semestre gli studenti potranno essere interrogati sulla cospirazione Dulles, (l’ex capo della Cia Allen Dulles, che mirava a distruggere l’Unione Sovietica corrompendone i valori morali). O sulla “tattica di guerra spirituale” compiuta “rimpiazzando i vestiti tradizionali con abiti unisex”. Le domande potrebbero riguardare i programmi di ricerca sulla ionosfera che gli americani compiono da anni in Alaska e sarebbero, secondo il professore, in realtà un esperimento per il controllo mentale. Tra fiction e Kgb molti dei suoi duemila studenti russi hanno paura di essere bocciati. Altri sanno invece che studiare alla Mirea vuol dire fare un tirocinio nei dipartimenti di sicurezza informatica federale.

Il mistero di Ghosn, il ricercato al sicuro tra Beirut e Parigi

La prima foto di Carlos Ghosn in Libano è stata pubblicata ieri dalle tv francesi Tf1 e LCI: si vede l’ex patron di Renault-Nissan mentre festeggia il Capodanno con la moglie Carole e le due figlie. Il top manager, fuggito dal Giappone dove è accusato di illeciti finanziari, sembra sereno. A Beirut, Ghosn, che è di origini libanesi, “è a casa sua” ha detto ieri Ricardo Karam, un giornalista libanese sentito da France Info. Stando a Karam, presentato come un amico di lunga data dell’ex ceo, Ghosn “sta preparando la sua difesa”.

Arrivato a Beirut lunedì scorso, Carlos Ghosn avrebbe poco da temere dal mandato d’arresto spiccato ieri contro di lui da Interpol. Albert Serhan, ministro libanese della Giustizia, ha confermato di aver ricevuto la “red notice”, precisando che il paese avrebbe “fatto il suo dovere”. Non si esclude dunque che Ghosn sia interrogato. Ma per Beirut Ghosn è arrivato “legalmente”. Inoltre, è stato ricordato, che tra Libano e Giappone non esistono trattati di estradizione. Ghosn, che a Tokio viveva in libertà vigilata da aprile, sembra dunque libero e al sicuro. Anche se decidesse di andare in Francia, il paese d’adozione di cui ha la nazionalità, non rischierebbe di essere rispedito in Giappone: “La Francia non estrada mai i suoi concittadini”, ha detto il sottosegretario all’Economia, Agnès Pannier-Runacher. Sin dal suo arrivo a Beirut del resto Ghosn ha anche potuto usufruire del “sostegno consolare” della Francia, “come tutti i francesi”. Sembra quasi una mano tesa al top manager che, nel gennaio 2019, nel pieno dello scandalo, si era dovuto dimettere anche da Renault. In Giappone, l’ex ceo di Nissan aveva diritto di viaggiare ma non di lasciare il Paese. I suoi tre passaporti, libanese, francese e brasiliano, erano trattenuti dai suoi legali. Ma ieri la tv giapponese NhK ha confermato che Ghosn era in possesso di un secondo documento francese. I giudici gli avevano concesso di tenerlo con sé, ma a una condizione: che fosse chiuso in una valigetta e che la chiave restasse agli avvocati. Ghosn ha usato quel documento per fuggire o è partito sotto altra identità? A volto scoperto o camuffato? Chi sono i suoi complici? Il Wall Street Journal sostiene che il jet privato ha lasciato lo scalo di Osaka alle 23.10 di domenica sera. Ma per le autorità giapponesi non ci sono tracce del passaggio di Ghosn in nessun aeroporto giapponese. Non si sa ancora cosa gli inquirenti hanno trovato nella sua casa di Tokio, perquisita ieri. L’aereo si sarebbe poi posato a Istanbul prima di ripartire per Beirut. Ora anche le autorità turche indagano e sette persone, tra cui quattro piloti, sono stati arrestati. Forse Ghosn, che da “salvatore di Nissan” si ritrova a vivere da fuggiasco, racconterà la sua versione dei fatti alla conferenza stampa di mercoledì.

Ma stando al Financial Times, a giocare un ruolo molto attivo nella vicenda sarebbero stato proprio le autorità libanesi. Sin da ottobre, scriveva ieri il giornale, Beirut con l’aiuto di “un team di professionisti” faceva pressioni per riportare Ghosn nel paese. Il manager era stato arrestato nel novembre 2018 all’aeroporto di Tokio proprio mentre rientrava da un soggiorno a Beirut. Una prima richiesta di ritorno in Libano sarebbe già stata presentata al Giappone un anno fa. E quindi rinnovata lo scorso 20 dicembre, qualche giorno prima della fuga, durante una visita a Beirut del ministro giapponese degli Esteri. Anche la moglie di Ghosn, Carole, anche lei libanese, avrebbe svolto un ruolo determinante ottenendo “appoggi diplomatici”. Ma le autorità libanesi smentiscono di essere coinvolte nei piani di fuga di Ghosn.

EastMed: Cipro, Grecia e Israele danno il via al gasdotto

Gasdotti come strumenti d’approvvigionamento energetico, ma anche come canali di collegamento politico e militare: pegni d’alleanze, non solo di convenienze commerciali. Accade tra la Russia o l’Asia centrale e l’Europa, ma anche nel Mediterraneo. Ad Atene, Grecia, Cipro e Israele hanno siglato ieri un accordo per la costruzione del gasdotto EastMed: è una risposta all’espansionismo turco nel Mediterraneo e all’intesa tra Turchia e Libia sulla zona economica esclusiva marittima (Zee), che pretende d’inglobare i campi petroliferi offshore ciprioti. Presenti i premier israeliano Benjamin Netanyahu e greco Kyriakos Mitsotakis e il presidente cipriota Nicos Anastasiades, i ministri dell’Energia dei tre Paesi hanno formalizzato il patto che prevede anche misure di difesa del condotto, che dovrebbe portare verso l’Europa il gas naturale estratto dalle acque territoriali di Israele e Cipro. Netanyahu esalta il passo fatto: “Abbiamo stretto un’alleanza nell’area orientale del Mediterraneo che ha importanza enorme per il futuro energetico di Israele, e che contribuisce alla stabilità nella Regione”. A conti fatti, la nuova struttura, lunga oltre 2000 chilometri, canalizzerà ogni anno tra i nove e i 12 miliardi di metri cubi di gas dalle piattaforme offshore di Israele e Cipro alla Grecia e poi all’Italia e ad altri Paesi dell’Europa meridionale. L’alleanza tra i tre Paesi è un monito alla Turchia, che contesta il diritto della Repubblica cipriota, membro dell’Ue e riconosciuta dalla comunità internazionale, di sfruttare giacimenti di petrolio e gas presenti nella sua Zee, reclamandone una parte per la Repubblica turco-cipriota di Cipro Nord, riconosciuta solo da Ankara. La Turchia ha inviato navi militari a sostegno di sue prospezioni energetiche nell’area, rendendo così esplicite le sue intenzioni, che mettono a rischio gli interessi dell’Eni nell’area. EastMed dovrebbe arrivare anche in Puglia, ma per ora è solo un’ipotesi.

Libia, sì di Ankara alle truppe. “Ma solo per fare pressione”

Come previsto, il Parlamento turco ha approvato l’invio di truppe in Libia al fianco delle forze del governo di Alleanza Nazionale di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj. Hanno votato a favore 325 deputati, ovvero i rappresentanti del partito della Giustizia e Sviluppo – alla guida del governo e fondato dal presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan. Contrari invece 184 parlamentari dell’opposizione. Il testo dà l’ok all’invio di soldati delle turchi in Libia per un anno. Il capo dello Stato ha imposto il voto anticipato del parlamento a causa dell’escalation in corso da un mese tra le forze di Sarraj – il premier riconosciuto dall’Onu – e quelle del signore della guerra, Khalifa Haftar. Il tentativo di Haftar di assediare Tripoli per abbattere Sarraj, è iniziato lo scorso aprile. Da allora Ankara ha aumentato l’invio di armi a Sarraj, esponente come Erdogan della Fratellanza Musulmana, violando l’embargo dell’Onu, violazione compiuta anche dai sostenitori stranieri di Haftar.

“Ma ogni volta che la Turchia prende un’iniziativa militare o geopolitica, viene subito accusata di voler ricreare l’Impero ottomano, di voler ricolonizzare i Paesi che un tempo lo costituivano. Quando invece la stessa cosa la fanno le ex potenze coloniali, le si giustifica in nome dei forti legami storici e degli interessi comuni. Un fatto che, in questo caso, riguarda molto da vicino anche l’Italia. Gli investimenti turchi sono aumentati dopo la caduta di Gheddafi”, spiega il professore emerito Ilter Turan, noto politologo, già preside della Bilgi University. Secondo Turan, che ha spesso criticato l’operato di Erdogan, questa volta l’intenzione reale del presidente turco non è quella di inviare le truppe per spartirsi la Libia con il rivale-amico Putin. “Ritengo che Erdogan non voglia davvero mandare i militari, ma intenda alzare la posta allo scopo di spronare la comunità internazionale a risolvere il conflitto libico attraverso i negoziati”. Una sorta di deterrente, insomma. Anche il vicepresidente turco, Fuat Oktay, in un’intervista all’agenzia Anadolu, ha sottolineato che “la Turchia potrebbe non inviare truppe in Libia se l’esercito nazionale libico interrompesse la sua offensiva contro il governo di Tripoli”. Oktay ha anche sottolineato che Ankara spera che il voto della Turchia rappresenti “un segnale politico” e un “messaggio di dissuasione per le parti”.

Il Sultano in questa nuova “avventura” estera spera di poter fare affidamento su Trump, nonostante i recenti tradimenti geopolitici perpetrati da Erdogan, per esempio l’acquisto del sistema di difesa anti missile russo S-400 anziché quello Usa. Tant’è che subito dopo il voto, Erdogan e Trump hanno avuto un colloquio telefonico in cui avrebbero discusso della decisione. Al voto ha reagito per primo l’Egitto accusando la Turchia di agire contro le regole del diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu. Peccato che il Cairo stia facendo altrettanto nel foraggiare Haftar. Anche la Lega araba condanna la decisione del Parlamento di Ankara, ribadendo “il proprio sostegno alla soluzione politica”. Anche la reazione del nostro governo è stata negativa. “È una decisione che aumenta le tensioni in un quadro già drammatico. La missione Ue proposta dall’Italia è sempre più importante per chiedere a tutti gli attori di rispettare l’embargo Onu, far tacere le armi, ridare voce alla politica”, ha scritto su Twitter la viceministro degli Esteri, Marina Sereni. “Siamo molto preoccupati, così si aumenta esponenzialmente il rischio di un conflitto aperto in un paese già fragile e destabilizzato”, hanno dichiarano in una nota congiunta i deputati Pd Lia Quartapelle, capogruppo in commissione Esteri di Montecitorio, ed Enrico Borghi, membro del Copasir e commissione Difesa di Montecitorio. Entrambi chiedono unitamente al capogruppo Graziano Delrio, che “il ministro Di Maio riferisca in Aula dopo la missione europea da lui organizzata per il 7 gennaio”. Un’altra data cruciale per le sorti della Libia è l’8 gennaio, quando Erdogan e Putin si incontreranno nuovamente. Intanto l’entourage di Haftar ha risposto che “non permetterà la presenza di nessuna forza turca ostile sul territorio libico” e ha aggiunto che “la formazione è pronta a combattere”. Ma a decidere non sarà il rais di Bengasi, bensì il Sultano e lo Zar.

Mail Box

 

Il nostro augurio per il 2020: un governo che guardi al futuro

Gentile direttore, le confesso che fino a qualche anno fa lei non mi stava molto simpatico. Sempre con quel sorrisetto, un po’ saccente, stampato sulla bocca e le sue narrazioni che descrivevano realtà e comportamenti moralmente, umanamente e legalmente troppo devianti per immaginarli propri di soggetti che svolgono una funzione pubblica e di governo, con buona pace dell’articolo 54 della nostra Costituzione.

Poi, non mi ricordo come è successo, circa quattro anni fa ho comprato per la prima volta il suo giornale, e da allora non ho più perso un numero. Lei e i suoi colleghi avete ridato la speranza a me e agli italiani che usano la testa e non hanno paura ad ammettere di aver dato fiducia, nel passato, a chi non la meritava.

Mi preme quindi ringraziare lei e tutta la redazione del Fatto Quotidiano per informarci, ogni giorno, con obiettività, indipendenza, competenza ed equilibrio. E in particolare lei, direttore, per avermi anche divertito con i suoi articoli di prima pagina (mia moglie deve avermi preso per matto vedendomi ridere mentre la leggevo).

Concludo con una domanda che spero possa avere una risposta positiva: gli italiani vorranno mai aprire gli occhi e scegliere chi possa dare di nuovo ai loro figli e nipoti un buon governo, e quindi di nuovo un futuro?

Francesco Neri

 

Caro Francesco,

è quello che ci auguriamo tutti per questo 2020!

Buon anno di cuore,

M.Trav.

 

I media non amano i grillini per il loro merito: non rubano

Gentile direttore, grazie per i tanti editoriali, grazie per gli interventi dalla Gruber e… grazie a tutta la redazione. Che sia una buona nuova decade!

La lascio con una domanda: perché tutti danno addosso ai 5Stelle? Cosa portano di così “inaccettabile”? Non c’è, in tutto questo, la prova provata che…?

Paolo Toniolo

 

Temo che la cosa davvero inaccettabile dei 5 Stelle per il sistema non siano i loro molti errori, ma uno dei loro pochi meriti: non rubano.

M.Trav.

 

Grazie a Marco Cappato per aver smosso le coscienze

Caro Fatto, cara redazione, caro Travaglio, mi sento di scrivervi come faccio con gli amici. Ho passato con voi momenti importanti, i vostri lettori sono stati informati, seguiti, preceduti, contraddetti, raramente anche irritati, in una relazione sempre fruttuosa. Non voglio commentare nulla di questa fase complessa che pare senza speranza o luce… ma voglio assolutamente stringere la mano a Marco Cappato, che ha spinto un passo in avanti la pigra coscienza collettiva su un tema fondamentale da sempre per l’essere umano, l’unico consapevole della propria fine. Ho negli occhi il suo sguardo forte e malinconico, la sua voce ferrea e pacata. Lo ringrazio personalmente, tanto! E anche chi a quella voce ha dato importante spazio.

Buon anno a tutti voi!

Fiorenza Carmignani

 

Reddito di cittadinanza, chi critica non è mai stato povero

Ho letto l’articolo di fondo del direttore Marco Travaglio pubblicato il 31 dicembre e lo menziono come articolo dell’anno. Tutti quelli che vergognosamente criticano il Reddito di cittadinanza e, tra questi, molti intellettuali da cui ci si aspetterebbe analisi disinteressate e non preconcette – a eccezione del sociologo Domenico De Masi – non conoscono la povertà, non l’hanno mai vista in faccia.

Grazie Fatto Quotidiano, siete una boccata d’ossigeno!

Celesta McCants

 

La rassegnazione di noi italiani incapaci di amare i nostri tesori

Catania e Napoli tra le città meno vivibili d’Italia. Se è deprimente vederle in coda alle classifiche, è ancora più sconcertante notare, se non la rassegnazione, la quasi totale indifferenza con cui si accolgono queste notizie. Perché non riusciamo a comprendere la fortuna che abbiamo avuto nascendo in luoghi così belli, e non scatta, dentro di noi, l’orgoglio di essere figli della culla della civiltà? Abbiamo patrimoni archeologici di inestimabile valore, tradizioni culturali di eccezionale rilevanza, una storia ineguagliabile di eroi, letterati, santi musicisti, inventori, scienziati e artisti, vulcani, spiagge, coste e panorami da incanto. Però, nel cuore, non abbiamo consapevolezza di tanta fortuna.

Cosa stiamo facendo per preservare dal degrado tutto ciò? Perché ci giriamo dall’altra parte, pensando soltanto al nostro orticello? Cosa lasceremo alle nuove generazioni? Siamo ancora in tempo per migliorare, per ritrovare alcuni dei valori che l’andazzo degli ultimi decenni ha ricoperto di fanghiglia, trasformandoci da popolo di santi, eroi e navigatori in rammolliti, rassegnati, inetti e giocatori di gratta e vinci e superenalotto. Abbiamo il diritto e il dovere di ritrovare la consapevolezza e l’orgoglio delle nostre radici. Se riusciamo in questo, non saremo più facili prede dell’ignoranza e della pazza corsa verso il nulla, l’effimero, il vuoto. Dobbiamo ritrovare il valore della serietà, ricordarci che è dai banchi delle elementari che si impara il vivere civile.

Raffaele Pisani

Saldi. Occhio al prezzo di partenza e la merce si può cambiare: come non farsi bidonare

 

Buongiorno, vorrei sottoporvi un problema forse frivolo, ma comune a molti di noi consumatori: i saldi e le relative fregature, se non truffe. L’anno scorso, ad esempio, si sono rifiutati di cambiarmi un vestito appena acquistato con uno sconto oltretutto minimo. Ma i commercianti possono davvero rifiutarsi, mi chiedo io? E se si scopre un piccolo difetto nella merce, che si fa? Posso pretendere che questa mi venga sostituita, oppure no? Che dice la legge e come possiamo difenderci noi consumatori? Grazie. Buon anno.

Annalisa Pagano

 

Gentile signora Pagano, c’è già da meravigliarsi che il tema dei saldi desti ancora attenzione. In tempi di e-commerce, con il Black Friday e il Cyber Monday che hanno sbancato con vendite superiori ai 2 miliardi di euro in un solo lungo weekend, le collezioni da magazzino che prenderanno posto sugli scaffali dei negozi dal prossimo 4 gennaio fanno sempre meno gola, con le associazioni di categoria che parlano di una corsa verso gli acquisti scontati che fatturerà meno dello scorso anno. Comunque, passione per lo shopping tradizionale o meno, c’è una sola grande certezza che contraddistingue da sempre i saldi: il rischio di prendere un bidone pensando di fare l’affare del secolo. Scontato, è il caso di dirlo, il primo grande consiglio: guardare sempre al prezzo effettivo da pagare e non farsi incantare da sconti troppo elevati. Quelli superiori al 50 per cento spesso nascondono merce non esattamente nuova o prezzi vecchi gonfiati. L’abitudine di ritoccare il prezzo vecchio, così da alzare la percentuale di sconto e invogliare maggiormente all’acquisto, è dura a morire: per questo suggeriamo ai consumatori di guardare sempre al prezzo effettivo da pagare e di non farsi incantare da ribassi troppo elevati. Sul fronte del cambio-merce bisogna rifarsi semplicemente alle norme del Codice del Consumo. Troppo spesso i negozianti si rifiutano di cambiare la merce acquistata in saldo, ma in realtà anche questa vendita è coperta dalle stesse garanzie previste per le vendite ordinarie. Non esiste, però, nessun obbligo per il venditore di cambiare la merce che non presenti difetti. Se, quindi, si è incerti su un acquisto meglio chiarire prima di pagare se si potrà cambiare o meno la merce. Le promesse fatte dal negoziante tramite cartelli o dichiarazioni diventano tuttavia un obbligo. Se per esempio, cartelli o volantini riportano la scritta “la merce si cambia entro una settimana dall’acquisto”, il venditore dovrà poi effettuare il cambio.

Patrizia De Rubertis

Paragone ha violato le regole del M5S. Però non è l’unico

Quando si sceglie liberamente di far parte di un’organizzazione se ne accettano le regole. Se per esempio ti iscrivi a un club in cui per partecipare alle riunioni è obbligatoria la cravatta rossa, non puoi poi lamentarti se un giorno non ti ammettono perché ne indossi una blu. Per questo stupiscono le proteste del mio amico ed ex collega Gianluigi Paragone per essere stato espulso da un movimento al quale aveva liberamente deciso di aderire.

Gianluigi ha deciso di non votare la fiducia al governo in occasione dell’approvazione della legge di Bilancio. Una violazione grave delle norme stabilite dalla formazione politica in cui ha scelto di militare. Per i Cinque Stelle la fiducia al proprio esecutivo va votata sempre. Paragone ha motivato il suo no spiegando che la manovra finanziaria è in contrasto con il programma originario pentastellato del 2018, specialmente nei punti riguardanti l’Europa. “Dicevamo stop allo strapotere finanziario, stop con l’Europa di Bruxelles, stop alle liberalizzazioni che accomunano Lega e Pd. Io quel programma lo difendo, perché con quel programma sono stato eletto”, ha ricordato. Vero. Ma solo in parte. Perché il programma dei 5 Stelle conteneva anche molto altro. Ad esempio, la legalizzazione della cannabis. Ma quando si è trattato di firmare il contratto di governo con la Lega, di droghe leggere regolamentate non se n’è più parlato. O meglio, ne ha parlato spesso Matteo Salvini per dire che lui vorrebbe il divieto assoluto. Eppure nessuno allora si era sognato di affermare che per questo quell’accordo non andava sottoscritto. Non lo ha fatto l’ex conduttore de La gabbia e nemmeno Alessandro Di Battista, che ora definisce Paragone “più grillino di tanti grillini”. E, guardandola dal loro punto di vista, è logico che sia stato così.

Perché il patto con la Lega, come poi quello col Pd, è stato suggellato e avallato dal voto degli iscritti, di cui gli eletti in Parlamento si ostinano a definirsi portavoce. Gli elettori, inoltre, prima del voto, erano stati avvertiti che i Cinque Stelle se non avessero avuto la maggioranza assoluta avrebbero governato con chi ci stava. In modo da tentare di realizzare almeno una parte delle cose che stavano loro a cuore. Ad esempio, la Spazzacorrotti, il taglio dei vitalizi, il Reddito di cittadinanza e da un paio di giorni lo stop alla prescrizione (che però, stando al programma, avrebbe dovuto fermarsi con il rinvio a giudizio e non dopo il primo grado).

Detto questo, Paragone ha pure delle ragioni. Uno dei limiti più grandi dimostrati dal Movimento in questi anni è legato all’incapacità di trattare tutti i parlamentari allo stesso modo. Se vi sono delle regole queste vanno applicate a tutti. Per i pentastellati è fondamentale che i loro eletti restituiscano parte degli emolumenti? Se sì, non si vede perché debbano essere i giornali e lo stesso Paragone a scoprire che in molti non lo hanno fatto. Ma non basta. Se nel programma elettorale c’è il taglio del numero dei parlamentari, come mai a tre eletti è stato permesso di firmare per il referendum contro la riduzione del numero? Queste sono domande a cui Luigi Di Maio dovrebbe rispondere. Infatti, se le regole che i Cinque Stelle si sono dati vengono fatte rispettare sempre e comunque, il dissenso, inevitabile, può essere gestito e diventa anzi ricchezza e pluralità di voci. Se invece lo si fa a intermittenza, il rischio è che si gonfi a dismisura. E che prima o poi esploda. Distruggendo tutto.

La sentenza Dosio non regge: ecco perché

Gentile direttore, le parole sulla carcerazione di Nicoletta Dosio del Procuratore generale della Repubblica di Torino, che ha evidentemente ritenuto di dover replicare alle molte critiche e proteste contro questo provvedimento nei confronti di una ex professoressa, devono spingere a una riflessione.

In primo luogo, ciò che il Procuratore non pare voler cogliere è il significato profondo della scelta della prof. Dosio. Decidere di non chiedere nulla, affermare che non si è disponibili a essere carcerieri di se stessi, è la scelta consapevole di una donna che ha spiegato che non aveva nulla per cui doversi “riabilitare”. La Dosio è stata condannata a un anno per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri perché aveva tenuto uno striscione, al bordo dell’autostrada, nel corso di una manifestazione No Tav. Una condotta che giustificava, secondo la Procura, una pena di ben tre anni (chiesti in primo grado dal pm), e che ha condotto alla condanna a un anno di carcere.

Non stupisce, dunque, che alcuni non vogliano cogliere il senso di estrema dignità e coerenza della decisione di non utilizzare quelle pur sacrosante misure alternative alla detenzione. Nulla ritiene di avere la Dosio per cui doversi rieducare, e nulla ritiene di aver fatto per aver “meritato” un anno di carcere. Nulla ha dunque da chiedere alla clemenza del sovrano, e altro non può fare che subire quello che le viene imposto. Quel che piuttosto con la sua scelta di coerenza e dignità la Dosio ha voluto scoprire e denunciare, facendo del suo corpo detenuto un’arma non violenta, è l’uso, anzi l’abuso, del sistema repressivo penale utilizzato contro il movimento No Tav in particolare, e contro tutti i movimenti che esprimono istanze di dissenso e conflitto sociale. Decine di processi, centinaia di indagati e condannati, misure di prevenzione, fogli di via sono l’unico modo che lo Stato ha trovato per rispondere alla protesta (a volte violenta certo, ma più spesso pacifica e non violenta) dei No Tav, e sono spesso l’unico modo che lo Stato trova per rispondere al conflitto sociale. Conflitto che, è bene precisare subito, non è antitetico alla democrazia, ma ne è anzi elemento essenziale di vitalità. E allora Nicoletta Dosio non aveva altra scelta che rifiutarsi di chiedere scusa e non fuggire dal carcere nel quale ingiustamente la si è voluta rinchiudere.

Risposta repressiva, si diceva, dello Stato: quando una manifestazione viene contrastata e repressa con lacrimogeni e manganelli, quando le persone vengono arrestate, processate e condannate per aver manifestato, è lo Stato che sta lanciando lacrimogeni, che sta manganellando, che sta arrestando, processando, condannando. E quando queste sono le uniche risposte che lo Stato è un grado di mettere in campo contro il conflitto sociale e il dissenso, come nel caso del movimento No Tav, allora a entrare in crisi è la tenuta del sistema democratico.

Certo, si può obiettare che un giudice ha valutato che quelle condotte costituiscono reato, e che quindi ha condannato i suoi autori seguendo una procedura garantita dalla legge. Formalmente tutto vero: il problema è che perseguire una determinata condotta è spesso frutto di una scelta di politica giudiziaria, frutto di attività interpretativa non sempre e non solo tecnica: si noti che per i reati per i quali la Dosio è stata condannata la legge prevede una pena minima di quindici giorni. Decidere di condannare a un anno ha quindi un preciso significato ed è solo l’ultima di una serie di valutazioni fondamentalmente politiche. Le sbarre che dal 30 dicembre circondano il corpo di Nicoletta Dosio ci impongono, quindi, di prendere atto che tutto ciò deve preoccuparci, interrogandoci su questa discrezionale giustizializzazione contro quello che si considera non coerente con l’“ordine costituito”.

 

In Iraq gli Usa fanno il gioco dell’Iran

Le manifestazioni popolari che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Abdul Mahdi, filo-iraniano come tutti i suoi predecessori del dopo Saddam, e l’attacco dei giorni scorsi delle milizie irachene filoiraniane presenti in Iraq (ce ne sono 63) all’ambasciata americana a Baghdad sembrano appartenere, all’apparenza, ad ambiti diversi. Le prime sono le classiche manifestazioni sociali contro il carovita, la mancanza di lavoro, la corruzione della classe dirigente, che sono presenti attualmente in molti altri Paesi del mondo per quel fenomeno che Matteo Salvini ha chiamato, intelligentemente, “la rivolta del popolo contro le élite”. Queste manifestazioni sono ipoteticamente favorevoli agli Stati Uniti perché, dopo le dimissioni di Mahdi, potrebbero portare al governo di Baghdad un premier meno legato all’Iran e più sotto il controllo americano. L’attacco all’ambasciata americana appartiene invece allo storico filone khomeinista che vuole una sola cosa: che gli occupanti occidentali – ci siamo anche noi con mille uomini –, se ne vadano dal Paese. E sono ricomparse le antiche parole d’ordine “morte all’America, morte agli ingilis, no all’America” e bandiere inneggianti agli Hezbollah storici nemici di Israele e quindi del suo grande protettore americano. Khazali, leader della milizia sciita irachena Assaib Ahl al-Haq, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Gli americani non sono i benvenuti in Iraq. Sono una fonte di male e vogliamo che se ne vadano”. Insomma, un’atmosfera che non si respirava dai tempi della fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie e che io stesso ho potuto vedere di persona perché in quei giorni mi trovavo a Teheran.

Eppure un filo rosso unisce le proteste sociali contro il governo di Baghdad e il risorgere in Iraq dell’antiamericanismo combattente. Ma per capire, o almeno cercare di capire questa intricatissima situazione, bisogna fare alcuni passi indietro. Durante la guerra, iniziata nel 1980, Iraq-Iran, nel 1985 le truppe iraniane, peggio armate ma meglio motivate rispetto al più tecnologico esercito di Saddam, erano inaspettatamente davanti a Bassora e stavano per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato la caduta immediata di Saddam Hussein, l’unione dell’Iraq sciita all’Iran, perché si tratta della stessa gente dal punto di vista antropologico, culturale, religioso, e la formazione di uno Stato curdo ai confini della Turchia a quell’epoca alleato privilegiato degli Stati Uniti. A questo punto intervennero gli americani per motivi “umanitari” naturalmente (“non si può permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora”). In realtà l’intervento americano era ovviamente in funzione anti-Iran, il nemico storico, ma anche anti-curdo a protezione della Turchia a quell’epoca loro grande alleato. Così americani, sovietici, via Germania Est, e francesi fornirono a Saddam le famose “armi di distruzione di massa” che il dittatore iracheno usò disinvoltamente contro i curdi (5000 civili curdi “gasati” in un sol colpo nella cittadina di Halabja) e contro i soldati iraniani. Nel 1989 Khomeini dovette bere “l’amaro calice” e accettare la pace. Tutto ritornava come prima. Nel 2003, in una delle più sciagurate guerre dei Bush, abbandonando ed eliminando Saddam Hussein, ritenuto non più presentabile, gli americani invasero e occuparono l’Iraq dove sono attualmente presenti con 5000 uomini, fra soldati regolari e contractor. Adesso, dopo l’attacco all’ambasciata, Trump si ripromette di portare in Iraq altri 750 uomini a protezione del governo iracheno contro i combattenti filoiraniani, attribuisce all’Iran non solo l’ispirazione dell’attacco all’ambasciata a Baghdad, ma anche altri interventi nella regione “contro gli interessi americani”, e minaccia sanguinose ritorsioni, non più solo economiche ma militari. La guida suprema iraniana Ali Khamenei gli ha risposto così: “Gli americani dovrebbero ragionare di più. Non si rendono conto che le loro occupazioni, in Iraq come in Afghanistan, li stanno rendendo odiosi al mondo intero”. Ma dovrebbero ragionare di più anche rivedendo la lunga storia della loro guerra infinita all’Iran. Non si sono resi conto che con la guerra del 2003, eliminando Saddam Hussein, sunnita e sostanzialmente laico, hanno consegnato l’Iraq sciita agli iraniani che si sono presi senza dover sparare un solo colpo di fucile quello che si sarebbero conquistati legittimamente nel 1985 prendendo Bassora.

Il prossimo premier iracheno dovrebbe essere Moqtada Al Sadr che ha vinto le ultime elezioni. Chi è Moqtada? Moqtada Al Sadr nel 2004 fu il primo a creare una potente milizia contro gli occupanti americani. Ed è forse il più importante, certamente il più prestigioso, dei personaggi politici iracheni che detestano, come tutti gli iracheni, l’America. E così si arriva al paradosso che gli americani, con l’invio di nuove forze, in realtà proteggono il loro principale nemico politico e militare in Iraq.