Urbano fa gli auguri a Cairo

Il bello degli auguri di Urbano Cairo è che sembra proprio li stia facendo a se stesso. Il presidentissimo del Torino e di mezza editoria italiana ha pubblicato un solenne messaggio per i suoi numerosi follower su Instagram (ben 16.500). Ci aspettiamo che le sue parole siano riportate testualmente, con la massima evidenza, su Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport. Nel frattempo eccole qua: “Moltissimi Auguri a tutti per il Nuovo Anno. Un Anno in cui il nostro Paese deve ricominciare a crescere, a dare opportunità di lavoro soprattutto ai giovani, a guardare al futuro e a come competere in un mondo che cambia velocemente. Ancora Buon 2020 a tutti con l’augurio di realizzare almeno 1 sogno che ci sta particolarmente a cuore!”. Più che il messaggio del presidente del Torino sembra quello del presidente della Repubblica. Più che gli auguri sembra una discesa in campo. Siamo sempre lì: Cairo è felicemente in bilico tra il ruolo di imprenditore privato e quello di personaggio pubblico e presto politico. Che sia il 2020, finalmente, l’anno in cui mette a frutto le centinaia e centinaia di march… pardon, articoli che quasi quotidianamente gli dedicano i suoi giornali? È finalmente l’anno in cui Cairo si decide a fare quello che tutto il mondo si aspetta che lui faccia? Auguri.

Contratto e concorsi: cosa aspetta la ministra

Manca pochissimo al rientro in classe degli alunni e dei docenti nelle scuole dopo la pausa natalizia: erano andati in vacanza con un ministro dell’Istruzione, rientrano se tutto va bene con la quasi neoministra, Lucia Azzolina, fresca di giuramento o in procinto di giurare. La scuola ha ancora molti dossier aperti, dal rinnovo del contratto nazionale all’avvio dei concorsi, dal nuovo sistema di abilitazioni all’ attuazione della legge sull’educazione civica. Tutti capitoli da cui non si sfugge, nodi da sciogliere su cui è concentrata l’attenzione dei sindacati e dei docenti stessi

L’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, pochi giorni prima di dimettersi aveva siglato con i sindacati una conciliazione che prevedeva una serie di precisi impegni e la partenza di tavoli di lavoro sui percorsi di abilitazione, il rinnovo del contratto nazionale di lavoro del comparto, lo svolgimento dei concorsi, i facenti funzione Dsga. Nel verbale si faceva anche riferimento alla necessità di “consolidare il carattere unitario e nazionale del sistema di istruzione”. A fronte di tutti questi impegni i sindacati avevano sospeso lo stato di agitazione e ora dovranno essere convocati dai due nuovi ministri per riprendere il filo delle intese.

Il dossier più corposo è senza dubbio quello dei concorsi: nel 2020 se ne annunciano tanti, per molti dei quali dovranno essere predisposti i regolamenti di attuazione da cui dovranno uscire i bandi. Il decreto legge cosiddetto “salva precari” approvato recentemente prevede i due concorsi ordinario e straordinario, che dovrebbero essere banditi e svolti il più presto possibile per garantire la nomina di almeno 48 mila nuovi docenti. Sono previsti poi i concorsi per l’assunzione di nuovi dirigenti tecnici (gli ispettori del ministero, ridotti al momento a poche decine) e degli insegnanti di religione cattolica, per i quali l’ultimo concorso risale a 15 anni fa. Il neo ministro dovrà poi scegliere e nominare nove nuovi direttori generali all’interno del ministero e quattro direttori negli uffici scolastici regionali.

Anche la legge sull’educazione civica dovrà trovare attuazione dal prossimo anno scolastico. Tema delicato: introdotta e approvata sotto il leghista Bussetti dopo la mediazione di tutte le forze politiche, era stata rimandata al 2020 dallo stesso Fioramonti, con la promessa di una forte componente “green” per arrivare, negli ultimi passaggi, a contenere anche l’educazione finanziaria (contro il parere del ministero). Ora si attendono le linee guida dal ministero.

Lavoro, ispettori al minimo storico: bye bye controlli

Il 2020 rischia di essere troppo sereno per tante aziende disoneste, perché si ridurranno ancora le possibilità di ricevere un controllo. Gli ispettori del lavoro raggiungeranno il numero più basso mai toccato negli ultimi anni. Con buona pace della lotta al lavoro nero, al caporalato e a chi non rispetta le norme sulla sicurezza. Contro i mali peggiori del nostro Paese lo Stato schiererà un esercito di armi spuntate. L’emergenza è venuta fuori in queste settimane, durante un’indagine della commissione Lavoro della Camera dei deputati sull’Ispettorato nazionale del Lavoro (Inl).

Nato con il Jobs Act per coordinare le azioni di ministero, Inps e Inail, l’Ispettorato nazionale ha finito per creare solo confusione: investito di un ruolo fondamentale, ma a costo zero. I dati letti dal direttore generale Leonardo Alestra – scelto da Luigi Di Maio – dicono che nel 2017 l’Inl appena nato contava su circa 5.700 operatori e oggi ne ha 4.950. Il crollo proseguirà nel 2020 anche per i pensionamenti con Quota 100. Intanto, si terranno i concorsi per reclutare nuovi ispettori, ma i primi 800 – comunque troppo pochi – diventeranno operativi all’inizio del 2021. Fino a dicembre bisognerà arrangiarsi con i pochi che ci sono. Bisogna aggiungere l’erosione subita dagli altri organi ispettivi: Inps e Inail. Il primo – si legge nell’audizione del presidente Pasquale Tridico – aveva oltre 1.500 ispettori nel 2012, scesi oggi a 1.083. Il riflesso è sui dati delle aziende ispezionate: oltre 80 mila sette anni fa, meno di 15 mila nei primi dieci mesi del 2019. Quanto all’Inail, gli addetti ai controlli erano 367 nel 2010 e sono diventati 279 nel 2019. Scenderanno sotto i 250 nel 2020.

Non è solo un problema di numeri. I nuovi ispettori non saranno più suddivisi tra Ispettorato, Inps e Inail, ma – come detto – saranno coordinati da un’unica agenzia. Gli attuali andranno “a esaurimento” e saranno sostituiti da ispettori unici. Questo spaventa gli addetti ai lavori, perché si rischia di perdere la specificità di ogni ente e chiedere ai nuovi arrivati di essere tuttologi. Tra i critici c’è il presidente dell’Inps Tridico. “L’introduzione del ruolo a esaurimento – ha spiegato alla commissione – sta determinando una sempre minore incisività nella lotta all’evasione contributiva ed alla simulazione dei rapporti di lavoro che costituiscono invece, in ragione delle peculiari competenze ispettive nelle materie previdenziali ed assicurative, i capisaldi della mission del personale ispettivo di Inps e Inail”. Meno scettico sembra Alestra: “Indubbiamente assemblare competenze e conoscenze disomogenee tra loro – ha detto – diventa complicato, è un problema di formazione che può essere superato”. In maggioranza ci sono pressioni affinché si riveda il ruolo a esaurimento. In testa a chi vuole una “contro-riforma” di quella parte del Jobs Act c’è l’ex sottosegretario al Lavoro Claudio Cominardi (M5S).

Nel frattempo, il personale dell’Ispettorato è in protesta. I sindacati chiedono di accelerare con le assunzioni e vogliono che si equipari lo stipendio dei dipendenti Inl con quello dei colleghi di Inps e Inail. Il 13 dicembre, molti ispettori della Fp Cgil si sono riuniti a Roma. “Ognuno di noi controlla 80 aziende all’anno – ha raccontato uno di loro – e abbiamo accumulato oltre due anni di ritardi sulle denunce”.

La magra consolazione è che i singoli controlli diventano sempre più efficaci e migliorano i recuperi dell’evasione. In valore assoluto, però, sono ben lontani da quelli realizzati negli anni passati. Insomma, sono un buon investimento per lo Stato e vanno aumentati. Anche il 2019, tra l’altro, è stato un anno nero per le morti sul lavoro: secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna sono state 1.437. Solo 13 in meno rispetto al 2018, anno in cui però le statistiche risentono degli incidenti nei quali hanno perso la vita più persone contemporaneamente, come il crollo del Ponte Morandi a Genova.

Imporre alle aziende il rispetto della sicurezza senza l’efficacia deterrente di un alto numero di controlli rischia di essere difficile.

La “norma Sogei”. Così il Tesoro soccorre la sua Spa

Il guaio Sogei sta agitando il ministero dell’Economia. La storia è esemplare dell’assenza di pianificazione nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico che premia sempre il privato nonostante i 43 mila beni gestiti dall’Agenzia del demanio. La società in house del Tesoro, che gestisce i servizi informatici della Pubblica amministrazione, ha un grosso problema: il contratto d’affitto di uno dei due edifici della sede principale a Roma, in via Carucci, è scaduto e il proprietario vuole rinnovarlo solo a un canone più elevato. Si tratta della Torre Sgr, controllata al 62,5 per cento dal colosso americano Fortess e al 37,5 per cento da UniCredit. In Italia gestisce fondi con un patrimonio immobiliare di 1,4 miliardi di euro . Quello proprietario del palazzo in via Carucci vede come primo quotista la stessa Fortress. A lei, Sogei versa un canone di 2,5 milioni l’anno, che ora non basta più. Torre è in posizione di forza: la società del Tesoro non vuole rinunciare all’immobile, su cui ha effettuato diversi lavori, tanto più che nel palazzo adiacente si trova il Ced (Centro elaborazione dati) della Pa. In alternativa, Torre ha proposto di acquistare l’immobile.

Sogeiha però le mani legate. Negli ultimi anni il ministero ha imposto una corposa spending review sui costi di locazione, anche alle società in house e Sogei si è adeguata (dal 2015 li ha ridotti di 400 mila euro). Per questo al Tesoro si sono messi al lavoro.

Il tema sta molto a cuore ai piani alti di via XX Settembre: a presiedere Sogei c’è Biagio Mazzotta, Ragioniere generale dello Stato e nel cda siede Valentina Gemignani, direttore generale del gabinetto del ministro Roberto Gualtieri. La soluzione è stata trovata: l’immobile lo acquisterà l’Inail, l’ente che assicura i lavoratori dagli infortuni, che poi a sua volta lo affitterà a Sogei. Nel decreto fiscale di fine anno, il ministero ha inserito un articolo che modifica una legge del 2010 che permette all’ente pubblico di usare l’avanzo di cassa per comprare immobili e affittarli a canone calmierato alla Pa, riducendo i costi di locazione. Stavolta il meccanismo viene esteso anche “alle società in house”, finora escluse perché si tratta di Spa, formalmente soggetti privati. La norma è generale, ma tutti sanno che è studiata per Sogei. Si arriva così alla beffa. Gli immobili di via Carucci erano infatti di proprietà del demanio: furono girati nel 2002 dal ministero a Fintecna, controllata della Cassa Depositi e Prestiti, che li ha poi venduti due anni dopo. Uno è stato preso da Sogei, che già vi aveva la sede, il secondo se lo è accaparrato Torre. All’epoca era la sede dell’Agenzia delle Entrate, che lo ha lasciato nel 2008. A quel punto, come prevedibile, Sogei ha deciso di trasferire lì gli uffici periferici. Torre ha fatto un affare e oggi lo Stato se lo ricompra dallo stesso privato a cui l’aveva venduto e a cui ha finora pagato fior di affitti negli anni.

Ai piani alti del Tesoro non hanno però fatto i conti con le difficoltà dell’Inail a esaudire i desiderata ministeriali. Negli anni all’ente è stato chiesto un po’ di tutto. Oltre all’acquisto di immobili da riaffittare alla Pa, dal 2015 la legge di Bilancio permette di finanziare nei suoi piani triennali di investimento “iniziative di elevata utilità sociale”, specie edilizia sanitaria e scolastica.

Nel 2015 le richieste di finanziamento ammontavano a oltre 1,7 miliardi, mentre a fine 2018 i soli investimenti in edilizia sanitaria individuati ammontavano a 2,7 miliardi. Progetti su cui a volte il collegio dei sindaci pare avere da ridire. Il 12 dicembre scorso, per dire, il direttore generale dell’Inail, Giuseppe Lucibello ha scritto a Palazzo Chigi e al Tesoro, oltre che a tre ministeri (Lavoro, Salute, Scuola) per lamentarsi dei continui rilievi. “Negli ultimi tempi – si legge nella missiva – le funzioni attribuite al collegio vengono espletate in maniera a dir poco singolare, con pretestuose richieste, osservazioni capziose e, ultimamente, con inaccettabili sconfinamenti nel merito delle scelte amministrative”.

Il casus belliè l’investimento per la creazione di un centro ricettivo dentro il Parco dell’amicizia dei popoli a Costermano sul Garda (Vr), che ospita il cimitero militare germanico. Lucibello lamenta che nonostante il parere favorevole di Palazzo Chigi e dei ministeri, il collegio dei sindaci continua a opporsi e questo “delinea una fattispecie tipica e patologica delle difficoltà di decollo degli investimenti, con contorni paradossali e frustranti, visto l’inaccettabile gap esistente tra risorse disponibili, stanziate ed effettivamente impiegate”. Questo andazzo, sostiene, ha “compromesso il clima in cui questi uffici lavorano”, e per questo, annuncia Lucibello, l’Inail ha deciso di sospendere tutte le iniziative immobiliari in atto in tutta Italia, non solo quelle “a elevata utilità sociale, edilizia sanitaria e scolastica” ma – avverte, ben sapendo quanto il tema sia caro al Tesoro – anche l’acquisto di immobili da adibire a locazione passiva alle Pubbliche amministrazioni che “in virtù del decreto Fiscale, ricomprendono ora anche società in house”. Insomma: caro ministero, se vuoi risolvere la grana Sogei, prima risolvi i problemi che paralizzano gli investimenti dell’Inail. C’è da scommettere che lo farà.

Partono i blocchi: interessata mezza Lombardia, Torino e l’Emilia

Il 2020 comincia con l’ennesimo allarme smog in tutto il bacino padano, dal Piemonte all’Emilia-Romagna. La concentrazione nell’aria delle polveri sottili ha avuto una nuova impennata, favorita dall’assenza di piogge e venti, che non sono previsti neppure per i prossimi giorni, e in alcuni casi anche dall’esplosione dei fuochi d’artificio a Capodanno. Tornano quindi in vigore le limitazioni del traffico, estese dalle grandi città a tanti Comuni del circondario.

A Torino fermi da oggi, e almeno fino al 7 gennaio, anche i veicoli diesel euro 4.

Nelle province di Milano, Pavia, Monza e Brianza, Cremona, Bergamo e Como stop temporaneo ai diesel (fino agli euro 4), con obbligo di spegnimento dei motori in sosta. Il provvedimento riguarda anche il riscaldamento domestico (con limitazione all’uso di generatori di biomassa legnosa di classe inferiore alle tre stelle e riduzione di un grado nelle abitazioni) e l’agricoltura (con il divieto di spandimento di liquami zootecnici e divieto assoluto di combustioni all’aperto).

Anche a Modena le limitazioni sono prolungate fino al 6 gennaio. A Roma, invece, nella Fascia Verde oggi c’è divieto per motoveicoli pre “Euro 1” ed autoveicoli fino a “euro 2”.

“Siete la destinazione naturale”. Così parlò il generale americano

La radicale smentita diffusa il 31 dicembre dal ministero della Difesa è affidabile, le voci che circolano da giorni sul trasferimento di ogive nucleari dalla Turchia all’Italia sono chiacchiere “totalmente prive di fondamento”. Il fatto che se ne parli significa, però, che la Turchia non è attualmente percepita come partner affidabile dagli Stati Uniti e dall’Alleanza atlantica; e comporta che, in Italia, si creino fibrillazioni nell’alleanza di governo, specie dentro il M5S.

Tutto nasce dai comportamenti conflittuali della Turchia di Erdogan verso Ue, Nato, Usa, a Cipro, in Libia, in Siria, nel Mediterraneo; e dalle linee di credito, politico e militare, aperte con la Russia, da cui Ankara ha acquistato missili S400, e con l’Iran. L’idea d’un trasferimento di ogive dalla Turchia in Italia è contenuta in un’intervista a Bloomberg del generale a riposo dell’Air Force, Chuck Wald: 50 testate nucleari Usa dalla base di Incirlik in Anatolia ad Aviano, in Friuli Venezia Giulia (che Wald comandò a metà anni 90).

Partendo dalle tensioni tra Usa e Turchia, nonostante i rapporti tra Trump ed Erdogan appaiano buoni, il generale vede la necessità di ricollocare le testate: “Data la crescita dell’antiamericanismo in Turchia, abbiamo urgentemente bisogno di ricollocare le armi nucleari che abbiamo nella base di Incirlick e che non hanno più l’utilità strategica del passato. Dobbiamo spostarle. Idealmente, la nuova destinazione dovrebbe essere sul suolo europeo e una possibilità potrebbe essere la base d’Aviano. Da un punto di vista logistico non ci sarebbero difficoltà”.

Un parere, quello del generale Wald, competente e informato, ma nulla di più. Decisioni del genere, ricorda il ministero della Difesa, “vengono collegialmente discusse fra i Paesi della Nato!” perché quelle ogive, pur statunitensi, sono parte dell’ombrello nucleare dell’Alleanza atlantica. E, finora, a Bruxelles non se ne sarebbe parlato, né il tema sarebbe stato evocato un mese fa quando a Londra un Vertice ha celebrato il 70° anniversario della Nato.

Basta, però, l’ipotesi a innescare reazioni e polemiche: emerge la preoccupazione che i siti nucleari possano diventare obiettivi di attacchi terroristici o di ritorsioni belliche. Anche nel 2016, quando ci fu un altro momento difficile tra Ankara e Washington, a causa della Siria, si diffuse la notizia che fosse imminente il trasloco delle testate dall’Anatolia ad Aviano, ma nei fatti le 50 bombe atomiche sono finora rimaste a Incirlik.

In Europa, secondo un documento di aprile della Commissione per la Sicurezza e la Difesa dell’Assemblea parlamentare Nato sono presenti 150 bombe nucleari, di cui 90 del tipo B61 sarebbero in Italia, 50 ad Aviano e 40 nella base aerea di Ghedi a Brescia. Secondo altre fonti, in Italia le ogive nucleari sono solo 30, tutte ad Aviano.

Armi nucleari in Italia Bonelli: “Fare chiarezza”

Anche nel profondo nord tutto cambia per non cambiare. Aerobase di Ghedi in provincia di Brescia: anno nuovo bombe nuove, ma intanto si comincia dai lavori di adeguamento per i nuovi cacciabombardieri F-35. La notizia parte da lontano: l’ex generale Charles Chuck Wald della Us Air Force all’agenzia Bloomberg a novembre annuncia il trasloco dalla Turchia all’Italia. Il motivo? Troppo rischiosa l’infedeltà politica di Erdogan. La notizia ripresa dal Gazzettino viene smentita dal dicastero della Difesa. Intanto Angelo Bonelli coordinatore dell’esecutivo dei Verdi pone la questione : “Continua il silenzio del Governo sull’arrivo in Italia delle 50 armi a testata nucleare provenienti dalla base turca di Incirlik. Nessun cenno, nessuna reazione anche dai gruppi parlamentari di fronte alla trasformazione del nostro paese nel più grosso arsenale di armi nucleari di Europa”. Secondo il bando di progettazione del ministero della Difesa nella località bresciana nuovi hangar potranno ospitare fino a 30 caccia F-35 con 60 bombe nucleari B61-12, il triplo delle attuali B-61. Velivoli che andrebbero a sostituire l’attuale dotazione di caccia Tornado IDS – configurati per l’attacco nucleare in gergo tecnico: “con capacità aerea non convenzionale”, armamentario Lep (Life Extension Program) B61 – già presenti. Nella bassa bresciana quindi tutto procede in modo spedito, nel silenzio generale. A livello locale è il sito on line Brescia Today a fornire indicazioni sull’adeguamento della base: il nuovo hangar per la manutenzione, una trentina di shelter (i ricoveri per gli aerei) e altri 15 hangar più piccoli. Oltre 91 milioni di euro la spesa complessiva per il completamento delle opere che si è aggiudicata l’impresa Matarrese di Bari. Si parla di un ribasso d’asta di quasi 30 milioni.

Le bombe a Ghedi sembrano far parte della tradizione locale. Lorenzo Borzi primo cittadino aveva dichiarato: “Al sindaco non è dato avere questo tipo di informazioni”. Il Centro Sociale 28 maggio coordinato da Beppe Corioni è la sola realtà che persevera nell’organizzare manifestazioni per sensibilizzare la popolazione. I rappresentanti politici di ieri, oggi e pare anche di domani, sull’argomento si squagliano. Il sacerdote don Fabio Corazzina lancia la proposta che la Diocesi aderisca alla campagna per il disarmo. Il Comune di Brescia organizza 15 giorni di Festival della Pace: concerti e interventi, ma nessun appuntamento dedicato alle atomiche locali. Insomma pace sì ma meglio un sorvolo sulla questione Ghedi; il paese è peraltro privo di piano di sicurezza e di evacuazione per la cittadinanza nello sventurato caso di fughe contaminanti. L’ultimo opuscolo su come comportarsi se si verificasse un incidente risale a 30 anni fa.

“Il prefetto teneva i soldi del ministero”

Una mazzetta, di 700 euro, intascata in diretta. A pochi giorni dall’avviso di garanzia, il prefetto di Cosenza Paola Galeone è finito ai domiciliari. Lo ha deciso il gip che ha accolto la richiesta di arresto formulata dal procuratore Mario Spagnolo. L’accusa è induzione a dare utilità. Tutto è iniziato il 23 dicembre quando la presidente dell’associazione nazionale interculturale mediterranea (Animed) Cinzia Falcone è stata avvicinata dal prefetto Galeone.

Un incontro informale nel corso del quale il prefetto ha prima informato la Falcone di alcuni problemi nei documenti per partecipare a una gara per l’affidamento dei centri collettivi di accoglienza “alludendo all’inutilità di ricorsi amministrativi e lungaggini” e poi, all’improvviso, ha cambiato discorso: “Cinzia, – le avrebbe detto – tu hai sostenuto dei costi. Io ho un fondo di rappresentanza in cui residuano 1.200 euro, se mi fai una fattura da 1.200 euro, 500 te li tieni tu e la differenza me la giri”.

Per gli inquirenti, quella “differenza” era la mazzetta che sotto forma di una fattura da 1.220 euro. Soldi che il prefetto voleva far comparire come spese di organizzazione di un convegno sulla violenza di genere co-organizzato il 29 novembre scorso al teatro Rendano da Cinzia Falcone e dalla prefettura di Cosenza.

Stando al piano criminale della Galeone, “l’importo, regolarmente fatturato, – è scritto nell’ordinanza di arresto – sarebbe gravato su un fondo di rappresentanza con un saldo attivo che sarebbe ritornato al ministero erogante se non usato entro fine anno”. Un’operazione “giustificata dal fatto – si legge nell’ordinanza – che erano residuati soldi in bilancio che era inutile restituire al ministero, non avendo lo Stato mai rimborsato una parabola satellitare acquistata personalmente dal suo fidanzato”.

Quello che il prefetto non aveva calcolato è che la presidente dell’Animed si sarebbe rivolta alla squadra mobile di Cosenza. Cinzia Falcone ha raccontato di temere che la Galeone potesse ostacolare il rimborso di crediti per 300 mila euro che la sua associazione vanta nei confronti della prefettura per la gestione di un centro di accoglienza straordinario. D’accordo con la polizia, quindi, scatta la trappola e appena la presidente dell’Animed invia la fattura al prefetto, dal suo cellulare parte il messaggio di risposta: “Io ti stimo e faremo tanta strada assieme”. “Buongiorno, quando vuoi per quel caffè”. È il 28 dicembre il giorno fissato per lo scambio della mazzetta. Intascata la busta, il prefetto voleva dare 100 euro alla Falcone dicendole: “Comprati i biscotti… stai calma, respira”.

Fuori dal locale, ad attendere il prefetto Galeone c’erano gli uomini della squadra mobile guidati da Fabio Catalano. Per mancanza di requisiti l’associazione sarebbe stata esclusa comunque dalla gara per l’affidamento dei centri collettivi. La Galeone lo sapeva ma questo non le ha impedito di rivolgersi alla presidente dell’Animed. Il provvedimento di arresto è stato notificato a Taranto dove il prefetto Galeone si trova dopo che ha chiesto l’aspettativa. Nell’ordinanza, il gip Letizia Benigno ha sottolineato la tendenza dell’indagata “alla commistione tra il denaro proprio e il denaro di pertinenza della prefettura”.

Giustizia, 251 neo magistratiattendono di essere “assunti”

Quando hanno sostenuto le prove scritte era il gennaio del 2018. Al governo c’era il dem Paolo Gentiloni, il ponte Morandi a Genova era ancora in piedi e Stephen Hawking ancora in vita.

Sono passati due anni e i 251 neo-magistrati vincitori del concorso bandito a maggio 2017 aspettano ancora il decreto di immissione in ruolo. La loro storia è da record: mai in Italia era trascorso tanto tempo tra la fine della selezione – gli ultimi orali risalgono allo scorso 6 maggio – e l’inizio del tirocinio negli uffici giudiziari.

Di solito ci vogliono al massimo tre mesi, qui siamo già a otto. Un ritardo ancor meno spiegabile se si pensa che alla magistratura italiana mancano oltre 1.600 uomini e donne, tra scoperture (1.008 posti vacanti sui 9.991 attuali, il 10,1%) e aumenti di organico promessi ma non ancora realizzati (i 600 magistrati in più previsti nella legge di Bilancio 2019, che nei prossimi 3 anni dovrebbero portare il totale dell’organico a 10.591).

Chi si oppone al blocco della prescrizione dopo il primo grado, in vigore per i reati commessi dal 1° gennaio, dice che la riforma è pericolosa se non accompagnata da misure volte a ridurre i tempi dei processi. Ma perché allora tenere ai box tante energie fresche, in grado di far respirare procure e tribunali in affanno?

Il problema, manco a dirlo, sono i soldi. Già in primavera, al ministero della Giustizia si capisce che non ci sono le coperture per assumere le giovani toghe nell’anno in corso. Ma la legge parla chiaro: dopo il concorso il Csm ufficializza la graduatoria, e da quel momento il Ministro ha venti giorni per firmare il decreto di nomina. Non rispettare il termine, però, non rende l’atto invalido, ma implica una semplice responsabilità politica. Così per Alfonso Bonafede inizia la “missione 2020”: le assunzioni devono slittare all’anno nuovo, costi quel che costi.

Un assist arriva proprio dal Csm, che il 24 luglio approva una prima graduatoria “con riserva”, perché il padre di una candidata vincitrice è stato intercettato dalla Procura di Napoli mentre cercava aiuti per far passare il concorso alla figlia. In teoria ciò non impedisce che almeno gli altri 250 possano iniziare il tirocinio, ma il Ministro coglie al volo l’occasione e rispedisce l’atto a palazzo dei Marescialli (un inedito assoluto) chiedendo di sciogliere la riserva sul caso prima di emettere il decreto.

Così si arriva al 16 ottobre, quando esce la seconda graduatoria, stavolta definitiva: la candidata è ammessa. Ma i 20 giorni passano e il decreto ancora non arriva. E i 251 vincitori iniziano a preoccuparsi per il loro destino, tanto più che nessuno si preoccupa di far sapere loro qualcosa.

Le pec (posta elettronica certificata) indirizzate al Ministro o al suo capo di Gabinetto rimangono senza risposta: i soli aggiornamenti, informali, vengono dai funzionari di via Arenula.

È da loro che, il 16 novembre, i neo-magistrati apprendono che il decreto è stato sì firmato, ma rimandato subito indietro dalla Ragioneria generale dello Stato, perché la norma di copertura è inidonea. E Bonafede lo sapeva dall’inizio. “Comprenderà il nostro sconcerto – scrivono al Guardasigilli qualche giorno dopo – nell’apprendere una notizia che ben poteva esser resa nota già all’esito delle prove d’esame; a ciò si aggiunga che da più parti, compresi gli uffici del suo ministero, ci veniva confermato che i motivi del ritardo erano da ricondurre esclusivamente alla nota riserva, non appena sciolta la quale si sarebbe proceduto con la nomina. Siamo a richiederle dovute delucidazioni in merito, anche in virtù del principio di trasparenza della pubblica amministrazione di cui siamo diretti interessati”.

Risposte? Ancora nessuna. Anche se i fondi adesso ci sono: l’articolo 1, comma 416, della legge di Bilancio 2020 stanzia 13,9 milioni per l’anno a venire, che aumentano progressivamente fino a 25,6 milioni (nel 2029).

E il ministro, su Facebook, annuncia “più magistrati, con 250 nuove assunzioni”. Dal suo staff giurano che il decreto arriverà entro il 10 gennaio. Ma le neo-toghe ormai sono disilluse. “Alcuni di noi hanno superato l’orale più di un anno fa”, si sfoga uno dei vincitori. “Nel frattempo siamo in attesa, molti di noi senza lavoro e stipendio. Preferiremmo che il ministro ci dicesse qualcosa, invece di farsi bello sui social”.

Il candidato FdI perdonò la bandiera skinhead

Aveva assolto un sottoposto perché, nonostante tenesse nel suo ufficio una bandiera da skinhead, risultava “essere sempre stato alieno non solo dal partecipare a manifestazioni neonaziste ma anche dall’aver mai espresso tali riprovevoli manifestazioni del pensiero”. Adesso Raffaele Fedocci, comandante del V reggimento carabinieri “Emilia Romagna” si è candidato alle prossime elezioni regionali del 26 maggio con Fratelli d’Italia. Fedocci, attualmente in aspettativa, è stato uno dei protagonisti della controversa vicenda che portò su tutte le prime pagine dei giornali un giovanissimo carabiniere classe 1995 di Rieti, da poco in servizio a Firenze.

Il 2 dicembre 2017 il cronista de Ilsitodifirenze.it, Matteo Calì, fotografò dalla finestra l’ufficio del giovane appuntato della caserma Baldissera, sede del VI Battaglione carabinieri Toscana e degli uffici del comando regionale: sul muro troneggiava una bandiera da guerra del Secondo reich tedesco (Reichskriegsflagge) utilizzata da gruppi di skinhead e gruppi neonazisti di tutta Europa. Il carabiniere fu sottoposto a procedimento disciplinare e tre mesi dopo gli fu inflitta la sanzione: tre giorni di consegna semplice. Il procuratore militare Marco De Paolis spiegò che forse non era stato commesso alcun reato “ma c’è un problema disciplinare e un grande problema culturale”. I legali del giovane però fecero ricorso dicendo che il proprio assistito era appassionato di storia e non conosceva “l’uso distorto della bandiera”. In appello la palla passò al comandante emiliano Fedocci che a maggio 2018 assolse il giovane appuntato, attaccando il giornalista che aveva pubblicato la foto del vessillo: “solo gossip da rotocalco”. E la bandiera? “Motivazioni araldiche e storiche suffragate da una passione per la storia”.