Alitalia, a rischio nullità la nomina di Leogrande

Da una stazione all’altra è ormai diventata una via crucis la vicenda dell’Alitalia. L’ultimo atto doloroso riguarda la nomina del commissario straordinario, Giuseppe Leogrande, decisa dal governo dopo settimane di preoccupate riflessioni. A nemmeno 15 giorni di distanza dalla scelta operata dal ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli con la collaborazione della senatrice Giulia Lupo a cui il Movimento 5 Stelle ha affidato il dossier dell’ex compagnia di bandiera, si scopre che quella nomina, presentata come l’avvio di una nuova fase virtuosa, potrebbe saltare. Il motivo del possibile annullamento è soprattutto, anche se non esclusivamente, di natura procedurale, un vizio di forma, ma si sa che in queste storie di nomine la forma non è tutto, ovviamente, ma va comunque rispettata.

Il fatto che ha portato alla sorprendente scoperta è esterno ad Alitalia: riguarda un’altra impresa fallita, la Società italiana per Condotte d’acqua (Condotte). Ma si interseca con Alitalia per i criteri di nomina dei commissari. Secondo una sentenza del Tar del Lazio pubblicata il 30 dicembre i criteri adottati non erano quelli legittimi che erano stati introdotti con una direttiva nell’estate 2018 dall’allora ministro del Mise Luigi Di Maio, che cambiò il sistema delle nomine dei commissari nelle procedure di amministrazione delle grandi imprese in stato di insolvenza con l’obiettivo di limitare l’aspetto politico e discrezionale nella scelta volendo introdurre elementi di maggiore trasparenza ed equità. Quella riforma non ha però avuto un gran successo nell’applicazione pratica. A nemmeno un mese di distanza dal suo varo non fu rispettata in occasione della scelta dei commissari di Condotte.

E più di recente è stata di nuovo ignorata quando si è trattato di nominare il nuovo commissario Alitalia che dovrà sostituire i tre precedenti, Stefano Paleari, Enrico Laghi e Daniele Discepolo. I quali, tanto per complicare ancora di più le vicende non hanno abbandonato immediatamente la carica, rimanendo al loro posto probabilmente fino alla fine di gennaio, con l’obiettivo dichiarato di garantire continuità nella gestione. Cioè continuità in quella condotta implicitamente ritenuta insufficiente dal governo. Ancorché poco rispettata la direttiva di Di Maio sui criteri di nomina è però in vigore e non può essere ignorata, pena l’annullamento della procedura. La possibilità che il commissario Leogrande debba lasciare la poltrona ancor prima di essercisi seduto sopra è il nuovo inciampo che rischia di rendere ancora più dolorosa la via crucis Alitalia.

La direttiva di Di Maio sui criteri di nomina è datata 19 luglio 2018 e prevede una serie di passaggi. Il primo è che i soggetti che hanno le carte in regola e ambiscono al ruolo di commissario devono presentare le loro candidature a una commissione che provvederà alla selezione di una rosa di non meno di 5 candidati. La commissione valuta tenendo presente che i commissari non debbano avere incarichi plurimi, abbiano una provata esperienza e possibilmente risiedano vicino all’azienda che dovranno prendere in affidamento. La direttiva prevede che “la scelta dei professionisti da nominare sarà effettuata mediante estrazione a sorte, da tenersi in seduta pubblica, tra i nominativi indicati dalla commissione”. Sia nel caso di Condotte sia per Alitalia questi criteri non sono stati seguiti. A sostegno del mancato rispetto della direttiva era stata invocata al Tar del Lazio nel caso Condotte la necessità dell’urgenza. I giudici amministrativi hanno stabilito che l’urgenza non poteva giustificare la scelta di derogare dalle norme ministeriali. A maggior ragione l’urgenza non può essere ora addotta per Alitalia per la scelta di una nomina politica al di fuori delle regole.

Il procuratore di Genova: “Manutenzione assente”

“Sono crollate due tonnellate di cemento, come se dal soffitto fosse caduta una grande auto. Chissà se avesse colpito una macchina o un pullman”. Il procuratore di Genova, Franco Cozzi, descrive così ciò che è successo la sera del 30 dicembre sull’autostrada A26, ancora una volta in Liguria. I tecnici che lavorano con i pm genovesi hanno raccolto il materiale e lo hanno pesato: quasi duemila chili, altro che ‘calcinacci’ come ha cercato di raccontarla qualcuno. “Ormai si susseguono le spie di inadeguatezza della manutenzione”, sospira Cozzi. E dopo il fascicolo sui viadotti (nato dal disastro del Morandi) e quello sulle barriere antirumore (che ha preso il via da un crollo avvenuto vicino a Sestri Levante nei mesi scorsi) adesso c’è anche quello sui tunnel. L’ipotesi è crollo colposo e non ci sono ancora nomi sul registro degli indagati. I pm sembrano orientati a non chiedere il sequestro del tunnel dove è avvenuto il crollo per agevolare in ogni modo i lavori visto che i disagi autostradali stanno mettendo in ginocchio mezza Liguria.

Intanto, però, anche l’inchiesta sui tunnel si sta rapidamente allargando: la Polizia Stradale ha segnalato alla Procura altre gallerie – tra i caselli di Genova Est e Genova Ovest – dove sono state registrate imponenti infiltrazioni d’acqua. ‘Cascate’ le definisce un agente della Polstrada. I tunnel sotto osservazione sarebbero almeno tre; tra questi anche il famigerato Monte Galletto che gli automobilisti conoscono bene perché almeno dal 2007 è stato oggetto di ricorrenti lavori a causa di una sorgente d’acqua che provocava infiltrazioni, crolli e disagi alla circolazione. Ma, come per i viadotti, il problema sarebbe ben più diffuso: “Su tutta la A12, la Genova-Livorno, in occasione delle ultime violente piogge si sono registrate imponenti infiltrazioni”.

Le stesse che potrebbero aver provocato il crollo di parte della volta del tunnel Berté, vicino a Masone. E qui emergono altri elementi rilevanti per le indagini, a cominciare dalla soffittatura di lamiera che era stata messa in anni recenti proprio per far defluire l’acqua lontano dalla sede stradale, ma che hanno celato i cedimenti del cemento durante i controlli. E qui scoppia il caso dei recenti accertamenti che avevano promosso il tunnel dove si è verificato il crollo. Spea – società del gruppo Autostrade (Aspi) incaricata dei controlli di sicurezza – ha subito sospeso i due tecnici responsabili delle analisi. Non è bastato: Aspi, come già avvenuto per i viadotti, ha deciso di togliere alla controllata le analisi e di affidarsi a società terze. A occuparsi dei controlli sarà un’associazione temporanea d’impresa formata da Proger spa, capofila, Tecno Lab e TecnoPiemonte – specializzate nella certificazione di materiali da costruzione la prima e fornitura di servizi la seconda – e dalla multinazionale francese Bureau Veritas.

Il problema è lo stesso dei viadotti: le opere realizzate tra gli anni 60 e 70 (epoca a cui risaliva il Morandi). Qualcuno invoca difetti di costruzione, ma in Procura puntano sulla manutenzione. Cozzi ci tiene a sottolineare il nodo della questione: “A noi non interessa il braccio di ferro politico che si sta svolgendo a Roma sulla revoca della concessione. La questione ineludibile è questa: non è possibile che sia la società concessionaria ad affidare le verifiche tecniche. Non era sensato che fosse una società controllata a compierle, ma non è opportuno nemmeno che siano svolte da terzi selezionati dal concessionario. Il punto non è nemmeno Aspi, la questione si riproporrebbe chiunque fosse chiamato a gestire le autostrade”. Il procuratore di Genova ne è convinto: “Serve una modifica delle regole. Non può restare nemmeno il dubbio che i controlli siano svolti da soggetti che possano avere come punto di riferimento le necessità del concessionario. Occorre che a selezionare i controllori sia il concedente”, cioè il ministero, “avendo così di mira gli interessi del proprietario: la sicurezza e lo stato di conservazione dei manufatti che a fine concessione dovranno essere restituiti”. È la questione fondamentale tante volte indicata dal gip e dai pm negli atti dell’inchiesta: ci deve essere una separazione netta e assoluta tra controllore e concessionario.

Conte aspetta i pareri tecnici: entro gennaio si decide sulla revoca

L’appuntamento è subito dopo il 6 gennaio. Quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, riunirà i ministri interessati dal nodo autostrade. Con l’obiettivo di mettere a punto un decreto, da approvare entro fine mese, sul nuovo regime delle concessioni, comprese quelle eventualmente da affidare ad Anas per il tempo necessario allo svolgimento delle nuove procedure di gara, così come previsto nel decreto Milleproroghe.

Per i giorni immediatamente successivi alla festa dell’Epifania, infatti, si conta che siano pronti i due pareri richiesti all’Avvocatura dello Stato e alla Corte dei Conti sui patti di concessione attualmente in vigore. Che, a partire dal 2007, hanno stabilito meccanismi tariffari, oltre che una serie di previsioni a favore dei privati, che proprio secondo la Suprema magistratura contabile vanno riviste per garantire più concorrenza e più efficienza gestionale. Comprese quelle clausole che impongono indennizzi assai rilevanti a carico dello Stato in ogni caso di cessazione anticipata della convenzione, persino quando un’eventuale revoca sia disposta in caso di crolli, come quello del Ponte Morandi a Genova gestito da Autostrade per l’Italia, la società del gruppo Benetton, e costato la vita a 43 persone.

Il Movimento 5 Stelle punta apertamente sulla revoca di questa concessione. Su cui si cammina sulle uova nel governo. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, la dem Paola De Micheli che ha preso il posto di Danilo Toninelli (M5S), ieri ha confermato che il dossier di sua competenza è pronto per essere trasmesso a Palazzo Chigi dove poi si dovrà decidere quale strada intraprendere: “Abbiamo troppe evidenze concrete, di situazioni di mancata manutenzione, di ritardi o di manutenzioni fatte secondo criteri che non sono oggettivi”, ha spiegato la ministra che non usa mai la parola “revoca” ma sottolinea che si dovranno valutare tutti gli aspetti della questione, compreso “l’impatto finanziario e soprattutto l’impatto occupazionale di qualunque decisione”. Una decisione che “dovrà essere collegiale perchè il tema delle autostrade è una mina”, precisa Salvatore Margiotta di Italia Viva, mentre da Palazzo Chigi si fa sapere che nessuno nel governo ha posto “veti” di sorta e che l’intenzione è quella di procedere secondo quanto prevede, anzi prescrive, la legge. Il nodo vero però resta quali debbano essere le decisioni da prendere rispetto alle concessioni in essere: è questo ciò di cui si discuterà davvero nel confronto interno al governo.

Lo si è capito in occasione del varo del Milleproroghe, approvato salvo intese, o meglio con il dissenso aperto dei renziani contrari alla norma che prevede il subentro di Anas in caso di revoca, decadenza o risoluzione delle concessioni. E il fronte resta aperto specie ora che le indiscrezioni di stampa attribuiscono ad Anas l’intenzione di chiedere una sorta di scudo penale che possa fungerle da ombrello nel caso davvero il governo dovesse rivedere anzitempo le concessioni.

Messaggi in bottiglia che complicano una vicenda che resta tutta politica.

All’interno del governo giallorosso c’è chi pensa che la concessione affidata ad Autostrade per l’Italia possa essere risolta al massimo per inadempimento, senza escludere il pagamento di un indennizzo al concessionario. E chi invece ritiene debba esser fatta valere la nullità di tutte le clausole contrattuali che prevedono la limitazione della responsabilità dei concessionari, anche in caso di dolo o colpa grave: così, in caso di revoca, lo Stato non dovrebbe loro un solo centesimo. Ma il rischio è che qualcuno nel governo inizi a dire che è un esproprio per mettersi di traverso. Anche per questo si è deciso di attendere i pareri dell’Avvocatura e della Corte dei Conti. Comunque vada è scontata la reazione di Aspi che ritiene incostituzionale il Milleproroghe e di Aiscat, la società dei concessionari che ritiene intoccabili le clausole che si vorrebbero rivedere.

Torna Mazzini e io non so cosa mettermi

Ogni sera compulso trepidante le rassegne stampa tv per confrontare la prima pagina del Fatto con quelle della concorrenza: non sia mai che ci siamo persi qualcosa. Figuratevi la rabbia quando, mercoledì, il rassegnista vagamente cimiteriale che è di turno a Sky ha lanciato il titolone di Repubblica: “2020, il manifesto della giovane Italia”. Mannaggia, mi son detto, è tornato Giuseppe Mazzini e noi non lo sapevamo. Nessuno dei nostri pur validi cronisti aveva segnalato quel po’ po’ di evento. “Domani mi sentono”, ho pensato prima di coricarmi e dormire malissimo, sognandomi la barba del patriota, il nuovo manifesto fresco di stampa e i moti del 2020-’21. Poi, ieri mattina, ho scoperto che il manifesto della Giovane Italia 2.0 altro non era che il messaggio di Capodanno di Mattarella. E, anziché incolpare i miei cronisti, me la son presa con me stesso: anch’io avevo ascoltato il discorso con la dovuta devozione, genuflesso a mani giunte e capo reclinato. Ma non ci avevo capito nulla. Mi era parso un collage dei consigli che mi davano i nonni da piccolo e dei pensierini che scrivevano i miei figli in prima elementare subito dopo le aste. E avevo pensato che Mattarella non avesse detto niente perché non voleva dire niente. Invece no: reclutava i neo-cospiratori della Giovane Italia, ma – data la sua posizione – con messaggi subliminali e cifrati. Che io purtroppo non ho colto, diversamente da corazzieri molto più sgamati di me, che meritano per questo un bel busto al Pincio.

Il primo è Ezio Mauro, uno a cui nulla sfugge e nessuno può darla a bere, ha subito capito che Mattarella, zitto zitto, ha “percepito l’avvio del declino della curva populista che ha segnato i primi vent’anni di inizio secolo” ed è partito in tromba con “la ricucitura della coesione sociale, slabbrata dalle disuguaglianze e dagli squilibri prodotti dalla crisi, ma anche dalla rabbia, dall’odio, dalla ferocia che questi anni avvelenati hanno seminato”. Chi pensava che in quei vent’anni avessero governato B., il centrosinistra e infine il quartetto Monti-Letta-Renzi-Gentiloni si vergogni e arrossisca: c’erano già i “populisti” dell’odio, della rabbia e della ferocia che producevano disuguaglianze a manetta. Meno male che, dalla luna, è piovuto insalutato ospite Sergio Mazzini, alias Giuseppe Mattarella, a regalarci “un cambio di prospettiva”. La sala marmoreo-obitoriale al posto della solita scrivania? No: “il riemergere del senso civico e del patriottismo repubblicano” e l’“emergere di un nuovo profilo di Paese e dell’identità nazionale”. Apperò.

Il che spiega perché il messaggio-manifesto ha avuto “grande eco”, con ben “10 milioni di italiani” davanti alla tv. Il fatto che a quell’ora si potesse guardare solo lui è un dettaglio. Qui c’è ben altro: è “come se ci fosse all’improvviso bisogno di un pensiero repubblicano, di un’altra idea dell’Italia”. In effetti, da qualche tempo, i bar, gli autobus, le metro e i mercati erano tutti un vociare: “Ragazzi, quando arriva ’sto benedetto pensiero repubblicano? Non sto più nella pelle!”, “Non dirlo a me, c’ho un’altra idea dell’Italia che mi scappa non sai quanto!”, “Sì, ma ora ci vuole un manifesto della Giovane Italia!”, “E un nuovo profilo del Paese dove lo mettiamo?”. Però, con tutto il rispetto per Mauro, nel discorso-messaggio-manifesto c’era ben altro, come ci svela il Corriere. Intanto la citazione di Gadda. Non l’avete sentita? Tranquilli: “Mattarella non lo ha citato”. Ma “è chiaro che la pensa allo stesso modo”. Ciapa lì. E poi il “trasparente richiamo ad Aldo Moro”. Il fatto che non abbia nominato neppure lui non inganni: quando ha messo “in contrapposizione le due Italie”, è chiaro che pensava a lui. Tiè. Poi ha auspicato “una nuova ripartenza”, anche se non l’ha mai nominata: mica è Sarri o Conte (l’altro). Però il senso era quello: un manuale di “pedagogia civile”, “molto più politico di quanto sia parso a qualcuno” (qualcuno chi? Né Lui né il Corriere vogliono esplicitarlo, perché è troppo trasparente chi sia). E “l’abrasiva allusione ai mass media e soprattutto alla tv di Stato” con tanto di “sottinteso”, dove la mettiamo? Come abrade Lui, non abrade nessuno.
Secondo La Stampa e secondo Salvini, invece, Mattarella ce l’aveva con Salvini: infatti ha “ribaltato la narrazione sovranista” e “declassato i maldipancia, le rabbie e i risentimenti che Salvini cavalca alla stregua di sfoghi estranei alla vera indole nazionale”. E come declassa i maldipancia lui, non li declassa nessuno. Viceversa, per Sallusti, ha “frustato e bacchettato il governo” Conte, ma soprattutto “l’odiatore Di Maio” con un “discorso patriottico” che “sfonda nel centrodestra”. Macché, ribatte Lorenzo Donnoli delle Sardine, “ha parlato come uno di noi”. Senza offesa per Miriam Martinelli di Fridays for Future, sicura che il presidente “ha inquadrato la nostra realtà come nessuno”. Ecco: mezzo Sardina e mezzo Greta (Thun o berg, a scelta). Per il Sole 24 Ore, abbiamo il nuovo “Padre della Patria”, anzi lo “statista moralizzatore”. Peccato, nota Samsonite sul Riformatorio, che non abbia parlato della prescrizione, per nulla allarmato dal “Codice Travaglio”. E pazienza, è andata così. Antonella Rampino spiega sul Dubbio che Lui “ha composto una prolusione che si dispiega come un arco”, qualunque cosa voglia dire. Corriere e Stampa intravedono messaggi in controluce pure nella sedia donata da un gruppo di ragazzi disabili (“La sedia è un monito”, “La sedia e la citazione”): è la versione moderna della zucca e della ciabatta di Brian di Nazareth. Per dire quante cose ha detto Mattarella l’unica volta che non ha detto niente. Figurarsi se avesse detto qualcosa: oltre a Mazzini, avrebbe resuscitato pure Garibaldi. Con tutti i Mille.

Quei gran copioni di Gaber e Luporini e il saccheggio del “Voyage” di L. F. Céline

Era il 22 ottobre del 1970 quando, al Teatro San Rocco di Seregno, i primi versi di Suona chitarra diedero il via alla seconda vita di Giorgio Gaber (già rockettaro d’avanguardia con Celentano e poi cantante da sabato sera Rai) e alla prima vita di quel che oggi chiamiamo “Teatro canzone”. Cinquant’anni durante i quali, e giusto il 1° gennaio di 17 anni fa, è purtroppo finita anche la seconda vita dell’artista noto all’anagrafe come Giorgio Gaberscik. Quello che segue è dunque un piccolo (e dilettantesco) tentativo di omaggio filologico al Signor G, al suo alter ego nell’ombra, il pittore Sandro Luporini, e alle decine di loro involontari “coautori”.

L’attitudine al saccheggio culturale del duo G&L, capaci di usare come materiale da costruzione teatrale tutto quel che gli era restato nell’orecchio o negli occhi dopo anni di letture, è d’altronde leggendaria: ad esempio, state leggendo queste righe su uno di “quei bordelli del pensiero che chiamano giornali” (C’è un’aria), rielaborazione di un passo delle Illusioni perdute di Balzac proprio come il “gabbiano ipotetico” di Qualcuno era comunista è parente del “condor ipotetico” del poeta portoghese Fernando Pessoa.

Un’attitudine al riuso culturale, va detto, mai nascosta dal duo Gaber e Luporini, anzi esibita tanto nei libretti degli spettacoli che nelle interviste: “Abbiamo saccheggiato Céline, Adorno, Pessoa… perché copiare da uno è plagio, copiare da tanti è ricerca, si sa” (Sandro Luporini nel 2013). E la lista è in effetti lunghissima e, oltre alla letteratura di mezzo mondo, andrebbero citati almeno gli antipsichiatri tipo Ronald Laing, quello dell’Io diviso. Davvero “da Marcuse fino a Dante” come cantava Gaber in La leggerezza riassumendo il “pacco di coscienza” che il volenteroso intellettuale di sinistra si doveva portare sulle spalle alla metà dei Settanta del secolo scorso (“c’è pure Fellini… com’è pesante!”).

Questo piccolo omaggio sarà, però, settoriale e si occuperà solo dello “scrittore creato da Dio per dare scandalo” (Bernanos), Louis-Ferdinand Céline: “Ma perché lui? Perché c’è in Céline la possibilità di un linguaggio teatrale immediato. Céline in un’intervista (…) dice che la sua non è letteratura, è vita, la vita così come si presenta. Il teatro vuole una lingua viva” (ancora Luporini, nel 2005).

L’esercizio riguarda in particolare Viaggio al termine della notte, il cui protagonista Ferdinand Bardamu cela appena il dottor Destouches, vero nome dello scrittore francese: già negli anni Settanta la copia di Luporini – che lo cita tra “i tre libri per me davvero importanti” coi Minima moralia di Adorno e Il libro dell’inquietudine di Pessoa – era logora a forza di “orecchie, segni e segnetti”. Ad esempio La dentiera, lungo monologo inserito nello spettacolo Far finta di essere sani, “è un omaggio a Céline”: “E quando dico omaggio è chiaro che voglio dire che l’idea è sua (…). Qua e là poi c’è anche qualche parola nostra”. Una sola frase a titolo di esempio: “In qualche mese come cambia una camera, anche quando non si tocca niente. Per quanto vecchie, per quanto degradate siano, le cose, trovano ancora, non si sa dove, la forza di invecchiare”, scrive Céline. “La stanza di un malato cambia. Le cose, le bottiglie, trovano sempre, non si sa come, la forza di invecchiare”, nella versione G&L.

Quello che segue è dunque un minimo e assai incompleto catalogo di citazioni per dare almeno l’idea di quanto del Viaggio di Céline ci sia in quello di Gaber e Luporini tra gli anni Settanta e Ottanta: d’altra parte – lo disse lo stesso Signor G in un’intervista – “dal suo spirito anarcoide abbiamo preso moltissimo: forse è stato il nostro principale maestro”.

Famiglia“Dovevo aver preso quel terrore da mia madre che mi aveva contaminato con le sue tradizioni: ‘Si ruba un uovo… E poi un bue e si finisce per assassinare la madre’. Cose che tutti abbiamo fatto una gran fatica a sbarazzarcene. Le impari da piccolo e vengono a terrorizzarti senza scampo, più tardi, nei momenti cruciali. Per disfarsene si può appena contare sulla forza delle cose. Fortunatamente, è enorme la forza delle cose…”.

In casa mi hanno un po’ contaminato con certe sane tradizioni. Il lavoro nobilita l’uomo… Si ruba un ago, poi un bue… e si finisce per vendere la propria madre. Non è facile liberarsi dall’onestà. Ma ora la pentola bolle… anche se quelle cose lì ce ne vuole per sbarazzarsene, ti entrano dentro da piccolo e tornano a terrorizzarti… quando stai per rubare l’ago. Che debolezze! Per liberarsene si può contare solo sull’urgenza delle cose (…). Per fortuna l’urgenza delle cose è enorme (Introduzione, Libertà obbligatoria).

Strada “Tutto deve finire per passarci, nella strada. Quella solo conta (…). Nelle case, niente di buono. Quando una porta si chiude dietro un uomo, lui comincia subito a puzzare e tutto quel che si porta dietro puzza anche. Passa di moda sul posto, corpo e anima (…). Conosco per esempio un farmacista che ha un bel manifesto in vetrina: Tre franchi la scatola per purgare tutta la famiglia! Un affare! Giù rutti! Si fa tutto insieme, in famiglia”.

Nelle case / non c’è niente di buono / appena una porta si chiude / dietro un uomo / Quell’uomo è pesante / e passa di moda sul posto / incomincia a marcire / a puzzare molto presto (…). Ne ho conosciute tante di famiglie, la famiglia è più economica e protegge di più. Ci si organizza bene: una minestra per tutti, tranquillanti aspirine per tutti, gli assorbenti il cotone i confetti Falqui, soltanto quattrocento lire per purgare tutta la famiglia! Un affare! Si caga, in famiglia, si caga bene, lo si fa tutti insieme (C’è solo la strada, Anche per oggi non si vola).

Viaggio “L’infinito si spalanca solo per voi, un ridicolo piccolo infinito e voi ci cascate dentro… Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni…”.

Ti basta un paese nuovo e il cuore ti si emoziona, la testa ti gira, un infinito si apre nuovo per te, un ridicolo, piccolo infinito. E tu ci caschi dentro. Il viaggio è la ricerca di questo nulla, di questa piccola vertigine per ingenui (L’ingenuo, Polli d’allevamento).

Sesso “Hanno cominciato a incularsi, per cambiare… E allora di colpo si sono messi a provare ‘impressioni’ e ‘intuizioni’…”.

E anche nell’amore / non riesco a conquistare la vostra leggerezza / non riesco neanche a improvvisare / o a fare un po’ l’omosessuale / tanto per cambiare (Quando è moda è moda, Polli d’allevamento).

Sconfitta “D’altra parte si finisce tutti per assomigliarsi dopo un certo numero di anni che non si è sfondato. Nelle fosse delle grandi sconfitte un diploma qualunque vale un Prix de Rome. Un problema di autobus che non si prendono esattamente alla stessa ora”.

E dopo un po’ tutti quelli che smettono si rassomigliano. Sul terreno della sconfitta, mi creda, non c’è nessuna differenza tra un filosofo che fa il barista, un ladro in disuso o un rivoluzionario smesso. Tra una decina d’anni saremo tutti uguali certo, uguali nei fallimenti (…) Le persone si uniscono, per un autobus che non hanno preso (Le carte, Libertà obbligatoria).

Smorfia “Si finisce per avere la faccia piena di quella brutta smorfia che impiega venti, trent’anni e più a risalire dal ventre alla faccia. È a questo che serve, a questo soltanto, un uomo, una smorfia, che lui ci mette una vita a confezionarsi e ancora non gli riesce sempre di portarla a termine”.

E dopo vent’anni / si comincia ad avere la faccia / tutta presa da quella smorfia / che avanza sicura con un percorso preciso (…). La smorfia che porta sul viso / l’uomo a confezionarla / ci impiega una vita / e non sempre riesce / a terminarla (La smorfia, Libertà obbligatoria).

Festa “Nessuno in fondo le resiste alla musica. Non hai niente da fare col tuo cuore, lo regali volentieri. Bisogna sentire in fondo a ogni musica l’aria senza note, fatta per noi, l’aria della Morte”.

La musica da ballo / è l’unico linguaggio che riunisce il mondo / c’è chi ci gode smisuratamente / e c’è chi si lamenta della vita / sgambettando / E oltre le note si avverte / il senso dell’aria senza note / che è l’aria della morte (La festa, Polli d’allevamento, che proprio come La dentiera è tutta una rielaborazione celiniana dalle “montagne che non sono russe” a “sono rutti di gioia le feste”).

Vecchiaia “Essere vecchi vuol dire non trovare più una parte passionale da recitare, cadere in quell’intermezzo insipido in cui non si aspetta che la morte”.

Essere vecchi significa non trovare più una parte eccitante fisica da interpretare, e cadere in quello stupido riposo in cui si aspetta la morte (Finale, Libertà obbligatoria).

Solitudine “C’è un momento in cui sei solo, quando sei arrivato in fondo a tutto quello che ti può capitare. È la fine del mondo. La stessa pena, la tua propria, non ti risponde più e bisogna tornare indietro allora, tra gli uomini (…) anche per piangere bisogna ritornare là dove tutto comincia, bisogna ritornare tra loro”.

C’è un momento in cui si è veramente soli, quando si arriva in fondo a ciò che siamo di orrendo, di squallido, ma in fondo, proprio in fondo in fondo, il dolore stesso non mi risponde più, gli occhi sono asciutti perché lì c’è il deserto. Allora bisogna risalire da quel fondo. Piano piano bisogna ritornare tra gli uomini, non c’è niente da fare, anche per piangere (La masturbazione, Polli d’allevamento).

La bella morte “Si direbbe che si può trovare sempre per chiunque una sorta di cosa per la quale lui è pronto a morire e subito e anche contento. Solo che non si presenta mica sempre l’occasione di una bella morte, l’occasione che ti farebbe piacere. Allora si va a morire come si può…”.

Io se fossi Dio / non sarei ridotto come voi / e se lo fossi io certo morirei per qualcosa di importante / purtroppo l’occasione di morire simpaticamente / non capita sempre e anche l’avventuriero più spinto / muore dove gli può capitare e neanche tanto convinto (Io se fossi Dio, Anni affollati).

Carogne “Ce n’ha di pietà la gente, per gli invalidi e i ciechi, e si può dire che ha dell’amore di riserva. L’avevo proprio sentito molte volte l’amore di riserva. Ce n’è moltissimo. Non si può dire il contrario. Solo è una disgrazia che resti così carogna, la gente”.

Infatti non è mica normale / che un comune mortale / per le cazzate tipo compassione e fame in India / c’ha tanto amore di riserva che neanche se lo sogna / che viene da dire ma dopo come fa a essere così carogna (Io se fossi Dio, Anni affollati).

Felicità “Se si vivesse abbastanza a lungo non si saprebbe più dove andare per ricominciare con la felicità. Ne avrebbero messi dappertutto di aborti di felicità, a puzzare in ogni angolo della terra e non si potrebbe nemmeno più respirare”.

Se si vivesse a lungo / non si saprebbe più dove andare / per rifarsi una felicità / Dovunque abbiamo abbandonato / degli aborti di felicità / a marcire negli angoli delle strade (Il delirio, Libertà obbligatoria).

La morte “Sudava delle gocce così grosse che era come se avesse pianto con tutta la faccia. In quei momenti lì, imbarazza un po’ essere diventato così povero e così duro come sei diventato. Ti manca quasi tutto quello che ci vorrebbe per aiutare un uomo a morire (…). Agonizzare non basta. Bisogna godere mentre te ne vai, con gli ultimi rantoli devi godere ancora, giù in fondo alla vita, con le arterie piene di urea. Piagnucolano perché non godono abbastanza i morenti”.

Sudava gocce così grosse, che sembrava piangesse con tutto il corpo. In quei momenti, è seccante essere diventati poveri come si è. Si manca di quasi tutto quello che occorre per aiutare qualcuno a morire (…). Ho avvertito che avremmo potuto capirci, bastava pochissimo, non era un agonizzante esigente. Forse perchè aveva capito, che quando si muore bisogna anche godere. Se i morenti piangono ancora, è perché non godono abbastanza (Il porcellino, Anni affollati).

L’arte dell’evasione: da Kappler a El Chapo

Ferragosto 1977. Quando le autorità italiane dissero che l’ex ufficiale delle Ss Herbert Kappler, il boia della Fosse Ardeatine, era evaso dall’ospedale militare Celio di Roma in modo rocambolesco, prima calato con delle corde da una finestra che stava a 17 metri d’altezza, poi, una volta fuori dell’ospedale, nascosto dentro una valigia Samsonite, pochi ci credettero, perché era roba da Vallanzasca, audace fugaiolo, non da settantenne male in arnese che infatti morirà un paio d’anni dopo. Era non solo una fuga, ma un miserabile affronto verso una comunità che aveva sofferto le disumane rappresaglie dei nazisti e che pretendeva giustizia. Non una fuga per la vittoria, o per scampare ai lager, ai gulag, ai soprusi, all’ingiustizia o più semplicemente per sfuggire ai mandati di cattura, o per evadere di galera. Era una brutta, ignobile storia, piena di bugie, come si scoprirà troppi anni dopo… altro che valigia. Così come oggi ce l’hanno spacciata per la fuga del manager Ghosn, ficcato dentro il contenitore di un contrabbasso. Nulla a che vedere con le magnifiche evasioni musicali di Bach, che compose l’arte della fuga. E men che mai con le imprese eroiche e solitarie dell’uomo solo al comando, in fuga per ore in sella ad una bicicletta, come sapeva fare Fausto Coppi, il campione in fuga “da se stesso”, secondo Gianni Brera che gli fece così l’elogio funebre.

Houdini trasformò l’arte della fuga in mestiere e spettacolo. Il cinema rese celebri quelle da Alcatraz, simbolo della prigione più disumana. Fughe che diventano romanzi popolari, storie accattivanti e, in molti casi, di riscatto e vendetta: l’archetipo è il Conte di Montecristo. Fantasia, creatività, sfrontatezza accompagnano i grandi fuggitivi. Come Giacomo Casanova, il quale raccontò la sua perigliosa fuga dai Piombi di Venezia. O il tenace Papillon, al secolo Henri Charrière, che riuscì a scappare dall’Isola del Diavolo, dopo numerosi tentativi falliti e puniti duramente.

I media vanno a nozze, quando si tratta di fughe. El Chapo, per esempio, al secolo il narcotrafficante Joaquim Guzman, si fa costruire un tunnel di un chilometro e mezzo, con tanto di binari e moto che corre sulle rotaie. Nel luglio del 2015 scappa dal penitenziario di massima sicurezza che non aveva mai subito un’evasione: il buco della fuga è nella doccia, unico spazio della sua cella di isolamento senza copertura video per motivi di privacy, e sparisce, calandosi dal buco giù per dieci metri, con una scala a pioli, prima di raggiungere, tramite una galleria di collegamento, il tunnel.

Il bandito Graziano Mesina è il recordman delle evasioni: ventidue tentate. Ce la fa dieci volte. Durante un trasferimento in treno, beffò chi lo doveva sorvegliare. Però se ne pentì e si costituì. Lui sfruttava le distrazioni dei secondini, escogitava trucchi, usava camuffamenti. Il repertorio del fuggitivo è infinito. Dalle armi finte di sapone e legno colorato, alle lenzuola per calarsi dalle celle, sino agli elicotteri. Il rapinatore Pascal Payet vola via nel 2001, nel 2003 aiuta altri detenuti a far lo stesso con un elicottero noleggiato a Cannes, infine, dopo essere stato arrestato, nel 2007, ripete il colpo, durante i festeggiamenti del 14 luglio. Pure Licio Gelli fuggì in elicottero, la notte tra il 9 e il 10 agosto 1983, dopo essere uscito tranquillamente dal supercarcere di Champdollon, fuori Ginevra, grazie a 20mila franchi intascati dal secondino Edouard Ceresa e a 15mila per pagare il volo fino a Monaco. Gli svizzeri non gli contestarono l’evasione, in quanto diritto riconosciuto ai detenuti. Basta, non violare la legge. Gelli senza usare falsa identità. Ma processarono per corruzione Ceresa.

Oh my Ghosn! Se n’è fuggito nel fodero del contrabbasso

Come Carlos Ghosn abbia potuto raggiungere Beirut mentre viveva sotto stretta sorveglianza a Tokyo resta ancora un mistero. La tv libanese Mtv ha raccontato la più incredibile delle versioni: al termine di una festa con musica e balli nella sua casa di Tokyo, dove si trovava in libertà vigilata, l’ex ceo di Renault-Nissan sarebbe stato segretamente trasferito in aeroporto nascosto dentro la custodia di un contrabbasso.

Un piano rocambolesco orchestrato dalla moglie Carole, con l’aiuto di non precisate “forze speciali”. Forse i fatti non sono andati così. La storia, dopo aver fatto il giro del mondo, sarebbe stata smentita dalla stessa moglie di Ghosn. Diverse fonti concordano invece su alcuni punti: il top manager sarebbe partito da Tokyo a bordo di un jet privato con un passaporto (francese?) valido (malgrado i suoi documenti siano nelle mani degli avvocati giapponesi). Il volo avrebbe fatto scalo a Istanbul, in Turchia, prima di atterrare a Beirut lunedì. Ora tutti gli occhi sono puntati sulla “casa rosa” che Nissan aveva acquistato per Ghosn nel quartiere chic di Achrafieh, a Beirut.

L’ex patron, 65 anni, nato in Brasile da genitori libanesi, è cresciuto in Libano, prima di partire per Parigi e, oltre alla nazionalità francese e brasiliana, ha anche quella libanese. Cronisti e curiosi si ammassano davanti alla villa, custodita notte e giorno da una pattuglia della polizia, ma l’uomo d’affari non si vede. Forse sarò lo stesso Ghosn a far luce sulla vicenda: in un comunicato ha fatto sapere che parlerà ai media la prossima settimana. I guai giudiziari di Ghosn sono iniziati nel novembre 2018 quando la giustizia giapponese lo ha accusato di aver sottostimato deliberatamente i suoi compensi e utilizzato diversi milioni di euro di fondi aziendali a fini personali.

Il 19 novembre 2018 il manager era stato clamorosamente arrestato all’aeroporto di Tokyo mentre rientrava da un viaggio in Libano. Tre giorni dopo era stato dimesso da tutte le sue funzioni a Nissan. Nel pieno dello scandalo, a Parigi si scopriva anche che, nel 2016, il ceo di Renault aveva utilizzato i fondi del gruppo, più di 50 mila euro, per finanziare la sua fastosa festa di nozze con 120 invitati e una torta alta un metro e mezzo nelle sale del Grand Trianon, alla reggia di Versailles. Il 24 gennaio 2019 veniva licenziato anche da Renault. A marzo Ghosn è stato liberato su cauzione e posto agli arresti domiciliari, ma sotto condizioni rigorosissime.

Il suo processo si sarebbe dovuto tenere in primavera. Dopo aver salvato Renault dal fallimento, nel 1996, Ghosn era stato inviato in Giappone nel 1999, al momento della creazione dell’“Alleanza” con Nissan, con la missione di raddrizzare anche il costruttore giapponese, sommerso da oltre 20 miliardi di dollari di debiti. Ghosn aveva chiuso cinque fabbriche in Giappone e tagliato 20mila posti di lavoro meritandosi il soprannome di “Cost Killer”. Ma in meno di tre anni, il gruppo aveva annunciato una crescita superiore al 100%.

Nel 2017 Bloomberg ha scritto: “Se Davos fosse una persona sarebbe Carlos Ghosn”. Ora per il Giappone, Ghosn, che rischiava fino a 15 anni di carcere, è solo un “fuggiasco codardo”. Stando a L’Opinion la fuga deve essere stata “pianificata da settimane” con l’aiuto di “complici” in Giappone. Il suo piano, dicono fonti informate al giornale francese, sarebbe di farsi processare in Libano a condizioni per lui “più favorevoli”. Nel suo comunicato Ghosn, che ha sempre smentito le accuse dicendosi vittima di un complotto, ha fatto sapere di non voler fuggire la giustizia, ma di non voler neanche essere “ostaggio” di un sistema giudiziario “parziale”. Il Libano intanto lo ha accolto a braccia aperte. Per le autorità di Beirut, Ghosn è entrato nel paese “legalmente”.

Le Forze di Mobilitazione Popolare: longa manus di Khamenei a Baghdad

Il bombardamento aereo americano contro le basi della milizia sciita irachena Kathib Hezbollah, sostenuta dall’Iran, nel nord della regione di Baghdad, come atto di ritorsione in seguito all’attacco dell’ambasciata americana nella capitale mediorientale da parte di militanti sciiti, è solo l’ultimo episodio dell’escalation di tensione tra Washington e Teheran, tramite l’Iraq, conclamatasi una settimana fa con il lancio di una serie di razzi contro una base americana nel paese diventato ormai un governatorato iraniano. Razzi inviati, secondo gli analisti militari, da kathib Hezbollah, che fa parte del gruppo ombrello Pmf, acronimo inglese di Forze di Mobilitazione Popolari, nata nel 2004.

Tutte le 63 fazioni armate, per un totale di 70mila combattenti, che ne fanno parte sono sciite e sono sempre più eteroguidate dal generale Soleimani, capo della brigata al-Quds delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, meglio conosciute come Pasdaran, che sovraintende le operazioni estere. Le Guardie Rivoluzionarie mettono in pratica esclusivamente le richieste del gran ayatollah Ali Khamenei, la Guida Suprema della teocrazia islamica iraniana. Ne deriva che le Forze di Mobilitazione Popolari sono la longa manus armata di Khamenei nel confinante Iraq. Ma dal 2014 – dopo aver combattuto contro l’Isis assieme alle forze internazionali a guida americana, formando una di quelle alleanze paradosso tipica dei periodi di ridefinizione degli equilibri geopolitici – queste hanno ottenuto una rappresentanza ufficiale anche all’interno delle istituzioni irachene e hanno guadagnato ancora più peso con il collasso del governo e le dimissioni del premier Adil Mahdi il mese scorso a causa della rivolta popolare in corso da mesi in tutto l’Iraq eccetto la regione autonoma curda. Le Pmf vennero sostenute dall’allora Primo Ministro iracheno Haider al-Abadi e dal suo successore Mahdi, ma nel luglio scorso questo ultimo tentò, invano, di farle confluire nell’esercito iracheno naziinale su pressione statunitense.

Ma le fazioni, di fatto un’associazione di gruppi radunati da leader etnici e tribali, i cui combattenti sono fedeli al clero locale o a Khamenei, tutti di religione islamica sciita, non hanno dato seguito pratico al decreto.

Pmf è in gran parte al di fuori del controllo del governo, eppure il parlamento iracheno lo ha riconosciuto formalmente come un’istituzione affiliata allo stato quando le sue forze si esaurirono numericamente e moralmente nella lotta contro lo Stato islamico negli scorsi 5 anni.

Ci sono tre principali fazioni distinte nel Pmf con diverse basi ideologiche: quelle fedeli al leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei; quelli fedeli al popolare leader religioso sciita iracheno Muqtada al-Sadr, che dirige le Brigate della Pace; e quelli fedeli ad al- Sistani, massimo rappresentante dello sciismo iracheno, non sempre in rapporti idilliaci con il vicino Khamenei.

Due gruppi principali hanno già un riconoscimento politico e sono membri del parlamento iracheno. Il primo è l’organizzazione Badr, che fa parte della coalizione – la National Iraqi Alliance (Nia) – guidata dall’ex ministro dei trasporti iracheno Hadi al-Ameri. Dei 328 seggi del parlamento iracheno, la Nia detiene 183 seggi, 22 dei quali appartengono all’organizzazione Badr.

L’altro, Asa’ib Ahl al-Haq, è un gruppo armato sciita fondato da Qais al-Khazali. Un membro del gruppo è attualmente seduto in parlamento che però è uscente.

Tutti questi gruppi sono diventati la più potente forza militare in Iraq, secondo gli esperti, ma le sue varie fazioni operano secondo le raccomandazioni politiche di capi con obiettivi distinti. Un fatto che complica ancora di più il quadro generale dell’Iraq e di tutto il mondo.

Un milione in piazza contro il “Capodanno cinese” di Hong Kong

Un milione di persone in corteo, una notte di scontri, lancio di lacrimogeni e 400 arresti. Così Hong Kong non ha festeggiato il Capodanno ieri nella più partecipata manifestazione antigovernativa da quando sono iniziate le proteste la scorsa primavera. Un inizio d’anno a cui l’organizzazione Civil Right Front aveva chiamato nei giorni scorsi a prendere parti numerosi. E così è stato: a Victoria Park a salutare il 2020 si sono riuniti un milione di hongkonghesi, 400 mila seconda la questura.

Il motivo? Non poter dire “felice anno nuovo”, come recitava il manifesto degli organizzatori, i quali, citando uno studio sulla felicità degli abitanti dell’ex colonia inglese sottolineano che il 2019 è stato l’anno più infelice dopo il 1992, anno della “cessione” di Hong Kong alla Cina.

Cinque le richieste messe in piazza dagli attivisti pro-democrazia, prima su tutte quella dell’indipendenza dalla Cina, e le altre che vanno dalle tasse scolastiche alla retribuzione degna, richieste sulle quali finora la governatrice Carrie Lam non ha voluto neanche aprire un tavolo di negoziati, schierando invece contro i manifestanti pesanti dispiegamenti di polizia. Anche ieri il capo della polizia Deng Ping-Johnson ha sospeso il corteo al segnale dei primi tafferugli all’altezza del quartiere economico della città. Stando alle immagini diffuse dai manifestanti sui social network, ad accendere la miccia della tensione sono stati agenti in borghese che hanno fermato alcuni partecipanti al corteo per atti di vandalismo. A quel punto la polizia è intervenuta con lacrimogeni e spray al peperoncino sulla folla. “Noi chiediamo pacificamente la democrazia e loro rispondono con i lacrimogeni”, hanno scritto sul manifesto postato sulla pagina Facebook i manifestanti. Agli scontri sono seguiti 400 arresti, ai quali parte del corteo ha reagito con lanci di bottiglie molotov e attacchi ai negozi.

Questo nonostante un portavoce del governo stesso avesse lodato i manifestanti per la marcia pacifica, pur lanciando un messaggio chiaro: “queste proteste indeboliscono l’economia” – ha dichiarato il portavoce, invitando i partecipanti a “rientrare nei ranghi della legalità”. Ma a niente sono serviti gli appelli dei politici, tanto meno quello della governatrice Carrie Lam che in un video diffuso l’ultimo dell’anno ha esortato alla “riconciliazione e a un nuovo inizio”. “Da una parte parla di dialogo, dall’altro dà il via alle rappresaglie contro il settore dell’educazione, con i funzionari che accusano i professori di istigare gli alunni alla protesta, sulla base di post scandagliati sui loro profili social”, è stata la risposta dei cittadini. “Invitiamo tutti a continuare su queste direttrici: manifestare, restare uniti, appoggiare il circuito dell’economia pro-indipendenza e approfittare di ogni appuntamento elettorale per ribadire il nostro no al regime brutale e sbagliato!”, recita il manifesto della tenace organizzazione per i diritti. La stessa tenacia dimostrata dagli attivisti in più di mille manifestazioni partite la scorsa primavera contro una legge che avrebbe permesso l’estradizione in Cina. Da allora più di 6 mila persone sono state arrestate, oltre 2.600 ferite, 16 mila gas lacrimogeni gettati durante i disordini, campus universitari occupati e trasformati in fortezze. Nell’ultimo atto prima di quello di Capodanno, il giorno di Natale, centinaia di manifestanti vestiti di nero e con corna di renna hanno occupato i centri commerciali. L’obiettivo è “continuare la lotta fianco a fianco fino alla vittoria: ottenere tutte e cinque le nostre richieste. Non una di meno”.

Iraq e Nord Corea nell’urna: ora Trump gioca al pacifista

L’Iran sarà ritenuto pienamente responsabile delle vite perse o dei danni subiti da qualsiasi nostra struttura. Pagheranno un GRANDE PREZZO! – tutto in maiuscolo, ndr –… Non è un avvertimento, è una minaccia. Felice Anno Nuovo!”. È un tweet di Donald Trump, il 31 dicembre, mentre l’ambasciata degli Usa a Baghdad era circondata da centinaia di manifestanti che protestavano contro i raid americani, la notte prima, su postazioni di milizie pro-iraniane in Iraq (e in Siria). Poche ore dopo, il magnate presidente, parlando ai giornalisti a Mar-a-Lago, in Florida, dove trascorre le vacanze d’inverno, diceva di non aspettarsi una guerra con l’Iran: “Non vedo come ciò possa accadere … Adoro la pace”. Il 2020 della politica estera degli Stati Uniti incomincia, dunque, come s’era appena concluso il 2019: nel segno della dissociazione tra il dire e il fare (e viceversa); e, ovviamente, della contraddizione fatta sistema.

Come se non bastassero le grane in Campidoglio, dove il processo per impeachment presto inizierà in Senato, Trump se ne trova altre in giro per il Mondo: con l’‘arci-nemico’ Iran –; e con l’amicone “pappa e ciccia” Kim Jong-un, in Estremo oriente.

 

Colpire l’Iran via Iraq (e Siria)

La retorica anti-iraniana dell’Amministrazione statunitense era, da settimane, in sordina. Però, sabato 28 dicembre Trump ordina una ritorsione, dopo l’uccisione d’un contractor americano in una base a Kirkuk attaccata da milizie filo-iraniane: raid aerei contro cinque postazioni filo-iraniane in Iraq e in Siria, “un successo” secondo il Pentagono, che non dà bilanci di vittime e danni. Per tutta risposta, razzi cadono in prossimità di una base che ospita soldati americani a Taji, a nord di Baghdad; e Iraq, Iran e Russia denunciano concordi la violazione Usa della sovranità irachena, “un atto di terrorismo” per Teheran, “inaccettabile e controproducente” per Mosca. Con la politica del “pugno sul tavolo”, già sperimentata in Siria a due riprese, Trump compatta, com’era scontato, l’opinione pubblica irachena, già mal disposta, contro gli Stati Uniti e innesca proteste anti-americane. A Mar-a-Lago si tiene una sorta di consiglio di guerra, con i segretari agli Esteri Mike Pompeo e alla Difesa Mark Esper. A Baghdad, l’ambasciata statunitense, un edificio immenso, è sotto attacco: una torretta va in fiamme; la protezione assicurata dalle autorità irachene non è a tenuta stagna; Trump si irrita e chiama il premier e il presidente, entrambi dimissionari – l’Iraq è scosso da mesi da violente proteste sociali, economiche e politiche, fomentate, secondo molte versioni, dall’Iran –. Alla fine, il magnate dà a Teheran la colpa degli incidenti anti-americani e decide di inviare “immediatamente” 750 soldati Usa in più in Medio Oriente – 500 sarebbero già giunti in Kuwait –. A conti fatti, le truppe addizionali mobilitate potrebbero essere 4.000. Mostrato i muscoli, Trump stempera le tensioni e si riscopre pacifista, mentre a Baghdad torna una calma tesa, dopo il ricorso ai lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine.

 

Il ping-pong con Kim Jong-un

Analogo il rimbalzo di fatti a parole in Corea del Nord: il dittatore Kim Jong-un è impaziente che accada qualcosa, dopo la passeggiata più mediatica che storica di Trump a cavallo del confine fra le Coree, il 30 giugno, seguito a sorpresa del fallimento a sorpresa del Vertice di Hanoi in febbraio. Dopo sporadici “fuochi artificiali”, con lanci di missili, Kim torna a minacciare: stop alla moratoria sui test nucleari e i missili intercontinentali e arrivo di una “nuova arma strategica”, che dovrebbe convincere gli Usa a revocare le sanzioni. A Washington, l’avvertimento è accolto senza isterismi: Trump è convinto che Kim “manterrà i patti” – quali? visto che accordi non ci sono stati –. Per il magnate, missili in volo nell’anno del voto possono rappresentare un problema. A meno che Trump non speculi, proprio in chiave elettorale, sulle tensioni internazionali e sul loro tradizionale effetto di compattamento dell’opinione pubblica dietro il presidente simbolo dell’unità nazionale. Il disgelo tra gli Usa e la Corea del Nord è di fatto fermo: Washington si rifiuta di cancellare le sanzioni, fin quando Pyongyang non abbandonerà del tutto il suo programma nucleare; e Pyonyang non fa marcia indietro sul nucleare fin quando Washington non abroga le sanzioni.