Un volo Roma-Los Angeles per capire la crisi Alitalia

All’improvviso l’aereo, un Boeing 777, in volo sopra la Francia, inizia a virare: invece che puntare verso Los Angeles, inizia a tornare verso Roma. Soltanto dopo qualche minuto arriva la conferma dal personale Alitalia: c’è un guasto tecnico, bisogna atterrare. L’origine del problema: non c’è acqua nei bagni. Noi passeggeri ci eravamo già accorti del problema appena dopo la partenza, gli steward avevano offerto una soluzione ruspante, offrivano acqua in bottiglia per lavarsi le mani. Risultato: dopo poco è finita pure quella. Come è possibile che un volo intercontinentale con davanti 13 ore di tratta possa decollare senza che ci sia acqua a bordo?

Le informazioni che si raccolgono a bordo sono frammentarie e contraddittorie: uno steward dice che alla partenza tutto funzionava, un altro ipotizza che ci sia un legame con l’arrivo del nuovo super commissario unico di Alitalia Giuseppe Leogrande e con una ulteriore stretta sulle spese. Un terzo steward dice che bisogna atterrare perché “è come con i computer, spegni e riaccendi e spesso torna tutto a posto”.

Lo stato del Boeing 777 di quella che una volta si chiamava “compagnia di bandiera” non è proprio rassicurante: le coperture laterali di plastica dei sedili si staccano e penzolano nel corridoio (basta un colpetto e tornano a posto), i sedili sono più rigidi di quelli Ryanair. Devo essere molto sfortunato: il mio poggiatesta si stacca, qualcuno ha perso uno dei due pistoncini di metallo che lo sorreggono, trasformando la ricerca di una posizione confortevole in una tortura e il poggiatesta medesimo in un oggetto contundente e affilato. Una eccezione? Non sembra, quando lo steward scopre che invece il sedile accanto al mio è a posto, commenta: “Strano, di solito sono rotti”. Con queste premesse, l’incidente fa correre brividi tra i passeggeri.

L’esperienza permette almeno di risolvere un grande mistero: la vera origine delle famose scie chimiche. L’aereo non può atterrare con un peso superiore a quello previsto e, quindi, deve scaricare in aria (“nebulizzare” è il termine tecnico) tonnellate di carburante, un volo di 13 ore ne è durate due. Una volta a Fiumicino, la versione di un portavoce dell’azienda è questa: alla partenza il serbatoio dell’acqua è stato regolarmente riempito, c’è una valvola che si chiude quando si decolla, quando è stata riaperta una volta in quota il personale di bordo ha scoperto che l’acqua c’era ma non si riusciva a distribuirla nell’aeromobile.

“In ogni caso Alitalia è tra le compagnie più puntuali d’Europa e in regola con tutti i controlli, se c’è una cosa che non si può contestare all’azienda è il rispetto di tutte le procedure di sicurezza”, assicura il portavoce. Magra consolazione, perché ancora non è finita.

Di ritorno a Fiumicino, noi passeggeri veniamo indirizzati a un ristorante dove almeno possiamo ottenere un piatto di pasta. I passeggeri americani sono un po’ confusi, perché le comunicazioni sono rade e poco chiare. Dopo un’oretta, si avvicina un americano: “Penso che anche voi foste sul volo per Los Angeles, non so se lo sapete ma hanno trovato un altro aereo e dovremmo partire alle 16.30”. Utile informazione, perché nessun addetto di Alitalia si era ancora premurato di farcelo sapere. Si affidano al passaparola.

Una volta ottenuta la nuova carta di imbarco, si apre un’altra questione: le coincidenze. Alcuni passeggeri hanno voli da Los Angeles, che perderanno, altri hanno prenotato auto a noleggio o treni. I primi avranno l’albergo pagato, gli altri no. “Siamo legalmente obbligati a pagare l’hotel soltanto a chi ha comprato il secondo volo con la stessa prenotazione, gli altri possono conservare la carta di imbarco e poi andare sulla sezione reclami del sito, a volte i guasti tecnici danno diritto a un rimborso, a volte no, nel dubbio provate”, spiega una assistente di Alitalia con in testa un cappellino di cartone che augura Happy New Year ai passeggeri fuoriosi.

È sempre sbagliato generalizzare esperienze individuali. Un volo sfortunato non è sempre rappresentativo della qualità del servizio di una intera azienda. Ma l’impressione generale è che in una azienda che vuole tenersi stretti i clienti certe cose non succederebbero. O quantomeno gli episodi sfortunati verrebbero affrontati con spirito meno ministeriale e più mirato a mitigare lo scontento del cliente deluso. Ma anche se al passeggero frustrato costa fatica, a mettersi nei panni di un dipendente Alitalia si capiscono le ragioni di certi comportamenti: una azienda senza amministratore delegato, guidata da un commissario che non si sa se deve chiuderla, rilanciarla o venderla, nessuno ha davvero incentivo a fare più del minimo indispensabile.

Il problema, insomma, non è (solo) del personale, ma soprattutto dei governi (Renzi – Gentiloni – Conte I – Conte II) che hanno prorogato artificialmente la vita di una compagnia che non riesce più a stare sul mercato da sola, ma sopravvive grazie ai prestiti ponte. Oltre 1,3 miliardi di euro di fondi pubblici che non torneranno mai indietro.

Non sono bastati neppure per far arrivare l’acqua nei bagni, figurarsi per rilanciare l’azienda.

Mail Box

 

No Tav, il coraggio di Nicoletta Dosio ricorda Thoreau

La sera del 30 dicembre Nicoletta Dosio, uno dei volti noti della frangia più estrema del movimento No Tav, è stata arrestata con l’accusa di aver forzato la barriera di Avigliana dell’autostrada del Frejus, dichiarando che richiedere misure alternative alla carcerazione significherebbe ammettere la propria colpevolezza e rinnegare la serietà dei propri intenti. In un suo celebre saggio sulla disobbedienza civile, Henry David Thoreau esprime la sua profonda indignazione nei confronti di uno Stato che pratica la schiavitù nei campi di cotone del Massachusetts, e alcuni passaggi dell’opera ricordano la stessa indignazione e lo stesso coraggio mostrato da Nicoletta Dosio: “Mi costa meno, in tutti i sensi, incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto mi costerebbe obbedire. Se lo facessi sentirei di perdere valore come essere umano”.

Jacopo Ruggeri

 

Dieci anni con il “Fatto”: buon anno a tutta la redazione

Voglio iniziare il 2020 inviando un doveroso, ma soprattutto affettuoso, augurio di ogni bene a tutti coloro che lavorano a Il Fatto Quotidiano. Dieci anni insieme e allora grazie di avermi insegnato a conoscere, capire, pensare, riflettere con le vostre notizie. Grazie per avermi dato la possibilità di meglio distinguere fra persone serie e ciarlatani, fra onesti e delinquenti, fra servitori delle istituzioni e cialtroni. Grazie per aver sempre dato esempio di giornalismo a schiena diritta e avermi, senza tema di smentita, fatto vedere il verminaio dei servitori prezzolati. Potrei e forse dovrei continuare a elencare le cose per le quali devo ringraziarvi, ma preferisco troncare qui con un: “Grazie di esistere!”. Buon anno a voi tutti.

Enzo Tonelli

 

Il discorso di Mattarella tra speranza e concretezza

Sergio Mattarella non l’ha fatta tanto lunga. Si è affidato ad alcuni esempi concreti per rilanciare l’unità e la credibilità del nostro Paese. Più che ragionamenti politici ed economici, ha parlato della salute dell’Italia. Una sedia avuta in dono da un gruppo di disabili, a significare come gli oggetti consuetudinari diventino irraggiungibili per chi è portatore di handicap, ma soprattutto abbandonato dalle istituzioni. L’astronauta Luca Parmitano, che ci fa vedere il mondo da tanto lontano e come noi, imbattibili formichine, lo imbrattiamo di arroganza e avidità. I tre pompieri morti mentre domavano le fiamme innescate dall’irresponsabilità di chi avrebbe voluto accaparrarsi il premio assicurativo della cascina. I giovani che continuano a non capire il disorientamento della scuola e dell’università. Prigionieri di un’inossidabile politica, troppo spesso incapace di organizzare al meglio le innovazioni del tempo. La vera svolta sarebbe dare un senso alla speranza, ovvero trasformare i progetti in concretezza.

Fabio Sìcari

 

Il primo male del Paese è il mancato rispetto delle regole

L’Italia è il Paese dei divieti che nessuno rispetta: a Torino la sindaca Appendino aveva proibito l’uso dei botti per festeggiare l’anno nuovo, risultato: botti a volontà. E questo è solo un esempio. Da anni è vietato gettare i mozziconi di sigaretta a terra, lo rispetta qualcuno? Se le cose nel Belpaese vanno male non è per colpa del destino cinico e baro ma di noi cittadini che non rispettiamo le regole e di chi ci governa che, per paura di perdere consensi elettorali, si guarda bene dal sanzionare come si deve chi colpevolmente ha un comportamento non consono alle più elementari regole di civiltà.

Mauro Chiostri

 

Salviamo subito gli operai delle acciaierie di Piombino

Il nuovo anno è appena cominciato, anche per il mio territorio di Piombino. Tramite il vostro giornale faccio un appello di trovare soluzioni adeguate per le Acciaierie e in particolare per i suoi operai colpiti in questi anni da una lunga crisi. Si parla di 250 esuberi e se non verrà realizzato il forno elettrico potrebbero salire a oltre 700. Abbiamo bisogno di un rilancio vero e con un piano industriale forte per dare speranza per questa storica fabbrica della mia città.

Massimo Aurioso

 

L’Italia non ha bisogno di eroi, ma di cittadini informati

Nel 2019 16 amiche e amici hanno per la prima volta scritto a un giornale: per la mia lotta allo “zittismo” che affligge l’Italia questo è stato un anno molto positivo (nel 2018 erano stati 9). Usare la parola pubblica è una scelta di sovranità, ancora poco praticata, ma che si sta lentamente diffondendo per contagio. Come la discesa in piazza di molta cittadinanza appartata da anni, sollecitata dalle Sardine. Che hanno fornito una clamorosa occasione per fare esprimere una vasta mobilitazione latente, che i partiti non intercettano più. Ritorna alla mente lo studio di Hirschmann (Lealtà, Defezione, Protesta), in cui l’autore – già negli anni Sessanta – contrapponeva le reazioni delle persone al disagio sociale in due scelte opposte: fuga e protesta. Mi auguro un 2020 in cui la “parola pubblica” sia il vero impegno politico di noi persone normali. Non eroi, ma cittadini informati, esigenti e “parlanti”. Che sanno che la qualità della politica dipende dalla qualità della partecipazione.

Massimo Marnetto

I morti e feriti a Capodanno. Tradizione tragica che non è più legata solo al Sud

 

Gentile redazione, anche quest’anno il bilancio di Capodanno è stato tragico: un morto e oltre 200 feriti. Ma come è possibile, mi chiedo? E non solo per colpa dei botti: in un hotel di Bari è ceduto addirittura il controsoffitto… Alla pericolosità dei fuochi d’artificio si è aggiunta così la solita incuria tutta italiana… Finirà mai questa sciocca tradizione di fine anno? O siamo un Paese condannato ai festeggiamenti mortali e ai risvegli luttuosi? Scusate la rabbia e l’indignazione, ma di fronte a tanta stupidità e negligenza mi sembra il minimo.

Gloria Genovese

 

Cara Gloria,ricorda quel personaggio del film ‘32 dicembre’ di Luciano De Crescenzo magistralmente interpretato da Riccardo Pazzaglia? Per i lettori che non l’hanno visto: è quel borghese napoletano che davanti allo squattrinato Enzo Cannavale, disperato perché la vigilia di Capodanno non è riuscito a trovare centomila lire per comprare i ‘botti’ e festeggiare coi suoi figli, gli ribatte che ogni 2 gennaio prova “vergogna di essere napoletano” quando puntualmente il Corriere della Sera titola su cinque colonne: “A Napoli per i fuochi di Capodanno 3 morti e 300 feriti”. E conclude: “Voi siete disoccupato e volete festeggiare”?

Il film è del 1988, la scenetta è tratta da un capitolo del libro ‘Così parlò Bellavista’ del 1975. Siamo entrati nel 2020 e siamo ancora qui a discutere di morti e feriti per i fuochi d’artificio. E a non trovare una risposta alle sue domande. Io non ci provo nemmeno. Registro solo, con rammarico, che dopo sei anni si torna a dare notizia di un morto per colpa, sia pure indiretta, dei petardi: un ragazzo di 26 anni che ad Ascoli Piceno aveva provato a spegnere un principio d’incendio tra le sterpaglie provocato dai fuochi d’artificio, e precipitato per circa 50 metri in una zona impervia.

Da napoletano che la pensa come Pazzaglia, le aggiungo che i 48 feriti lievi, senza gravi conseguenze, nella provincia napoletana (una fetta considerevole dei 204 in totale in tutt’Italia), stavolta sono poca cosa rispetto allo scempio avvenuto a Milano, dove tre giovani hanno perso parte della mano a causa delle esplosioni. Il primo è un ragazzo di 13 anni che ha subito l’amputazione della mano destra. A Limbiate, un giovane di 24 anni si è ferito e ha subito la semi-amputazione di 5 dita. A Cuggiono un ragazzo di 14 anni ha avuto la mano semi amputata e ustioni di primo grado al volto. Il Pazzaglia del 2020 dovrebbe parlare il lumbard.

Vincenzo Iurillo

“Tolo Tolo” è un manifesto contro la razza, lo dicono i social

Pare proprio che il grande dibattito italiano del 2019 sia stato: “Ma Zalone è razzista oppure no?” (corollario del pregresso dibattito: “Ma Zalone è di destra o di sinistra?”). Lui dice di no; altri, serissimi, sostengono di sì. Nell’impossibilità di esaurire un tema così profondo in poche righe, almeno due punti sembrerebbero fermi. Prima di tutto: siamo entrati in un tempo in cui si abbraccia un credo, qualsiasi credo, a propria insaputa, e a proprio rischio e pericolo. Cosa sei non lo decidi tu: lo decidono gli altri. Tramontano quei bei razzistoni incappucciati, quei comunisti trinariciuti, quei fascisti in fez e orbace. Ne resiste qualcuno, ma si tratta minoranze esibizioniste con il fez in testa e l’impermeabile aperto; il grosso è bassa forza ignara di sé come Checco Zalone, a cui i social network hanno dovuto aprire gli occhi. Guarda che Tolo Tolo non è una commedia: è un manifesto contro la razza. E poi, basta distinguere un attore dal suo personaggio, basta con queste sottilette, direbbe Totò. Se il protagonista di Tolo Tolo ha tentazioni razziste, Zalone è razzista. Due più due fa quattro. Dunque Gassman era un superficiale e potenziale assassino come Bruno Cortona, Alberto Sordi voleva fare a tutti costi l’americano come Nando Mericoni, lo stesso Totò era un truffatore e un gabbamondo come, appunto, Totò. È fattuale, direbbe Feltri; e non ragionava così anche Aristotele? Questo è stato il grande dibattito italiano del 2019. Figuriamoci quello del 2020.

Prescrizione, la riforma è legge: era ora

Il 1° gennaio 2020 è entrato in vigore il nuovo 2° comma dell’articolo 158 del Codice penale che blocca definitivamente il corso della prescrizione con la pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto penale di condanna. Si tratta di una importante innovazione contenuta nella legge anticorruzione 9 gennaio 2019 n. 3, auspicata da insigni giuristi (Zagrebelskj), dalla Corte di giustizia Ue (sentenza Taricco del 2/9/2015), dai vertici della corte di Cassazione, dai magistrati impegnati in prima linea contro i delinquenti di ogni risma, dalla Anm (19/12/2019) e, tra gli altri, dal Pm Nicola Gratteri, punta di lancia della lotta alla Ndrangheta, la più potente multinazionale del crimine.

La riforma allinea il nostro ordinamento a quello degli altri Stati europei (Piercamillo Davigo sotto l’impero della vecchia normativa si era chiesto: “La prescrizione come l’Italia ce l’ha solo la Grecia: ma tutti gli altri Paesi violano i diritti umani ?”). Va peraltro sottolineato che al Guardasigilli Bonafede è mancata la spinta ulteriore per spostare la decorrenza della prescrizione dal momento della consumazione del reato (come prevede l’ articolo 158/1 Cod. pen.) a quello della sua scoperta, che non di rado avviene molto tempo dopo: una manifesta irragionevolezza, già bollata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 452/1999 per cui “nessuna tutela può essere offerta al soggetto che, dopo la commissione del reato si nasconde ed evita il giudizio, attendendo che lo scorrere del tempo faccia scattare la prescrizione del suo illecito criminale”.

Contro la nuova legge si sono schierati molti avvocati penalisti, Forza Italia con Fdi e, paradossalmente, la Lega e il Pd che, pure, a gennaio l’avevano approvata. Lo stesso Pd ha presentato prima di Natale una proposta di un solo articolo per la quale il corso della prescrizione rimane sospeso per due anni dopo il giudizio di primo grado, sei mesi nel giudizio di appello con rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e di un ulteriore anno se è presentato il ricorso per cassazione. Con tale proposta, se fosse approvata, si ritornerebbe al vecchio modello (leggi Cirielli e Orlando), sia pure con fasi temporali più brevi, che ogni anno bruciava circa 120.000 processi: una vittoria per i delinquenti, una beffa per le vittime dei reati e un record mondiale per la giustizia italiana.

Secondo i promotori della controriforma la legge Bonafede contrasterebbe con il principio del “giusto processo” sancito dall’articolo 111/2 della Costituzione per il quale la legge deve assicurare una ragionevole durata a ogni processo. Si può obbiettare che una delle cause della lunga durata dei processi penali è proprio la prescrizione, traguardo fortemente ambito dall’imputato che, sapendo di essere colpevole, cerca di evitare la condanna mettendo in atto tutte le tecniche dilatorie consentite dal codice processuale. A parte ciò l’attuale, irragionevole durata delle cause penali dipende principalmente dalla irragionevole, catastrofica situazione del nostro sistema giurisdizionale nel quale i processi marciano a passi di lumaca tra lungaggini di ogni tipo, impedimenti formali, tempi morti delle notifiche, falsi garantismi e, nelle prime fasi, assurda moltiplicazione temporale dei controlli sulle indagini del Pm (Gip, Gup, Tribunale del riesame e ricorsi incidentali per Cassazione), cui si aggiunge la cronica vacanza di centinaia di posti di ruolo nei tribunali e nelle Corti. Oltre a sparare a zero contro la nuova prescrizione – un orrore secondo la deputata Boschi (18/12), una bomba atomica secondo la senatrice Bongiorno (19/11) – gli oppositori studino i rimedi più efficaci per rendere ragionevoli i tempi dei processi e presentino in Parlamento le proposte per rimettere in moto la macchina inceppata della Giustizia: eviterebbero così il sospetto che la querelle sulla prescrizione fosse soltanto un mero espediente di stampo elettoralistico.

“Caro Michele Serra su Fioramonti ti sbagli. Tuo Eco”

Mi sono chiesto cosa avrebbe detto Umberto Eco leggendo l’Amaca su Repubblica il 28 dicembre: avrebbe ignorato il testo o telefonato a Serra? Forse avrebbe scritto questa mail.

“Caro Michele, ho letto con piacere il ‘pezzo’. Nelle dimissioni del ministro Fioramonti non trovi una sola parola sbagliata; ‘il problema – dici – è che il novanta per cento dei commenti… parlano di tutt’altro. Delle dinamiche interne al partito di Fioramonti… dei propositi reconditi dello stesso ex ministro, dei contraccolpi voluti e di quelli non voluti, delle manovre di potere sottese alle dimissioni, dei sussulti negli assetti parlamentari, delle pendenze economiche di Fioramonti nei confronti del suo partito’. È così. Ma mi sorprendo della tua sorpresa, e non ti seguo nelle conclusioni. Insomma, non posso accettare la tua tesi (‘Mi domando se sia ancora possibile chiedersi, di un atto politico, semplicemente se è giusto o se è sbagliato’). Critichi i commenti alle dimissioni: ‘Se conta solamente il contesto, il testo diventa carta straccia’. Sbagli. La pretesa oggettività di un testo è fuorviante: il testo fuori dal contesto mente, è monco, parziale, ambiguo: manca di un elemento essenziale e non dice, nasconde. Quale pretesa verità oggettiva cerchi nel testo del ministro Fioramonti, se escludi l’universo di segni e messaggi, intenzioni, propositi, fini che lo precede, lo prepara, lo motiva in un determinato momento della vita politica del Paese? Sono il primo ad ammetterlo: ‘L’ermeneutica infinita non ha senso’, ma la ‘fedeltà al testo’ di cui parlo non può essere fraintesa fino al punto da ignorare/cancellare tutto ciò che precede, accompagna e segue un testo: è un errore. È sbagliato credere che un documento contenga la sola verità possibile, l’unica da analizzare ‘altrimenti non si capisce più niente’, dici. È esattamente il contrario, caro Serra: l’interpretazione di un testo non può prescindere dai dati necessari a coglierne il senso, al di là di ciò che mostra in superficie. Lo evidenzio ragionando sul tuo ‘pezzo’. Sì, Michele, il tuo articolo dice molto di più di quello che scrivi: per coglierlo va messo in relazione col giornale in cui lavori, con le tue idee, i bersagli che scegli, i temi che tratti, quelli che censuri, con la rubrica che tieni, che, al di là dello stile (sempre piacevole), tende, da qualche tempo, a sparare sentenze, anche su chi cerca di capire il gesto di Fioramonti. Coerente con le dimissioni annunziate, ma palesemente incoerente con l’oggettiva presa di distanza da un governo che dice di voler sostenere. È una contraddizione evidente. La si coglie se al testo si affianca il contesto, e ci si muove, appunto, nella direzione opposta a quella che indichi… Concludo: in Opera aperta ho indicato la possibilità di un’interpretazione infinita dei testi; poi ho cominciato a difendere ‘i diritti del testo rispetto al lettore’ attenuando l’idea dell’ermeneutica infinita. Significa che dobbiamo presentarci ingenui e disarmati di fronte a un testo e prenderlo ‘per quello che è’? Alla lettera. Con tutta evidenza no. Ho polemizzato col ‘pensiero debole’ e l’idea che non esistano fatti ma solo interpretazioni; osservo, però, che fatti, tracce, documenti, sono oggetti complessi. Trovare il giusto equilibrio di fronte a un testo mi sembra la prospettiva più corretta: è quella che adotti tu, d’altronde, quando non giustifichi a priori le frasi di un ministro, rimuovendo – come inessenziale – ciò che nascondono. Infine: Mattarella ha esaltato ‘l’altruismo e il dovere’; le scelte di un governo sono frutto di ‘accordi e mediazioni’: credi che Fioramonti, con la sua coerenza, abbia difeso/rispettato le decisioni collegiali, che abbia compiuto il suo dovere? A parte questo, auguri di Buon anno, e lunga vita alla tua rubrica anche se alcune tesi, ogni tanto, è giusto contestarle”.

Gaia e Camilla, choc contro la rimozione

Non è evidentemente colpa dell’automobile, bensì di chi la usa e di come la usa. Ma, di fronte alla strage quotidiana dei pedoni che miete seicento vittime all’anno nelle nostre città e ha stroncato alla vigilia di Natale la vita di Gaia e Camilla a Roma, viene da chiedersi se la motorizzazione di massa non sia all’origine dell’imbarbarimento civile che incombe sulle nostre comunità. Nella giungla urbana di asfalto e cemento, l’orda di automobilisti e motociclisti che invade ogni giorno le strade, congestionando la circolazione e inquinando l’aria, assomiglia sempre più a quelle dei barbari che attaccavano l’Impero romano. Chiunque può constatare la differenza di clima in questi giorni di festa, quando il traffico diminuisce e l’atmosfera diventa meno nevrotica, più composta e rilassata.

Proiezione dell’ego, oggetto del desiderio, status symbol, alcova precaria, l’automobile fa parte integrante ormai della nostra esistenza, individuale e collettiva. Da mezzo di trasporto e strumento di libertà, è diventata però una forma di dipendenza, quasi una schiavitù. Non sappiamo più farne a meno, neppure quando potremmo e dovremmo andare a piedi o privilegiare i mezzi pubblici.

È un rapporto perverso quello che abbiamo stabilito – chi più, chi meno – con l’automobile. Un rapporto che ci induce a inseguire il mito futurista della velocità, nella corsa frenetica della vita moderna verso il lavoro, il successo, il profitto. Da veterano del volante e “piede pesante” recidivo, anche il sottoscritto rischia di predicare bene e spesso di razzolare male. Ma l’esperienza richiama tutti ad adottare maggiore prudenza nella guida, a essere più responsabili verso se stessi e verso il prossimo. A cominciare, appunto, dal rispetto dei pedoni e del loro diritto di precedenza.

Una volta il vituperato monopolio televisivo, fedele al proprio ruolo pedagogico, non trasmetteva gli spot pubblicitari né dei super-alcolici né delle automobili, proprio per evitare l’istigazione agli usi e agli abusi alimentati da un consumismo esasperato. Eppure, si continuano a disputare i Gran Premi di Formula Uno e le altre gare di velocità, nonostante l’effetto diseducativo che inevitabilmente esercitano attraverso l’amplificazione mediatica della tv, soprattutto sui più giovani: sorpassi azzardati, “staccate” al limite, “sportellate” o tamponamenti in pista. E ciò nonostante il fatto che al giorno d’oggi i simulatori e i computer potrebbero sostituire completamente le funzioni tecniche o sperimentali rivendicate dall’automobilismo sportivo.

Per paradosso, non sfugge a questa logica infausta neppure l’immagine salvifica dell’auto elettrica. Concepita per andare più piano, risparmiare carburante e inquinare di meno, in realtà viene sacrificata anch’essa sull’altare della velocità. E così si organizzano Gran Premi perfino per i bolidi a batteria, addirittura su percorsi urbani, per dimostrare che queste vetture sono in grado di correre come e più di quelle a benzina.

Certo, bisogna rinnegare il “feticcio urbano”; cambiare il modello di città; farle diventare più “intelligenti” e più umane in nome della sostenibilità ambientale e della convivenza civile. Bisogna far funzionare regolarmente i semafori. Ridipingere periodicamente le strisce dei passaggi pedonali. Aumentare le sanzioni e le pene per chi non rispetta i limiti di velocità, per chi guida con il telefonino in mano o peggio ancora in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Tutto ciò comunque non basta senza un’opera educativa e rieducativa, in grado di incidere sulle coscienze. Ecco perché nell’articolo pubblicato su questo giornale il 30 novembre scorso, dedicato proprio alla carneficina dei pedoni, parlavamo di un “blackout mediatico”: cioè di una rimozione collettiva di questo triste fenomeno da parte dei mass media, quasi fosse irrimediabile o irreversibile. Ma ora lo choc suscitato dalla fine terribile di quelle due ragazze nel pieno della vita, travolte e uccise da un’auto sul viadotto romano di Corso Francia, dovrebbe indurci almeno a guidare con più consapevolezza e più responsabilità.

Ma quale storia: “I due papi” è un sublime cinepanettone

Nella sua insipienza storica, così irritante che si ride con pudore come ai cinepanettoni di un tempo, I due papi è un’opera meravigliosa. Il film di Netflix sulle relazioni umane (attenzione: umane) di Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio è perfetto per trascorrere un paio di ore tra una tombola in famiglia e un pinzimonio di avanzi festivi. Soltanto un capodanno troppo pantagruelico, benché le statistiche di Coldiretti e una ricerca Ixé abbiano certificato un aumento dei prezzi per il cenone del 14 per cento, può indurre a credere all’esergo che anticipa la pellicola: “Ispirato a una storia vera”. Ispirato, niente di più. E poi cos’è più autentico di una spudorata falsità?

I due papi crea con la fantasia una correlazione fra le dimissioni di Benedetto XVI e l’avvento di Francesco, non ha pretese scientifiche o culturali, è una commedia con un retrogusto drammatico, indaga aspetti emotivi di Ratzinger e Bergioglio, due uomini chiamati a perpetuare una religione che ha solcato secoli di scandali di potere, denaro, sesso. I due papi decora con un po’ di cronaca un monumento, non sempre godibile, di fantasia. È pura arte, non storia. Il prodotto artistico dispone del regista Fernando Meirelles, del soggetto di Anthony McCarten, non un novellino, delle sontuose interpretazioni di Jonathan Pryce in Bergoglio e di sir Anthony Hopkins in Ratzinger. E di una fotografia che riempie gli occhi.

McCarten è a tal punto didascalico che appare un genio: Ratzinger è il pontefice tedesco, perciò è istruito, scorbutico, ruvido fuori, morbido dentro, guarda Il commissario Rex, indossa le scarpette rosse, consuma da solo piatti bavaresi con formaggio puzzolente, preferisce la birra al vino; mentre Bergoglio, l’argentino con la croce di ferro, è inebriato dal rosmarino, stappa bottiglie di Cesanese, indossa la sciarpa albiceleste della nazionale argentina, pecca di gola davanti alla pizza al taglio, ordina molti caffè, prega tra i cartoneros, detesta i lussi dei cardinali, ha persino amato una donna.

Ratzinger è un conservatore, Bergoglio è un ex conservatore, allora siccome la Chiesa di Ratzinger è un disastro, per citare la sceneggiatura di McCarten, lo stesso Ratzinger interrompe il pontificato per tentare la cura opposta, la cura di Bergoglio. È una trama talmente banale che suscita affetto, e parecchia comprensione. Ratzinger ha l’intuizione di salvare i cattolici lasciando il testimone a Bergoglio durante una visita estiva (siamo nel 2012) dell’arcivescovo di Buenos Aires, sbarcato con malavoglia a Roma per ottenere in anticipo la pensione e ritirarsi a dire messa in periferia. Ratzinger considera Bergoglio un cardinale critico del suo pontifico, ma gli riconosce spessore e lealtà: come insegnano negli abecedari del comando, a volte dimenticati, un capo premia i collaboratori leali e si guarda dai fedeli (certo, detto per un papa suona strano).

I due papi parte con le scene che negli Stati Uniti funzionano di sicuro – tipo le suore che fumano o i fenicotteri rosa di Paolo Sorrentino – cioè con le tensioni del conclave 2005 e il giudizio universale della Cappella Sistina. Il conservatore Ratzinger, è il significato, viene eletto a discapito del progressista Carlo Maria Martini e di Bergoglio. Per Tutto il calcio minuto per minuto il risultato è corretto, ma è scorretto sostenere che Martini fosse un tifoso di Bergoglio e Ratzinger un consapevole burattino dei mangiafuoco che hanno imperato col pontificato di Giovanni Paolo II. Il pastore tedesco, invece, ha provato a smuovere i massi di omertà con cui in passato la Chiesa ha coperto la pedofilia e le ruberie. Il gesto più eroico di Ratzinger – e McCarten avrà un’opinione diversa – sono proprio le dimissioni che l’hanno liberato dai reduci di Giovanni Paolo II, la Curia che non ha volto né nome e che ha cercato di ingabbiarlo finché sopraffatto, più nello spirito che nel corpo, s’è rifugiato nel “silenzio incarnato”.

I due papi veicola pregiudizi che ormai non esistono più neanche nel complottismo artigianale: Ratzinger che non s’accorge che i soldi in Vaticano sono una piaga purulenta e che si rinchiude nei libri morti e pure nelle lingue morte (che il latino abbia misericordia); Bergoglio svogliato e non molto preparato, ma scaltro sudamericano che se la cava con la parlantina e, ancora peggio, la menzogna dei rapporti controversi di Bergoglio con la dittatura argentina.

Argomenti complessi e assai seri che vengono sbrogliati con una stucchevole leggerezza e stonano con momenti di magnifico estro: Ratzinger che al piano suona Bedrich Smetana, Bergoglio che canta gli Abba, le riflessioni sui Beatles, l’aranciata per accompagnare la pizza margherita. La malinconia di Ratzinger: “Quando provo a essere me stesso non piaccio molto alla gente”. L’astuzia di Bergoglio: “Le barzellette sono fondamentali per la formazione di noi gesuiti”. Vatileaks e il maggiordomo scortano Ratzinger verso la rinuncia nel 2013. Benedetto XVI accoglie Bergoglio in Cappella Sistina e gli consegna la Chiesa. I titoli di coda rovinano il pezzo più bello, il tedesco Joseph e l’argentino Jorge che guardano la finale mondiale Germania-Argentina del 2014. Quando le immagini stanno per sfumare, si capisce che la Germania ha vinto il titolo. È la cosa più vera del film. La più noiosa.

Papa Francesco chiede scusa. E Salvini lo sbeffeggia in Rete

“Tante volte perdiamo la pazienza; anch’io, e chiedo scusa per il cattivo esempio di ieri”. A pronunciare queste parole è stato Papa Francesco nel primo Angelus dell’anno. Scuse che arrivano dopo l’umana reazione del giorno prima quando Francesco, strattonato a piazza San Pietro da una fedele, forse per il dolore o per la paura di cadere, si è infuriato liberandosi dalla presa con una paio di schiaffi sulla mano dell’incauta pellegrina. Il video con le immagini è diventato virale con centinaia di commenti e la solita frammentazione dei pro e contro Bergoglio. A commentare anche politici e opinionisti. E non poteva mancare Matteo Salvini che posta un “controvideo” in cui lui stesso imita il Papa strattonato da una fan “interpretata” dalla fidanzata del politico; ma alla fine il leader leghista accarezza la donna.

“Dal mojito alla grappa – commenta il segretario del Pd Nicola Zingaretti su facebook – Passano i mesi ma sempre li stiamo. Inizia un nuovo anno con lo stesso impegno: difendere gli Italiani dalla brutta politica. Lo faremo sempre in prima fila e con passione”.

“Il Papa che reagisce arrabbiandosi e che chiede scusa davanti a tutti per non aver dato il buon esempio, mi aiuta a capire di che pasta è fatta la vita cristiana di ogni giorno”, sottolinea su Famiglia Cristiana padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica. Anche il portale Vatican News evidenzia l’umanità del Papa in questo episodio: “Che bello che abbia confessato davanti al mondo la sua debolezza. Nella Giornata mondiale della pace. Perché tutti, proprio tutti, abbiamo bisogno della misericordia di Dio”.

La reazione del Papa potrebbe essere stata dovuta anche al dolore che lo accompagna costantemente a causa della sciatalgia. È visibile il suo passo dolorante e a volte malfermo anche se non si risparmia mai all’entusiasmo dei fedeli. Che normalmente però non oltrepassano il limite della sua pazienza, come invece accaduto l’ultimo dell’anno.

L’episodio ha un pò oscurato quel vero e proprio ‘innò alla donna pronunciato nell’omelia, in cui Francesco ha usato parole durissime per la violenza contro le donne definendola “profanazione di Dio”.

“Una bomba dopo l’altra, così parla la mafia a Foggia”

Tre diversi attentati incendiari a distanza di poche ore nella notte di San Silvestro: Foggia e la sua provincia si risvegliano, anche nel nuovo anno, con la paura. Il primo è avvenuto un’oretta prima della mezzanotte ai danni del “Veronik”, un bar nella periferia della città. La porta posteriore del locale è stata forzata e poi, una volta all’interno, è stato appiccato il fuoco con del liquido infiammabile: oltre ai numerosi danni, l’esplosione ha divelto la saracinesca all’ingresso. Il titolare, sentito dai carabinieri, ha dichiarato di non aver mai ricevuto alcun tipo di minacce o richieste estorsive. Stesse frasi ripetute anche dal proprietario del secondo bar colpito, il “New Generation Café” a pochi passi dal centro. Simili anche le modalità di azione: forzato il lucchetto della porta e poi fiamme all’arredamento e alla merce.

Il terzo attentato è successo al centro estetico “Malisy” nel centro di Apricena, un piccolo comune del Foggiano di circa 13 mila abitanti. Secondo i primi rilievi sarebbe stato causato da esplosivo. A comunicarlo è stato lo stesso sindaco, Antonio Potenza su Facebook: “Un violentissimo boato, inizialmente pensavamo si trattasse di un grosso petardo. Poi mi hanno informato che avevano piazzato l’ordigno davanti all’ingresso del centro estetico. Esprimo vicinanza e solidarietà ad Antonella e alle sue collaboratrici, certi che sapranno rialzarsi più forte di prima. Bisogna sempre mantenere alta la guardia rispetto alla legalità”. Al momento non si esclude alcuna pista investigativa ma la sensazione di scoramento è palpabile in una città che da anni lotta contro le diverse organizzazioni criminali che depredano il territorio: la “Società Foggiana”, i clan di Cerignola, e la mafia garganica. Non una, ma ben tre organizzazioni criminali, che si spartiscono la seconda provincia italiana per estensione del territorio.

Diciassette omicidi nel solo 2017, un trentina negli ultimi due anni. Il primo ad alzare la voce, già nel 2014, fu l’ex questore Piernicola Silvis. “Purtroppo oggi le bombe sono una nuova forma di comunicazione, non sono solamente segnali che indicano una richiesta irrisolta di pizzo, è una speciale forma di comunicazione operativa. La bomba diventa un sistema per avvisare che i criminali esistono ancora, nonostante le decine di operazioni e processi, un avvertimento che ricorda forse anche certe forme di terrorismo. Oppure le bombe vengono utilizzate per sbaragliare la concorrenza, quella onesta magari”. A settembre è iniziato, nell’aula bunker di Bitonto, il processo ai 29 imputati di “DecimaAzione”, accusati a vario titolo di associazione mafiosa ed estorsione.

Uno dei settori di maggiore interesse per la Società Foggiana era rappresentato dalle estorsioni nei confronti di tutti gli operatori economici di Foggia: dalle agenzie funebri ai gestori di slot machine, passando per negozi e imprese edili. Nessuna delle vittime si è costituita parte civile, solo il Comune di Foggia. Per la Dda di Bari, che ha coordinato le indagini uno “stato di omertà assoluta, che questi fatti-reato non siano denunciati è un’ulteriore conferma della totale soggezione di larghe fasce della popolazione, indotte a subire silenziosamente torti e angherie da chi evoca l’appartenenza a questo determinato contesto criminale”. Daniela Marcone è una dei pochi che non ha avuto paura. Figlia di Francesco ucciso nel 1995 a Foggia per la denuncia su un giro di malaffare per il disbrigo “veloce” delle pratiche, è l’attuale vicepresidentessa nazionale di Libera: “Iniziare il 2020 con queste notizie è molto doloroso, a fronte della nostra capacità di resistenza e del lavoro oggettivo che la ‘Squadra Stato’ ha portato avanti in questi anni, San Silvestro dovrebbe essere una giornata di festa. Aspettiamo gli esiti investigativi ma certo sembra che ci sia un fil rouge tra gli attentati. Siamo stati abbandonati per anni, questi sono danni legati al passato. Forse potrebbero essere, come alcuni investigatori mi hanno sottolineato, proprio reazioni alle numerose inchieste e arresti. Dobbiamo continuare a pensare che a Foggia ci sono centinaia di abitanti che vogliono una vita dignitosa e provano a costruire bellezza in una città difficile”.