La “pasionaria” del casello autostradale

“Sono contenta della scelta che ho fatto perché è il risultato di una causa giusta e bella”. Lo ha scritto Nicoletta Dosio, una delle figure di riferimento del movimento No Tav, nella lettera dal carcere delle Vallette, a Torino, dove è detenuta dalla sera di lunedì 30 dicembre per scontare un anno di detenzione. Ha rifiutato misure alternative per coerenza con le sue idee, innescando un cortocircuito, ma anche presidi di sostegno: “Sento la solidarietà collettiva e provo di persona cosa sia una famiglia di lotta”, scrive ancora nella lettera diffusa su notav.info.

Ieri sera a Bussoleno, il suo paese in Val di Susa, c’è stata una fiaccolata a cui ha partecipato anche il compagno di una vita, Silvano Giai, 70 anni: “Non ha chiesto misure alternative al carcere per coerenza e dignità, la sua e del movimento – spiega -. Stiamo insieme da quasi 40 anni. Partiamo dal Sessantotto, siamo passati attraverso Democrazia proletaria, poi Rifondazione comunista e per ultimo Potere al popolo”. Nicoletta, la “pasionaria No Tav” dai capelli rossi, è un’insegnante di lettere e latino in pensione. Per anni ha lavorato al liceo “Norberto Rosa” di Susa e Bussoleno, di cui è stata anche vicepreside.

A scuola non nasconde le sue idee e a qualcuno dà fastidio. Nel 1984 il presidente del Consiglio d’istituto scrive al settimanale La Valsusa che il figlio era stato “sottoposto alla propaganda marxista infilata ovunque” dalla professoressa: viene condannato per diffamazione da 500 mila lire di multa e un risarcimento di 10 milioni di lire che la docente destina al laboratorio di lingue del liceo. “Certo sono marxista, l’ho sempre riconosciuto – risponde lei –, ma ho sempre indicato ai ragazzi gli strumenti per un’analisi corretta della realtà. Non faccio propaganda”. Alla fine degli anni Ottanta diventa assessore comunale (in quota Dp) all’Ambiente, alla Cultura e all’Istruzione. Conduce battaglie per il diritto all’istruzione, ma soprattutto quelle ambientali contro l’autostrada A32 e contro un elettrodotto: “Lo abbiamo bloccato con una lotta simile a quella contro la Torino-Lione”, ricorda ora il marito. La lotta contro il Tav comincia negli anni Novanta, ma è a metà degli anni Duemila che diventa più dura. Nel 2004 lei e Silvano prendono in gestione la Credenza, un’osteria di Bussoleno che diventa un luogo di ritrovo per tutti i militanti No Tav e per il Comitato di lotta popolare.

L’8 dicembre 2005, nei giorni caldissimi che portano al blocco delle talpe meccaniche a Venaus, si becca una sassata. Ma non arretra. La seconda ondata di proteste, quella che comincia nel 2011, la vedono ancora in prima linea. La condanna per cui è finita in cella riguarda fatti del 3 marzo 2012: dopo l’incidente di un militante, Luca Abbà, folgorato su un traliccio mentre cercava di sfuggire ai carabinieri, si scatenano le proteste. Alcuni militanti, tra cui lei, bloccano le barre del casello di Avigliana, sulla Torino-Bardonecchia, permettendo agli automobilisti di passare senza pagare: la Sitaf, la società autostradale, non incassa 777 euro di pedaggi. Lei stava dietro uno striscione con la scritta “Oggi paga Monti” e questo le è valso la condanna per violenza privata e interruzione di pubblico servizio.

Dopo la sentenza definitiva, si rifiuta di chiedere al Tribunale di Sorveglianza misure alternative come l’affidamento in prova ai servizi sociali o i domiciliari: “Da parte mia chiedere le misure alternative vuole dire chiedere scusa e adeguarsi al verdetto”, spiegava l’11 novembre. La procura generale, retta da Francesco Saluzzo, non chiede i domiciliari per un precedente del 2015, quando aveva violato alcune misure cautelari per non tramutare la sua casa in una prigione e per non sottostare alla “repressione”: rimediò una condanna in primo grado a otto mesi, però nel frattempo aveva dato alcuni grattacapi ai magistrati del Palazzo di giustizia.

“Mattarella conceda la grazia alla No Tav Nicoletta Dosio”

Un appello al Presidente della Repubblica per la grazia a Nicoletta Dosio, la “pasionaria” No Tav finita in carcere a Torino. Lo chiede il direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais per rimediare a ciò che ritiene “una vergogna, una indecenza, una ignominia per l’Italia”, cioè la carcerazione della 73enne militante condannata a scontare un anno per concorso in violenza privata, reato commesso in occasione di un blocco autostradale di protesta contro la Torino-Lione.

Professore, perché proponete la grazia per Nicoletta Dosio?

Ho semplicemente scritto, come logica conseguenza del mio ragionamento, che il presidente della Repubblica avvalendosi dell’istituto della grazia, ponga fine a una situazione indecente per la giustizia italiana.

Qual è l’indecenza?

Mentre i responsabili di crolli di ponti che hanno provocato molte morti, o quelli responsabili dei crolli di banche che hanno ridotto al lastrico le persone, alcune delle quali si sono suicidate, si godono buonuscite gigantesche anziché andare in galera, in galera ci finisce una donna di 73 anni per aver partecipato a una manifestazione in cui sono state sollevate le barriere dei caselli autostradali provocando un danno di 700 euro dovuto al mancato incasso dei pedaggi, qualcosa di infimo rispetto ai profitti di quelle società. Esiste una legge, l’articolo 131 bis del codice penale, che stabilisce la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Ogni lettore può trovare su Internet sentenze che, in base a questa legge, non puniscono reati a mio parere molto più gravi dei 700 euro di mancato incasso della società autostradale.

Nicoletta Dosio avrebbe potuto evitare il carcere chiedendo misure alternative, previste per chi ha una condanna di un anno per fatti simili e per chi ha la sua età, ma le ha rifiutate. Una scelta che lei stessa rivendica.

Nicoletta Dosio ha coraggiosamente rivendicato il suo gesto come atto di disobbedienza civile. Non ha compiuto nessun gesto violento. Ha contribuito a far perdere 700 euro di profitti a società che ne hanno decine di centinaia di migliaia di volte di più. Lei ha rifiutato le misure alternative per sottolineare la validità civile del suo gesto. L’articolo 131 bis sulla particolare tenuità dei fatti doveva essere applicato. Una modifica successiva lo rendeva meno utilizzabile in occasione delle manifestazioni sportive (legate ai disordini da stadio, ndr), ribadendo implicitamente la sua validità nei casi di manifestazioni sindacali e politiche. Quanto c’è di più tenue che un irrisorio mancato profitto per società autostradali al centro delle cronache un giorno sì e l’altro pure?

E se Dosio rifiutasse anche la grazia?

Sarà una sua scelta. La cosa importante è che sopraggiunga al più presto una decisione del presidente della Repubblica che metta fine a una situazione indecente per la giustizia italiana, anche “vista dalla spazio”.

Fa riferimento al discorso di Mattarella del 31 dicembre. Nello stesso discorso il presidente ha elogiato i comportamenti legati al civismo, sia i giovani che manifestano per l’ambiente. Dosio unisce impegno e ambientalismo. Ritiene che, alla luce di questi temi, la richiesta di grazia sarebbe ancor più corretta?

Ha già dato la mia risposta nella formulazione della sua domanda.

“Insultavano Anna Frank, poi ci hanno picchiati in piazza”

Capodanno nero a Venezia. Più che botti e maschere si sono visti botte e volti coperti. “Il Duce scende dalle stelle, Anna Frank è finita nel forno”. Cantava così un gruppo di ragazzi a mezzanotte in piazza San Marco. Quando l’ex parlamentare Arturo Scotto (Mdp) gli ha chiesto di piantarla, i giovani fascisti l’hanno preso a pugni in faccia, poi hanno dato calci alla moglie che cercava di fotografare la scena. Infine hanno riempito di botte un ventenne intervenuto per fermare l’aggressione. Mentre il figlio di Scotto, quattordicenne, assisteva inerme al pestaggio dei genitori. Protagonista dell’aggressione una squadraccia di ragazzi: tra loro un giovane con il collo tatuato e i capelli scuri, un secondo ragazzo con il pizzetto, un terzo alto almeno un metro e novanta e una donna con i capelli biondi lisci.

“È stato tutto ripreso da una telecamera, abbiamo già visionato il video. Scotto ha preso almeno cinque pugni in faccia”, riferisce Marco Agostini, comandante della polizia municipale. Presto i responsabili potrebbero essere identificati.

L’episodio è stato rivelato su Facebook da Elsa Bertholet, moglie di Scotto: “Un gruppo dietro di me canta ‘Anna Frank sei finita nel forno’, mi giro e dico: ‘Ragazzi basta!’. Ma loro si mettono a urlare: ‘Duce, duce’, con mano alzata. Si gira allora mio marito, che prima non aveva sentito cantare… e boom si prende botte in faccia, poi si mette di mezzo un ragazzo per aiutarci e picchiano pure lui”. Nella denuncia ai carabinieri Scotto riferisce: “Sentiti quei cori io sono intervenuto per chiedere di smetterla e perché temevo che aggredissero mia moglie. Allora uno di questi ragazzi mi ha sferrato un pugno che mi ha colpito al naso facendomi uscire molto sangue”. Non era finita: “Allora – aggiunge Scotto – ricevevo almeno tre pugni da un’altra persona, mentre i ragazzi si coprivano subito il volto con un foulard o una sciarpa”. A questo punto gli aggressori si rivolgono verso Bertholet: “Nell’istante in cui mia moglie ha cercato di fare una fotografia con lo smartphone, il ragazzo che mi aveva dato un pugno sul naso con un calcio la colpiva alla mano e le faceva volare via il telefono”. La situazione ormai è fuori controllo, Scotto, la moglie e il figlio sono in balia dei fascisti: a quel punto, è scritto nella denuncia, “interveniva a nostra difesa un ragazzo, che non conosco ed è estraneo ai fatti, chiedendo al gruppo di smetterla, ma questi in tre o quattro lo assalivano con calci e pugni”. Ma la folla si sta raccogliendo e il gruppo decide di fuggire, riuscendo a far perdere le proprie tracce: Scotto e il ragazzo aggredito fermano un vigile urbano, raccontano l’accaduto. L’esponente di Mdp ha ringraziato subito il giovane “coraggioso e disinteressato” che si è preso calci e pugni per difendere una famiglia aggredita dai fascisti. Le dichiarazioni del ragazzo alla polizia municipale confermano la dinamica dell’accaduto.

Immediate le reazioni. A cominciare da Roberto Speranza (ministro della Salute e segretario di Articolo 1-Mdp) passando per diversi membri del Governo, leader di sindacati e consiglieri comunali veneziani come Monica Sambo (Pd). Condanne arrivano anche dagli amministratori locali di centrodestra. “Un fatto estremamente grave, anche perché sullo sfondo ci sono l’antisemitismo e il revisionismo, contro cui combattiamo da anni”, ha dichiarato il governatore leghista Luca Zaia. Duro anche Luigi Brugnaro (Forza Italia), sindaco della Serenissima: “Esprimo piena solidarietà mia e dell’intera città di Venezia all’ex parlamentare Arturo Scotto per il disgustoso fattaccio”.

Scotto ieri pomeriggio aveva una voce serena, ma ferma: “Bisogna smetterla di pensare che queste siano ragazzate. Sono piccoli squadristi che si fanno forza nella logica del branco. Una cosa di cui preoccuparsi seriamente. Il fascismo è nato così”. Dispiace “per Venezia che sta faticosamente rialzandosi dopo i fatti drammatici di più di un mese fa. Una città magnifica e accogliente, che non sarà mai sporcata da quattro fascistelli che agiscono impuniti e nell’anonimato”.

La svolta delle indagini potrebbe arrivare dalle telecamere: “In piazza San Marco ce ne sono molte – è convinto Scotto – ed è possibile, prima che i supporti siano sovrascritti, identificare gli aggressori”. Polizia Municipale e carabinieri hanno già visto le immagini. I volti dei ragazzi non si vedono benissimo, ma gli investigatori sono ottimisti.

“L’Isola in mano al partito unico degli ecomostri”

“Di-sa-stro”. Stefano Deliperi scandisce la parola per sottolineare il rischio che corrono le coste sarde con il nuovo piano casa. Deliperi con il Gruppo di Intervento Giuridico (Grig) da anni si batte per difendere la sua terra: “L’ultimo tassello arriva dal centrodestra, ma è in perfetta continuità con altre scelte compiute dal centrosinistra. Con la nuova legge, se andasse in porto, rischieremmo che decine e decine di alberghi costruiti entro il limite di trecento metri dalla battigia ottengano legittimamente il permesso di realizzare ampliamenti volumetrici. Parliamo – prosegue Deliperi – di alberghi a volte mostruosi. Sono quelle strutture realizzate tra gli Anni 60 e 80, quando la sensibilità ambientale non esisteva”. Facciamo qualche esempio concreto: “C’è quel gioiello che erano le Rocce Rosse (Teulada) oppure Baia di Conte (Alghero). Ma la minaccia incombe anche su Stintino, Santa Teresa di Gallura, Villasimius e sulla Costa Smeralda già martoriata dal cemento”, spiega Deliperi. Aggiunge: “Si tratta di strutture realizzate secondo le leggi e di ampliamenti che sarebbero realizzati legittimamente”. Insomma, nessun abuso, qui le responsabilità sono politiche. E chi cerca di difendere il territorio rischia di avere le armi spuntate.

Ma il Grig ricorda anche altri rischi che incombono sulla Sardegna. A cominciare dalla battaglia per difendere gli usi civici: boschi, immobili e aree di proprietà collettiva che in un passato lontano furono requisiti ai nobili per diventare proprietà collettiva. I cittadini li possono utilizzare per pascolo, semina e raccolta della legna. In teoria sono garantiti da un vincolo perpetuo che li rende inalienabili. In pratica spesso sono stati oggetto di occupazioni, progetti privati, abusivismo.

In Sardegna è un tesoro di 4 mila chilometri quadrati sui 24 mila dell’isola. Ne fanno parte zone tra le più belle di questa terra: Capo Altano, di fronte all’isola di Carloforte, la Costa di Baunei a Orosei, le coste di Montiferru, l’entroterra, il Mont’e Prama. Buona parte del Gennargentu e del Sulcis sono usi civici, come alcune zone di Orosei dove sorgono alberghi a rischio ampliamento con il piano casa.

Sugli usi civici da anni è in corso una battaglia tra chi vorrebbe restituirli ai cittadini e chi cerca di lasciarli a chi se li è presi. “Oggi sta per essere completato l’accertamento delle zone a uso civico, ci sono voluti anni”, racconta Deliperi. Bisognerà, però, capire se dopo questo tesoro sarà davvero restituito a tutti i sardi.

Il fondatore del Gruppo di Intervento Giuridico ricorda, però, altre battaglie non ancora vinte: c’è, per esempio, il grande progetto di albergo a Capo Malfatano (vicino a Teulada, Cagliari). Era un promontorio selvaggio dove viveva una comunità di pastori. Ma poi arrivò una società che all’inizio vedeva la partecipazione della famiglia di costruttori romani Toti, dei Benetton e del Monte dei Paschi di Siena. “Si cominciò a costruire un hotel che, però, è stato bloccato dal Consiglio di Stato. Oggi una parte della struttura è ancora lì, in attesa che la giustizia amministrativa dica la sua ultima parola”.

E che dire di Tuvixeddu? Parliamo della più importante area archeologica sepolcrale punico-romana del Mediterraneo (oltre 2.500 tombe dal VI sec avanti Cristo fino all’Alto Medioevo). Proprio dentro Cagliari. Un accordo del 2000 prevedeva a pochi passi la costruzione di 400mila metri cubi di condomini. Cominciò una battaglia legale infinita. “Fermate le ruspe”, ricostruisce Deliperi, “un arbitrato attribuì al costruttore un indennizzo monstre di 80 milioni ddalla Regione. L’appello lo ridusse a un milione. Se adesso la Cassazione confermerà il giudizio di secondo grado, il costruttore dovrà restituire il denaro alla Regione”.

Regioni a trazione Lega: ora l’accordo sul bilancio non c’è

Solo spesa corrente, fermi tutti gli investimenti, gestione limitata alle sole operazioni necessarie per evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all’ente. Come una normale famiglia che non può spendere più di quanto percepisce mensilmente con la busta paga, anche tre Regioni con una giunta di centrodestra – Sardegna, Basilicata e Umbria alle quali si andranno ad aggiungere Sicilia e Valle d’Aosta, entrambe a statuto speciale – per i prossimi mesi dovranno limitare i loro impegni mese per mese senza poter effettuare alcuna programmazione, potendo in pratica fare affidamento per la gestione dei servizi sulle sole somme previste nel bilancio 2019. Tutto questo a discapito di economia, programmazione, servizi e investimenti.

Una grana non di poco conto che accomuna da molti anni gli enti locali, in cui i consigli regionali non riescono ad approvare entro il 31 dicembre la proposta di legge di bilancio e si affidano così al maggior tempo a disposizione che la legge concede loro: vale a dire l’esercizio provvisorio del bilancio viene, infatti, autorizzato per una durata complessivamente non superiore a tre mesi, con una legge adottata dallo stesso consiglio regionale, su proposta della giunta regionale, entro il 31 dicembre.

Quest’anno, però, le mancate approvazioni delle manovre regionali entro il 31 dicembre 2019 non sono passate inosservate, diventando scontro politico in vista delle sfide alle urne in calendario già dal prossimo 26 gennaio per conquistare le massime poltrone del governo regionale in Calabria ed Emilia Romagna.

Così il Movimento 5 Stelle parla “di primi disastri nelle Regioni guidate da Salvini”. “Arrivano, promettono mari e monti e poi – si legge sul blog delle Stelle – alla prova dei fatti, lasciano in eredità la fregatura. È il marchio di fabbrica della Lega, quel partito che mentre parlava di mirabolanti manovre da 50 miliardi di euro vedeva tre Regioni, nelle quali governa con il centrodestra, alzare bandiera bianca e dichiarare l’esercizio provvisorio”. Vale a dire le recenti conquiste su cui la Lega ha messo la sua firma.

Insomma, quello che è accaduto nella Sardegna del governatore Christian Solinas, eletto il 24 febbraio 2019, dove l’amministrazione di centrodestra ha impiegato ben tre mesi per varare la giunta e nei restanti sei mesi non è, invece, riuscita ad approvare la legge di Bilancio. Dopo due anni di contabilità regolare (gli ultimi della giunta di centrosinistra di Pigliaru), che la prima finanziaria della giunta Solinas non sarebbe arrivata a fine 2019 lo si sapeva giù dal 16 novembre, quando è arrivata l’ufficialità del via libera all’esercizio di bilancio provvisorio per i primi tre mesi del 2020. Il presidente Solinas negli scorsi giorni ha spiegato che il prossimo documento di programmazione varrà 9 miliardi. In Sardegna, è stato il Movimento 5 Stelle a fare la voce grossa. “Per il Carroccio, che si candida a governare il Paese, è un pessimo biglietto da visita”, ha twittato il ministro dei Rapporti con il parlamento Federico D’Incà.

Anche in Basilicata non è stato avviato il dibattito sul Bilancio della Regione, dove Vito Bardi è diventato governatore il 24 marzo scorso. Anche se la giunta è stata approvata in due mesi, non sono bastati i successivi 7 mesi per accordarsi sulla finanziaria regionale. Intanto il prossimo consiglio è stato fissato per il 14 gennaio 2020: solo allora inizierà il dibattito per uscire dalla gestione provvisoria che durerà almeno sino a fine gennaio-inizio febbraio. “È l’ennesima conferma del non cambiamento, anzi del peggioramento rispetto al governatore Pittella”, denunciano i 5 Stelle lucani. Mentre le opposizioni di centrosinistra – dagli esponenti del Pd, passando per gli indipendenti e per il gruppo di Italia Viva – hanno sottolineato come “la giunta abbia preferito organizzare il Capodanno Rai a Potenza, presenziando a tutti gli eventi di presentazione dell’evento, piuttosto che occuparsi dei reali problemi della Regione”.

Merita un capitolo a parte l’Umbria. Qui è stato il fattore tempo, o meglio la sua mancanza, la discriminante della presidente della Regione Umbria Donatella Tesei che, eletta lo scorso 27 ottobre, non è neanche riuscita ad avviare il confronto. Tanto che già lo scorso 4 dicembre ha fatto approvare alla sua giunta il bilancio provvisorio. Tra due mesi si passerà ai fatti.

Cemento libero in riva al mare: il piano Solinas

L’annuncio era arrivato alla vigilia di Natale, come un inaspettato dono sotto l’albero. Solo che dentro il pacco della giunta Solinas stavolta i sardi non hanno trovato regali, ma blocchetti di mattone e malta cementizia. Il nuovo Piano Casa dell’esecutivo sardo-leghista, se approvato, consentirà infatti di costruire anche all’interno della fascia inderogabile dei 300 metri dal mare, facendo a pezzi il Piano paesaggistico regionale targato Soru e la normativa quadro nazionale che disciplina le regole sul paesaggio. Un vulnus che rischia di costare la bocciatura in sede costituzionale al progetto approvato dalla giunta su proposta dell’assessore all’Urbanistica Quirico Sanna, ed è per questo forse che dopo l’annuncio in conferenza stampa il 23 dicembre il testo della norma a tutt’oggi non risulta ancora consultabile nel sito della Regione Sardegna.

Stando alla relazione che accompagna il progetto e che siamo riusciti a leggere in anteprima, l’obiettivo del disegno di legge “Disposizioni per il per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente ed in materia di governo del territorio” sarebbe quello di “incentivare e migliorare la qualità architettonica e la sicurezza strutturale del patrimonio edilizio esistente” tenendo però a mente “l’esigenza di coniugare le esigenze di tutela e valorizzazione delle valenze paesaggistiche, naturalistiche, storiche e culturali del territorio con gli obiettivi di sviluppo sostenibile”. Fin qui tutto bene, salvo a leggere poco più sotto che “in riferimento agli ampliamenti, sono stati previsti ulteriori incrementi volumetrici per gli edifici e le strutture destinate all’esercizio di attività turistico-ricettive ricadenti nella zona urbanistica F”, ovvero quella costiera tutelata in modo stringente dal Piano Paesaggistico Regionale, e dove ad oggi non è possibile piantare un chiodo in aggiunta all’esistente.

Si legge ancora nel testo che gli incrementi riguardano sia le strutture ubicate nella fascia oltre i 300 metri dalla linea di battigia, sia quelle nei 300 metri (precedenti al varo del Ppr) che ricadano nelle aree individuate ai sensi della normativa regionale nelle aree interessate da piani attuativi già convenzionati. Ma non basta, perché ai proprietari delle unità immobiliari e ai proprietari delle strutture turistiche aventi diritto viene concesso un ulteriore incremento del volume urbanistico esistente nel caso in cui rispettino alcune prescrizioni, quali ad esempio l’impiego di fonti di energia rinnovabili, di materiali locali, di tecniche costruttive che consentano il recupero di componenti costituenti gli edifici demoliti, di soluzioni in linea con la normativa europea sul rendimento energetico in edilizia.

Nel testo si legge che per le strutture residenziali ubicate nella fascia oltre i 300 metri dalla linea di battigia potrà essere realizzato, per ogni unità immobiliare, un incremento volumetrico pari al 30 per cento sino a un massimo di 150 meri cubi. Incrementi anche nella fascia dei 300 metri, nella misura del 20 per cento per un massimo di 100 metri cubi: equivale a dire che ogni struttura esistente potrà edificare in piano o in altezza l’equivalente di un quadrivano o di un trivano, a prescindere dalla vicinanza dal mare. I crediti volumetrici inoltre potranno essere ceduti dai proprietari delle unità immobiliari e delle strutture ricettive ad altri proprietari. Ma come sarà possibile attuare quello che appare come uno stravolgimento della disciplina paesaggistica in Sardegna, che veniva portata a esempio come applicazione virtuosa del dettato del Codice dei beni culturali e del paesaggio attraverso la copianificazione Regione – Mibact?

Semplice. Il ddl targato Solinas ha scelto di apportare “modifiche sostanziali delle recenti sentenze della Corte Costituzionale” e in linea con l’orientamento politico del governo regionale, “ad alcune leggi”, fra cui la vecchia legge 45 sull’uso e la tutela del territorio regionale e la legge n. 8 del 2015, ossia il vecchio Piano Casa prorogato per altri sei mesi poche settimane fa in Consiglio Regionale per l’impossibilità di arrivare ad approvare il nuovo testo entro i tempi previsti. Gli ambientalisti intanto sono già mobilitati con una petizione al ministero per i Beni Culturali sulla piattaforma Change.org: chiedono la salvaguardia delle coste sarde attraverso il mantenimento dell’assoluta inedificabilità della fascia dei 300 metri ed una vigilanza stringente al Mibact sul mantenimento del Piano Paesaggistico regionale, quale strumento di pianificazione attuativo del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Di Maio al M5S: “Restiamo compatti”. Ed espelle Paragone, senatore ribelle

Luigi Di Maio lo dice chiaro: serve un Movimento “compatto”. Basta polemiche a mezzo stampa, basta attacchi continui al leader e alla linea politica. E la presa di posizione pubblica del ministro ha un effetto immediato che ne dà anche l’interpretazione più corretta: chi non rema nella direzione comune non verrà trattenuto solo per convenienza numerica.

Il primo a farne le spese è Gianluigi Paragone, il senatore ribelle da settimane in polemica coi vertici e coi colleghi. Ieri il collegio dei probiviri – l’organo dei 5 Stelle composto da Raffaella Andreola, Jacopo Berti e dalla ministra Fabiana Dadone – ne ha decretato l’espulsione motivandola tra l’altro “con il voto espresso in difformità dal gruppo parlamentare sulla legge di bilancio”.

La contestazione di Paragone era in effetti arrivata anche a Palazzo Madama, dove il suo voto contrario alla manovra aveva di fatto sancito la parola fine sul suo rapporto col Movimento: “Sono stato espulso dal nulla – protesta adesso –, quando perdi 2 elettori su 3 ti espelle il nulla. Sono uno dei tanti elettori espulsi dal Movimento di Palazzo”.

Un esito scontato che Paragone non aveva fatto nulla per evitare, puntando però più ad attaccare il resto dei Stelle più che a difendere sé stesso. Dei giorni scorsi sono infatti le accuse ai morosi delle restituzioni – “chiederò di sanzionare chi non è in regola” – e le critiche al capo politico, rèo Paragone di aver appiattito il Movimento sulle posizioni del Pd: “Una parte del M5S si è accucciato all’area progressista del Paese, un’altra parte non sa più dove andare mentre qualcuno, come me, è rimasto alle radici di nucleo politico anti-sistema che a mio giudizio stava meglio con la Lega”.

E qui sta il peccato originale dello scontro, irrisolvibile perché già sepolto dalla crisi agostana. Paragone da tempo bombarda il Movimento perché convinto, da ex leghista, che l’unico buon governo possibile sia quello con Matteo Salvini. I 5 Stelle però, complici le poche alternative, hanno preso un’altra strada e Di Maio non ci sta a farla passare per un tradimento nei confronti dei propri principi storici.

La cacciata di Paragone arriva infatti nel giorno in cui il leader del M5S, in diretta Facebook, rivendica con orgoglio quanto fatto in questi mesi di governo dai 5 Stelle e critica a muso duro i cosiddetti “ribelli”, richiamando il Movimento all’unità. Il capo politico non ha gradito le continue lamentele – anche a mezzo stampa – dei malpancisti, ritenute spesso pretestuose: “In questi mesi abbiamo approvato 40 provvedimenti – scandisce – e lo abbiamo fatto avendo contro tutti i grandi giornali e tutto l’establishment”. Reddito di cittadinanza, quota 100 e altre bandiere identitarie che, secondo Di Maio, verranno confermate nel 2020: “Dobbiamo proteggere quanto realizzato e per farlo dobbiamo essere compatti e uniti”. E nel mirino, come noto, c’è il bersaglio grosso delle concessioni autostradali: “La retorica dei posti di lavoro persi con la revoca delle concessioni è una sciocchezza. Si perdono solo i profitti dei Benetton ed è giusto, perché non hanno fatto quanto dovuto. Bisogna riprenderci quella gestione”.

Motivi per cui, dice Di Maio, di recente all’interno del Movimento in tanti avrebbero fatto confusione soltanto per manovre di potere: “Abbiamo sempre detto che il Movimento 5 Stelle è un treno, con qualcuno che sale e altri che scendono. Purtroppo c’è anche chi decide di cambiare treno dopo essere entrato in Parlamento con la nostra casacca e grazie ai voti dei nostri sostenitori. Ci dicono che c’è un problema di verticismo, ma mi viene da ridere perché l’accusa arriva dagli stessi che prima vengono da me a chiedermi una carica e poi, quando non la ottengono, decidono di andarsene”.

Di Maio non fa nomi, ma conferma di aver ricevuto richieste “per un posto da commissario europeo o da presidente di commissione” da chi poi si sarebbe lamentato del Movimento più per rancore personale che per delusione rispetto alla linea politica: “Se avessero ottenuto quegli incarichi, allora il Movimento non sarebbe stato più verticistico?”. Una risposta alle dimissioni dell’ex ministro Lorenzo Fioramonti (passato al gruppo misto) e a chi, come Paragone, da tempo è in aperto contrasto coi vertici.

Il presepe del Colle non piace a Salvini, però alla Meloni sì

Siamo un popolo attaccato alle tradizioni infatti ogni Capodanno cascasse il mondo, al termine del messaggio augurale di Sergio Mattarella, Matteo Salvini, come Nennillo in Natale in casa Cupiello comunica al popolo italiano che ’o presepe non gli piace. Ora, è pur vero che salvo qualche pastorello in più o l’effetto led nella cometa ’o presepe è sempre lo stesso ma non è che Nennillo Salvini dimostri, benedetto ragazzo, chissà quale inventiva nel ripetere invariabilmente a me nun me piace.

Anzi no, questa volta anche se visibilmente provato dal patriottico cenone il nostro eroe nel tentativo di denigrare il presepe quirinalizio se n’è uscito con l’espressione “mellifluo” che, va riconosciuto, rappresenta un notevole progresso nel lessico leghista, che i soliti comunisti prevenuti collocano appena un gradino sopra all’alfabeto dei rutti. Per essere all’altezza del Salvini modello Devoto-Oli abbiamo scoperto che mellifluo significa: “improntato a blandizie affettata”, il che apre nuovi orizzonti alla contaminazione dei linguaggi e alla dialettica del Papeete. Ma la vera novità di questo inizio 2020 è che invece a Giorgia Meloni ’o presepe è piaciuto tanto (“discorso di alto profilo”) lasciandoci in un dubbio atroce. Un complimento a Mattarella o un calcio negli stinchi a Salvini? Nel propendere per la seconda ipotesi la scarsa simpatia (politica) che nutriamo per l’ex vicepremier non c’impedisce di condividere il giudizio a lui attribuito sulla sottile perfidia (politica) della leader di FdI. Che non paga di sottrargli voti e popolarità indossa adesso un profilo istituzionale che Salvini si sogna. Del resto, non v’è chi non veda come l’uomo che rischiò di annegare in un mojito, dopo una parziale risalita stia per affrontare un gennaio accidentato.

Il premier Conte che lo sfotte pronosticandosi a palazzo Chigi fino alla fine della legislatura. La candidata del Carroccio, Lucia Borgonzoni che in Emilia-Romagna viaggia stabilmente tre, quattro punti sotto al campione del centrosinistra Stefano Bonaccini. Il fenomeno delle Sardine che riempiono le piazze là dove egli raduna quattro amici al bar. Le inchieste giudiziarie su Moscopoli in via di definizione. E ora ci si mette pure la Meloni. L’uomo che voleva i pieni poteri si affida adesso al “cuore immacolato di Maria” ma con tutto l’apprezzamento per un fede vissuta con sobrietà e mai esibita non siamo così convinti che la misericordia divina possa dargli una mano. Quando in via Bellerio e dintorni cominceranno a interrogarsi sull’unico caso conosciuto (a parte forse qualche tribù nel deserto dei Gobi) di un leader che battezza un partito col suo cognome.

Se, poniamo il caso, il governo Conte desse ragione alle contumelie della destra inchiavardandosi alle poltrone. Se, per pura ipotesi, il voto alla Borgonzoni, un attimino problematico (dice il capo che “d’ora in poi con lei ci vedremo poco”) non fosse in linea con il Voto Mariano. E se, Dio non volesse, i sondaggi non si schiodassero da quel 30%, che è sempre tanto ma non abbastanza per fare a meno della Meloni e di Berlusconi. Se dunque gli eventi invernali contribuissero al congelamento della Lega e delle sue ambizioni di governo, per quanto tempo ancora Salvini potrebbe sfangarla con i suoi sbaciucchiando rosari? (Sia detto per inciso, se proprio dobbiamo morire sovranisti e potessi scegliere, con uno che s’ingozza di Nutella e poi si mette a dieta con un limone un accordo alla fine si trova).

Zingaretti vuole il “partito” di Conte (che non lo vuole)

Il Pd ora prova a sparigliare. E non solo perché è forte il timore che alla ripresa dei lavori parlamentari non basterà la verifica di maggioranza per interrompere le fibrillazioni che fanno sperare a Matteo Salvini che la fine del governo sia vicina e si possa tornare rapidamente alle urne. E così, nonostante il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si sia impegnato a fondo e pubblicamente per scoraggiare i delusi del Movimento 5 Stelle pronti a mettersi in proprio con l’idea di creare gruppi parlamentari a suo supporto, i dem provano a stimolare l’operazione.

In questa direzione vanno interpretate le fin troppo chiare dichiarazioni al Corsera dell’ultimo dell’anno di Goffredo Bettini, uno dei consiglieri più ascoltati dal segretario del Pd Nicola Zingaretti che, dopo la conferenza di fine anno di Conte (e nonostante le sue parole), ha rilanciato: “Sento un fermento di forze liberali, cattoliche, moderate ma sinceramente democratiche che intendono organizzarsi meglio contro la destra. Se Conte le dovesse raccogliere, questo sarà un bene” ha detto nell’intervista postata poi sui social.

Dove Conte come dice Bettini, è già percepito come “un alleato e non un nostro avversario”: lo si capisce bene dai commenti che sono di un tenore preciso. “Una lista Conte alleata con noi sarebbe auspicabile perché smonterebbe sul nascere tutte le velleità di Italia Viva che vuole spaccare il Pd. Conte è un sincero alleato. È uno dei nostri”, scrive un utente, certo che una lista contiana, in una prospettiva elettorale, possa servire anche a prosciugare il potenziale di Matteo Renzi. E ancora: “Conte, a differenza di Mario Monti negli anni passati, potrebbe far nascere quel partito libdem alleato con la nostra tradizione più socialista” scrive chi fa notare da dove viene il premier (da sinistra, ndr) e perché invece nel 2012, “fu sbagliata la scelta di Bersani di rincorrere Mario Monti il quale poi creò Scelta civica e contribuì a farci perdere le elezioni politiche del 2013”.

Umori e ragionamenti che si rincorrono nella comunità dem via web, ma che si fanno anche all’interno del Pd, specie tra gli eletti di Camera e Senato che vivono in trincea e fanno da conto a ogni votazione. “Non c’è nessun contiano tra noi” è la premessa di chi però ammette che la segreteria dem ha benedetto, anzi si prodiga proprio, per incoraggiare l’iniziativa che si porterebbe in dote il nome di Giuseppe Conte.

Perché potrebbe essere l’elemento di saldatura anche del quadro politico in vista del processo rifondativo del centrosinistra che sono in molti a chiedere a Zingaretti. Un campo largo in cui coinvolgere anche i liberal di Carlo Calenda e proprio Conte a cui – fa notare un big del Pd con ottime entrature al Quirinale – è bastato partecipare a un convegno organizzato dal forzista Gianfranco Rotondi su Fiorentino Sullo in Irpinia per riaccendere le speranze dei cattolici. Sì, perché a ottobre al convegno organizzato sul contributo dei cattolici alla Costituente, brillarono gli occhi non solo a Rotondi, molto a disagio in Forza Italia, ma pure alle vecchie glorie Dc e a tutti quanti credono a una nuova prospettiva per il partito cattolico e non lo vogliono consegnato all’ex rottamatore di Rignano nemmeno per scherzo.

L’iniziativa che va intestata a Conte (Repubblica in un colloquio con il premier ha enfatizzato la sua intenzione di non ritirarsi dalla vita politica come un Cincinnato qualunque) insomma serve al Pd per il tempo differito della progettualità del cantiere del centrosinistra. E serve naturalmente per il tempo presente in cui si balla. E infatti c’è chi si lascia sfuggire anche il timing: “Da qui ai prossimi due mesi l’assetto del quadro politico cambierà profondamente: Zingaretti se ne è convinto e quindi il partito deve accelerare il processo di costruzione di una rete perché il Movimento 5 Stelle può venire giù da un momento all’altro”.

Non fosse altro perché, in assenza di un’iniziativa politica che abbia il sapore della prospettiva oltre la legislatura, non rimarrebbe che affidarsi, per salvare quella che è in corso, alla forza d’inerzia o alla capacità di resistere e di prevedere possibili incidenti in Parlamento. “In queste condizioni in cui non si sa se altri pentastellati passeranno con la Lega o se si metteranno in proprio come ha fatto Fioramonti che intanto ha aderito al gruppo Misto, l’occasione di uno scivolone a gennaio non mancherà” dice chi guarda con preoccupazione al calendario. Perché il voto in Emilia Romagna è fondamentale, ma poi ci sono i decreti da convertire, gli accordi di maggioranza che non si chiudono, i continui “controcanti renziani”.

Sull’autorizzazione a procedere richiesta dai magistrati di Catania nei confronti di Salvini al Senato si voterà in Giunta il 20 gennaio ma nei successivi 30 giorni la pratica passerà in aula a Palazzo Madama dove invece lo scrutinio è segreto. Data, secondo i più, da cerchiare con il rosso.

2020: Ecco che cosa ci aspettiamo dal Conte 2

 

Economia

I soldi pubblici serviranno ancora a tenere in piedi i fallimenti privati

Stefano Feltri

Dopo anni di tecnici a fare i ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri (Pd) è un politico. Ma invece di suggerire una strategia coerente di politica economica, finora Gualtieri si è speso molto per dare una cornice di coerenza politica a interventi frammentati. Presenta l’intervento pubblico su Ilva, Alitalia e Popolare di Bari come un ritorno dello Stato alla regia dell’economia in risposta ai “fallimenti di mercato”. In realtà il mercato ha funzionato, sono i privati che hanno fallito (i Riva e Mittal con l’Ilva, Etihad con Alitalia, Jacobini-De Bustis con PopBari), lo Stato ora si prepara a farsi carico di miliardi di euro di perdite per anni, nel timore di conseguenze occupazionali e politiche immediate. Gualtieri lo ha chiaro, si legge tra le righe nelle sue interviste, ma si comporta da soldato più che da generale e difende anche l’indifendibile. Come ha fatto con la legge di Bilancio: ha “disinnescato” l’aumento dell’Iva da 23 miliardi con un po’ di coperture drastiche (tipo una nuova Robin Tax, già dichiarata incostituzionale, sui concessionari invece di una vera revisione delle concessioni) e deficit. Ma il gettito previsto dalle clausole di salvaguardia rimaste è di 47 miliardi nel prossimo biennio. Gualtieri promette di farla finita con queste clausole che nascondono soltanto altro deficit. Ma come altri ministri prima di lui, non sembra trovare orecchie sensibili nei leader di maggioranza. Dopo il crac di PopBari, Gualtieri ha accennato una critica alla Banca d’Italia. Sarà interessante vedere se avrà il coraggio di chiamare il governatore Ignazio Visco a rispondere dei disastri della vigilanza o se invece asseconderà l’inclinazione di Pd e M5S a risarcire i “truffati” e a chiudere il caso con la solita vagonata di miliardi pubblici.

 

 

Infrastrutture

Più gare, più competizione: basta buttare denari in opere inutili

Marco Ponti

1. Continuare la graduale eliminazione delle concessioni autostradali, e normalizzare il settore.
Le autostrade gli utenti le hanno già pagate. I pedaggi sono diventati una tassa iniqua ed arbitraria. Il settore della viabilità va gestito in modo unitario, e affidato in gran parte alle Regioni, dove c’è il 75% del traffico e tutte le informazioni sullo stato della rete. Per finanziare il settore, ricorrere dove occorre a “tariffe di congestione”, come in Germania.
2. Fare le gare previste dall’Europa per il trasporto pubblico locale.
Questo per ridurre i costi a parità di servizi, o per aumentare i servizi là dove occorre. Evitare che i Comuni facciano trucchi per evitare le gare a danno dei cittadini.
3. Aumentare la competizione nelle ferrovie, guardando ai risultati per l’Alta Velocità
La concorrenza ha migliorato i servizi e ridotto le tariffe, perché non fare la stessa cosa per i servizi dei pendolari e per la gestione della rete?
4. Evitare sprechi in infrastrutture inutili, come si sta ancora facendo adesso. Quella massa di miliardi va spostata sulla manutenzione e soprattutto sulle tecnologie per motori puliti e guida automatica, come fanno tutti i paesi sviluppati. Altrimenti rischiamo davvero di rimanere indietro. Smettere di far fare analisi costi-benefici a chi è interessato a dire sempre di sì a tutto, cioè a “chiedere all’oste se il vino è buono”. Il cemento non fa crescere il PIL, al contrario delle tecnologie.
5. Smettere di buttare soldi pubblici in Alitalia.
I contribuenti gli hanno già dato più di 10 miliardi senza risultati. È chiaro che i soldi e le garanzie pubbliche sono la malattia, non la cura.

 

Interno

Lavorare sull’insicurezza percepita, soprattutto nei pressi delle stazioni

Peter Gomez

A chi a paura o si sente insicuro non serve rispondere, come fa spesso la sinistra, solo con i dati che dimostrano come in Italia i reati siano in calo da anni o con le percentuali che raccontano come le nostre città siano in media più sicure di quelle di buona parte d’Europa. L’insicurezza percepita è infatti uno stato d’animo che esiste, che è inutile criticare e che può invece essere modificato dalle scelte politiche. Per prima cosa va preso atto che i dati cambiano a seconda delle zone del paese e della varie città: vi sono aree sicurissime (la maggioranza) e altre invece dove davvero la criminalità è padrona. Le nostre stazioni ferroviarie, ad esempio, sono spesso luoghi dove si accalca un’umanità dolente a volte spinta dalle condizioni economiche all’illegalità. Qui, accanto agli interventi in favore dei più poveri ne sono necessari altri di ordine pubblico e di riqualificazione edilizia. A Milano, un anno e mezzo fa, una serie di pattuglioni delle forze di polizia ripetuti a poca distanza di tempo, sommati ai lavori di sistemazione dello scalo, hanno spinto le persone che lì bighellonavano regolarmente a spostarsi in aere di minor passaggio. Il problema di chi suo malgrado vive ai margini della società non è stato risolto, è vero. Ma è bastato questo per far percepire una maggiore sicurezza alle centinaia di migliaia di cittadini che transitano quotidianamente in Centrale. In tutte le altre stazioni dei nostri capoluoghi si deve agire subito nello stesso modo. Mentre nelle periferie delle metropoli vanno a poco a poco recuperati gli edifici fatiscenti (il bonus facciate è una buona strada) e si deve intervenire di continuo nei luoghi di ritrovo della piccola criminalità. Lo Stato deve insomma essere sempre più presente. Solo così i cittadini si sentiranno meno soli.

 

Lavoro e politiche sociali

Attenti allo sviluppo senza lavoro, è già qui e va affrontato per tempo

Domenico De Masi

Premessa. I problemi che si trova davanti il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali all’inizio del 2020 sono tutti connessi al fenomeno del jobless growth, lo sviluppo senza lavoro. Se si guarda il fenomeno nei tempi lunghi si scopre che nel 1891 gli italiani erano 40 milioni e in un anno lavorarono 70 miliardi di ore. Cento anni dopo, nel 1991, erano 57 milioni e lavorarono 60 miliardi di ore: con 10 miliardi di ore di lavoro in meno, produssero 13 volte più del 1891.
Nel 2020 il jobless growth proseguirà, accelerando. Un buon esempio da imitare è la vicina Germania: rispetto a un italiano, un tedesco lavora il 20% in meno, produce e guadagna il 20% in più, fruisce di un welfare più generoso. Le 400 ore annue che ogni tedesco fa meno di un italiano consentono alla Germania di avere il 3,8% di disoccupati (contro il nostro 10%) e il 79% di occupati (contro il nostro 58%). L’effetto positivo del jobless growth è che, consistendo in un aumento della produzione di beni e servizi con minore impiego di lavoro umano, crea più ricchezza da distribuire e tempo libero da valorizzare.
Invece l’effetto negativo immediato del jobless growth è che, nelle fasi di transizione, esso crea sacche di disoccupazione e di povertà. Di qui l’importanza dei centri per l’impiego, che in Italia versano in situazione disastrosa, e del reddito di cittadinanza che in Italia, a dispetto della narrazione tutta negativa artatamente fornita dai media, è stato un vero, insperato successo. Sulla base di tali premesse, il ministero deve:
1. Impostare e varare la riduzione dell’orario di lavoro puntando sulle 32 ore settimanali;
2.Impostare e varare il salario minimo;
3.Rilanciare il reddito e la pensione di cittadinanza, con le sole eventuali correzioni suggerite dall’esperienza del 2019;
4. Perfezionare la rete dei centri nazionali per l’impiego;
5. Incoraggiare l’incremento della produttività, soprattutto promuovendo l’addestramento professionale e la formazione manageriale;
6. Rilanciare, migliorandolo, il piano “Impresa 4.0”.

 

Sviluppo economico

La trappola dell’Iri-bis e il 5G di Huawei: i due nodi che Patuanelli deve sciogliere

Giorgio Meletti

Stefano Patuanelli renderebbe più sicura la marcia del governo ristabilendo il senso del tempo. Il ruolo del ministro è indicare alla struttura che dirige quali sono le cose importanti e quali quelle urgenti; e quali sono le cose da fare subito e quelle da fare con ottica pluriennale. Concretamente: la cosa più importante fattibile in tempi brevi è riorganizzare il Mise che il suo predecessore Luigi Di Maio ha ridotto alla sostanziale inazione.
La ricostruzione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), che Patuanelli ha indicato tra i suoi obiettivi strategici, ammesso che sia una buona idea, richiede anni per formare una squadra manageriale degna degli Oscar Sinigaglia spesso evocati a sproposito. Rifare l’Iri in pochi mesi vuol dire regalare qualche miliardo pubblico ai soliti “prenditori” all’italiana. Per formare una squadra di dirigenti con cultura industriale basterebbe reclutare al ministero un plotone di giovani motivati, reclutati con criteri trasparenti e non nel retrobottega di qualche Meetup o circolo Pd. È invece urgente interrompere le due tragedie/farse chiamate Ilva e Alitalia. Se il governo non prende decisioni rapide si perpetuerà il logoro copione in scena da anni: rinviare, rinviare e ancora rinviare, buttando miliardi di denaro pubblico e chiamando questa presa in giro “politica industriale”. La vera rivoluzione è chiamare le cose con il proprio nome. Se il Copasir ha detto che il ruolo della cinese Huawei nella nuova rete 5G pone problemi per la sicurezza nazionale, Patuanelli contribuirebbe alla autorevolezza sua e del governo rispondendo nel merito. Se dice, come ha fatto, che la tecnologia Huawei “costa meno” non fa altro che alimentare i sospetti di rapporti opachi tra la Cina e il M5S.

 

Riforme istituzionali

Salvo sorprese, avremo il Parlamento “dimagrito”. E un gennaio caldissimo

Silvia Truzzi

L’anno delle riforme comincia prestissimo, il 12 gennaio, giorno in cui si congela l’entrata in vigore della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari (da 945 a 600), approvata l’8 ottobre scorso a maggioranza bulgara dalla Camera. Sempre che nessuno dei senatori ritiri la firma necessaria per la richiesta del quesito (cosa ancora possibile).
E comunque è difficile pensare che i partiti metteranno la faccia nei comitati per il No, dato che il taglio ha un ampissimo consenso nel Paese: non è mai un male però quando i cittadini si esprimono (sarebbe stato utile poterlo fare con la sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione). Alla fine il taglio passerà e il prossimo passo sarà l’adeguamento di tutti i precetti costituzionali che regolano le maggioranze al nuovo Parlamento “dimagrito”.
Anche se non è non di spettanza del ministro (ed anzi, è materia squisitamente parlamentare!), sul tavolo resta la legge ordinaria che più si avvicina a quelle costituzionali, cioè la legge elettorale. È la legge più negletta, perché si tende ad approvarla sempre all’ultimo momento, sull’onda dell’ultimo sondaggio, cioè della maggiore (supposta) convenienza per i partiti. Invece la legge elettorale, regolando il rapporto tra rappresentanti e rappresentati, garantisce il patto democratico. Dovrebbe essere la migliore possibile per il sistema, non il risultato di alchimie o porcherie (copy Roberto Calderoli) che necessitano sempre dei correttivi della Consulta.
Ora con la riduzione dei parlamentari, a tutela delle minoranze, è auspicabile un sistema proporzionale, cioè quello che darebbe al prossimo Parlamento il mandato più pieno. Magari per provare ad attuare i tanti principi ormai quasi completamente svuotati (diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute).
L’attuazione della Carta sarebbe la più rivoluzionaria tra le riforme costituzionali.

 

Esteri

Recuperare autonomia da Palazzo Chigi e pesare di più in Nord Africa

Salvatore Cannavò

Il ministero degli Esteri sconta la progressiva debolezza nei confronti di Palazzo Chigi, sempre più vero detentore dei dossier internazionali più importanti e l’adesione all’Unione europea contribuisce a rendere debole il ruolo. Per questo motivo la priorità sarebbe quella di valorizzare la struttura che il ministro ha a disposizione e che invece sta inviando da tempo insistenti, quanto diplomatici, messaggi di insofferenza. La seconda cosa importante è che il ministro degli Esteri è un lavoro a tempo pieno (in realtà tutti i ministeri lo sono) e non andrebbe mai condiviso con la responsabilità di leader di partito. Forse servirebbe una norma ad hoc.
Nel merito, invece, la vera priorità è non scomparire nel Mediterraneo. Il “mare nostrum” è tornato da tempo a svolgere un ruolo cruciale nel mondo, anche in forza del commercio marittimo, il 41% del totale. Ma l’Italia sembra non avere forza politica. Soprattutto in Libia dove Turchia e Russia stanno giocando una partita molto avventata e spregiudicata e Roma, invece, sembra spettatrice nonostante la recente visita di Luigi Di Maio. Facendo lavorare meglio gli uffici a disposizione l’Italia dovrebbe concentrarsi su questo, prendendo una iniziativa forte sulla Libia, anche con una battaglia nella Ue. Un’iniziativa di pace, diplomatica ed economica. Anche per questo sarebbe utile fare da sponda alle movimentazioni democratiche del Nord Africa, a esempio in Algeria. E servirebbe utilizzare due leve economiche, vista la delega sul commercio internazionale: utilizzare la legge 185 sull’export di armi per dare chiari segnali ai paesi che violano i diritti umani; capire la “geopolitica dei porti” che sta rendendo il Mediterraneo una piattaforma logistica preziosissima. Infine, come atto non solo simbolico di dignità nazionale e rispetto dei diritti umani, portare a casa finalmente la verità e le condanne per l’omicidio di Giulio Regeni.

 

Ambiente

Dire la verità come Churchill per costruire una società resiliente

Luca Mercalli

A dispetto della narrazione economica che vede la crisi come passeggera e pronta a veder aumentare crescita e Pil restituendo a piene mani occupazione e prosperità, le scienze naturali non la pensano così. Si stanno anzi accumulando sempre maggiori evidenze di un prossimo collasso ambientale-energetico-sociale globale dovuto al raggiungimento dei limiti fisici del sistema Terra. Consumiamo troppe risorse, produciamo troppi rifiuti, bruciamo troppi combustibili fossili che cambiano il clima, cementifichiamo troppo suolo, estinguiamo troppe specie, abbattiamo troppe foreste, peschiamo troppo pesce. L’impronta ecologica oltrepassa le potenzialità del pianeta e produce un pericoloso debito ecologico che intacca il capitale naturale. Ci sono Paesi più fragili di altri come l’Italia, che non solo ha un elevato debito monetario, ma vive pure tre volte al di sopra delle proprie risorse naturali interne ed è esposta a una variegata casistica di danni climatici e idrogeologici. Se fossi il presidente del Consiglio racconterei queste cose ai 61 milioni di italiani. Di quanta energia necessitano (circa 2800 kg di petrolio equivalente all’anno), da dove la prendono (estero), come possono risparmiarne e produrla internamente con le rinnovabili, come possono ridurre gli sprechi di cibo e basarsi il più possibile sulla produzione interna, come fare meno Pil e meno rifiuti e essere più sostenibili per diventare meno fragili e più resilienti. È l’unica visione di futuro realmente possibile, le altre sono promesse fallaci. Rinunciare al superfluo, difendere il necessario per non perdere tutto. Come disse Churchill agli inglesi nel 1940: “Non ho da offrire se non lacrime, sangue, fatica e sudore” in cambio della vittoria. Era semplicemente la verità, ma tutti insieme ce la fecero.

 

Istruzione

La politica finanzi scuola e università poi lasci i professori liberi di insegnare

Tomaso Montanari

Il 2020 rischia di essere un anno perduto dietro alla riorganizzazione decisa da Conte per neutralizzare mediaticamente le dimissioni di Lorenzo Fioramonti. Sul piano culturale la divisione tra scuola e università è una pessima idea. Come anche dare la scuola a una preside e l’università a un rettore: quasi che la politica volesse lavarsi le mani di questo settore cruciale, dandolo in appalto alle rispettive corporazioni.
Nessun dubbio sulla persona di Gaetano Manfredi, ma è un fatto che i ministri rettori (da Luigi Berlinguer a Stefania Giannini) sono stati i più disastrosi: e non per caso, vista l’enorme responsabilità della classe dirigente universitaria nello sfascio dell’università stessa.
In ogni caso, la questione messa al centro del discorso da Fioramonti non è stata affatto risolta. Nessuna delle interviste a Manfredi apparse in queste ore affronta il nodo principale: otterrà il miliardo che serve (ed erano parole dello stesso Manfredi come presidente della Conferenza dei Rettori) alla “tenuta del sistema universitario”? E, se come tutto lascia credere, non ci riuscirà, perché ha accettato quel posto?
Oltre alla fondamentale precondizione dei finanziamenti, sul tavolo dell’università c’è un’altra questione che andrà sciolta entro il 2020: quella dell’Agenza Nazionale della Ricerca fortemente voluta da Giuseppe Conte. Di fatto, un secondo tentativo (dopo quello, per fortuna fallito, delle cattedre Natta sostenute dal governo Renzi) di mettere la ricerca sotto il controllo del governo. La parte sana dell’università dovrà attrezzarsi a resistere in ogni modo.
Quanto alla scuola, la priorità continuano a essere le assunzioni a tempo indeterminato e i fondi ordinari. E poi la sburocratizzazione: lo smontaggio di tutte le pseudo-riforme incrostate in questi anni. Lasciare liberi gli insegnanti di insegnare sarebbe l’unica rivoluzione necessaria.

 

Editoria

Subito il rinnovo dei vertici di Agcom e Privacy, poi liberare la Rai dalla politica

Giovanni Valentini

Nel campo minato del sistema mediatico, il primo obbligo a cui la maggioranza di governo deve adempiere è il rinnovo dei vertici nelle due Autorità indipendenti che sono scadute e sopravvivono in regime di “prorogatio” per l’ordinaria amministrazione: quella di garanzia sulle Comunicazioni che vigila sull’informazione, sulla tv e sulle Tlc; e quella sulla Privacy che si occupa di materie affini come la tutela della riservatezza e la diffusione dei dati personali. Negli ultimi giorni del 2019, il presidente della Repubblica ha fatto opportunamente filtrare la sua ostilità a ulteriori proroghe. E non si può che dargli ragione, per evitare che due settori nevralgici come questi restino ancora nel limbo dell’incertezza e della paralisi.
Il secondo obiettivo che questa maggioranza parlamentare è tenuta a perseguire è una riforma organica della Rai, per liberarla finalmente dalla sudditanza alla politica. Si tratta di affrancare il servizio pubblico dalla subalternità alla partitocrazia, trasferendo il controllo dell’azienda dal ministero dell’Economia a un soggetto terzo, rappresentativo delle varie componenti della società italiana. Toccherà a questo organismo nominare un consiglio di amministrazione, con un ad e un direttore editoriale indipendenti dal potere politico. Basta immaginare che cosa diventerebbe la Rai sotto un governo sovranista alleato di Silvio Berlusconi, per rendersi conto che questa riforma non è più rinviabile.
L’Agcom, la Privacy e la Rai sono i cardini su cui deve imperniarsi la difesa del pluralismo e della libera concorrenza. Ma, per completare il quadro, è necessario garantire la diffusione di Internet superveloce sull’intero territorio nazionale, attraverso una rete a banda ultra-larga che riduca le distanze fra le “due Italie” e fra l’Italia e il resto del mondo.

 

Diritti civili

Tra sardine e sedie bianche, subito le leggi su eutanasia e omotransfobia

Maddalena Oliva

Ripartiamo da una sedia. Bianca. E dalla scritta che il presidente Mattarella si è ritrovato a leggere su questo omaggio natalizio, ricevuto da un’associazione di disabili, i ragazzi della “Locanda del Terzo settore-Centimetro zero”. Lo schienale della sedia recita l’americano Charles Evans Hughes (repubblicano): “Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi”. L’orizzonte, per chi scrive, rimane sempre quello di una società in cui a vigere sia un sano diritto all’indifferenza (come insegnano molte lotte trans), ma, tant’è, siamo solo al 2020. E la strada dei diritti civili resta lunga. Eppur qualcosa si muove. Le sardine, per esempio: ragazzi e ragazze, ma non solo loro, che spingono per colorare l’anima di questo governo giallorosa. Non a caso, la loro prima richiesta ufficiale alla politica, dopo l’abrogazione dei decreti Sicurezza, è stata l’approvazione della proposta di legge contro la violenza omotransfobica a firma del deputato Pd Alessandro Zan, già in discussione alla Camera. A prescindere da come la si pensi sul movimento, c’è la spinta a sostenere “quei politici che hanno il coraggio di battersi per l’uguaglianza e la giustizia sociale, contro la violenza, specie quella con intenti discriminatori”. Non vogliamo un Parlamento di sardine, ma si potrebbe intanto approfittarne per approvare subito questa legge.
Così come – a Marco Cappato ormai stanno diventando tutti i capelli bianchi – doveroso sarebbe incardinare un dibattito parlamentare sulle proposte di legge sull’eutanasia: oltre al testo di legge di iniziativa popolare, ve ne sono altri molto validi depositati alla Camera. Non chiediamo sul tema un accordo di governo (anche perché, a proposito di diritti, quando sono state pronunciate le parole “ius soli”, abbiamo visto cos’è successo), ma l’impegno a discuterne, sì. Insomma, visto che col Natale abbiamo promesso di essere tutti un po’ più buoni, le sardine impongono sui diritti civili “più speranza e coraggio”. Almeno fino all’Epifania. Se 2020 o 2021, vedremo.

 

Salute

Più ospedali e maggiore trasparenza, serve un’Anac anche per la Sanità

Daniela Ranieri

Siamo andati a trovare il ministro Roberto Speranza al ministero nei giorni di festa. La direzione in cui vuole portare la gestione della Sanità è l’applicazione dell’art. 32 della Costituzione, finora disatteso: la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività e garanzie di cure gratuite agli indigenti. Le misure dei primi 100 giorni sono positive: abolizione del superticket per tutti; 2 miliardi al Sistema Sanitario Nazionale (erano 1 miliardo e 70 milioni nel 2019 e 827 milioni nel 2018); 2 miliardi extra per l’edilizia sanitaria (costruire nuovi ospedali può ridurre le liste d’attesa e le giornate sulle barelle nei pronto soccorso); 15% di risorse in più per le assunzioni di personale (rispetto al 5% del 2019); 235 milioni per la strumentazione diagnostica nei 50mila studi medici di base; stabilizzazione dei precari; possibilità di prenotare esami e visite nelle farmacie.
Proposte per il futuro. Potenziamento del pubblico: ambienti ospedalieri salubri e non punitivi (specie per i bambini) e nuove Asl. Giustizia sociale: distinzione dell’ammontare del ticket in base al reddito (senza spingere i ricchi a rivolgersi al privato). Da concertare con l’Istruzione, abolizione del numero chiuso a Medicina e introduzione dell’insegnamento di educazione medico-sanitaria a scuola. Trasparenza: gli strumenti di prima diagnosi per gli studi medici saranno acquistati tramite le stazioni uniche appaltanti; ciò non deve esonerare dalla vigilanza sulla correttezza delle procedure e sul loro uso esclusivamente pubblico. I medici hanno convenienza a prescrivere un esame presso una data struttura o un certo farmaco? Si può prevedere un’Anac della Sanità? Da ultimo: riduzione della burocrazia a carico dei pazienti e cartella clinica digitale a disposizione immediata di ogni cittadino.

 

Giustizia

Difendere il blocco della prescrizione e corsie preferenziali per i reati fiscali

Gian Carlo Caselli

1. Tenere ferma la norma sulla prescrizione (operativa da ieri), senza accettare compromessi. Anche per non dare ulteriori scuse a chi dice di non volerla finché il processo non sarà riformato. Perché se proprio si temono dalla nuova prescrizione effetti nefasti (che per altro non ci saranno) allora ci si dia subito da fare – davvero e non solo a parole – per avere un processo più rapido.
2. Incrementare le risorse, specie il personale amministravo in cronica e grave crisi, appena scalfita dagli ultimi arrivi; ovviamente rifiutando i giochi di prestigio del passato tipo riduzione delle piante organiche.
3. Se abolire l’appello (che non esiste praticamente in nessuno dei paesi che come il nostro hanno un sistema processual-penale di tipo accusatorio) non si può, perché da noi le resistenze corporative degli avvocati e quelle dei “neogarantisti” sarebbero insormontabili, si provveda almeno a rimodulare il sistema delle impugnazioni per disincentivare quelle dilatorie e pretestuose riguardanti il rito d’appello, cioè la fase processuale più sofferente in tutt’Italia (vedi il Sole-24 ore del 23.12, secondo cui la sua durata media è di 759 giorni contro 323, 375 e 132 rispettivamente di procura, tribunale e cassazione).
4. Aumentare la pena (ora 5 anni) suscettibile di patteggiamento, istituto ormai metabolizzato dal sistema con pieno titolo e dignità.
5.Prevedere corsie preferenziali per i reati fiscali, contribuendo a rendere la lotta all’evasione qualcosa di più serio di una grida manzoniana.
7. Posto che le procure di regola sfornano molti più processi di quanti i tribunali smaltiscono, elaborare un meccanismo basato sullo studio dei flussi (con il vaglio del CSM e del Consiglio giudiziario) che impegni il tribunale ad organizzarsi in modo da celebrare ogni anno un congruo numero di processi, cui dovrebbe tendenzialmente adeguarsi la procura.

 

Famiglia

Un unico grande problema: la natalità in Italia (Viva) al 4%. Bonus Capodanno

Selvaggia Lucarelli

La ministra Elena Bonetti, esponente di Italia Viva, ha al momento un solo grande problema di natalità: in Italia, e in Italia Viva, la crescita dei nuovi arrivati è al -4%. Nessuno fa più figli e i genitori single trovano il tempo per viaggiare, per uscire a cena, per coltivare i propri hobby, ma non quello per andare alla Leopolda.
Un bel problema, per la ministra Bonetti, che sta tentando in tutti i modi di incoraggiare gli italiani a figliare, sebbene la tentazione di assecondare il trend, aspettare che Salvini dica “Prima gli italiani!” e vedere che dalla fila avanzano in quattro, sia di sicuro fortissima.
Facendo due calcoli, senza più nascite e con gli sbarchi azzerati, entro il 2050 l’Italia sarà ripopolata sì, ma dal Dodo, che apparirà nel maceratese dopo trecento anni dall’estinzione a Mauritius. I dati, in effetti, sono allarmanti: in Italia una famiglia su tre è single.
Se a questo si aggiunge che secondo i sondaggi le famiglie italiane hanno speso per il cenone di Capodanno mediamente 94 euro, accresce la preoccupazione per i single che hanno comprato 94 euro di cotechino e lenticchie per strafogarseli da soli, dunque oltre al bonus bebè io al posto della Bonetti prevederei un urgente speciale bonus lavanda gastrica per Capodanno.
Bella anche la trovata del bonus RC auto, secondo il quale l’assicurazione familiare consentirebbe agli appartenenti della stessa famiglia di assicurare i veicoli nella classe di merito più bassa presente in famiglia.
La nonna ottantanovenne che guida solo la domenica per andare a messa a una velocità di almeno 30 km orari sotto i limiti consentiti e che sulle strisce fa attraversare anche la busta di plastica sollevata dal vento, diventerà mito e riferimento di figli e nipoti con i consueti tre punti sulla patente, così da rinvigorire e rinsaldare il nucleo familiare. Brava Bonetti.

 

Difesa

Rivoluzionare alleanze nel Mediterraneo e in Europa per tornare a contare

Fabio Mini

Questo governo, come i tre precedenti, pensa di recuperare lo scarso perso nel Mediterraneo e in Europa, cercando l’alleanza e il benvolere di tutti, volando bassissimi, con politica estera e militare passive. È necessario pensare a qualcosa di drastico: una rivoluzione. Occorre esser provocatori e destabilizzatori, ma nel rispetto della Costituzione e con gli strumenti legali che possediamo. Per esempio: 1) Chiedere l’espulsione da Ue e Nato dei paesi che con la scusa della “minaccia” russa o cinese o per smania di potere di fatto sono antieuropei. Il motivo “legale” c’è: nessuno di essi rispetta gli standard di democrazia e cooperazione. 2) Porre il veto per l’ingresso di nuovi paesi che abbiano gli stessi orientamenti (tipo Ucraina). 3) Riformulare il Trattato del Nord Atlantico (Nato) considerandone membri solo Nordamerica (per conto di Usa e Canada) e Ue per conto di tutti i paesi europei membri della Nato anche se non della Ue. “Assegnare” alla Nato un contingente di forze europee sotto comando e controllo unitari: l’Italia potrebbe sospendere la partecipazione alle operazioni Nato e sottoporre a revisione anche lo status delle basi militari Usa in Italia. 4) Proporre all’Europa un accordo quadro con la Cina che consideri gli interessi dei paesi del Mediterraneo. 5) Attivare all’Onu le procedure per chiedere a Israele di sottoscrivere e rispettare il trattato di non proliferazione delle armi nucleari, di cessare i raid su Siria e Libano e di rispettare i diritti umani dei Palestinesi. 6) Denunciare l’Egitto per violazione dei diritti umani dei dissidenti e per l’interferenza armata in Libia. 7) Annullare i contratti sugli armamenti all’Arabia Saudita e a tutti i paesi in guerra diretta o per delega. 8) Proporre la rimozione delle sanzioni contro Iran e Russia e riprendere i rapporti commerciali. 10) Sottrarre la Libia all’abbraccio mortale di Usa, Russia, Turchia e anglo-francesi che di fatto se la vogliono spartire: sostenere (anche con strumenti militari) solo chi vuole che il paese sia democratico, unito o federato.