Il Banal Grande

Ogni volta che Mattarella fa il discorso di Capodanno, penso a Brian di Nazareth, il film dei Monty Python. E sospetto che ci prenda anche lui tutti quanti in giro. Il messaggio di San Silvestro è un genere letterario a sè. Dopo Cossiga, è raro che contenga qualcosa di originale. Eppure ogni anno attira più anticipazioni dei libri di Vespa. E, appena finito, tutti i politici plaudono a prescindere, tranne Salvini che dissente di default. Su siti e quotidiani si mobilitano schiere di turiferari rapiti da cotanto genio: quirinalisti, esegeti, interpreti, traduttori, lettori tra le righe e in trasparenza, esperti del linguaggio dei segni, del corpo e del sopracciglio, retroscenisti, politologi, paleontologi, grafologi, filosofi, semiologi, decrittatori e teologi alla ricerca dei messaggi nascosti, impliciti e cifrati che il presidente voleva lanciare ma non poteva esplicitare. E qui entra in scena Brian di Nazareth, che prova a ripetere le parabole di Gesù, ma nessuno lo prende sul serio: “Contemplate gli uccelli nei campi”. “Quali uccelli?”. “Tutti”. “E perché?”. “Beh, ce l’hanno loro un lavoro?”. “E perchè dovrebbero averne uno? Ma che è ubriaco, quello? Boh, dice che gli uccelli sono scrocconi”. “Ah, no, ecco, il punto è che gli uccelli se la cavano benone, no?”. “E allora? buon pro gli faccia, no?”. “Certo, e voi siete molto più importanti di loro: allora di che cosa vi preoccupate? Chiaro, no?”. “Io voglio solo sapere perché ce l’hai con gli uccelli”. “Ma non ce l’ho per niente con gli uccelli! Contemplate i gigli, allora”. “Mo’ se la prende pure coi fiori”. “Sentite: un uomo diede dei talenti ai suoi due servitori”. “E come si chiamavano?”. ”Boh”. “Ma come non lo sai?!”. “Ok, si chiamavano Simone e Adriano. Dunque…”. “Ma non avevi detto che non lo sapevi? Questo si sta inventando tutto. Falla finita!”. Tutti fanno per andarsene, allora lui inizia a improvvisare banalità e assurdità. E subito lo scambiano per il Messia.

“Aspettate! Dove andate? Sentite questa: beati coloro che non disegnano il bue al Ticino, perché solo così sederanno sul tondo”. “Dove?”. “Solamente a loro sarà dato…”. “Che cosa?”. “Ah, niente”. “Cosa stavi per dire?”. “Niente”. “Come no? Tu stavi per dire qualcosa!”. “Niente, avevo finito”. “Non è vero! Cos’è che non ci vuole dire? È un segreto? Ti prego, diccelo! Qual è il segreto della vita eterna?”. “Se sapessi il segreto della vita eterna, mica lo direi”. “Dillo solo a me, ti prego! No, dillo a noi. Siamo arrivati prima! Maestro, ti prego, dicci qualcosa!”. Brian se ne va, lasciando lì una zucca vuota. E la folla: “Questa è la sua zucca! La porteremo noi per te, Maestro! Maestro?”. “Se n’è andato! È volato in cielo! Lassù!”. “Ma no, eccolo là. Maestro! Torna indietro!”.

I fanatici trovano una ciabatta e iniziano a venerare pure quella. “Ci ha dato un segno!”. “Seguiamo tutti il suo esempio! Teniamo una scarpa in mano e lasciamoci l’altra al piede, perché questo è il suo segno… Ma no, buttate via le scarpe e seguiamo la Sacra Zucca di Gerusalemme! No, tenete in mano il sandalo, come lui ci ordina!… Prendiamo le scarpe e seguiamolo, scarpieri!… Seguite la zucca, zuccari!… Maestro, ecco la tua scarpa e la tua zucca. Dicci qualcosa!”. “Andatevene!”. “Ci ha benedetto!! E come dobbiamo andare via, Maestro?”. “Ma che ne so? Basta che ve ne andiate”. Uno trova delle bacche in un cespuglio di ginepro e grida al miracolo:

“È lui il Messia!”. “Mi ha anche pestato un piede!… Pesta un piede anche a noi, Signore!”. “Non sono il Messia!”. “No no, tu sei il Messia, me ne intendo. Ne ho seguiti parecchi”. “Non lo sono, lo giuro su Dio!”. “Solo il vero Messia nega la sua divinità!”. “Ma state cercando di incastrarmi! E va bene, allora sono il Messia”. “È il Messia!”. “Andate a fare in culo!”. “Quale via ci consigli, o Signore?”.

Ecco: Mattarella, ispirato da Brian, ha architettato una beffa ai suoi leccatori. Un pezzo del discorso l’ha copiato da quelli degli anni scorsi, per vedere se qualcuno l’avrebbe smascherato. Ma niente, nessuno ha osato. Un altro pezzo l’ha plagiato dai messaggi programmatici peace and love di Miss Italia: la pace nel mondo, un anno d’amore, un futuro migliore. Ma nessuno l’ha notato. Poi ha dato fondo al catalogo delle ovvietà (gli anni 20, i giovani e gli anziani, le famiglie e i poveri, il divario Nord-Sud, il lavoro bello, la disoccupazione brutta, il clima che cambia così così). Dei buoni sentimenti (fiducia, speranza, solidarietà, coesione, libertà, responsabilità, dialogo, accoglienza, competenza, senso civico e altruismo: belli; incompetenze, faziosità, falsità, aggressività, prepotenza, meschinità, lacerazioni, inimicizie, contrapposizioni, truffe, violenze, alluvioni, incendi e terrorismo: brutti; papa Francesco: grazie). E dei luoghi comuni (il Bel Paese, italiani brava gente, popolo di eroi, santi, poeti, artisti e navigatori, anche nello spazio). I suoi collaboratori avevano obiettato che in 16 minuti e rotti di discorso almeno una cosa doveva dirla. Ma lui era stato irremovibile: “No, quest’anno mi tengo sul sottovuoto spinto, voglio proprio vedere se quelli deporranno i turiboli e la smetteranno di leccarmi”. Ma quelli sono riusciti a intravedere in quel nulla cosmico ficcanti messaggi cifrati a Salvini e altri politici. A lodare la nuova mirabile “location”: una piazza d’armi marmoreo-obitoriale ingentilita da un inquietante busto in marmo bianco, una fioriera, due alberi di Natale, due bandiere e un maxischermo con l’Italia vista dalla Luna (citazione subliminale di Starman di David Bowie,Ad Astra con Brad Pitt e Totò nella luna). A gridare al miracolo di AstroSergio che parla con Parmitano sulla navicella spaziale. A magnificare il “record di share” (bella forza: era a reti unificate). Ora, dal tradizionale riserbo quirinalizio, trapela un certo scoramento: Sergio di Nazareth non sa più che fare per smentire di essere il Messia.

“Ivan: stupendo testardo, osteggiato dai discografici e sepolto con la chitarra”

Ivan Graziani è stato uno dei più grandi musicisti che abbia mai avuto l’Italia. L’affermazione, in sé persino banale, suona per alcuni financo eccessiva. Che follia: Ivan è stato il primo a unire cantautorato e rock negli anni affollati (di idiomi & cazzate) dei Settanta, quando anche solo pensare di farli incontrare costituiva eresia. Non era un cantautore barboso e politicizzato: per questo non pochi tromboni duropuristi gliela giurarono. Chitarrista sopraffino, come dimostra anche solo “Il topo nel formaggio” in ogni esecuzione live che ci ha regalato, Ivan sapeva al contempo accompagnare e rifinire. Ora prediligeva l’assolo e ora sapeva fare un passo indietro. A cavallo tra Settanta e Ottanta è stato baciato da una smisurata supernova di talento. Gli riusciva tutto. “I lupi”, “Pigro”, “Agnese dolce Agnese”, “Viaggi e intemperie”: quattro dischi clamorosamente perfetti. È stato il suo apice, ma chi dice che poi non abbia scritto nulla o è scemo o disonesto (e anche “solo” “Ivangarage” sta lì a dimostrarlo). Rivoluzionario atipico e pioniere sui generis, non ha mai avuto nulla di canonico: voce, look, origini, apprendistato. Era e resterà unico. Un cane sciolto, o per meglio dire un lupo abruzzese. Molti giornalisti devono ancora capirlo, e qualcuno (mai stato baciato da qualsivoglia talento) gli ha pure rovinato un po’ la vita. Basta il finale di “Olanda” per sognare, basta il riff di “Motocross” per trasecolare, basta “Fuoco sulla collina” per gridare una volta per tutte al capolavoro. Nelle sue canzoni c’è l’ironia, c’è il sesso, c’è la follia. E c’è poi quel suo esser sempre fottuto di malinconia. L’Italia è piena di geni dimenticati e fraintesi, scoperti troppo tardi o addirittura in attesa d’esser compresi appieno. È uno dei nostri classici, è una delle nostre croci. Nulla di nuovo. Ma con Ivan Graziani stiamo esagerando: avere un occhio di riguardo per il nostro chitarrista, più che un dovere, dovrebbe essere un’attitudine naturale. Quasi come respirare.

 

Ivan Graziani vanta almeno due record. Uno splendido e l’altro imperdonabile. È stato il primo cantautore rock italiano ed è uno degli artisti più sottovalutati d’Italia. Da qualche anno, finalmente, qualcosa si muove. I tributi dei figli Filippo e Tommy, gli spettacoli teatrali. E un film a lui dedicato in uscita l’anno prossimo. Nessuno però potrà mai parlarne come Anna Bischi: la donna della vita.

Come vi siete conosciuti?

A Urbino. Facevo la prima superiore di Grafica e stavo con un fidanzatino più grande di me. Gelosissimo. Un giorno mi porta al cinema e incontriamo un tipo. Il fidanzatino mi dice: ‘Questo è Ivan Graziani, fa il musicista, spesso mi scambiano con lui’. Io: ‘No no, l’originale è molto meglio’. Lì ho deciso che volevo stare con Ivan.

E così è stato.

Era il 1965. Ivan aveva cinque anni più di me e a Urbino era già un divo. Dopo alcune uscite, una sera mi dice: “Va be’, io me ne vado”. Io: “Ma vai dove?”. Lui: “Senti, o andiamo a letto insieme o me ne vado”. Io ci pensai un po’ e dissi: “Va bene, vengo a letto con te”. È stata la nostra prima volta. All’inizio ogni tanto scappava. Mi diceva: ‘Tu sei pericolosa, io di te mi posso innamorare’. Poi non è scappato più. E siamo stati insieme tutta la vita. A volte arrivo a sperare di scoprire oggi dei suoi tradimenti, giusto per sentire forse un po’ meno la sua mancanza. Macché. Per lui la famiglia era tutto.

Com’era da ragazzo?

Com’è sempre stato: un leader nato e un lupo abruzzese. Ombroso, alla James Dean. Se ne stava in disparte e osservava molto le persone. Si fidava poco, anzitutto dei discografici, e l’ha pagata. Testardo. Zuccone. Con un senso dell’umorismo straordinario.

Sin dagli esordi ebbe il coraggio di dire molti “no” coraggiosi. A Mogol, alla Pfm.

Alla Pfm disse no perché loro avevano una strana idea di società, in base alla quale la gestione era tutta in mano alla moglie di Franz Di Cioccio. Anche Mauro Pagani andò via per quello. Le mogli litigavano, si prendevano per il collo. Era una situazione pesante. E poi Ivan diceva: ‘Ma come? Io devo suonare e comporre, e poi mi pagano come uno dei tanti?’

Per Lucio Battisti suonò la chitarra ne “La batteria il contrabbasso eccetera”.

Per caso. Lucio stava ultimando il disco. Si affacciò e sentì uno che suonava la chitarra nel corridoio. Chiese al discografico chi fosse: “Boh, è uno abruzzese, dicono non sia male”. Lucio lo scelse subito. Si sono sempre stimati molto, ma Lucio era molto schivo e trattenuto. Difficile frequentarlo fuori dalla musica. Però nello studio ‘Il Mulino’, dove si registravano i dischi, si viveva come in una comune. Tutti insieme, ognuno portava i figli. Ricordo tante cene con Battisti e sua moglie.

Zero, Venditti, De Gregori.

Renato era un amico vero. Fino alla fine. Ivan dormiva spesso a casa sua, dopo aver registrato a Fonopoli. Lo sento ancora spesso. Vale lo stesso per Antonello. De Gregori no. Tra lui e Ivan ci fu una grande litigata in un locale di Rimini, mi pare per un’idea diversa di musica, e non c’è mai stata una ricucitura definitiva. De Gregori è sempre stato un po’ “masticone”. Credo che non abbia accreditato Ivan come chitarrista di Bufalo Bill proprio per quella litigata.

Erano tutti artisti Rca.

Nei Settanta erano quasi tutti lì. Zero, Venditti, De Gregori, Conte, Fossati, Rino Gaetano, Dalla, Cocciante. Si trovavano e nascevano le collaborazioni. Anche qualche tour. Ne ricordo uno in cui, a fine concerto, dovevo raccogliere tutte le piume che perdevano i vestiti di Renato (Zero). E poi un tour di Ivan con Venditti. Una volta contestarono Antonello lanciandogli i pomodori. Quando lui e Ivan rientrarono nei camerini, sembravano pieni di sangue. Tempi duri.

Di quali dischi era più orgoglioso Ivan?

Dei primi, per esempio I lupi. Poi cominciò a soffrire l’ingerenza dei discografici. Ogni volta era una guerra, e lui non obbediva. Non gliel’hanno mai perdonata. Nessuna casa discografica lo ha mai promosso granché e Ivan ha sempre fatto tutto da solo. Per Ivangarage neanche andò all’appuntamento coi discografici: “Parlaci tu con quelle facce di merda”. Prudenza mai è dedicata proprio a uno di quei discografici, Ivan lo chiamava “il pretino”.

Il successo lo ha cambiato?

Per niente. L’unica cosa che Ivan ha cambiato in vita sua sono state tre Jaguar. Le comprava ad Arezzo.

Anche coi giornalisti non aveva un rapporto facile.

Non riusciva a fingere: se un giornalista lo intervistava per lavoro e senza trasporto, lo capiva subito. E rispondeva a monosillabi. Di sicuro detestava il gossip. Ero incinta di Filippo e Sorrisi e Canzoni ci propose di fare una foto da copertina con lui che poggiava l’orecchio sulla mia pancia nuda. Ivan li mandò affanculo. E io mi arrabbiai pure, perché sarebbero stati un sacco di soldi.

La critica musicale gliel’ha fatta pagare?

A Sanremo, negli anni Ottanta, il vincitore otteneva come premio anche un purosangue, per via del concorso Totip. Una volta Mario Luzzatto Fegiz, firma al tempo potente del Corriere della Sera, durante il Sanremo 85 gli chiese provocatoriamente cosa avrebbe fatto se avesse vinto quel cavallo. Dava per scontato che non lo avrebbe vinto mai. Ivan rispose gelido: “Nulla di che, sarebbe solo il quattordicesimo”. Ed era vero, perché mio fratello Gigi all’epoca aveva 13 cavalli.

Con Fegiz si scontrò spesso.

Una volta eravamo a casa di Patty Pravo. Sopra il letto c’era uno specchio enorme. Ero così ingenua che all’epoca non capii a cosa potesse mai servire quello specchio. A un certo punto Fegiz fa girare una canna. La fumano tutti, tranne Ivan. Sempre fuori dal coro. Poi a fine serata Fegiz gli dice: “Dai, ora io bacio tua moglie, tu ti incazzi, chiamiamo Novella 2000 e ci facciamo fotografare”. E a Ivan partì un altro bel vaffanculo.

A fine carriera soffriva del minore successo?

Per certi versi si arrese. Anche all’inizio pativa il fatto di avere lo stesso impresario di Venditti e De Gregori e di dover stare in seconda linea, ma tra Ottanta e Novanta era un artista con bisogno di stimoli. Adorava Novafeltria, gli piaceva parlare con le persone “comuni” molto più che con quelli famosi, però spesso si svegliava e diceva: “Anna, non ne posso più di vedere lo stesso pino ogni volta al mattino”. Così se ne andava per qualche ora, prendeva la sua Guzzi e andava a Urbino per parlare di arte, perché diceva che ‘a Urbino anche un calzolaio ti parla di Raffaello’. Poi però tornava sempre. La provincia lo proteggeva, ma forse un po’ lo spegneva. I concerti erano sempre pieni, ma avvertiva di essere stato abbandonato.

Però “Maledette malelingue”, a Sanremo 94, fu un successo.

Sì, ma non poté goderselo. Era già malato, anche se il medico gli disse “ma dai, è solo prostata, al massimo scoperai di meno”. Non era solo prostata: abbiamo visto le streghe. Ha voluto suonare fino alla fine, l’ultimo concerto fu a Torino poco prima di morire (il Primo Gennaio 1997 a neanche 52 anni, nda). Soffriva, tra un brano e l’altro si faceva fare la puntura, dietro il palco c’era sempre la morfina. Negli ultimi anni andò anche da una guaritrice. Io non ci credevo e forse neanche lui, ma quei massaggi con le mani calde lo aiutavano. A volte telefonava alla guaritrice anche durante i concerti, quando stava male, e dopo aver sentito la sua voce stava meglio e ripartiva. La vita è strana: ti aggrappi a tutto. Quella stessa guaritrice l’ho vista anni dopo a Tavullia, il paese di Valentino Rossi. Andò a trovarla Lou Reed, e mio figlio Filippo fece da traduttore. C’ero anch’io.

Ivan riposa con una chitarra.

L’ho voluto io. Gli ho messo il suo cachemire preferito e gli ho lasciato la “chitarrina” che usava alla fine, era più leggera e gli faceva meno male. La chitarra era “la sua bambina” e lui aveva detto che sarebbe morto con la chitarra in mano: in un certo senso è successo. Riposa a Novafeltria, ma non ho fatto scrivere il suo nome dove riposa. Volevo che quel luogo fosse solo mio e di chi gli vuole bene. E poi magari un giorno ritorna.

Molti non sanno che le canzoni le ha scritte sempre con te.

Sempre. Mi chiamava mentre strimpellava la chitarra, di solito dopo cena, e da lì partiva tutto. Motocross nasce da un mio litigio con mio fratello, che aveva appunto una moto gialla da cross. Scappo di casa prende spunto da una famiglia che abitava vicino. Lugano addio parte da una mia amica, Marta, che aveva delle gran tettone. Ivan partiva quasi sempre da fatti reali: era un cronista che si piegava alla metrica. Il nostro era un ping pong: io dicevo “le reti al sole i pescherecci in alto mare”, lui aggiungeva “le bestemmie e il suo dolore”. Ridevamo tanto, perché ai protagonisti facevamo fare di tutto. La “Paolina” che si innamora dell’“istruttore biondo” era una ragazza che andava a scuola guida vicino casa nostra: quante gliene abbiamo fatte fare, nelle nostre “prove”, con quell’istruttore biondo! Quante risate.

“Firenze (Canzone triste)” nasce a Roncobilaccio.

Messa così fa sorridere, ma è vero. A Roncobilaccio c’era uno studio discografico. Ivan mi chiama a tarda notte: “Ho scritto una cosina, ti va di sentirla?”. Io dico di sì, anche se ero stanca morta. Ivan parte e mi fa l’attacco di Firenze. La cosa buffa è che non era neanche sicuro della sua bellezza.

È appena stato Natale.

A Ivan piaceva. Si vestiva sempre da Babbo Natale per i suoi figli. Aveva poi il rito di accendere il fuoco: la vestaglia, la pipa. Mi guardava e, con voce teatrale, mi diceva: ‘Sono un vero gentiluomo di campagna’. Lo vedo ancora.

In chiesa, tutti armati appassionatamente

Quando, dopo la strage nel liceo di Parkland in Florida – 17 morti, febbraio 2018 – Donald Trump propose di armare gli insegnanti e i bidelli, piuttosto che limitare la vendita delle armi, l’idea parve ai più folle, a cominciare proprio dagli insegnanti e dai bidelli. Ma i fedeli della West Freeway Church of Christ di White Settlement, a pochi chilometri da Fort Worth, in Texas, hanno ascoltato e raccolto l’invito del loro presidente: domenica, uno di loro ha freddato, da una dozzina di metri, l’uomo che s’era messo a sparare al momento della comunione; e almeno due, oltre a un vigilante, hanno reagito al fuoco con la pistola che – non si sa mai – s’erano portati pure in chiesa. Fanno discutere le dinamiche della domenica di sangue americana, l’attacco di Hannuka a Monsey, una cinquantina di chilometri da New York, dove l’impronta anti-semita è stemperata dalle vittime – l’assalitore con il machete, un nero, è loro noto come malato di mente – e la sparatoria in chiesa nel Texas. Che si tratti o meno di anti-semitismo e/o di forme di terrorismo domestico, gli episodi stingono sulla campagna per Usa 2020, con lo strascico delle polemiche ricorrenti sulle armi facili. Dalla Casa Bianca delle ‘vacanze d’inverno’ in Florida, il presidente Donald Trump tuona, anzi twitta, tolleranza zero per l’antisemitismo; il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo e il sindaco della città Bill de Blasio denunciano il ripetersi di atti di antisemitismo, addirittura 13 nelle ultime settimane.

A Monsey, un uomo armato di machete è entrato nella casa di un rabbino e ha seminato il panico durante le celebrazioni della fine della Festa delle Luci. Ci sono stati cinque feriti, tutti ebrei. L’uomo è stato immobilizzato e arrestato. Il bilancio delle vittime della sparatoria nella chiesa di White Settlement è salito a tre: due fedeli – uno è deceduto in ospedale, dopo essere rimasto per qualche ora tra la vita e la morte – e l’assalitore, del quale ancora si ignora il movente, se terroristico o personale. L’attacco di Hannukah richiama alla memoria quanto avvenuto a Pittsburgh nell’ottobre del 2018, quando ci fu una strage in una sinagoga, con 11 morti. Le sparatorie in chiesa sono invece ricorrenti e hanno talvolta matrici personali, non terroristiche: ve ne sono state, ben più letali, in una chiesa nell’Illinois nel 2009, in un tempio Sikh nel Wisconsin nel 2012 e, soprattutto, nella Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, dove, nel giugno 2015, un suprematista bianco uccise nove neri.

L’incursione è avvenuta mentre la messa veniva trasmessa in live streaming sul canale YouTube della chiesa. Il video dell’accaduto, poi rimosso, mostra un uomo con indosso un grande cappotto estrarre un’arma e sparare due o tre volte, prima di essere colpito a sua volta e stramazzare. C’è panico fra i presenti: chi cerca di mettersi al riparo e chi, incurante del pericolo, s’avventa contro l’aggressore agitando le armi. Secondo i racconti l’assassino è entrato in chiesa solo al momento della comunione e ha subito fatto fuoco, senza proclami.

Per il Texas è l’ennesima sparatoria, che va ad allungare la scia di sangue nello Stato teatro negli ultimi mesi di varie stragi: l’episodio recente più grave in estate, 22 vittime in un Walmart di El Paso, città al confine con il Messico dove c’è un centro detenzione migranti.

L’agente segreto riluttante ora accusa la sua Norvegia

“Se sei un cittadino del confine, devi agire come un cittadino del confine”. Come dire: se vivi con la minaccia della Russia dietro la porta, non ti puoi tirare indietro. Frode Berg, norvegese, guardia di frontiera in pensione, 63 anni, spia riluttante. Agente operativo straniero per Mosca, corriere per le operazioni segrete di Oslo, usato dall’intelligence militare del suo Paese a cui non ha mai fatto troppe domande. Berg sostiene di non aver mai saputo cosa trasportava in Russia per ordine della sicurezza militare norvegese, ma il suo ultimo plico, scoperto dai russi, conteneva soldi: 3.000 euro per gli informatori che fornivano dati riguardo i sommergibili nucleari della Federazione.

Con lo sguardo che tende verso il basso, la pelle come stoffa smagliata intorno agli occhi, i capelli radi e bianchi, le guance paffute di un uomo che si giudicherebbe erroneamente noioso, Berg dice che ha accettato di essere reclutato nel 2015 per assolvere al destino di uomo del confine, per essere “un buon norvegese”. In quella che desiderava fosse la sua ultima missione, nel dicembre 2017 a Mosca, dove aveva consegnato il denaro a una donna di cui non conosceva l’identità, è stato trascinato via in una Volkswagen dall’hotel Metropol. Berg si è ritrovato seduto nelle stanze del Fsb, servizi sicurezza russi, quartiere generale dell’ex Kgb. Ma la pressione che ancora oggi ricorda è quella esercitata non dagli slavi, ma dai norvegesi: “Mi fidavo del fatto che non mi spedissero a fare qualcosa di pericoloso invece l’hanno fatto”. Oslo adesso è muta davanti alle accuse del suo cittadino liberato, costretta dalla geografia al ruolo di sorvegliante strategica, per Europa e Nato, di una Russia aggressiva nell’Artico e al confine bianco del nord.

Mentre la foto del suo volto dietro le sbarre russe veniva pubblicata sui quotidiani del mondo, uno striscione perenne nella piazza del suo paesino ne chiedeva la liberazione perché innocente. Solo dopo molti mesi di detenzione nel carcere di massima sicurezza di Lefortovo, Berg ha ammesso di lavorare per la Etterretningstjeneste, intelligence norvegese, ma aggiungendo di non conoscere davvero i dettagli delle operazioni. Kirkenes, un paese per vecchie spie alla frontiera glaciale con la vecchia nemica russa. Quando la Nrk, tv norvegese, ha cominciato a investigare sul caso Berg, ha scoperto che non era stato l’unico ad essere stato reclutato tra quei fiordi remoti. Molti dei 3,500 civili residenti a Kirkenes erano stati avvicinati dai servizi norvegesi.

Dopo la sentenza di condanna a 14 anni di reclusione, Berg ha meditato di chiedere la grazia al presidente russo che si era detto favorevole a uno scambio prigionieri o a ciò che non concede di solito a nessuno, il perdono: ma una spia norvegese nelle carceri russe mancava dalla Seconda guerra mondiale. Tra le mura della sua cella russa, per due anni, Berg ha visto la tv, ha ascoltato la musica pop di Olga Buzova, ha letto tutte le mattine il Moskovsky Komsomolets, sentito le storie degli altri detenuti. Quando gli ufficiali russi lo interrogavano, gli portavano quello che amava di più: un panino di McDonald’s e un goccio di cognac. “Frode, non ti dimenticare che sei in prigione, sei una spia e io sono l’investigatore”, è una delle frasi pronunciata dagli inquirenti che ancora ricorda.

L’uomo del confine è stato rilasciato nel novembre scorso, in uno scambio di prigionieri triangolato con la Lituania. Prima di liberarlo al varco della frontiera norvegese, ha raccontato che le macchine dei membri dell’Fsb si sono fermate per sostare dinanzi al suo fast food preferito.

Le milizie islamiche: “Contrari all’Onu, meglio la Turchia”

Rompicapo Libia. L’intreccio delle alleanze nello Stato fallito che, dopo l’uccisione di Muhammar Gheddafi, non ha più trovato né unità né stabilità, si complica: mentre Stati Uniti e Italia cercano di riposizionarsi in una improbabile e comunque tardiva equidistanza tra al-Sarraj e Haftar, i due protagonisti del confronto Tripolitania-Cirenaica (ma è una semplificazione), Russia ed Egitto restano con Haftar e la Turchia si schiera con al-Sarraj e gli mette a disposizione uomini e mezzi. Desta interrogativi il sottrarsi di Erdogan alle opzioni di Putin, ma il ‘sultano’ di Ankara’ sa muoversi tra Mosca e Washington, rendendosi indispensabile e nel contempo indisponente. L’inizio del 2020 s’annuncia rovente. La Turchia anticipa al 2 gennaio il voto, che era previsto il 6, sull’invio di truppe in Libia, secondo l’accordo firmato con Tripoli il 27 novembre (intesa che prevede un reciproco riconoscimento dell’estensione delle rispettive acque territoriali, con la Zee, cioè la Zona economica esclusiva turca, che viene a sovrapporsi a Cipro e a molte isole greche).

L’ennesimo ‘dito nell’occhio’ ad Atene e all’Ue. La mozione depositata nel Parlamento turco prevede l’invio di soldati in Libia, come ha confermato il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, incontrando la dirigenza del Chp (Partito repubblicano del popolo), principale forza d’opposizione. Il Chp non condivide la scelta perché è convinto che, “come in Siria, ciò causerà più problemi che benefici” ad Ankara.

A questo punto, la decisione turca precederà la missione Ue/Onu del 7 gennaio, ipotizzata per primo dal ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio e accettata da alcuni suoi omologhi europei: dovrebbe guidarla l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. Ma non è escluso che, a fronte delle dinamiche in atto, la missione slitti o salti, tanto più che l’assemblea che rappresenta le milizie islamiche di Misurata e Zintan, che hanno finora spalleggiato al-Sarraj, l’Assemblea nazionale libica (Libyan national assembly), s’è pronunciata contro la visita. Forte dell’appoggio della Turchia, che sarebbe pronta a inviare in Libia truppe regolari, ma anche 1.600 miliziani dell’opposizione siriana, il capo dell’Alto Consiglio di Stato libico Khalid Al-Mishri, parlando ad al Jazeera, attacca l’Egitto, che “sta tendando un colpo di Stato in Libia”, e gli Emirati arabi uniti, che dal 2014 sostengono il generale Khalifa Haftar e la Camera di Tobruk presieduta da Aqila Saleh. Secondo Al-Mishri, il governo di al Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, non sta chiedendo ai turchi di sostituirsi ai libici sul campo di battaglia: “Possiamo difendere Tripoli, la Sirte, Misurata e Al-Zawiya. Vogliamo solo che la Turchia porti l’equilibrio delle forze … Nessuno ci ha aiutato nell’ultimo periodo, così che abbiamo perso fiducia nella legittimità internazionale”. Un’eco, forse, di quei tentativi di equidistanza che Stati Unti e Italia stanno tentando.

I combattenti mercenari siriani destinati in Libia sono stati trasferiti in campi d’addestramento in attesa di essere inviati a combattere a fianco delle forze di al-Sarraj contro l’offensiva di Haftar. Lo riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani, rettificando informazioni precedenti, che parlavano di 900 miliziani già arrivati a Tripoli e di un migliaio in addestramento. Secondo fonti dell’Ong, i combattenti fanno parte delle milizie del Sultano Murat e di Suleyman Shah e della Divisione al-Mùtasim, fedeli ad Ankara, e sarebbero ora giunti dall’area di Afrin, ex enclave curda nel nord della Siria conquistata dalla Turchia nel 2018 con l’aiuto dei miliziani locali. Giovedì, in Parlamento, la mozione per l’invio delle truppe avrà il voto contrario del Chp, perché “la Turchia rischia d’essere trascinata in un nuovo devastante conflitto, in cui verrà ancora versato sangue islamico”, mentre bisognerebbe “dare priorità a una soluzione diplomatica”. Altre forze d’opposizione minori sono contrarie alla missione, ma l’Akp del presidente Erdogan e i suoi alleati hanno i numeri per approvarla: con l’anno nuovo, ci saranno anfibi turchi sulla sabbia libica. E la pace non sarà più vicina.

L’Ira e le spie uccise per “errore”

Nel giugno del 1991, Rory Finnis, 21 anni, di Derry, fu trovato con le mani legate dietro la schiena e gli occhi bendati; gli avevano sparato in testa. La stessa sorte nel 1992 toccò a John Dignam, 32 anni, Gregory Burns di 33, e Aiden Starrs 29: erano tutti di Portadown. Nel 1993 il cadavere di Joseph Mulhern, 22 anni, fu trovato crivellato in un fosso nella Contea di Tyrone. Tre settimane dopo, in luglio, il padre ricevette un nastro con una presunta confessione. Caroline Moreland, 34 anni, madre single di tre figli, era stata vista l’ultima volta viva mentre stirava in cucina. Un mese e mezzo prima che nell’Irlanda del nord l’Ira annunciasse il ‘cessate il fuoco’ del 1994, fu rapita, torturata e uccisa a colpi di pistola nella contea di Fermanagh. Anche in questo caso la sua famiglia ricevette un video in cui la giovane donna ammetteva di aver rivelato dove erano nascoste alcune armi.

L’elenco degli omicidi è lungo e le vittime avevano un tratto in comune: erano considerate dall’Irish republican army – l’ala militare dell’opposizione cattolica repubblicana nelle province dell’Ulster sotto governo inglese – come militanti che avevano fatto la spia.

Secondo un documento ufficiale che è stato pubblicato ieri a Belfast dal governo dell’Irlanda del Nord, e visionato dalla stampa, non di rado i sicari dell’Ira si sono sbagliati. Il sospetto è che l’abbiano fatto apposta.

In un passaggio del rapporto si legge: “In un certo numero di casi, le persone assassinate dall’Ira non erano informatori della polizia, in altri casi, persone sospettate di esserlo hanno dovuto lasciare l’Irlanda del Nord in un attimo e iniziare una nuova vita altrove, sapendo che non sarebbero mai potute tornare a casa senza affrontare la prospettiva di essere torturate o uccise. Questi soggetti sono stati costretti a tagliare legami con parenti stretti al fine di evitare il rischio di rivelare la loro posizione”. Chi incappava nel sospetto era “sottoposto a tortura, seguita da una confessione forzata, per poi essere ucciso. Il cadavere veniva poi abbandonato in un in un fossato spesso a molti chilometri da dove era avvenuto il rapimento”. Il dossier ricorda come la stessa organizzazione paramilitare aveva chiarito in diverse occasioni che “ quanti all’interno dell’organizzazione siano ritenuti agenti infiltrati o informatori, non possono aspettarsi pietà”.

Le esecuzioni sono stati attribuiti al controspionaggio dell’Ira, nome ufficiale Internal Security Unit (Isu) conosciuta come la Nutting Squad o Tout hunters, i “cacciatori di spioni”. Il capo della squadra aveva un nome in codice: Stakeknife: diverse fonti lo hanno identificato in Freddie Scappaticci, e questo rende la vicenda degli omicidi “per errore” ancora più tragica perché Scappaticci, fuggito da Belfast dopo essere scoperto come uno dei comandanti dell’Ira durante un processo nel 1991, fu poi smascherato come agente dell’intelligence britannica. La questione è rimasta nebulosa: i doppi agenti all’interno dell’Ira erano stati autorizzati a commettere crimini e persino omicidi al fine di ottenere la fiducia delle organizzazioni clandestine o sacrificarne i membri per proteggersi? Scappaticci non ha fornito spiegazioni; ha sempre negato di essere Stakeknife. Come ha riportato il Guardian in un articolo del 2003, esponenti degli apparati di sicurezza inglesi hanno indicato Scappaticci come agente di spicco, pagato 80.000 sterline all’anno dal governo per procurare informazioni alla Force Research Unit, dell’esercito per più di 20 anni.

Lo scopo delle famiglie delle vittime non è solo avere giustizia: i parenti di coloro che sono stati interrogati e uccisi dall’Ira hanno chiesto anche un risarcimento affermando che i loro cari avevano pagato con la vita per mantenere la copertura di una delle spie più importanti di Londra all’interno del gruppo paramilitare, ovvero Stakeknife.

Il dramma dei giovani eliminati durante i Troubles è una delle ferite mai guarite in Irlanda del Nord; quattro anni fa i parenti dei giustiziati dall’Ira per aver presumibilmente tradito il movimento repubblicano iniziarono un’azione legale per scoprire la verità, raccontando le loro storie strazianti su almeno venti delitti. Si tratta di mogli, sorelle, genitori che per anni erano stati bollati e isolati dalle accuse di slealtà e infamia verso l’esercito repubblicano e non sapevano a chi rivolgersi. Dopo le denunce, la polizia dell’Irlanda del Nord ha avviato l’inchiesta, affidata all’Historical Investigations Directorate.

Nuovi amerikani per la Roma, ma a volte basta un Lotito

Se alla fine degli anni 80 nella Serie A italiana giocavano due Maradona, Diego Armando e Hugo Hernán, una ragione perché il primo giocasse nel Napoli (2 scudetti e una Coppa Uefa vinti) e il secondo nell’Ascoli, evidentemente c’era: quello buono aveva scelto il club ambizioso e importante, quello scarso, peraltro raccomandato dal fratello buono, quel che passava il convento. Come diceva il presidente Massimino buonanima: “C’è chi può e chi non può: io può”. Appunto.

A spiegazione del preambolo, la notizia del giorno è che nel disastrato carrozzone del pallone italico dopo Thomas Di Benedetto e James Pallotta (Roma), Joe Tacopina e Joey Saputo (Bologna) e dopo Rocco Commisso (Fiorentina), è in arrivo un bastimento carico di nuovi ricchi amerikani guidato dal 54enne Dan Friedkin, nessuna origine italiana, proprietario del “Friedkin Group” (dodici società impegnate nell’intrattenimento, nell’ospitalità, nell’automobilismo e altro ancora: un impero da 4,3 miliardi di dollari), in procinto di acquistare la Roma di James Pallotta per una cifra, si dice, pari a 790 milioni di euro, 270 dei quali da defalcare a copertura dell’indebitamento. La domanda che i tifosi della Roma si pongono è: c’è la speranza che il Nuovo Americano assomigli un po’ agli americani veri, quelli ad esempio, che da una quindicina di anni hanno preso le redini di alcuni importanti club inglesi portandoli a cogliere successi ragguardevoli per non dire sensazionali?

Sono passati otto anni da quando (era il settembre 2011) Di Benedetto acquistò la Roma e sette da quando (era l’agosto 2012) Pallotta subentrò a Di Benedetto. Ebbene, non un solo trofeo è arrivato ad arricchire la bacheca del club che fu di Viola e di Sensi, i presidenti capaci di vincere uno scudetto; il tutto mentre sull’altra sponda del Tevere l’italianissima Lazio dell’italianissimo Lotito portava a casa due Coppe Italia e due Supercoppe italiane e mentre gli altri amerikani d’Italia erano alle prese con rognose gatte da pelare; vedi il Bologna di Tacopina e Saputo risalito dagli inferi della Serie B e la Fiorentina di Commisso subito di fronte allo spauracchio di una retrocessione, al primo anno dopo Della Valle, costretta gettare a mare Montella e ad affidarsi, Iddìo la protegga, a Beppe Iachini.

Il sangue italiano che scorre nelle vene di Rocco Commisso, nato a Marina di Gioiosa Ionica, in Calabria, nel lontano 1949, o in quelle di James Pallotta, papà di Teramo e mamma di Canosa, o ancora in quelle di Joey Saputo, figlio di siciliani di Montelepre, fa molto Libro Cuore; ma se alla lunga i successi non arrivano, specie se ti chiami Roma, il minimo che possa succedere è sentirti urlare da uno stadio intero “Pallotta go home”: tornatene a casa, e qualcuno dia anche a noi un Lotito qualunque, pure più coatto, che di quando in quando ci regali però una gioia.

In Inghilterra, al timone dell’Arsenal – che pure attraversa oggi uno dei momenti più opachi della sua storia – c’è dal 2008 Stanley Kroenke, titolare della “Kroenke Sports Enterteinement” (impero da 8,5 miliardi di dollari) che negli ultimi dodici anni ha regalato ai tifosi 6 trofei: 3 Community Shield e 3 Coppe di Inghilterra: una coppa ogni due anni, mica noccioline. Un altro mitico club che da qualche tempo recita da nobile decaduto è il Manchester United; che la famiglia Glazer (gioiellieri, americani d’origine lituana) acquistò nel 2005 e che, sembra incredibile, non è mai entrata nel cuore dei tifosi a dispetto delle 5 Premier League vinte in 14 anni più una Champions League, un mondiale per club, svariate coppe nazionali. Lo United è tutt’oggi terzo nella classifica dei più club ricchi del mondo dietro a Real e Barça dopo essere stato a lungo primo. E poi il Liverpool, che John William Henry di Quincy, Illinois, proprietario dei mitici Red Sox di baseball e soprattutto della John W. Company (investimenti), rilevò nel 2010 dagli odiatissimi (dai tifosi) Tom Hicks e George Gillet. Dopo due anni ecco la Coppa di Lega, poi il Liverpool sfiora il titolo nel 2014 con Rodgers e alla fine, investendo forte su Klopp, fa il botto: Champions, Coppa del mondo e Supercoppa Uefa nel 2019, e per quanto riguarda il 2020, titolo Premier già in bacheca. Dopo 30 anni esatti d’attesa. Grazie agli americani. Quelli veri, però; non quelli che scelgono il Belpaese.

Accudisci qualcuno? Erediti la casa popolare

Gli anziani con problemi economici e di salute potranno ospitare persone per “accudirle” nelle loro case popolari. In cambio, una volta deceduto l’assegnatario, gli “ospiti” potranno ereditare l’alloggio come fossero parte del nucleo familiare. È quanto prevede la legge di Bilancio 2020 approvata dal consiglio regionale del Lazio.

Una norma controversa quella sulla “convivenza solidale”, passata grazie all’approvazione di un emendamento proposto dal consigliere Paolo Ciani, capogruppo della lista civica Centro Solidale – parte integrante della maggioranza a sostegno del governatore Nicola Zingaretti – ed esponente di spicco della Comunità di Sant’Egidio. Il provvedimento è stato pensato, come si legge nel testo, per fare fronte al “progressivo invecchiamento della popolazione”, con gli anziani che “ricorrono impropriamente a strutture assistenziali, anche in presenza di semplici bisogni di aiuto o cura facilmente risolvibili a domicilio”, dunque “caricando il settore socio-sanitario di oneri sociali eccessivi e oggi oramai non più sostenibili”.

Ecco dunque il funzionamento. Una persona anziana (o una coppia di anziani) con “comprovata fragilità socio-economica o non auto-sufficienza” può presentare richiesta all’Ater di ospitare nel proprio alloggio popolare qualcuno che semplicemente si prenda cura di lei o la tenga lontana dall’isolamento. In caso di decesso, come recita il comma 5 dell’articolo 12 bis, si procede al subentro: “La persona o le persone con lui conviventi da almeno due anni – si legge – possono subentrare al medesimo se, entro 30 giorni dal decesso o dalla decadenza, presentano richiesta di autorizzazione ad una nuova convivenza solidale”. Quindi, l’unica “clausola” per ottenere la casa popolare diventerebbe quella di continuare a ospitare anziani.

Se da un lato il provvedimento consentirebbe un notevole risparmio sul profilo dell’assistenza agli anziani, voce importante nel difficile bilancio del servizio sanitario regionale, dall’altro sembra spiazzare il mondo che si occupa di politiche abitative, compresa l’Ater che negli ultimi anni ha avviato politiche di recupero degli alloggi attraverso la vendita, il frazionamento e la lotta alle occupazioni. “L’emendamento di Ciani è miope – sostiene Massimo Pasquini, segretario nazionale dell’Unione Inquilini – Consentire a chiunque di ottenere un alloggio popolare, purché assista un anziano, rischia di rendere il provvedimento quasi una compravendita legalizzata. L’appello a Valeriani (Massimiliano, assessore regionale alle politiche abitative, ndr) è di discutere insieme dei regolamenti attuativi e limitare ai nuclei familiari regolarmente presenti in graduatoria l’accesso a questa soluzione”. Contraria anche la Lega, che su questo fronte attacca direttamente il presidente della Regione: “Zingaretti – afferma il capogruppo Orlando Tripodi – ha inteso introdurre strumenti normativi folli, spingendo da un lato il 10% degli alloggi popolari da destinare a chi non ha i requisiti, provvedimento bloccato grazie a noi; dall’altro si è inventato la convivenza solidale, con la possibilità che l’ospite subentri all’assegnatario in caso di morte”.

Ciani, il relatore della norma, a Il Fatto assicura: “Vogliamo che il provvedimento si rivolga ai tanti nuclei familiari composti da una o 2 persone che affollano le graduatorie Erp (oltre la metà dei 12 mila totali a Roma, ndr). Entro due mesi la Giunta produrrà un regolamento che renderà ancora più stringenti eventuali passaggi poco chiari”.

“Le famiglie di un solo membro sono quelle formate da anziani”

Non lo sono per scelta: le famiglie italiane composte da una sola persona aumentano perché invecchiano. “Le famiglie si evolvono – spiega la sociologa e filosofa, Chiara Saraceno –, attraversano diverse fasi della vita, sono istituzioni dinamiche che si evolvono nel tempo. La mia quando avevo le mie figlie piccole è diversa da quella che ho ora, che sono nonna”.

Saraceno, la popolazione invecchia, dunque, e con essa anche la famiglia?

Oggi la povertà giovanile è maggiore di quella degli anziani. All’inizio degli anni 90 era l’opposto. Di conseguenza, le famiglie giovani si riducono e aumentano le famiglie con un solo membro perché quel membro è anziano. Mancano politiche a favore delle famiglie, il mercato del lavoro è instabile e precario, si resta a casa più a lungo.

Non è anche una scelta?

In Italia il ritardo nell’uscita da casa rispetto ad altri Paesi non è nuovo ed è anche culturale. Si tende a uscire quando si forma una propria famiglia e non magari per un desiderio di autonomia. Questo, oggi, è reso ancora più complicato dal lavoro. I giovani che vogliano mantenere un tenore di vita più alto restano nella famiglia di origine, senza dover pagare un affitto. La libertà di poter fare quello che si vuole è diversa dal voler provare a contare sulle proprie forze e il contesto materiale non facilita la corrispondenza di questi due tipi di autonomia.

Qual è il ruolo delle donne?

Per fortuna anche le ragazze vogliono una loro autonomia economica prima di mettere su famiglia. È ancora più importante perché la loro posizione nel mercato del lavoro diventa cruciale. Pensano: ‘Se sono precaria, per la maternità mi fanno fuori’. Così tutto viene rimandato e più si rimanda, più è difficile raggiungere una gravidanza.

Il problema quindi è solo fare figli?

No. I politici pensano che i bambini abbiano questa assurda tendenza a rimanere tali per sempre. Siamo un Paese che si lamenta che non ne nascono abbastanza, ma poi non è amichevole con i bambini. Non possono giocare nei cortili, gli spazi non ci sono e le politiche sono inefficienti. Mancano gli asili nido, quando si dice che con la Finanziaria saranno gratis per la maggioranza, in realtà si parla della maggioranza di quell’unico 25 per cento che riesce ad avere un posto. È un problema di investimento culturale nei bambini, non influisce solo sull’aiuto alle famiglie economicamente svantaggiate. Quindi una politica amichevole deve avere uno sguardo più ampio e una prospettiva temporale lunga. Non considerare i figli come un bagaglio esclusivo della famiglia.

Cosa pensa delle misure che ci sono oggi?

Per la primissima infanzia sono scarsissime, con grandi squilibri geografici. Inoltre, è molto frammentato il sistema di trasferimento monetario. C’è uno spezzatino: assegno al nucleo familiare, terzo figlio, detrazioni, bonus bebè… Insomma, mi piacerebbe ci fosse l’assegno unico. Se ne sente parlare, speravo lo mettessero in cantiere in manovra, ma nulla. Hanno rifatto il bonus bebé, misure a un anno che creano squilibri tra chi magari ne accumula molte e chi nessuna, tra chi è dipendente pubblico e chi libero professionista. Ci vorrebbe più coraggio.

“Consulenze inutili per 4,3 milioni”. Boschi sr. a giudizio

Il reato è bancarotta colposa e a gennaio andrà a processo insieme ad altri 13. Pier Luigi Boschi, padre dell’ex ministra Maria Elena, è stato citato a giudizio dalla Procura di Arezzo e dovrà giustificare una serie di consulenze esterne date nel 2014 da Banca Etruria, di cui Boschi era amministratore. In quei mesi la banca era alla ricerca di un potenziale partner per evitare il crac, ma secondo l’accusa quelle consulenze sarebbero state soltanto una spesa inutile, tale da aggravare la posizione dell’istituto.

L’avviso di chiusura indagini per Boschi e altri 14 amministratori era arrivato a giugno e delineava un quadro da 4,3 milioni di euro spesi in consulenze sospette. Tra queste, i pm segnalavano quella da 800 mila euro agli Studi De Gravio e Zoppini; o l’incarico affidato da Etruria agli studi legali Scotti Camuzzi, Portale e De Marco (valore: 200 mila euro) con riferimento a una generica assistenza legale; o gli 824 mila euro per il parere giuridico dello studio fondato da Franzo Grande Stevens, storico avvocato di Gianni Agnelli e già presidente della Juventus; o ancora l’enorme consulenza da 1 milione e 902 mila euro affidata alla società Bain & Co. Ins e un altro mezzo milione girato a Mediobanca.

Il tutto frutto di un “mandato in bianco” conferito dai consiglieri al presidente e al direttore generale per “determinare il compenso, la durata e quant’altro necessario” delle consulenze, senza “nessun obbligo di rendicontazione”.

Secondo la Procura, i 14 amministratori non avrebbero vigilato sulla redazione delle consulenze – ritenute appunto inutili e ripetitive, perché sovrapponibili nelle richieste e negli studi contattati –. Oltre ai 14 con citazione diretta ci sono poi tre indagati a cui gli stessi fatti sono contestati in un altro filone del processo. Si tratta dell’ex presidente Lorenzo Rosi, dell’ex dg Luca Bronchi e dell’ex vicepresidente Alfredo Berni: il primo è imputato per bancarotta fraudolenta, gli altri due sono stati già condannati con rito abbreviato rispettivamente a cinque e a due anni.

Il padre di Maria Elena Boschi finisce invece a processo per la prima volta nella vicenda del crac di Etruria. Lo scorso ottobre la sua posizione era stata infatti archiviata nel filone relativo alla mancata fusione di Etruria con la Popolare di Vicenza, mentre all’inizio dell’anno era stato archiviato, sempre insieme ad altri amministratori dell’epoca, dall’accusa di falso in prospetto riguardo a comunicazione date ai risparmiatori per sottoscrivere alcuni prodotti.

Proprio pochi giorni fa, anche alla luce di queste buone notizie, Maria Elena Boschi aveva colto l’occasione dello scandalo della Popolare di Bari per tornare sulle vicende del padre: “La mia famiglia ha pagato un prezzo altissimo e ingiusto. Mio padre è stato massacrato mediaticamente e ha subito vari procedimenti, ma la sua posizione è stata archiviata su tutto sinora. Resta un procedimento ancora in piedi e la Procura ha chiesto l’archiviazione anche per quello”. Troppo ottimismo, perché in realtà Pier Luigi Boschi chiude l’anno con la citazione a giudizio per le consulenze che si aggiunge a un’altra indagine effettivamente ancora in piedi.

Si tratta di un filone dedicato alla maxi liquidazione da 700 mila euro andata all’ex dg Luca Bronchi nel 2014, per cui sono indagate dodici persone.

Entro qualche settimana è atteso il giudizio del gup Piergiorgio Ponticelli, che dovrà decidere se mandare un’altra volta a processo Boschi senior.