La metamorfosi di Roberto Benigni in Geppetto è il principale se non l’unico motivo per cui vale la pena di vedere il Pinocchio di Matteo Garrone. Grazie alla magia di Collodi, Benigni non fa più il Benigni, non essendolo più da un pezzo; abbandona il burattino che fu, “mette giudizio” e si incarna nel babbo di se stesso (destino comune). Quanto a Garrone, che ne Il racconto dei racconti aveva mostrato di conoscere il lato oscuro delle fiabe, di saper evocare il mondo incantato di Bettelheim, anche lui ha messo giudizio, fin troppo. Le avventure di Pinocchio sono sottoposte a un’invisibile ma sistematica edulcorazione disneyana (per non dire amazzoniana); il Grillo Parlante non viene stecchito (dunque non può risorgere), del ciuchino Lucignolo non si sa più nulla, e quando Pinocchio si scopre “ragazzino come tutti gli altri”, il burattino senza vita è rottamato senza rimpianti, roba che nemmeno Renzi con D’Alema. Eppure, il pubblicista mazziniano Carlo Lorenzini parteggia apertamente per il burattino ribelle, mentre “il ragazzino perbene” assomiglia al piccolo borghese da lui tanto spesso irriso, come ha dimostrato Daniela Marcheschi nel suo saggio Il naso corto. E poi, “mettere giudizio” significa anche dire addio al mondo incantato, lasciare la fantasia fuori dalla porta. Nasce da qui la misteriosa malinconia di cui è soffuso il finale. Altrimenti, altro che Zalone: ci tocca avere pure un Pinocchio politicamente corretto, una favola perbene “come tutte le altre”.
Tutte le domande che non riusciamo a fare a Zingaretti
Molti lettori non sanno come funzionano le ospitate in tivù. Quando ci domandate “Perché non invitate questo o quello?”, parlando ad esempio del nostro Accordi & disaccordi, vi dimenticate almeno due aspetti. Il primo è che ci sono politici e giornalisti che non chiameremmo mai in casa nostra. Il secondo, ben più selettivo del primo, è che molti politici da noi non vengono. Renzi, che ha sempre rifiutato di confrontarsi con me in tivù, non verrà mai. Berlusconi non verrà mai. E Salvini, che pure è stato da noi nel dicembre 2018, dopo Il cazzaro verde non tornerà per un bel pezzo. Beninteso, sono liberissimi di farlo. E beninteso, a titolo personale me ne frega un po’ meno di niente. Mi spiace un po’ di più quando il rifiuto viene da chi non avrebbe motivo di “scappare”. Se i due Mattei, il peggio del peggio della politica di oggi, e quel che resta di Silvio hanno “diritto” a detestarci, non si capisce perché Nicola Zingaretti ogni volta accampi scuse. Oppure, tramite il suo ufficio stampa, non perda neanche tempo a risponderci. Liberissimo pure lui di farlo, ma perché? Per qualche critica? Perché non si sente sicuro in tivù? O perché non saprebbe cosa dire, considerato che la strategia stessa del (suo?) Pd è di per sé confusa e dunque non facilmente narrabile? Peccato, perché intervistare l’ineffabile Zinga sarebbe divertente. Oddio: divertente forse no.
Il segretario del Pd non è esattamente un fromboliere della comunicazione e non è certo in grado di drogare in positivo lo share, come accadeva un tempo a Salvini e come Renzi non riesce a fare dalle guerre puniche. Sarebbe però una chiacchierata ricca di spunti. A Zingaretti vanno riconosciuti due meriti. Il primo è che, paragonato ai disastri politici del renzismo, la sua figura assurge quasi a Churchill. Il secondo è che, all’interno del governo MaZinga, è il leader (con Speranza/Bersani) più propositivo del quartetto. Se Renzi e Di Maio non mancano ogni giorno di cannoneggiare odiosamente quello che resta un governo pieno di limiti ma (per distacco) l’opzione in campo a oggi migliore, Zingaretti – che pure non voleva questo esecutivo – spicca per compostezza e professionalità. Non è poco. Eppure, riconosciute tali doti a colui che i maligni si ostinano a definire “il cognato della moglie di Montalbano”, permangono delle perplessità. Soprattutto una: che partito ha in mente, se lo ha in mente, Zingaretti? No, perché mica si è ancora capito. I “salvinistri”, come Travaglio chiama quella ghenga puerile di “opinionisti di sinistra” che fanno il gioco di Salvini bombardando pretestuosamente il Conte II, cianciano che Zingaretti si è azzerbinato ai 5 Stelle. Una castroneria: casomai Zingaretti sa che, nel Parlamento attuale, il Pd ha la metà dei parlamentari. E dunque qualcosa deve concedere. Oltretutto quasi tutti i deputati e senatori Pd sono renziani, quindi lui in questa legislatura può poco. Anche per questo desiderava andare al voto. Il problema però resta: dietro le belle parole su Conte, lodato da Zinga quasi che lui stesso delegasse ad altri un ruolo politico dominante che sa di non poter garantire, cosa vuole realmente Zinga? Sulla prescrizione è con Bonafede o Verini? Sul bavaglio è con Conte o con Orlando? E sulle autostrade? E sul conflitto di interessi? E ancora: perché Zingaretti non costringe Di Maio a fare una volta per tutte quella sacrosanta legge sul “fine vita” che, dopo la sentenza su Dj Fabo, è adesso inemendabile? Sono queste le domande che gli faremmo. Se ne ha paura, cosa che mi rifiuto di pensare, allora ha sbagliato mestiere.
In guerra vince lo “sterco del demonio”
L’anno sta finendo. È il momento dei résumé. C’è una grande confusione sotto i cieli. In Libia si contrappongono, per interposta persona, cioè sulla pelle dei libici, la Turchia schierata a favore dell’inconsistente governo di al Serraj e l’Egitto che opera attraverso il generale tagliagole Aftar che ne è una propaggine. Su questo scacchiere sono presenti anche 800 contractor russi, cioè mercenari, che portano il nome vagamente sinistro di Wagner, perché, a torto o ragione, il grande musicista tedesco è considerato un precursore del nazismo. Evidentemente i russi, come gli americani, non sono più disposti a rischiare direttamente la propria pelle. Dovrebbero studiarsi un po’ di storia. L’Impero romano, che con i suoi formidabili legionari e la sua logistica aveva conquistato tutto il mondo conosciuto, crollò quando i Romani, divenuti molto simili a quelli di oggi, non ne vollero più sapere di combattere, affidando la propria difesa a mercenari germanici, che per qualche tempo cancellarono Roma dalla faccia della Storia (la popolazione di Roma si ridusse a 37.000 abitanti). In Siria la Turchia, con l’appoggio russo, stermina i curdi che sarebbero i soli legittimati ad abitare quella regione che non a caso si chiama Kurdistan. Per la Turchia i curdi sono una storica spina nel fianco perché in Turchia vivono 15 milioni di curdi e il terrore dell’ex Stato ottomano è che si uniscano alle enclave curde in Siria, in Iraq e in Iran. Quindi Erdogan e i suoi predecessori hanno risolto la questione in modo molto semplice dando ai curdi la patente di terroristi (Ocalan insegna). In quanto agli americani sono lì, a supporto della Turchia e della Siria di Assad, col pretesto di combattere l’Isis. Ma come l’Isis non doveva essere stato spazzato via dalla faccia della terra dopo la presa di Raqqa? Invece i guerriglieri del Califfato fondato da Al Baghdadi sono ancora presenti in Medio Oriente e soprattutto altrove. È dei giorni scorsi il devastante attacco a Mogadiscio (più di 70 morti) da parte degli Shabaab che al Califfato hanno giurato fedeltà. In Yemen, l’Iran e l’Arabia Saudita, appoggiata dagli americani, si combattono mietendo un numero incalcolabile di vittime locali, perché, come in Afghanistan, non è stato mai calcolato.
L’Europa disunita, e al suo interno l’Italia, non è presente in nessuno di questi scacchieri, non fa che predicare impossibili soluzioni diplomatiche, anche per la Libia che è di nostro stretto interesse, per quanto sia del tutto evidente che ciò che conta è solo la forza militare. Ma questo caos, che fa rimpiangere i tempi della guerra fredda, non è, al di là di tutte le apparenze, la questione principale almeno per i Paesi occidentali o occidentalizzati.
Il vero dittatore del mondo è il mercato (“il più freddo di tutti i mostri” per parafrasare ancora una volta Nietzsche) o per essere più precisi “i mercati”. Ogni mattina che accendiamo la tv non sentiamo parlare che dei “mercati” e delle loro inderogabili esigenze. Con queste entità metafisiche noi ci dialoghiamo: “I mercati ci chiedono”, “il progetto non è piaciuto ai mercati“, “sembra che la proposta abbia avuto l’approvazione dei mercati”. Ma mentre un dittatore o un autocrate può essere sempre abbattuto con il nostro fucilino a tappo, contro i “mercati” non c’è nulla da fare. Sono un’entità metafisica che non si sa dove stia, un nuovo Dio che vive in un suo empireo irraggiungibile, tirargli contro è come sparare al vento quel “vento che tutto sa” come canta Alessandro Mannarino. Insomma siamo ancora e sempre a quella concretissima astrazione che si chiama denaro, che determina le vite di noi tutti, di cui abbiamo parlato riprendendo Lutero in Denaro “Sterco del demonio”. che viene da almeno due secoli e mezzo fa e che ha dato il via, insieme ad altri fattori, alla civiltà moderna, quella che stiamo vivendo. Parlarne qui ci porterebbe troppo lontano. Leggete.
Mafie senza confini: serve cooperazione
L’evoluzione del crimine organizzato, la dimensione transnazionale delle più evolute organizzazioni criminali del nostro Paese e la particolare incisività della legislazione italiana impongono l’individuazione di strumenti legislativi o convenzionali che consentano l’esecuzione all’estero dei procedimenti di misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di beni, che possono prescindere da una condanna in sede penale, o dalla commissione di un reato, e che sono basati sulla pericolosità sociale.
È uno dei problemi più avvertiti nell’esperienza quotidiana, in quanto le legislazioni europee ed extraeuropee non conoscono il sistema italiano della prevenzione, frutto di un rivoluzionario disegno di legge che è stato la principale causa dell’omicidio dell’onorevole Pio La Torre, il segretario regionale del Partito comunista, assassinato il 30 aprile 1982, che ne era stato uno dei principali promotori. Le procedure di rogatoria, alcune concluse, altre tuttora in corso, con alcune nazioni europee, quali la Spagna, la Francia, il Lussemburgo, l’Austria, l’Olanda e il Regno Unito, hanno evidenziato l’essenzialità di una preventiva interlocuzione, attraverso i canali di cooperazione internazionale, al fine di individuare, in base alla ripartizione delle competenze nei diversi Paesi, l’esatto destinatario della richiesta di assistenza e la necessità di esportare il modello italiano per lo meno in tutti i Paesi dell’Unione. In assenza di strumenti specifici di cooperazione, per ogni procedura, sulla base della mia esperienza, è stato necessario l’intervento giudiziario dell’ufficio italiano interessato e del magistrato o dell’ufficiale (in assenza del primo) di collegamento del Paese richiesto, volto a individuare uno spazio operativo degli istituti del sequestro e della confisca di prevenzione nell’ambito della legislazione richiesta. Gli strumenti di cooperazione giudiziaria utilizzati finora dall’Autorità giudiziaria italiana per l’esecuzione di tali sequestri e confische in materia di prevenzione sono stati le Convenzioni di Strasburgo del 1990 sul riciclaggio e la confisca dei proventi di reato e del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, siglata a Varsavia nel 2005, ratificata dall’Italia con la legge 28 luglio 2016, n. 153. Si è fatto e viene fatto ricorso, in particolare, all’art. 21.1 di quest’ultima convenzione. La norma prevede, infatti, che “su richiesta di una parte che abbia avviato una procedura penale o un’azione per fini di confisca ciascuna parte” prenda “le necessarie misure provvisorie”. È stato proposto di interpretare l’“azione per fini di confisca” come diversa da quella avviata nell’ambito del processo penale in modo da ricomprendervi anche il procedimento di prevenzione.
Va potenziata la cooperazione internazionale in modo da poter realizzare un’indagine internazionale in grado di seguire i proventi illeciti e il loro reimpiego dalla fonte, via via, in tutti i passaggi di trasformazione degli stessi, al fine di evitare ritardi e superare ogni ostacolo per una celere ed efficace esecuzione. L’obiettivo è di procedere al sequestro e alla confisca dei patrimoni illeciti ovunque si trovino, con celerità, superando i problemi linguistici, dotando ogni Paese di magistrati di collegamento, impedendo al crimine organizzato di sfruttare pericolosi vuoti di legislazione e di accrescere il suo potere economico e criminale. E per fare ciò occorre attuare l’armonizzazione delle legislazioni e il mutuo riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e di confisca, facendo capire, con un’attenta attività istituzionale di sensibilizzazione e illustrazione, che le strutture mafiose non sono una mera “questione tra italiani che indossano le coppole”, ma forme di criminalità aggressive, basate su un dinamismo imprenditoriale, capaci di imbrigliare lo sviluppo economico anche di Paesi stranieri e che sussiste una comune esigenza di contrastarle, affinché anche questi ultimi non siano costretti a rivivere il nostro tragico passato e il nostro presente.
Va spiegato che le misure di prevenzione sono il frutto di una conquista e che per la loro introduzione nel Nostro Paese non bastò nemmeno l’assassinio del suo artefice (La Torre) e la strage della circonvallazione del 16 giugno 1982, nel corso della quale morì il boss catanese Alfio Ferlito e tre carabinieri che lo scortavano e la scia di sangue che ne seguì. Fu necessaria l’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa il 3 settembre 1982 per far approvare il 13 settembre dello stesso anno la relativa proposta di legge. Tra le riflessioni e le esperienze che il disegno di legge di La Torre raccoglieva, vi erano quelli di Rocco Chinnici, a sua volta assassinato il 29 luglio 1983, con un’autobomba nel cuore di Palermo.
Mail box
Bloccare la prescrizione serve a ridurre i tempi del processo
Caro Travaglio, trovo scandaloso il fatto che con la precedente impostazione della prescrizione numerosissimi processi penali si risolvessero con un sostanziale condono per gli imputati colpevoli. Chi è contrario alla nuova prescrizione, che a partire dal prossimo anno si sospende dopo il primo grado di giudizio, sostiene che d’ora in poi il processo non avrà più la certezza della una fine, per cui gli imputati resteranno imputati a vita. Per evitare tale eventualità, costoro propongono di riformare i meccanismi del processo per ridurne la durata e solo dopo modificare la vecchia prescrizione.
Mi sembra di vedere il cane che si morde la coda.
A mio avviso, finché vigeva la precedente impostazione non c’era speranza alcuna che i farraginosi meccanismi del processo potessero essere riformati. Adesso che la prescrizione viene sospesa dopo il primo grado di giudizio, e solo finché sarà operativa tale impostazione, esiste a mio parere la possibilità di intervenire sui tempi del processo per ridurli.
Con la vecchia prescrizione ciò sarebbe stato impossibile.
Pietro Volpi
Chi discrimina le diversità è sempre dalla parte del torto
Gentile direttore, in una pizzeria di Filadelfia (provincia di Vibo Valentia, in Calabria) una famiglia si sarebbe lamentata per la vicinanza al tavolo dove stavano cenando di due giovani affetti da sindrome di Down. Lo ha reso pubblico, tramite Facebook, Francesco Conidi, responsabile del club dei ragazzi Filadelfia che ha il nobile compito di cercare di rendere autosufficienti, nel quotidiano, ragazzi affetti da questa sindrome.
Sulla Rai stanno trasmettendo una serie tv dal titolo Ognuno è perfetto, che vuole affrontare il tema della discriminazione verso la diversità, esaltando l’unicità e le potenzialità di ognuno.
Perché effettivamente il problema esiste. Bisognerebbe quantomeno avere l’accortezza, se si è infastiditi, di far finta di nulla. E questo vale tutti i giorni, non solo di fronte alla diversità ma anche al tedio o all’antipatia. Perché quando si discrimina in modo inutile si passa sempre dalla parte del torto.
Cristian Carbognani
L’indagine di Gratteri può aiutare chi ci governa
Ritengo che l’inchiesta di Gratteri serva soprattutto a far conoscere agli italiani da chi siamo realmente governati.
Ma sono certo che questa inchiesta finirà come Mani Pulite, con prescrizioni o assoluzioni variamente motivate a discrezione dei giudici, secondo leggi poco chiare, anche se spero che ciò non avvenga.
Ritengo, inoltre, che si debba fare una grande battaglia per rendere trasparenti tutti gli atti della pubblica amministrazione, nessuno escluso.
L.D.
Un test antidroga obbligatorio per le professioni più a rischio
Trovo stucchevole la polemica su droga sì/droga no, anche se coltivata sul balcone per uso personale. Il fatto è che non si vuole risolvere il problema della tossicodipendenza, per il quale basterebbe un provvedimento semplicissimo e poco costoso. Visto che tracce di cocaina e droghe varie permangono per mesi sui capelli di chi ne fa uso continuato, basterebbe che tutte le persone che fanno lavori incompatibili con l’uso di droghe, come piloti di aerei, treni, autobus, camion, taxi, chirurghi, avvocati, insegnanti, ingegneri, poliziotti, magistrati, fossero obbligati a fare tre volte l’anno l’esame del capello, che costa pochi euro e un centimetro di chioma. E in caso di positività fossero immediatamente licenziati e costretti, per vivere, a fare lavori dove non possano nuocere. Il motivo per cui non lo si vuole fare ha attinenza col fatto che negli scarichi dei bagni dei deputati di Montecitorio sono state trovate pochi anni fa dosi massicce di metaboliti della coca: evidentemente i politici sono grossi utilizzatori di dette sostanze – da cui il livello delle leggi che varano – e quindi non vogliono pagare pegno.
Enrico Costantini
I NOSTRI ERRORI
Nella rubrica di ieri “Lettere selvagge” abbiamo pubblicato tre interventi sull’incidente di Corso Francia a Roma. Questa la risposta ai lettori di Selvaggia Lucarelli: “Ho lasciato lo spazio della posta a tre delle numerose lettere che mi sono arrivate su questo tema per far comprendere l’immenso strazio che – spesso – si porta dietro questo genere di incidenti: quello, compreso, dei familiari delle vittime e quello, incompreso, di chi ha ucciso senza volerlo”.
FQ
Ieri, facendo le pulci a Renato Farina che su Libero se la prendeva con Roberto Saviano per aver pubblicato un dipinto su Maria che partorisce Gesù, ho scritto un’inesattezza. Ciò che Farina inventa di sana pianta non è il dogma della verginità di Maria, codificato e confermato da concilii e papi, ma che quel dogma c’entri qualcosa col parto di Gesù, o lo smentisca, o lo differenzi da quello degli altri neonati. Un fatto normalissimo, anzi ovvio, che è più che un dogma. È Vangelo, là dove si racconta l’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria: “…concepirai nel seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù”.
M. Trav.
Non solo piazze. Che succederebbe se le Sardine si iscrivessero tutte al Pd?
Stefano Feltri si augura che le Sardine possano iscriversi in massa al Pd per cambiare la politica e la sinistra. Al contrario per il 2020 augurerei a questo movimento di riuscire a rimanere libero dai partiti e dalle loro logiche “illogiche”. Forse solo così potrà continuare a essere di stimolo a tutte le forze progressiste, i singoli pesciolini votino poi per chi gli pare. Se avvenisse quello che si augura Feltri non penso che cambierebbe il Pd ma solo le Sardine: non sarebbero più sardine, ma acciughe sotto sale in scatola.
Enza Ferro
Gentile Enza, io non mi auguro niente di particolare. In un post sul sito del Fatto mi sono interrogato su quali sono i possibili sbocchi di questo movimento così nuovo. Non ha un leader (i quattro “fondatori” hanno solo organizzato i primi eventi) e neppure un programma. Le migliaia di persone che sono scese in piazza sono accomunate da due punti semplici. Primo: la richiesta di una politica diversa per contenuti e stile da quella di Matteo Salvini, contro il quale manifestano in Emilia-Romagna. Secondo punto: il rigetto delle scorciatoie populiste – lo dicono nel loro “manifesto” – che sono state proposte dai partiti in questi anni, anche da quelli che sostenevano di opporsi al populismo. È quindi da escludere che le Sardine diventino una nuova versione dei Cinque Stelle: non hanno un leader come Beppe Grillo, manca una intuizione organizzativa come quella di Gianroberto Casaleggio, soprattutto manca un collante forte come il “vaffanculo” alla casta. Le Sardine hanno finora espresso il desiderio di una politica più pacata, capace di ascoltare e di offrire soluzioni pragmatiche al posto degli slogan. Per usare la dicotomia di Albert Hischmann, sono elettori che stanno scegliendo l’opzione “voce” (richiesta di cambiamento) invece che “uscita” (spinta anti-politica fuori dal sistema dei partiti). Questo ci riporta a dilemmi antichi: come si fa a cambiare l’offerta politica dei partiti? La pressione esterna non ha prodotto grandi risultati: il Pd non è diventato un partito migliore grazie alla concorrenza del M5S, la destra non si è moralizzata, ma ha generato Salvini. Per questo, invece che aspettare l’ennesimo nuovo segretario o leader, le Sardine potrebbero riconsiderare un antico modo di fare politica: partecipare. Dentro i partiti, non contro. Il Pd, con tutti i suoi limiti, ha ancora un minimo di struttura che permette di “scalarlo” o almeno colonizzarlo, come hanno fatto con il Partito democratico Usa i sostenitori radicali di Bernie Sanders.
Stefano Feltri
Il presidente dei nostri cuori
Puntata numero X dell’epopea di Cairo sui giornali di Cairo: il Corriere della Sera colpisce ancora. Non è mica colpa del quotidiano di via Solferino e dei suoi giornalisti; non è mica l’ennesimo episodio di piaggeria e conflitto d’interessi: il fatto è che Urbano è un bel presidente, un santo, un apostolo. E continua a ricevere premi e riconoscimenti. Stavolta – ci informa il Corsera nel suo inserto economico – il Nostro è risultato essere il Top Manager italiano con la reputazione più alta di tutto il web (una classifica stilata dalla società Reputation Science). Del prestigioso concorso viene data notizia in una doppia pagina con il titolo centrale, a caratteri cubitali: “ECONOMIA. CHI HA PIU’ CREDITO”. Chi ha più credito? Cairo! Il Nostro risulta essere ovviamente il più apprezzato in assoluto e vince la classifica generale, davanti all’amministratore delegato di Eni, Francesco Starace e al presidente di Fiat, John Elkann. Ma il Cannibale Cairo si aggiudica anche due distinte classifiche “parziali”, nei Media e nello Sport, in qualità di editore e di presidente del Torino. È un miracolo: mentre il Toro occupa un decimo posto senza infamia e senza lode nella classifica di Serie A, il presidentissimo è in testa per distacco in quella dei nostri cuori, davanti ai vari Agnelli, Commisso e De Laurentiis.
Cairo vince, il Corsera volentieri pubblica.
“È l’era della nuova Guerra fredda: le élite europee non lo capiscono”
La seconda guerra fredda è l’ultimo libro di Federico Rampini, una delle poche voci controcorrente di un dibattito pubblico immiserito dagli slogan, svuotato dai tabù, ucciso dal politicamente corretto, in cui i portatori di tesi “altre” vengono ridicolizzati da chi non ha competenze né titoli, ma ha dalla propria il mainstream. La tesi del libro è che l’ordine del mondo è destinato a cambiare, perché la “Chimerica” (acronimo di China+America) si è rivelata una chimera: “La simbiosi tra la fabbrica del mondo (cinese) e il suo mercato di sbocco (gli Usa)” non c’è più.
La politica economica di Trump è stata demonizzata dalla maggioranza degli osservatori: in realtà l’economia Usa non va male.
Trump ha capito che la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni non è più sostenibile: regole asimmetriche negoziate per integrare la Cina quando era povera e arretrata, la favoriscono in modo inaccettabile ora che è una superpotenza, in grado di sorpassare l’Occidente nelle tecnologie avanzate. Trump ha fatto sue le critiche che erano anche della sinistra americana, in difesa della classe operaia impoverita dal libero scambio. Ormai i Democratici Usa danno ragione a Trump sulla Cina. Il contenzioso commerciale è solo un piccolo aspetto della nuova guerra fredda che investe tecnologie, spionaggio, espansionismo neo-coloniale, corsa al riarmo, più un vero scontro di civiltà tra modelli politici alternativi.
Ha scritto che il 2019 è stato “un altro anno nero per gli economisti. È una categoria dalle responsabilità enormi. Se nel mondo soffia il vento del populismo, la colpa è anche loro, in misura sostanziale”. Perché?
La guerra dei dazi è un buon esempio: la stragrande maggioranza degli economisti ha incolpato Trump di precipitare il mondo in un’Apocalisse. Il protezionismo doveva scatenare recessione; il conto dei dazi lo paga il consumatore. Abbiamo ormai quasi due anni di dazi alle spalle, e fino all’ultima tregua Usa-Cina sono stati massicci. Nulla di catastrofico è accaduto, anzi: l’inflazione Usa è ferma al 2%, la crescita è robusta, il mercato del lavoro è vicino alla piena occupazione. Ma i Premi Nobel alla Paul Krugman continuano a ripeterci che l’Armageddon è dietro l’angolo. Mai una previsione azzeccata. Non videro la crisi del 2008, in compenso ne hanno “viste” tante altre che non ci sono state. Autocritiche? Poche. Supponenza, tanta…
In questa nuova guerra fredda, noi che fine faremo? È giustificato l’allarme per le incursioni cinesi in Italia?
Nella seconda guerra fredda, come nella prima, ricavarsi spazi di autonomia sarà un esercizio ad alto rischio. Il mondo va verso un nuovo bipolarismo, America e Cina usano linguaggi diversi ma entrambe ci chiedono di scegliere da che parte stare. L’allarme sui porti di Genova e Trieste è giustificato. Meno legittime sono le critiche che Bruxelles e Berlino rivolsero a Conte quando firmò il Memorandum sulle Vie della Seta: il gesto simbolico forse fu incauto, ma la Germania si è venduta ai cinesi molto prima di noi e in maniera più sostanziale. L’Europa avrebbe bisogno di regole comuni per filtrare gli investimenti cinesi. Non le ha, questo apre varchi sia alla penetrazione di Xi Jinping sia ai ricatti americani.
Nel libro scrive che la globalizzazione non è irreversibile. Cosa vuol dire concretamente?
La globalizzazione è una costruzione politica, non un fenomeno naturale. Cina e India, le due nazioni più popolose del pianeta, non ne hanno mai abbracciato la versione neoliberista. Il protezionismo americano è la reazione tardiva a un protezionismo cinese ben più determinato. La simbiosi economico-finanziaria America-Cina creò un equilibrio temporaneo ma precario, che si rompe quando Pechino aspira all’egemonia.
All’indomani del referendum sulla Brexit una larga fetta di opinione pubblica progressista chiedeva di rivotare, gridava all’apocalisse, anzi al genocidio: un’intera generazione era stata uccisa nelle urne. Pensosi editoriali sulla fine del sogno europeo, addio Interrail, Erasmus… L’apocalisse, lei scrive, non c’è stata. E tuttavia i commentatori non si rimangiano le sciocchezze che ci rifilano.
Già all’indomani del primo voto, nel 2016, Londra doveva sprofondare nel Mare del Nord, stando agli economisti e a tutti coloro che ne maneggiano le previsioni. A furia di ripeterlo, l’establishment e tanti opinionisti si sono auto-convinti che il Regno Unito era in una crisi spaventosa e che gli elettori si erano accorti dell’errore del 2016. Tornati alle urne poche settimane fa, quelli non si sono affatto ravveduti. Le élite si consolano da sole: il popolo è rozzo, ignorante, incapace di prendere decisioni lungimiranti. Guarda caso, questo lo pensano anche Putin, Erdogan e Xi Jinping.
Lei punta il dito contro i tecnocrati che “hanno imposto all’Eurozona i parametri inflessibili del Patto di Stabilità, infliggendole un decennio di stagnazione”. La colpa non è anche della politica che si è consegnata mani e piedi a organismi privi di rappresentanza?
La critica contro il Patto di Stabilità e l’ideologia dell’austerity fu a lungo un patrimonio del pensiero neo-keynesiano e quindi della sinistra. Poi venne dimenticata quando la sinistra di governo voleva legittimarsi a Bruxelles. Il trasferimento di potere decisionale verso organi tecnocratici è una tradizione che risale all’autonomia delle Banche centrali, per isolare la politica monetaria dal ciclo elettorale. Ha una logica ma va maneggiata con cura e a piccole dosi, perché ogni perdita di sovranità intacca la democrazia, allontana il potere dai cittadini, crea dei poteri separati auto-referenziali. Se poi questi poteri finiscono intrappolati nell’ideologia sbagliata, è un disastro. La Federal Reserve americana ha la crescita dell’occupazione tra i suoi obiettivi istituzionali, la Bce no.
La Francia sciopera da 25 giorni contro la riforma delle pensioni di Macron: che ne pensa?
Macron ha un talento speciale per mettersi tutti contro anche quando ha ragione.
Tre anni fa lei ha detto: “Siamo stati troppo a lungo la cassa di risonanza di proiezioni fatte dagli uffici studi delle Banche centrali o di Goldman Sachs e amplificavamo questi messaggi rassicuranti, mitologici su una globalizzazione felice per tutti e anche su una società multietnica che doveva essere un paradiso terrestre dell’armonia”. La sua autocritica è rimasta una voce isolata. Si è chiesto perché?
Ogni volta che ho presentato il mio libro La notte della sinistra (che contiene quelle autocritiche, ndr) in luoghi frequentati da elettori del Pd, mi hanno colpito le manifestazioni di consenso. La frase più frequente: era ora che qualcuno dicesse queste cose. Non mi sento isolato. Anche in America quando partecipo a dibattiti su questi temi sento serpeggiare una ribellione di massa contro il politically correct.
Ilva, banche, Autostrade etc. L’anno degli irresponsabili
Luciano Benetton
Categoria: Confusi
Voto: 3
L’annataccia di Luciano Benetton si incardina su un’intervista e su una lettera. L’intervista è quella del 17 maggio a “Repubblica”, dal tono assertivo fin dal titolo: “Torno a metterci la faccia contro odio e accuse”. Difende a spada tratta i manager di Atlantia, segnatamente l’innominato amministratore delegato Giovanni Castellucci, dalle accuse per il crollo del ponte Morandi: “Sono sicuro della buona fede dei manager. Nessun imprenditore può immaginare di risparmiare sulla manutenzione dei ponti e delle autostrade”. La lettera è quella del 1° dicembre, pubblicata da numerosi quotidiani, in cui il sedicente campione del capitalismo devoto alla responsabilità sociale dell’impresa innesta la retromarcia: “Le notizie di questi giorni ci colpiscono e ci sorprendono in modo grave. Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di aver scelto un management che si è dimostrato non idoneo”. Scarica tutte le colpe su Castellucci, silurato poche settimane prima, e si dichiara non solo innocente ma addirittura “parte lesa”. Volendogli credere, Benetton è un distratto recidivo. Due anni fa ha ripreso la guida della Benetton dei maglioni accusando i manager a cui l’aveva affidata di “gestione malavitosa”. Gente che giudica i manager solo dai dividendi che consegnano alla famiglia e non cambia idea neppure davanti a 43 morti, ma solo davanti alle prove schiaccianti raccolte dalla magistratura. Degno simbolo della china penosa del capitalismo familiare italiano.
Lakshmi Mittal
Categoria: Prenditori
Voto: 4
Nel 2019 anche l’Italia ha fatto conoscenza con i rudi modi di Lakshmi Mittal, gran capo di ArcelorMittal, il gigante della siderurgia attivo in 14 Paesi. Nato nel 1950 nel villaggio senza elettricità di Sadulpur, nel Rajasthan, ha costruito un impero acquistando società statali in perdita: se va bene le rilancia, altrimenti elimina un concorrente. Guida un colosso da 70 miliardi di fatturato che in Europa è un monopolista, grazie anche a un disinvolto rapporto con la politica. Nel 2001, per dire, finanzia il partito laburista e ottiene l’appoggio del premier inglese Tony Blair nella conquista della siderurgia statale rumena, che ha il cuore a Hunedoara (Bucarest). Quando i Mittal – all’epoca non ancora “sposati” con la franco-lussemburghese Arcelor – ci mettono gli occhi gli operai erano 8 mila, dal 2011 sono poche centinaia. Copione che si vuole ripetere oggi all’Ilva. Nel 2016 il governo Renzi ha deciso di vendere la più grande acciaieria d’Europa come fosse un appartamento: ovviamente ha vinto Mittal, che offriva di più ma aveva un piano industriale che non stava in piedi. Come previsto, il colosso ha cercato di chiuderla. L’offensiva giudiziaria ha rallentato l’operazione ma, se va bene, toccherà allo Stato sobbarcarsi il costo degli investimenti e della cassa integrazione (mettere 1400 operai in Cig per 1 anno costa meno di quanto speso da Mittal per il matrimonio della figlia). Un capolavoro per il quale il miliardario indiano, degno simbolo del capitalismo rapace, deve ringraziare la disastrosa classe dirigente italiana.
Ignazio Visco
Categoria: Miopi
Voto: 5
Il 21 novembre Ignazio Visco ha perso la sua grande occasione. Avrebbe potuto approfittare del settantesimo compleanno per dichiararsi stanco e lasciare il posto di governatore della Banca d’Italia, risparmiandosi la valanga di guano che lo ha travolto pochi giorni dopo con l’esplosione dell’ultimo scandalo bancario, quello della Popolare di Bari. Più che di attaccamento alla poltrona si tratta di una visione miope degli interessi di un’istituzione delicata come la Banca d’Italia, ai quali Visco – adeguandosi allo spirito dei tempi – antepone ostinatamente i propri capricci personali. Nell’estate del 2018, come ha dettagliatamente ricostruito l’ex premier Paolo Gentiloni nel libro “La sfida impopulista”, c’era già un accordo tra Quirinale, Palazzo Chigi e Palazzo Koch per non rinnovare il mandato in scadenza di Visco e dare luogo a un cambio della guardia dovuto anche alle “defaillance nell’azione di vigilanza della Banca d’Italia”. Visco fu salvato dalla mozione parlamentare contro di lui promossa da Matteo Renzi, visto che non si poteva giubilare il governatore a furor… di Renzi. Poche settimane dopo la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche si è trasformata in una sorta di corrida dalla quale l’immagine di Bankitalia è uscita a pezzi. La scena si è ripetuta quest’anno. Prima Visco fa trapelare l’intenzione di lasciare in anticipo, poi scoppia la grana di Bari e allora fa l’offeso e fa sapere che resterà fino al 2023. Puntigli personali gestiti a spese delle istituzioni.
John Elkann
Categoria: Nipoti di
Voto: 5
A 43 anni, John Elkann ha coronato il sogno di diventare il vero capo di Fca, colosso diviso tra Detroit (vero quartier generale) e una Torino ormai vassalla, consegnandola al sostanziale controllo francese in cambio di una montagna di dividendi. È noto che Sergio Marchionne non nutrisse grande stima per l’erede designato dall’Avvocato, bravissimo a tutelare i suoi interessi, molto meno a dare una prospettiva alle aziende che controlla. Morto il manager, il rampollo ha finalmente potuto fare di testa sua. La fusione con Peugeot frutterà a Exor, la cassaforte di famiglia, 1,5 miliardi di dividendi extra, quasi 800 milioni finiranno a garantire il tenore di vita della sterminata lista di parenti di “Jaki”. Forte dell’operazione, Elkann ha deciso di buttare 200 milioni rilevando dai De Benedetti il controllo del gruppo Gedi, in crisi da tempo, costringendosi a un’Offerta pubblica d’acquisto con un premio del 64 per cento sul prezzo di mercato. Nessuno ha mai capito da dove nasca il pallino per la stampa del nipote di Gianni Agnelli, forse dalla presunzione di saper fare l’editore o forse l’operazione serve a coprirsi le spalle in vista dei pesanti tagli che toccheranno agli stabilimenti italiani di Fca. Con Marchionne al comando, Elkann fu costretto a uscire da Rcs (Corriere della Sera) dedicando le sue mire all’Economist, dove però la governance impedisce di dettare la linea editoriale. Cosa che ora potrà tornare a fare, nell’Italia declinante dei giornali padronali e degli editori impuri.
Stefano Patuanelli
Categoria: Sfortunati
Voto: 6
Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo, è diventato suo malgrado il simbolo degli effetti che comporta l’assenza di una strategia di politica industriale. Preso dalle beghe interne al Movimento e dalla sfida continua con Matteo Salvini, Luigi Di Maio gli ha lasciato un ministero sostanzialmente paralizzato. Tutti i dossier mal gestiti dal predecessore Carlo Calenda, come Alitalia e Ilva o vertenze come l’Embraco sono stati affidati alla più classica strategia del rinvio per prendere tempo, lasciando incancrenire i problemi. E così il conto è stato presentato tutto insieme a Patuanelli. Sulla compagnia aerea, per dire, si è trovato a gestire la disastrosa scelta di Di Maio di accettare il ricatto di Atlantia, desiderosa solo di blindare la concessione di Autostrade. Il disastro Ilva è esploso quasi subito, visto che già a settembre Mittal gli aveva fatto arrivare l’intenzione di voler mettere in esubero quasi 5 mila persone e chiudere l’area a caldo di Taranto. Oggi non gli resta che gestire l’ingresso dello Stato nel siderurgico e cercare – tramite pesanti tagli – di vendere l’ex compagnia di bandiera a Lufthansa, il peggior compratore possibile visto che è intenzionata solo a prendersi la polpa della società e dirottare il traffico verso l’hub di Francoforte. Le prime mosse, però, dimostrano scarse idee sugli uomini che possono gestire i dossier. Su Ilva non c’è traccia della decisione di affidarsi a un manager siderurgico di peso; per Alitalia è stato scelto un esperto di liquidazioni. La sfida parte in salita.
Vincenzo De Bustis
Categoria: Ostinati
Voto: 4
Abituato a cadere sempre in piedi, Vincenzo De Bustis (ex Banca del Salento poi Banca 121, ex Monte dei Paschi, ex Deutsche Bank) ama rilanciare sempre, trattando il mondo bancario italiano come un tavolo da gioco attorno al quale siede da decenni, sempre con la stessa aggressività. Ma stavolta l’ostinazione sembra avergli giocato un brutto scherzo. Il 12 dicembre 2018 è tornato alla guida della Banca popolare di Bari (di cui era già stato direttore generale dal 2011 al 2015) stabilendo un record storico: è l’unico banchiere riuscito a issarsi al vertice di un istituto a dispetto della “moral suasion” della Banca d’Italia che (lo racconta il governatore Ignazio Visco) aveva vivamente sconsigliato i vertici della banca di rimetterselo in casa. Sicuro di sé, il 10 dicembre scorso ha annunciato, in un’intervista al vicedirettore del “Corriere della Sera” Federico Fubini, che avrebbe fatto pulizia delle “vere e proprie patologie” nella concessione del credito che si erano verificate a Bari proprio dal giorno in cui se n’era andato lui. Lo stesso giorno ha assicurato ai dirigenti della banca che il salvataggio della Popolare era ormai certo anche grazie al pieno appoggio della vigilanza di Bankitalia di cui non dubitava. Tre giorni dopo è stato commissariato. Una vicenda oscura che le inchieste giudiziarie definiranno nei dettagli ma della quale resta fin d’ora un insegnamento per tutti i bancari italiani: è quasi sempre meglio fidarsi dei giornali che della sicumera del capo.
Claudio Descalzi
Categoria: Tutto in famiglia
Voto: 4
Il numero uno della più importante azienda italiana, Claudio Descalzi, non si è rassegnato all’uscita di scena e spera ancora nella riconferma, quando a primavera il governo dovrà scegliere l’amministratore delegato dell’Eni. Vanta buoni risultati industriali e una “rivoluzione” che, a suon d’investimenti pubblicitari, cerca di ammantare di verde il più nero dei business, quello del petrolio e degli idrocarburi. È il protagonista del processo dell’anno (ma quasi sconosciuto alla stampa italiana, così sensibile agli investimenti pubblicitari), per una super tangente da oltre 1 miliardo di dollari che sarebbe stata pagata nel 2010 per ottenere il più ricco giacimento petrolifero della Nigeria. È lambito dall’inchiesta sul rinnovo delle licenze d’esplorazione di alcuni giacimenti in Congo. È anche sotto osservazione per il cosiddetto “complotto” architettato per tentare di bloccare le indagini su Eni della Procura di Milano. Basterebbe, in un Paese normale, a far calare il sipario su un manager pubblico? C’è un ulteriore problema, che – al di là delle implicazioni penali – in un Paese normale risolverebbe la questione: la moglie di Descalzi, Maria Magdalena Ingoba (indagata per corruzione internazionale per gli affari Eni in Congo), ha per anni controllato le società Petro Services che hanno fornito a Eni servizi (affitto di navi e sostegno logistico) pagati dalla compagnia del marito circa 300 milioni di dollari. Affari in famiglia, un conflitto d’interessi che in nessun Paese normale apparirebbe normale.
Mario Draghi
Categoria: Europeista
Voto: 8
Dopo otto anni, Mario Draghi ha lasciato la presidenza della Banca centrale europea. La prima parte della sua missione è senz’altro compiuta: l’euro esiste ancora e nessuno ne mette più in dubbio la tenuta, cosa che nel 2011-2012 sembrava impossibile. Ma l’Europa, a differenza degli Stati Uniti, non è mai uscita davvero dalla crisi. A novembre l’inflazione della zona euro è stata dell’1 per cento, la metà dell’obiettivo previsto dal mandato della Bce. Il Quantitative easing – cioè l’acquisto diretto dei titoli di Stato da parte di Francoforte – non è bastato come non sono bastati i tassi di interesse negativi che equivalgono a una tassa sulla liquidità immobilizzata. Nei suoi vari discorsi di congedo, Draghi ha lasciato un monito molto chiaro: la politica monetaria ha fatto quello che poteva, e forse anche qualcosa di piu, ora tocca alla politica fiscale, cioè ai governi con spesa pubblica e investimenti, smuovere l’Europa dalla palude. Per il momento questa esortazione non pare essere stata raccolta, ogni passo in avanti nell’integrazione europea sui conti pubblici viene visto con sospetto (basta vedere il dibattito in Italia sul Fondo salva Stati). In nome della difesa dell’ambiente sia la nuova presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sia la nuova presidente della Bce Christine Lagarde sembrano pronte a spingere per una spesa pubblica “green”, che oggi gode di maggiore consenso di quella “tradizionale”. Vedremo nel 2020 se basterà.
Mark Zuckerberg
Categoria: Velleitario
Voto: 5
Il 2019 è stato un anno pessimo per Mark Zuckerberg, fondatore e capo di Facebook. Il 2020 rischia di essere anche peggio. L’onda lunga degli scandali di Cambridge Analytica – dati di Facebook usati per condizionare elezioni in vari Paesi – è costata al social network una multa da 5 miliardi negli Stati Uniti e una nuova reputazione di piattaforma opaca e pronta a operazioni poco pulite. Zuckerberg cerca di arginare il declino del suo prodotto principale (Facebook è sempre più appannaggio dei cinquantenni da “buongiornissimo”) consolidando le varie aziende che ha comprato in questi anni, a cominciare da WhatsApp e Instagram. Ma il clima intorno a questa strategia di dominio, cruciale per Facebook, è cambiato. Chris Hughes, co-fondatore dell’azienda, ha lanciato dal New York Times un appello per smantellare Facebook, diventata troppo potente e troppo pervasiva. Nessuna azienda deve avere il diritto di decidere cosa possiamo vedere e quali emozioni provare, soprattutto in tempo di elezioni. Il tema è diventato uno dei cardini della campagna elettorale di Elizabeth Warren, candidata dei Democratici (Zuckerberg in una conversazione registrata dice di temere la sua vittoria). Il progetto di battere moneta, costruendo una valuta digitale ma anche reale chiamata Libra, si è arenato presto, anche perché la politica Usa è sempre più ostile. Il momento magico di Zuckerberg sembra davvero finito.
Adam Neumann
Categoria: Bluff
Voto: 4
In Italia il nome di Adam Neumann dice poco, ma in America è diventato il simbolo della bolla digitale che (forse) sta scoppiando: era il capo carismatico di WeWork, un’azienda che prometteva di reinventare nientemeno che la società occidentale. Il modello di business, in realtà, era fin troppo semplice: prendere in affitto a lungo termine immobili a uso ufficio, ristrutturarli e affittarli a breve termine come spazi di co-working per professionisti e imprese che non hanno bisogno di uffici permanenti. Con questo sistema, WeWork perde 3 miliardi di dollari all’anno, ma per un po’ Numann è riuscito a convincere gli investitori di essere un rivoluzionario troppo in anticipo sui temi, i profitti sono soltanto un dettaglio per chi sta cambiando il mondo. L’apoteosi di Neumann doveva essere la quotazione in Borsa, progetto costruito insieme ai suoi due partner finanziari, le banche Softbank e JP Morgan. È stato un disastro, gli investitori disposti a valutare WeWork 45 miliardi non c’erano. I polli hanno rifiutato di farsi spennare e il miracolo di Neumann si è interrotto: quotazione rinviata, azienda a un passo dalla bancarotta, Neumann cacciato dall’azienda che aveva fondato (con buonuscita miliardaria). La storia è rilevante perché ci sono tante aziende come WeWork in America, che promettono di diventare Amazon ma intanto fanno miliardi di perdite. Le due più osservate sono Uber e Netflix. WeWork potrebbe essere ricordata come la Lehman Brothers dei Big Data, l’inizio di una crisi di sfiducia.
A cura di Gianni Barbacetto, Carlo Di Foggia, Stefano Feltri e Giorgio Meletti
Ex Ilva, attesa la decisione del Riesame sull’altoforno 2
Arriverà entro il 7 gennaio la decisione del Tribunale del Riesame di Taranto, se concedere o meno la facoltà d’uso dell’Altoforno2 dell’ex Ilva. Dopo il no del giudice Francesco Maccagnano all’istanza di proroga dell’utilizzo presentata dai commissari straordinari, la difesa ha discusso ieri mattina dinanzi al collegio di giudici ed evidenziato i motivi per i quali il tribunale dovrebbe concedere altri nove mesi per realizzare l’ultima prescrizione chiesta nel lontano 2015 dalla Procura ionica e dal custode giudiziario Barbara Valenzano. In pratica si dovrà decidere se restituire gli impianti all’amministrazione o spegnere il secondo forno di Taranto. Per gli avvocati, il no del giudice è stato il frutto di una errata interpretazione dei documenti presentati e in particolare della relazione dello stesso custode giudiziario sulla base della quale la Procura aveva espresso parere favorevole.
In quel documento il custode aveva confermato che le prescrizioni da attuare entro il 13 novembre erano state sostanzialmente esaudite, anche se andavano comunque migliorate, e chiarito che spetta ad ArcelorMittal aggiornare le procedure operative e la gestione del Sistema di sicurezza sulla base della nuova analisi di rischio. I commissari quindi avevano chiesto altro tempo per ultimare i lavori di automazione sulla cosiddetta “Mat” acronimo di “macchina a tappare”, ma il giudice Maccagnano aveva rigettato la richiesta affermando che il rischio per gli operai era ancora troppo alto. Ora i commissari straordinari sperano di ribaltare quella decisione come avvenuto qualche mese fa dopo il no di Maccagnano quando il Riesame concesse alcuni mesi di proroga alla facoltà d’uso dell’impianto nel quale, nel 2015, perse la vita Alessandro Morricella.