Taranto, mancano i pediatri per i bimbi malati di tumore

Nella città intossicata dalle false promesse e dalla propaganda quasi quanto i veleni dell’ex Ilva, dove gli sguardi sono densi di umiliazione per essere considerati figli di un Dio minore, la raccolta fondi organizzata da Piazza Pulita su La7, “Dona 2 euro per dare un nuovo medico ai bambini di Taranto” per una borsa di studio di un pediatra per il reparto di oncoematologia dell’ospedale Santissima Annunziata, come si trattasse di una calamità naturale, suona come l’ennesima sconfitta dello Stato. “Purtroppo, da anni le borse di studio vengono istituite anche da privati, case farmaceutiche, fondazioni, associazioni”, ci spiega Valerio Cecinati, primario di Oncoematologia pediatrica all’Ospedale Santissima Annunziata. “Certo che ci saremmo aspettati che il ministro della Salute intervenisse per dire: la borsa di studio la istituiamo noi. Da quando sono qui, di ministri ne sono cambiati tre e non ne ho mai incontrato uno”.

La carenza di medici e di pediatri è una piaga nazionale che si fa emergenza in questa città di frontiera dove, secondo l’ultimo rapporto Sentieri (acronimo per Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento), c’è un eccesso della “mortalità per tutti i tumori e di ospedalizzazione per le malattie respiratorie acute nella fascia pediatrica”. Negli anni scorsi il Registro tumori attestava un eccesso fino al 30 per cento della incidenza di tumori infantili nell’area tarantina rispetto alla media nazionale. “L’Oncoematologia pediatrica dovrebbe avere un organico di 12 pediatri, invece, ne abbiamo 6”, continua il primario. “Il numero chiuso per accedere alla facoltà andrebbe abolito, la situazione dei concorsi è drammatica. Quando lo feci io, 10 anni fa, per 4 posti ci presentammo in 40, a quello che si terrà a febbraio, per 9 posti hanno fatto domanda in 12”, continua il dottor Cecinati, pugliese di Bari – 45 anni, un figlio di tre – che si dedica con amorevole professionalità alla cura dei bambini malati di tumore. “Abbiamo chiesto, inutilmente, alla Regione di inviarci, a rotazione specializzandi da altre sedi – continua Cecinati –. Penso anche alla riconversione dei piccoli ospedali”.

Una pediatra di recente da Taranto è stata trasferita nella vicina Castellaneta dove per i turni notturni vengono presi medici esterni pagati a cottimo. Nel Paese capovolto dove si trasferiscono gli alunni delle scuole a ridosso dei camini del siderurgico, tutto è normale, compreso mostrare bambini ricoverati con la mascherina che lascia scoperti gli occhi cerchiati mentre le siringhe entrano nel braccetto scarnito e il microfono registra un filo di voce: “Ho il sangue birichino”. “Adesso mi faranno una punturina e mi addormenterò?”. Immagini strazianti per chiedere la donazione. “I genitori hanno acconsentito alla richiesta dei giornalisti, come non capirli, per curare un figlio si fa di tutto. Ma chiedo, di questo passo arriveremo a sostituire i diritti con le concessioni?”. Usa parole forti il dottor Cecinati per descrivere ciò che conosce bene. Mauro Zaratta, militare della Marina, nel 2012 alla manifestazione contro l’ennesimo decreto salva Ilva mostrò il cartello con la foto di Lorenzo: “Mio figlio, 3 anni, ha il cancro”. Il bimbo morì poco dopo a Firenze dove la famiglia si era trasferita per curarlo. Era il 2012 quando il dottor Francesco Forastiere, a conclusione dello studio di aggiornamento della perizia epidemiologica consegnata al giudice delle indagini preliminari, Patrizia Todisco, scriveva: “L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e morte”. E nonostante l’Istituto superiore di sanità affermi che “i tumori infantili” siano “eventi sentinella dell’inquinamento ambientale perché a differenza di quelli degli adulti che si manifestano dopo molti anni di esposizione, sono riferibili a eventi espositivi recenti” ci sono voluti cinque anni per avere, grazie all’impegno della dottoressa Annamaria Moschetti, presidente della commissione Ambiente dell’Ordine dei Medici di Taranto e alle 22 mila firme dei cittadini, l’Oncoematologia pediatrica finanziata dalla Regione, intitolata alla compianta collega Nadia Toffa che contribuì con la vendita di magliette.

Ma la città dei due mari dalla bellezza struggente, dove il “mostro” come chiamano l’acciaieria consente di portare sulla tavola di intere famiglie pane e dolore, continua a essere stretta nella morsa lavoro-salute.

“Lo Stato ci mette la faccia”, ripete il presidente del Consiglio, arrivato a Taranto l’ultima volta la Vigilia di Natale. “La sola faccia presentabile che lo Stato potrà metterci sarà quella che saprà guardare i suoi figli tarantini senza abbassare lo sguardo”. È la risposta della dottoressa Moschetti.

La prof No Tav finisce in cella a 73 anni

Arrestata Nicoletta Dosio, storica attivista no Tav di 73 anni. La professoressa di greco e latino della Val di Susa, volto noto della protesta in Piemonte, è stata portata in carcere ieri sera dopo che le era stata notificato il provvedimento. Lo scorso novembre Dosio è stata condannata a un anno di reclusione con le accuse di violenza privata e interruzione di pubblico servizio per aver partecipato, nel 2012 insieme ad altri No Tav, ad una manifestazione pacifica di protesta al casello autostradale di Avigliana (Torino).

Dosio dichiarò che era pronta ad andare in carcere e che non avrebbe mai chiesto misure alternative, come l’affidamento in prova. “Stanno arrestando Nicoletta, vergogna allo Stato italiano” è stato il tam tam sui siti del Movimento No Tav, che si è immediatamente raccolto davanti l’abitazione della donna, a Bussoleno in provincia di Torino, per impedirne l’arresto. Per oltre un’ora decine di manifestanti e attivisti, scesi in strada, hanno bloccato l’auto dei carabinieri, con l’anziana a bordo. “Speravate di fare questa porcata di nascosto tra Natale e Capodanno”, hanno urlato ai militari tra insulti e sfottò.

Numerose le reazioni politiche, a partire dalla sinistra. “La Procura generale di Torino ancora una volta dà dimostrazione dell’ossessione repressiva contro il movimento No Tav, non possiamo accettare questo arresto insensato”, hanno commentato Maurizio Acerbo ed Ezio Locatelli, rispettivamente segretario nazionale e segretario provinciale torinese di Rifondazione Comunista.

Perfino dal Partito Democratico sono arrivati attestati di solidarietà, tramite il sottosegretario all’Ambiente, Roberto Morassut: “Non condivido nulla del movimento No Tav, ma le proteste anche scomode e con le quali non si è d’accordo non vanno ignorate. Trovo sproporzionato l’arresto di Dosio. Credo sia una misura sbagliata e senza senso, frutto di un meccanismo burocratico che prescinde dalla concretezza delle cose”.

Un anno di carcere per aver aperto, insieme ad altri, le sbarre di un casello autostradale della Torino-Bardonecchia, causando danni alla società autostradale. Era il 3 marzo del 2012 quando un gruppo di attivisti bloccò la barriera al casello di Avigliana della A32 in direzione Torino e fece passare 185 veicoli impedendo la riscossione del pedaggio. “Un danno totale di 700 euro per aver alzato la sbarra del pedaggio per una quarantina di minuti” evidenzia l’avvocato della No Tav Emanuele D’Amico che aggiunge: “Il problema non è l’esecuzione di un automatismo ma la condanna definitiva per un atto puramente dimostrativo”.

Dopo la condanna Dosio rivendicò la propria scelta: “Sono pronta a ribadire le ragioni della nostra lotta e della nostra vita. Se mi avessero dato i domiciliari non sarei comunque stata disponibile a fare la carceriera di me stessa. Non mi sento vittima, sono consapevole di stare dalla parte giusta e rivendico ciò che ho fatto, chiedere misure alternative sarebbe stato come ammettere che avevo fatto qualcosa di sbagliato. Vale la pena affrontare anche il carcere per una battaglia giusta”.

A26, crolla il soffitto di una galleria: nuovo caso per i pm

Blocchi enormi di cemento che si staccano dal soffitto della galleria Bertè, sulla A26 in direzione sud, appena dopo Masone. Atterrano sulla corsia centrale. E solo per un caso non colpiscono veicoli e non feriscono – o uccidono – viaggiatori incolpevoli. Dopo il crollo del ponte Morandi sulla A10 e quello del viadotto Madonna del Monte sulla A6, un nuovo cedimento – stavolta sulla Genova Voltri-Gravellona Toce – alimenta la psicosi sicurezza sulle autostrade liguri. E proprio mentre la volta crollava, Roberto Tomasi, ad di Autostrade per l’Italia che ha in concessione A10 e A26, era a colloquio con il governatore Toti e il sindaco di Genova Bucci per contrattare un’esenzione dai pedaggi su alcuni tratti autostradali, viste le code chilometriche degli ultimi giorni a causa dei continui cantieri (due mesi fa erano più di cento in tutto l’arco ligure).

Nel primo comunicato, Autostrade parla del “distacco di una ondulina (una lastra da copertura, ndr) e di parti dell’intonaco a cui era collegata. Le cause sono in corso di accertamento”. Siamo a non più di sei chilometri dal viadotto Fado, che insieme al Pecetti era stato chiuso – e poi parzialmente riaperto – un mese fa su ordine dei magistrati di Genova, con il procuratore Franco Cozzi che descriveva un “grave stato di degrado” dovuto all’erosione del calcestruzzo. Per questo dalla Procura si guarda con estrema attenzione all’incidente in galleria. “Di sicuro c’erano preoccupazioni sulla sicurezza delle gallerie, anche per gli inadempimenti rispetto alla normativa europea”, dice una fonte investigativa di alto rango impegnata nelle indagini sul crollo del Morandi. Il riferimento è alla direttiva 54 del 2004, che imponeva agli Stati di adeguare le gallerie agli standard comunitari di sicurezza entro il 30 aprile 2019.

“Aspettiamo la relazione della Polizia stradale per valutare l’apertura di un fascicolo”, dice al Fatto il procuratore Cozzi. “Siamo all’erta su ogni aspetto della sicurezza sulle nostre autostrade. Anche se preferiremmo non dovercene occupare noi, ma che lo facesse prima chi ha le competenze adatte”.

Se l’attacco del magistrato ad Aspi è in punta di fioretto, dalla politica arrivano vere e proprie bordate. “Incredibile. Un altro crollo. E indovinate di chi è la concessione di quel tratto? Aspi. Ancora Aspi dietro lo sgretolarsi di autostrade che migliaia di cittadini percorrono tutti i giorni. La revoca immediata delle concessioni mi sembra il minimo! Cos’altro deve crollare?”, scrive il viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Giancarlo Cancelleri (M5S). Stessi toni dal sottosegretario Roberto Traversi, anche lui pentastellato: “E c’è ancora chi sulla revoca delle concessioni tentenna, o chi usa toni minacciosi che sanno di ricatto”. Tace, invece, la ministra Pd Paola De Micheli, che però ha convocato per domani l’ad per fare il punto sulla sicurezza autostradale. “Mi dispiace profondamente per quanto è accaduto”, ha detto Tomasi all’uscita dall’incontro con Toti e Bucci, “domani saremo al ministero, ci siamo sentiti con il ministro per accelerare ulteriormente le verifiche sulla rete che stiamo mettendo in campo tramite società esterne. Procederemo col massimo rigore su tutti i fronti”.

Il 2019: iniziato male, ma finito meglio

Per chi guarda l’Italia da sinistra, il prossimo 31 dicembre è di gran lunga migliore del primo gennaio scorso. Dodici mesi fa la vita politica era egemonizzata da Salvini che dettava l’agenda del governo e, conteso dagli anchormen, debordava da ogni schermo televisivo mietendo consensi che parevano inarrestabili. Le opposizioni, in stato confusionale, si rifugiavano dietro lo spauracchio di un’irreparabile catastrofe economica che, a loro dire, si sarebbe fatalmente abbattuta su di noi in autunno con la finanziaria autunnale.

Il clima complessivo era gravato da una cappa di pessimismo cosmico: dal nord incombeva l’Europa sanguisuga dei nostri soldi e della nostra sovranità nazionale; dal sud arrivavano in mare orde di barbari, invidiosi distruttori della nostra civiltà; dal di dentro, la secessione amministrativa del settentrione rischiava di spingere il Mezzogiorno nelle braccia del Sael.

Tutto sommato, il 2019 è finito meglio del previsto, e meglio ancora potrebbe andare il 2020. A destra il successo della Meloni costringe Salvini a essere meno truce e a rifugiarsi nell’idea di un onirico patto nazionale che prelude a giri di valzer con Renzi. A sinistra si sono finalmente chiariti i rapporti di Renzi e Calenda con il Pd di cui abitavano da inquilini abusivi e nevrotizzanti.

Però il centro è un posto sempre meno sicuro, per ragioni per così dire strutturali: nel mondo e in Italia aumenta di giorno in giorno il divario tra ricchi e poveri. In Italia, tra il 2008 e il 2018, cioè nei dieci anni della crisi, la ricchezza (si fa per dire) posseduta dai sei milioni di italiani più poveri è diminuita del 63% mentre la ricchezza (si fa sul serio) dei sei milioni di italiani più ricchi è aumentata del 72%. Per effetto di questa crescente dicotomia, e conformemente a essa, anche in politica le posizioni si vanno polarizzando in una destra neo-liberista e in una sinistra socialdemocratica, con il prosciugamento del centro. Appare perciò azzardata l’idea di Carlo Calenda che proprio ora ha deciso di creare un suo partito di centro (Azione). Azzardata ma non incoerente, perché Calenda aveva esibito con un anno di anticipo la sua visione del mondo e della politica in un libro, quasi un Vangelo (Orizzonti selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio) dove proprio lui, ex funzionario della Confindustria, ripudiava il dogmatismo economico e la supremazia della tecnica sulla politica per prospettare una democrazia progressista, che però non aveva nulla a che fare con la visione socialdemocratica e radicale che dovrebbe fluttuare nel Dna del Pd.

Uscendo dal Pd e facendo un suo partito di centro, Calenda è tornato al posto giusto tra le persone giuste. Così smetterà di soffrire per la commistione con uomini, idee e comportamenti di sinistra ed eviterà alla sinistra, già confusa di suo, l’ulteriore confusione determinata dalla mescolanza con idee che le sono estranee ma da cui tuttavia inclina a farsi sedurre.

Anche Renzi è uscito dal Pd e ha fondato un suo partito di centro (Italia viva). Ma per lui e per la sua defezione il discorso è diverso da quello di Calenda. Renzi, infatti, non ha fatto carriera alla Ferrari o alla Confindustria come Calenda ma dentro il Pd, come presidente della Provincia di Firenze e poi come sindaco del Comune. Dunque, l’idea centrista di Renzi è maturata a lungo, sempre militando dentro la sinistra. Se Calenda può essersi ingannato pensando che le sue idee liberali potessero avere un corso legale anche dentro il Pd, per Renzi il percorso psicologico deve essere stato ben diverso. Lavorando per anni dentro una sinistra che, bene o male, era erede di Gramsci e di Lama, di Berlinguer e di Trentin, egli deve aver capito che qualcosa di quella sinistra non corrispondeva alla sua visione del mondo. La sua visione, molto meno socialdemocratica, combaciava invece con quella di Tony Blair, trovava le risposte ai suoi bisogni nella venatura liberale della “Terza via” piuttosto che nelle suggestioni socialiste di Mitterand, gli permetteva di sentirsi a proprio agio quando parlava con Marchionne piuttosto che con la Camusso.

In una prima fase della sua strategia personale, Renzi ha vagheggiato l’idea di convertire tutto il Pd alle sue idee e di appropriarsi dell’intero potere con un referendum che gli spianava la via presidenziale. Quando questo suo megalomane progetto di massima è stato stoppato da una serie di drastiche sconfitte, egli ha ripiegato su un progetto di minima e lo ha pianificato politicamente, organizzativamente e finanziariamente. Usando i soldi, le strutture, gli uomini e l’immagine del Pd si è costruito il suo partito personale che ora gli consente la massima autonomia in cambio della minima credibilità.

Ma la separazione di Calenda e di Renzi giova doppiamente al Pd che ora, finalmente depurato di queste quinte colonne neo-liberiste, potrebbe finalmente realizzare un’alleanza in piena regola con i 5 Stelle, a loro volta depurati delle scorie di destra. Ma, per avere nei 5 Stelle un alleato affidabile e consapevole, occorre che il Pd realizzi un paziente lavoro ai loro fianchi, di tipo culturale prima ancora che politico. Purtroppo, però, sotto il profilo della cultura politica, il Pd non è messo molto meglio dei 5 Stelle. Né l’uno né gli altri hanno un’idea precisa della società che intendono costruire e se i 5 Stelle soffrono della vacuità come malattia infantile, il Pd soffre di spocchia come malattia senile. Entrambi, comunque, versano in una condizione sconsolatamente triste e noiosa.

A pochi mesi di distanza dal Vangelo secondo Calenda, nella stessa Serie bianca di Feltrinelli, è uscito un analogo Vangelo secondo Zingaretti, intitolato Piazza grande nel quale si leggeva: “Il nostro paese rischia un declino inarrestabile. Impediremo il declino se sapremo cambiare. Il primo passo sarà tornare a incontrarci, in tanti, per trovare insieme le soluzioni e costruire un’idea di società giusta”. Poiché l’incontro non avveniva mai, ci hanno pensato provvidenzialmente le Sardine, sortendo un plurimo effetto esilarante e tonificante. Con la loro esplosione di gioiosa vitalità hanno dimostrato a Salvini che, quando parla a nome di tutti gli italiani, fa un’appropriazione indebita. Con la stessa esplosione gioiosa hanno bucato la cappa iettatoria che incombeva sulla penisola rendendola cupa e aggressiva. Con il loro inatteso scoppio di vitalità hanno indotto centinaia di migliaia di rammolliti e rassegnati a uscire di casa e cantare Bella ciao senza vergognarsene. In fine, hanno eccitato le velleità psico-sociologiche di una miriade di commentatori saccenti che ci hanno regalato a piene mani esilaranti interpretazioni junghiane dell’inconscio collettivo sotteso alle manifestazioni di piazza.

Insomma, il 2019 finisce meglio di come era iniziato.

“Esame orale”: la Lega scatena la Bestia contro Lucia Azzolina

Matteo Salvini è in vena di far festa, a modo suo. E in vista degli ultimi brindisi ha scatenato la “Bestia” social contro la neo ministra della scuola, finita sulla graticola per aver partecipato al concorso per avere l’abilitazione da preside quando era già stata eletta alla Camera. E così al capo della Lega, tra un elogio del limone italiano e una foto della valigia di sua figlia piccola pronta per le vacanze di Capodanno, è bastato alludere via Fb all’esame orale sostenuto da Lucia Azzolina per fare il boom di like, condivisioni e soprattutto commenti a sfondo sessuale. Salvini ha lanciato l’amo attribuendo alla ministra questa frase: “Al concorso per presidi sarebbe bello se l’orale fosse anonimo”. Il resto lo lascia fare ai suoi fan: i più cortesi associano Azzolina a Monica Lewinsky o a Moana Pozzi. Ma c’è chi si spinge oltre: “può fare un altro genere di orale, con quella faccia” scrive qualcuno più disinibito quando ormai il clima sulla bacheca di Salvini è da osteria malfamata. Tra una battuta su Azzolina e una sulla ex ministra Fedeli, ci va di mezzo pure Sergio Mattarella, a poche ore dal messaggio di fine anno agli italiani: “Non fatevi prendere per il c., spegnete la tv” dice un tale che vuole distinguersi. Per la verità tra i commenti c’è pure chi cerca di far ragionare Salvini ricordandogli cosa farebbe se quella gogna dovesse toccare a sua figlia. E chi lo riporta con i piedi per terra: “Weee capitone, la ministra ha due lauree, ha superato brillantemente la scuola di specializzazione all’insegnamento secondario, è idonea al concorso per presidi, e tu che nel curriculum hai la partecipazione alla ruota della fortuna, la perculi?”. Ma il post rimane lì e cade nel vuoto l’appello dei 5Stelle che chiedono a Salvini di prendere le distanze dai commenti sessisti e volgari. Natale, del resto, è già passato e siamo (stati) tutti più buoni.

Anche i dem si fanno “contiani”: i ministri rispondono più a Chigi che al Nazareno

“Giuseppe Conte deve essere nostro alleato”. Nicola Zingaretti più volte in pubblico ha definito il premier “un punto di riferimento”, più volte ha lasciato intendere che potrebbe essere addirittura il candidato premier del Pd. E nelle conversazioni private di questi giorni va ripetendo che la soluzione migliore sarebbe che Conte si presentasse alle elezioni con una propria lista, alleata del Pd. Nella convinzione che la situazione precipiti abbastanza rapidamente. E anche per godere di un beneficio accessorio: ovvero spingere sempre di più Matteo Renzi all’angolo. Elezioni alle porte o no (in questo scampolo di 2019 i pareri sono piuttosto discordi), il segretario del Pd veste sempre di più i panni di garante del governo. E quindi, per opportunismo politico, si fa sempre più contiano.

Ma nella dissoluzione progressiva del quadro tradizionale, tra i Cinque Stelle che implodono e i movimenti centristi che si moltiplicano, il Pd continua a disegnarsi come garante del sistema, argine alla destra. E a Palazzo Chigi c’è un premier che si presenta più o meno allo stesso modo. E che proprio ieri ha detto a Repubblica di non aver intenzione di lasciare la politica a fine mandato. Nella dissolvenza progressiva dei dem, invece, non si colgono grandi visioni a lungo termine. Soprattutto per chi ne fa parte, il governo appare una ragione sociale sufficiente. Non è abbastanza per dire che il Pd è il partito di Conte nel senso “classico” del termine, ma la (breve) storia del Conte 2 dice che il Pd finora è stato il perno di questo esecutivo (non senza un certo autolesionismo).

Il presidente del Consiglio gliel’ha pure riconosciuto con lo sdoppiamento dei ministeri, dopo le dimissioni di Fioramonti: per l’Istruzione ha scelto Lucia Azzolina (già sottosegretaria M5S) e per l’Università, Gaetano Manfredi, rettore dell’Università di Napoli, vicino al Pd. Con un primo effetto numerico: il centrosinistra ha 11 ministri contro i 10 precedenti.

La pattuglia di governo si riconosce di più negli interessi di Palazzo Chigi che in quelli del Nazareno. I ministri dem rispondono a Dario Franceschini, capo delegazione. E lui dal primo momento ha portato avanti le ragioni della durata dell’esecutivo, anche nei momenti in cui Zingaretti era più perplesso, senza se e senza ma, ponendosi come miglior alleato del premier. Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, è sulla stessa linea. Se è per Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, i suoi destini sono indissolubilmente legati a quelli di Conte. D’altra parte, Gualtieri è per l’Europa certezza di stabilità. Lo stesso premier è visto a Bruxelles come l’antidoto al pericolo che l’Italia scivoli verso il sovranismo anti-europeo.

Nel Pd non esiste una fronda anti Conte (a parte, il “ribelle”, Matteo Orfini e Andrea Marcucci, che non gli è ostile, ma è ancora molto vicino a Renzi). C’è però una parte più di sinistra, che, almeno sulla carta, sarebbe portatrice di una visione alternativa. Fa capo ad Andrea Orlando (che nel governo esprime il ministro del Lavoro, Peppe Provenzano). Ma in realtà, neanche l’ex Guardasigilli affonda. Tanto è vero che i dem sulla prescrizione hanno ceduto. Il primo gennaio entra in vigore la norma Bonafede. I dem sperano che ora il Guardasigilli, vicino al premier, venga da lui convinto a cedere almeno a qualche loro richiesta.

Se c’è uno che si limita a rapporti freddi con il premier è Paolo Gentiloni: al governo era contrario, ora come Commissario agli Affari economici mantiene un dialogo. Palazzo Chigi resta la cabina di regia della politica estera e di quella europea. Oltre a essere centrale per la gestione degli sbarchi. Anche Luciana Lamorgese, ministro dell’Interno, è entrata nell’esecutivo come tecnico in quota Pd. Fortemente voluta dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il primo “nume protettore” di Conte. Provenienza Dc (il partito-sistema per eccellenza). Poi Ppi, Margherita, Pd.

Istruttoria Agcom su Salvini: troppo spazio in tg e talk

Il problema c’è, persino in un Paese che in tema di informazione ne ha viste di ogni. L’onnipresenza televisiva di Matteo Salvini è un’anomalia troppo grossa, uno dei rari casi in cui un leader d’opposizione trova molto, molto più spazio rispetto ai suoi colleghi della maggioranza. Per questo negli ultimi giorni l’Agcom, l’autorità garante per le comunicazioni, si è riunita per occuparsi del leghista e ha aperto un’istruttoria per valutare le storture della sua bulimia televisiva rispetto alle norme sulla par condicio.

A interessare i commissari sono in particolare gli ultimi sei mesi di trasmissioni, aspettando che siano disponibili anche i dati completi di dicembre. Da luglio a novembre, Salvini ha infatti totalizzato 111 ore e 21 minuti di diretta televisiva, con il premier Giuseppe Conte ben lontano a 96 e i due principali leader di maggioranza, Di Maio e Zingaretti, ridotti a 43 e 36 ore. E come anticipato sul Fatto di ieri, la tendenza delle ultime settimane non è certo sfavorevole al leader della Lega, che ancora a novembre ha quasi doppiato il secondo più trasmesso, l’ex alleato Di Maio (10 ore a 6).

Così venerdì scorso l’anomalia è finita oggetto di una riunione dell’Agcom poi aggiornata ieri. Possibile che si arrivi a un nuovo richiamo alle reti interessate, come per altro già avvenuto lo scorso maggio: appena prima delle elezioni europee, infatti, l’Agcom aveva già scritto a Rai, Sky, La7 e Mediaset raccomandando “la parità di accesso alle forze politiche” e “l’esercizio del contraddittorio”, ancora una volta sbilanciati in favore della Lega.

Numeri eloquenti che proprio uno dei quattro commissari dell’autorità, il professor Mario Morcellini, aveva diffuso sulle pagine del Foglio qualche settimana fa, ribadendo l’importanza di un maggiore equilibrio nell’informazione: “Credo che intorno a metà gennaio arriveremo a una decisione”, spiega oggi Morcellini riguardo alla nuova istruttoria. Secondo il commissario, un eventuale richiamo dell’Agcom sarebbe tutt’altro che da sottovalutare: “Anche quando non si arriva a una sanzione economica, prevista in casi molti rari, possiamo avere una notevole influenza sulle reti, che di solito hanno una grossa attenzione per quello che facciamo anche solo per una questione di reputazione”.

In questo momento l’Agcom è però in un faticoso guado: manca ancora la quadra attorno alle nomine del presidente e dei quattro commissari, così il Milleproroghe ha spostato al 31 marzo la scadenza degli attuali componenti. Nel frattempo la pratica su Salvini andrà comunque avanti: “Fino all’ultimo giorno possiamo esprimere i nostri poteri di moral suasion – racconta ancora Morcellini –, ma se fossimo sostituiti tutti i dossier in corso passerebbero ai nuovi componenti”.

I dati sono impietosi e, come detto, mettono insieme periodi politici molto diversi. Nelle ultime riunioni si è considerata la presenza dei leader in tv partendo nuovamente dagli ultimi giorni di campagna elettorale per le europee, procedendo poi con i mesi finali del governo gialloverde (giugno e luglio) e per i giorni di crisi agostana. Arrivando alle rilevazioni degli ultimi mesi, quelli con in carica il Conte 2, si ha un quadro completo di una stortura resa ancor più palese da alcuni esempi pratici: come riportato da tvblog, nel 2019 Salvini è stato ospite ben 28 volte su 91 puntate dei programmi di informazione in prima serata di Rete4 (Quarta Repubblica, Dritto e rovescio e Fuori dal coro).

“La cosa strana – è il commento di Morcellini – è vedere come Salvini abbia avuto più spazio degli altri da ministro sia adesso”. Persino durante le prime settimane del nuovo governo, periodo in cui di solito la maggioranza occupa gran parte dei notiziari godendo di un certo buon credito iniziale, Salvini ha dominato: strano caso di luna di miele tra media e opposizione.

Sorpresa, è scomparsa Lucia: la campagna è tutta del capo

Ci si è ristretta la Borgonzoni. La verace Lucia – la donna che vuole vincere l’Emilia-Romagna per consegnare a Matteo Salvini lo scalpo di Conte – sembra funzionare poco e male. Da una parte ci sono i sondaggi, nei quali il governatore uscente Stefano Bonaccini è in testa e prova ad allungare: l’ultimo è quello di Opinio Italia per la Rai, il candidato del centrosinistra è avanti di tre punti (46,5% a 43,5%). Dall’altra c’è un dato di fatto: la campagna elettorale in Emilia-Romagna la sta facendo, come al solito, Salvini in prima persona, mentre Borgonzoni è diventata marginale. Tra gli altri, lo fa notare con una certa ferocia il reggiano Pier Luigi Castagnetti, ex parlamentare del Pd: “Si deve sapere cosa sta accadendo nella campagna elettorale in Emilia-Romagna – ha scritto su Twitter –. Borgonzoni non si presenta più ai comizi perché teme di fare gaffes. Manda avanti Salvini che parla al suo posto davanti a un suo manifesto”.

Quella di Castagnetti è un’interpretazione di parte, ma l’agenda dei due leghisti conferma la stessa sensazione: negli ultimi 10 giorni il segretario della Lega e la Borgonzoni non si sono mai incrociati, malgrado Salvini sia stato in Regione per gran parte del tempo. L’ultima apparizione congiunta dei due risale al 19 dicembre, quando si sono presentati insieme prima a Bologna e poi a Parma. Anche nelle settimane precedenti sono poche le iniziative insieme: il 9 dicembre condividono il palco a Ferrara, dopo che Salvini era andato da solo al comizio di Pavullo (Modena). La distanza più significativa è quella del 23 dicembre: il capo della Lega è tutto il giorno in viaggio per comizi, tra Cesena e il bolognese (Crevalcore e Sant’Agata), la candidata pure è a Bologna ma con lui non si sfiora nemmeno, e compare invece a fianco di Giovanni Toti e Carlo Giovanardi. E poi di nuovo, domenica scorsa, l’ex ministro dell’Interno è tornato nel capoluogo emiliano per una riunione organizzativa con tutti i candidati leghisti, ma Borgonzoni era di nuovo assente: “Oggi è giustificata – ha detto Salvini – perché è con la mamma”. A ciascuno il suo.

Il “Capitano” e la donna che deve conquistare la Regione stanno compiendo due percorsi praticamente paralleli: la campagna elettorale la sta conducendo tutta lui. Una sensazione diffusa anche tra i quadri del Carroccio emiliano. Il segretario modenese Stefano Barzi si è lasciato sfuggire, con una battuta, che “la Borgonzoni è molto brava in tv” mentre “sul territorio il mazzo ce lo facciamo noi”. La marginalità della Borgonzoni è stata riconosciuta, nemmeno tanto implicitamente, dallo stesso Salvini: “Io e Lucia ci vedremo poco, facciamo iniziative diverse – ha detto domenica a Bologna –. Lei incontrerà le categorie, le imprese, proporrà un’idea di regione, io da segretario della Lega incontrerò le piazze. La vedrò poco, ma se l’unica critica che riescono a fare è questa, consiglio loro di cambiarla perché l’hanno già fatta e non gli ha portato bene”. Salvini si riferisce all’Umbria, dove la leghista Donatella Tesei a fine ottobre ha vinto le elezioni consegnando per la prima volta la Regione alla destra. Alzi la mano chi ricorda una dichiarazione della governatrice: anche allora quello di Salvini fu un lungo one-man show, un interminabile comizio umbro città per città, paese per paese. Per lui ogni voto è un referendum personale, a maggior ragione in Emilia-Romagna dove è difficile attribuire al candidato avversario una cattiva esperienza amministrativa: la Lega può vincere se vince Salvini. E Salvini può vincere se l’elettore ragiona sul governo nazionale, più che su quello regionale.

Così Borgonzoni si è fatta di lato e il suo capo si è messo al centro della scena. Domenica Salvini ha dettato a tutti i candidati leghisti la linea della campagna elettorale. Uno di loro ha incautamente lasciato alla mercé della stampa il suo foglio di appunti, svelando le direttive del segretario (che sono state pubblicate su Repubblica).

Per esempio: “Parlare di Bibbiano con la clava” (non proprio una novità). Secondo: “Non discutere sul buon governo dell’Emilia-Romagna” perché “avvantaggia chi governa”. E ancora: “Non attaccare i 5 Stelle, stanno scomparendo”, ma “attaccare solo il Pd”. Poi “sorridere” e “portare solo i simboli della Lega”, visto che i rapporti nel centrodestra sono quello che sono. Parola del leader, Borgonzoni non era nemmeno presente.

In lista tanti transfughi e indagati: c’è anche la neo-M5S che “parlò” con Mark Caltagirone

Le Regionali, in Calabria, più che una tornata elettorale sembrano un torneo di salto della quaglia. Una gara tutta del centrodestra guidato dalla parlamentare Jole Santelli che, però, non si è accontentata dei voltagabbana per tentare di vincere le elezioni. Nelle sue liste c’è di tutto: dagli indagati agli ex comunisti fulminati sulla via tra Arcore e Pontida. Al punto da far sembrare quasi normale la candidatura con il M5S di Alessia Bausone fino all’anno scorso coordinatrice della mozione Boccia al congresso del Pd. La stessa che ieri, all’Adnkronos, ha ammesso di aver chattato nientemeno che con Mark Caltagirone, il mancato marito virtuale di Pamela Prati, che nel gennaio 2018 l’aveva contattata. “Il suo obiettivo era quello di screditare una politica calabrese del centrodestra”, spiega ora la candidata del Movimento che, quando esplose il caso Pamela Prati, si guadagnò una partecipazione, seppur solo telefonica, alla trasmissione di Barbara D’Urso.

Se la neo-grillina parla tranquillamente del suo cambio di casacca, nel centrodestra è più complicato. Dalle parti della Santelli c’è un esercito di candidati che cinque anni fa sostenevano il centrosinistra e Mario Oliverio (Pd). Tra questi il consigliere regionale uscente Tonino Scalzo, oggi Udc ma fino a ieri coi “Moderati per la Calabria” dove c’era pure Franco Sergio che, invece, si è candidato con “Santelli presidente”, nella stessa lista di Vincenzo Pasqua (anche lui ex “moderati per la Calabria”) e Mauro D’Acri che, nel 2014, stava con “Oliverio presidente”.

Cognato dell’ex senatore Nico D’Ascola, il consigliere regionale uscente Giuseppe Neri si è riscoperto un nostalgico del ventennio dopo 5 anni a Palazzo Campanella e altri 10 al consiglio provinciale (tutti con il Pd). Oggi Neri è candidato con Fratelli d’Italia assieme al sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo (che grazie al centrosinistra è stato nominato vicepresidente del Parco nazionale d’Aspromonte). La Meloni ha fatto incetta di transfughi. Ed ecco pure il consigliere comunale di Reggio Calabria Demetrio Marino, nel 2014 candidato con il sindaco Giuseppe Falcomatà, che perde anche Nicola Paris oggi candidato Udc.

Con la lista “Santelli Presidente” corre l’ex consigliere comunale Carolina Caruso, detta Titina, sotto processo per bancarotta fraudolenta assieme al marito Giuseppe Cristaudo che il pentito Angelo Torcasio indica essere vicino al boss Giuseppe Giampà. Forza Italia, invece, punta su Antonio Daffinà il cui nome compare nelle carte dell’inchiesta “Rinascita” contro la cosca Mancuso: non è indagato ma il pentito Andrea Mantella lo inquadra tra i massoni “che avevano rapporti con la ‘ndrangheta”. Da ex commissario dell’Aterp di Vibo, Daffinà ha una richiesta di rinvio a giudizio nel processo nato dall’indagine sull’utilizzo dei fondi Ex Gescal dove è indagato pure Pino Gentile, anche lui candidato per essere eletto per la settima volta in Consiglio regionale. Se tra gli azzurri trova posto anche Maria Grazia Pianura, moglie di Pasquale Farfaglia (l’ex sindaco del comune San Gregorio di Ippona sciolto per infiltrazioni mafiose), nella lista della Santelli il punto forte è Vito Pitaro citato nelle intercettazioni dell’inchiesta di Gratteri. Ex consigliere comunale di Rifondazione comunista, assessore socialista e dirigente del Pd, Pitaro che negli ultimi 5 anni ha intascato 3.800 euro al mese come “capo struttura” di un consigliere regionale Pd. Più di 200 mila euro: oggi però è candidato col centrodestra.

“Non sono ricattabile. Basta con i soliti padroni della politica”

“Vuole sapere da dove ho iniziato la mia campagna elettorale? Da Nardodipace, poco più di mille abitanti, 1080 metri sul livello del mare. Se vuole capire la catastrofe sociale dell’abbandono si faccia un giro”. Pippo Callipo, 73 anni, imprenditore, stabilimenti in Calabria con 400 operai ed export in tutto il mondo, racconta la sua avventura di candidato di centrosinistra e liste civiche a governatore della Calabria. Iniziata in quel paesino dal nome strano, il più povero d’Europa. “Chi primo scelse questo luogo per restarci era un eremita o un ricercato, l’uno o l’altro poeta, se lo chiamò Nardo di Pace, come si scriveva un tempo”. Così scrisse Sharo Gambino, giornalista e scrittore di queste parti.

Dottor Callipo, perché ha iniziato proprio da quel paesino dove c’è da rastrellare pochi voti?

Perché Nardodipace è il simbolo di quello che non deve essere più la Calabria. Terra di fughe e di abbandoni. Il paese è bloccato da due frane, la neve ha fatto saltare i collegamenti telefonici e la gente anziana è isolata. Altro che bande larghe e Internet, qui siamo all’anno zero. Io resto in Calabria, è uno dei miei slogan che deve diventare politica concreta. Scelte capaci di concentrare le risorse europee e statali per bloccare l’emorragia umana che sta uccidendo questa regione.

La Calabria è terra difficile e la lotta politica è feroce. Chi gliel’ha fatto fare?

Sono stato indeciso fino all’ultimo. C’erano amici che mi spingevano a candidarmi e altri che affettuosamente mi sconsigliavano. A convincermi sono stati alcuni incontri con un gruppo di giovani di Catanzaro in visita al mio stabilimento. Ricordo Riccardo e i suoi 40 compagni dell’Istituto Fermi. Mi chiedevano come fare per non essere costretti ad andar via. Abbiamo parlato di lavoro, di futuro E Riccardo, a muso duro, mi chiese se non mi sentissi responsabile di questa situazione. Aveva ragione, la mia generazione e quella successiva, tutti abbiamo fatto poco. Ho riflettuto a lungo e mi sono detto che dovevo provare a salvare la Calabria.

Da cosa si deve salvare?

Da una politica che trasforma i cittadini in sudditi. Qui i diritti non valgono come nel resto d’Italia, la cattiva politica ha schiavizzato i calabresi. Qui se non hai un referente, un compare, un amico, non riesci nemmeno a ottenere delle cure mediche.

Cosa non ha funzionato nel governo della Regione negli ultimi cinque anni?

Lei dice cinque? Io dico che questa situazione va avanti da almeno vent’anni. La politica ha trasformato le istituzioni in comitati elettorali, macchine clientelari. La prima battaglia da fare è affrancare i calabresi da questo meccanismo assurdo.

L’inchiesta del procuratore Gratteri ha messo a nudo i rapporti fra ‘ndrangheta, massoneria e politica. Un mostro a più teste.

Mi vengono in mente le battaglie fatte con un grande vescovo, monsignor Giancarlo Bregantini. Dobbiamo combattere, distruggere questo trittico. Imprenditori, cattiva politica e mafia. Dopo l’inchiesta di Gratteri vedo che la gente si sente più libera. Lui dice che con l’inchiesta ha smontato la Calabria come un Lego, io dico che il giocattolo lo dobbiamo ricomporre scartando i pezzi guasti. Raccolgo l’invito del procuratore a occupare gli spazi liberi. Lo stiamo facendo.

A proposito di pezzi guasti, parliamo di composizione delle liste in suo sostegno.

Abbiamo eliminato candidati con pendenze giudiziarie, inchieste a loro carico, rinvii a giudizio. Ma anche quei personaggi che navigano nel mare della politica da diversi decenni. Parliamo di rinnovamento e non possiamo candidare chi aspira al terzo o quarto mandato. La nostra è una rivoluzione anche nella scelta degli uomini.

Molti portatori di voti sono stati esclusi e lei viene accusato di aver candidato sconosciuti.

La decisione è nelle mani dei calabresi. Il cambiamento che tutti auspicano non può venire dai soliti padroni della politica.

I calabresi voteranno per la Lega?

Non riesco proprio a concepire che i calabresi, popolo di persone intelligenti, possano consegnarsi mani e piedi alla Lega di Salvini. La Lega ci vuole solo asservire al Nord ancora di più.

Qual è il programma dei suoi primi cento giorni da governatore?

La prima cosa è costruire una squadra di persone libere e competenti. Nella scelta degli assessori ho carta bianca, non sono condizionato, non devo subire le pressioni di grandi elettori o gruppi di potere. A differenza dell’onorevole Jole Santelli, un politico che è al Parlamento da un ventennio. Non mi piacciono i suoi compagni di viaggio, non so quali compromessi abbia dovuto accettare e quali cambiali ha firmato con lobby e gruppi di potere. Io compromessi non ne ho fatti con nessuno. Non ho la bramosia di fare il governatore, e per questo non sono ricattabile e condizionabile.