In Calabria la Lega candida pure la moglie del massone

Lega e massoneria a braccetto per le Regionali del 26 gennaio, dove Matteo Salvini sostiene la candidatura a presidente della parlamentare di Forza Italia, Jole Santelli.

In Calabria, il leader della Lega punta su grembiulini e compassi, e in lista inserisce la moglie del gran maestro regionale della Gran Loggia Regolare d’Italia.

È una dei candidati presentati dal commissario della Lega, Cristian Invernizzi, l’uomo di Calderoli incaricato di mettere ordine al caos creato dalla corrente che faceva capo al deputato Domenico Furgiuele di Lamezia Terme e da quella dei seguaci dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti, che sta scontando 4 anni e 7 mesi perché condannato nel processo sui conti del Comune di Reggio Calabria.

Se da una parte questi ultimi sono stati accontentati con la candidatura del consigliere regionale uscente Tilde Minasi, diretta espressione di Scopelliti, dall’altra Invernizzi ha inserito in lista un’altra sola donna: Caterina Capponi, professoressa di Filosofia che vive a Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio, dove insegna in una scuola superiore.

Ma soprattutto, la candidata della Lega è la moglie del medico Antonino Alberti, chirurgo vascolare, ex presidente del Rotary e gran maestro venerabile della Gran Loggia regolare di Calabria. Alberti, inoltre, è il direttore responsabile di una rivista massonica Metamorphoseon, fondata l’anno scorso e presentata a Reggio il 22 dicembre 2018 in un incontro al quale ha partecipato anche il gran maestro Fabio Venzi.

Salvini strizza, quindi, l’occhio alla massoneria e lo fa in un periodo in cui in Calabria le logge stanno vivendo un momento delicato dopo che la Dda di Catanzaro, con i 334 arresti del 19 dicembre scorso, ha acceso un faro nei rapporti della ’ndrangheta con gli incappucciati.

Nelle carte dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, il procuratore Nicola Gratteri ha inserito infatti capitoli interi dedicati all’intreccio tra cosche e massoneria. Durante le perquisizioni degli indagati, inoltre, i carabinieri hanno trovato numerosi grembiulini e compassi. Il dottore Alberti non è indagato, ma l’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia deve aver comunque poco interessato Matteo Salvini, se il suo partito ha candidato la moglie di un massone per conquistare un seggio al Consiglio regionale.

Altro che Codice etico firmato dal leader della Lega ai tempi del governo con il M5S, quando il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi bollò come incostituzionale la clausola che ostacolava le nomine di “soggetti che appartengono alla massoneria”. I tempi cambiano e, con loro, le alleanze. Tornato con il centrodestra, Salvini toglie i paletti alle logge. O quantomeno ai parenti dei massoni.

“Ancora una volta sono qua a viso aperto, determinata a percorrere un viaggio e vincere la sfida della rinascita per tutto il popolo calabrese”. Ufficializzata la lista, Caterina Capponi parla già da leghista. Lo scorso ottobre il commissario Invernizzi l’ha nominata referente organizzativo dell’hinterland reggino. Il primo passo per scalare i quadri del partito. Anzi, il secondo, perché a settembre la Capponi ha posto le basi per la sua candidatura.

Lo ha fatto a Pontida dove, raccontano i bene informati, l’insegnante di Melito Porto Salvo si è incontrata con un suo compaesano emigrato a Cesano Maderno, in Brianza. Si tratta dell’imprenditore Giandomenico Marziano, già noto nell’universo leghista per essere stato socio, fino a tre anni fa, addirittura dell’ex ministro Roberto Calderoli. Entrambi erano proprietari al 50 per cento della “Dilancar Low Cost Srl”, una concessionaria di auto di lusso collegata a un’altra società dello stesso Marziano, la “Dilangroup srl”, per la quale nel 2016 la prefettura di Monza e Brianza ha acquisito “sufficienti elementi per ritenere la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa”.

Nella Dilangroup, infatti, Marziano era socio di Giuseppe Laganà che stando alle carte delle inchieste “Tibet” e “Infinito” risulta essere vicino al boss di Desio Candeloro Pio detto “Tonino”, anche lui di Melito Porto Salvo ed esponente di spicco della cosca Iamonte.

Dopo Capodanno, Marziano dovrebbe arrivare in Calabria per la campagna elettorale della Capponi. A Pontida l’imprenditore emigrato le ha presentato i big della Lega: dai governatori del Veneto e della Lombardia, Luca Zaia e Attilio Fontana, all’ex socio Roberto Calderoli, vero e proprio punto di riferimento di Cristian Invernizzi. Lo stesso commissario che poi ha candidato Caterina Capponi al consiglio regionale.

La Balla dell’Anno

Alcuni lettori ci chiedono di premiare la balla più grande dell’anno. Mission impossible: sono troppe, tutte enormi. Però, catalogandole, possiamo premiare la campagna di stampa più demenziale e miserabile del 2019: quella contro il Reddito di cittadinanza. Che sia partito fra mille pasticci, con i centri per l’impiego da sistemare, i tanti navigator ancora da assumere e formare, i molti poveri ancora da raggiungere, i ritardi sugli stranieri, il software in odore di conflitto d’interessi e i pochi posti di lavoro a disposizione, lo sappiamo e l’abbiamo scritto. Ma il risultato è comunque buono, soprattutto per un Paese allergico ai cambiamenti come il nostro: 2,5 milioni di italiani che un anno fa non avevano un euro in tasca (oltre la metà dei “poveri assoluti”), da maggio-giugno ricevono in media 520 euro al mese. Così l’Italia, che fino a due anni fa era l’unico Paese europeo a non fare pressoché nulla per i nullatenenti e solo nel 2018 aveva varato il timidissimo Reddito d’inclusione (Rei: pochi spicci ad appena 900 mila persone), da quest’anno ha invertito la rotta con la più robusta misura anti-povertà mai adottata. Naturalmente la cosa non è passata inosservata: l’idea che i 5Stelle abbiano avuto una buona idea e che si investano 5 miliardi pubblici su chi non ha niente, dopo averne gettati a centinaia per chi ha e ruba di tutto e di più, ha letteralmente sconvolto tutti i partiti. Quelli di destra, dalla Lega a FI, da FdI a Italia Viva. E pure quello che dovrebbe essere di sinistra: il Pd. Ma la vergogna delle vergogne sono i giornali (a parte il nostro e il manifesto), che da un anno fanno il tiro al bersaglio sul Rdc come mai avevano fatto per le decine di leggi vergogna di B.&Renzi e i massacri sociali di Monti&Renzi. All’inizio dicevano che non c’erano i soldi. Poi, siccome i soldi si son trovati, han detto che non si sarebbe mai fatto: i Caf, le cavallette, le piaghe d’Egitto. Poi, siccome si è fatto, han detto che nessuno lo voleva e tutti facevano la fila per rifiutarlo. Poi, siccome di file a Caf e Poste non se ne vedevano, han detto che c’era l’assalto a Caf e Poste per prenderlo. Poi, siccome l’assalto non c’era, han detto che era un flop. Poi, siccome i dati ufficiali parlano di 900 mila domande familiari accolte pari a 2,5 beneficiari, han detto che sono troppi. Poi, siccome s’è scoperto che 2 milioni ancora non lo prendono, han detto che 2,5 milioni sono pochi. Poi, siccome la copertura in pochi mesi è più alta di quella del Rei, han detto che i navigator sono in ritardo. Poi, siccome a boicottarli sono le Regioni governate dagli stessi partiti che li invocano, han detto che il Rdc serve al M5S per comprare voti al Sud.

Poi, siccome il M5S ha dimezzato i voti e le richieste arrivano tanto dal Nord quanto dal Centro e dal Sud, han detto che il Rdc è troppo alto, perché c’è chi lavora e guadagna altrettanto. Poi, siccome i 5Stelle han detto che pagare un lavoratore 800 euro al mese è una vergogna e han proposto il salario minimo, han detto che il Rdc va ai falsi poveri e ai delinquenti e non ci sono controlli per scoprirli. Poi, siccome il governo ha portato le pene fino a 6 anni per quanti truffano col Rdc e Di Maio ha invitato i cittadini a denunciarli, han detto che questi giustizialisti manettari vogliono spiare e arrestare pure i poveri. Poi, siccome i controlli scoprono ogni giorno delinquenti e finti poveri col Reddito, hanno detto che bisogna abolirlo. Come se gli stessi delinquenti e finti poveri non fregassero già lo Stato intascando indebitamente 80 euro, Rei, cassa integrazione, sussidio di disoccupazione, pensione d’invalidità, sgravi e bonus ed esenzioni famigliari, scolastici, sanitari e universitari, e usufruendo di tutti i servizi pubblici senza pagare le tasse per finanziarli, senza che nessuno si sia mai sognato di abolire il Welfare perché molti ne abusano. Nel giro di un mese, il Corriere ha pubblicato ben due “inchieste” a piena pagina degne del Giornale e di Libero, con un florilegio di abusivi: “Chi guida Porsche, chi ha alberghi: ecco i furbetti del reddito. Cantanti neomelodici, fotografi, imprenditori, venditori ambulanti, negozianti, pasticceri, pregiudicati e lavoratori in nero”. Ma tu pensa: non saranno mica gli stessi che evadono le tasse e intascano indebitamente tutti gli altri strumenti di Welfare? E quando mai si son fatte campagne per abolire pure quelli solo perché qualcuno fa il furbo? “Per colpa di qualcuno, non si fa più credito a nessuno” possono dirlo certi negozianti, non lo Stato. E il fatto che fiocchino tante denunce non dimostra che il Reddito non funziona, ma che i controlli funzionano. E aiutano a far emergere non solo i “furbetti del Reddito”, ma anche un’altra fetta dell’economia nera che è la vera tara dell’Italia. Ben protetta da chi s’indigna per il ladruncolo che ruba 500 euro al mese e tace sui ladroni che evadono 120 miliardi all’anno. Infatti strillano contro le manette agli evasori e la blocca-prescrizione.

Tra le mille balle “a grappolo” contro il Reddito, svetta quella sparata da La Stampa il 3 novembre, nell’ansia di dimostrare che Di Maio ha sistemato uno su tre degli elettori del suo collegio: “I delusi del reddito di cittadinanza: ‘Stanchi di non avere nulla da fare’. A Pomigliano d’Arco, il paese natale di Luigi Di Maio, su 39 mila abitanti in 12 mila ricevono un sostegno economico”. Poi s’è scoperto che il dato dei 12 mila percettori del Reddito citato dall’house organ di casa Agnelli-Elkann non si riferisce alla sola Pomigliano, ma a tutti e sei i comuni circostanti che fanno capo al Centro per l’Impiego di Pomigliano: 208 mila abitanti in tutto, non solo i 39 mila di Pomigliano. Dunque il Rdc non va al 33% della popolazione, ma ad appena il 6%. A riprova del fatto che neppure la peggior politica riuscirà mai a eguagliare la migliore informazione.

L’enciclopedia europea che dimentica l’Italia

L’iniziativa dell’Editore Donzelli di interrogare un folto gruppo di specialisti della storia, della politica e della cultura sull’Europa per sapere che cosa ha contato veramente e deve essere ricordato, è una bella idea editoriale che ha dato luogo a una sorta di dizionario- enciclopedia dal titolo “Calendario Civile Europeo”, a cura di Angelo Bolaffi e Guido Crainz, personaggi certamente all’altezza della missione.

Devo confessare però che, una volta percorso con attenzione il ricchissimo indice e le righe di spiegazione di ciascuno dei saggi che compongono lo straordinario volume, ho dovuto notare che non un solo evento italiano è citato tra i materiali dello storia, dell’economia o della cultura dell’Europa come ora la conosciamo, la critichiamo e tentiamo di proteggerla. E ovvio che in ciascun saggio vi sono non rari riferimenti all’Italia, ma come fondale di eventi o come partecipazione che nel cinema si chiamerebbe di attori “extra” o “generici” . Dato il valore del “progetto” ( così lo definisce l’Editore) e il rilievo di chi vi ha lavorato, la meraviglia si fa anche più grande. E benchè l’opera sia e resti un contributo prezioso alla comprensione dei tempi che l’Europa ha vissuto formandosi e del tempo che sta vivendo adesso, è impossibile non confermare il giudizio che mi sono sentito di dare alla prima lettura: mancano dei pezzi. Proverò a fornire qualche prova. Non trovo notizie di un fatto senza dubbio straordinario che ha segnato alcuni grandi Paesi europei all’inizio dell’altro secolo: il rapporto fra politica e cultura, al punto da avere movimenti culturali, dal Dadà al Futurismo, all’avanguardia russa che sono diventati fornitori di parole e comportamenti della Politica. Il Futurismo italiano ha prestato alle classi dirigenti borghesi e poi al fascismo materiali che hanno reso possibile e accettabile l’ingresso in società di una rivoluzione altrimenti rozza e quasi solo fondata sulla violenza, e hanno reso possibile l’afflusso in quella rivoluzione di una vasta partecipazione culturale. Ma anche la lunga ombra del bolscevismo e della rivoluzione sovietica stava diventando cultura che avrebbe invaso altri territori politici, come è accaduto con Gramsci in Italia. Intanto in Italia accadono eventi che non cambiano solo il Paese ma anche il vicinato europeo: il farsi avanti della Chiesa e il farsi avanti della grande industria, che cercano, e avranno, una parte del potere.

Un altrofatto italiano che ha certamente segnato il futuro di una Europa unita è stato il suo tardo e feroce colonialismo, dalla Libia all’Etiopia. Tutta l’Europa ha ignorato il suo colonialismo. Ma più di tutti l’Italia, con conseguenze che durano ancora. Il volume purtroppo non ne parla. Come non parla, in un periodo più tardo, del singolarissimo ruolo avuto nella guerra fredda: il gigantismo comunista e i livelli altissimi del consenso Pci, in piena egemonia americana. Mancano le variazioni drammatiche per tutto il Continente della morte di Berlinguer e della uccisione di Moro. Manca la battaglia vinta da Prodi per l’euro. Manca l’invenzione berlusconiana del “governo privato” che sarà modello per l’America di Trump. Il libro è importante. Ma lo sono anche le sue omissioni.

Perdite, favole, grandi ritorni: la Memoria ha lasciato il segno

 

Olga Tokarczuk

Categoria: Scrittrice

Nell’anno dei due Nobel per la letteratura immaginiamo i giurati svedesi sfogliare l’album delle scrittrici candidate e meditare il profilo giusto. Per guadagnare i favori di Stoccolma aiuta vantare talune virtù geopolitiche. Ecco allora una 57enne polacca, femminista militante e convinta europeista. L’autrice di “I vagabondi” riassume in sé il peso della storia: ieri lo scacco dei totalitarismi nazista e comunista e oggi le spinte nazionaliste nella sua Polonia.
Olga Tokarczuk – treccine rasta e sguardo affilato – grazie al 2019 entra dalla porta principale della fama imperitura. “Sarà meritata?” l’interrogativo dei più all’annuncio del prestigioso riconoscimento. Meritata, sì. Il valore dell’autrice polacca risiede anzitutto nella sua opera. È questo valore a inverare il suo impegno civile e non viceversa. Pochi hanno la sua capacità di osservazione, il suo talento nel cogliere i mutamenti della nostra contemporaneità.
Pochi hanno la sua scrittura nitida, in bilico tra saggio e finzione, che annullando una trama lineare procede per frammenti, lasciando al lettore il compito di riconoscere la realtà che abita e di riconoscersi. Il suo segreto? Nel discorso di accettazione del Nobel ha detto: “Mia madre mi ha dato l’anima, il più grande e sensibile strumento per narrare il mondo.”

Voto: 8

 

Andrea Camilleri
Categoria: Scrittore

E se avessero ragione gli altri? Come in un urto di rovello portava la propria “ragione” fuori dalle proprie certezze. L’ultimo anno trascorso di Andrea Camilleri in questa terra – il 2019 dello scrittore, drammaturgo e romanziere – è un riavvolgere se stesso per andare nell’altrove: quell’accettare di buon grado la consapevolezza di sé, anche con irruenza, per poi mettere in fila i fatti – quelli a lui contemporanei – e così attivare l’elaborazione della storia e spiegarsi il futuro entro i confini dell’esperienza. La vita gli si accostava all’orecchio, vi versava quel sovrappiù d’immaginazione e lui – da Tiresia qual è – ne gustava ogni sfumatura per farne bottino di arte e varietà.
Tiresia qual è, appunto, come quello privato della vista per aver guardato Venere nuda, Camilleri è già prossimo a tornare in questa terra per ricrearsi daccapo nella forma che più gli aggrada: pianista in un bar, regina d’Egitto, maniscalco o anche falco, farfalla o coleottero. Perché questo faceva il cantastorie: abbassare le montagne, ascendere al cielo medio, sorgere col sole dal lato opposto, nell’esatta sragione delle fantasie. Quelle degli altri.
E questo faceva il venerando Andrea tra le pareti del suo studio in cui adesso la sua voce s’è spenta, quella profonda cantata senza la quale Camilleri non sarebbe mai stato lui: Tiresia.

Voto: 10

 

Antonio Scurati
Categoria: Scrittore

M, il premio Strega. M, il libro rivelazione dell’anno (anche se il più venduto dovrebbe essere, in attesa dei dati definitivi, il bellissimo I leoni di Sicilia di Stefania Auci). M. il libro della svolta di Antonio Scurati (a giudizio di molti, e nostro, il suo più riuscito). Il figlio del secolo, come recita il sottotitolo, è il Duce, che per la prima volta diventa personaggio di una fiction. Non più oggetto di saggi, ma materia viva e pulsante. Incontriamo il protagonista (nel primo volume di quella che si annuncia come una trilogia) nel 1919, all’alba del Fascismo, passeggiamo con lui nel centro di Milano, entriamo nelle osterie, lo accompagniamo mentre osserva un mondo ammaccato popolato di reduci mutilati, arditi, socialisti… Crediamo di sapere tutto di quegli anni, eppure è così diverso il sapore del racconto. L’autore ha fatto un evidente (e lodevole) sforzo, cioè di maneggiare quella parte ancora incandescente della nostra Storia senza metterla sul banco degli imputati. Con quel periodo non siamo mai riusciti a fare i conti al di là delle etichette buoni/cattivi. È successo anche con l’uscita del libro di Scurati: più che le pagine di M, lo stucchevole, eterno!, discorso attorno al ritorno dell’orbace ha contaminato il dibattito, talvolta con la complicità dell’autore.

Voto: 8

 

Antonio Conte
Categoria: Allenatore

Figlio del barocco leccese, Antonio Conte martella le sue squadre come un fabbro. A 50 anni, ha scelto una sfida che va al di là del destino. Poco importa che di mezzo ci siano stati l’azzurro della Nazionale e il blu del Chelsea. Dopo aver legato la carriera alla Juventus, come giocatore e come allenatore, eccolo all’Inter, la società che da gobbo, attraverso i veleni di Calciopoli, aveva imparato a detestare. Al cuore si comanda: e come. Specialmente nel circo degli Agnelli e dei lupi cinesi.
Degli otto scudetti juventini, Conte vinse i primi tre. Ha chiuso l’anno con 42 punti, nove in più dell’ultimo bottino di Luciano Spalletti, ed è in testa proprio sotto braccio a Madama. I tifosi che lo accolsero freddi, oggi lo adorano. Non è più lo smemorato del calcio-scommesse, non è più il servo giurato. Ha preteso e ottenuto che Beppe Marotta, altro migrante dalla real casa, gli togliesse dalle scatole i dipendenti più scomodi: Ivan Perisic, Radja Nainggolan e la famiglia Icardi. Ha blindato Appiano, sempre meno Gentile; ha lasciato la Champions, sempre più ostile.
È un missionario laico che, quando non converte le partite, si fustiga. I padroni di Suning non gli hanno chiesto lo scudetto: è lui che, fra una citazione e una eccitazione (“a star sotto si fa meno fatica”: non in classifica, però), lo sente, lo vuole.

Voto: 7

 

Barbara Bonansea
Categoria: Calciatrice

Come vincere un Mondiale senza vincerlo per davvero, fin dal primo giorno, e cominciare a vivere (almeno si spera) felici e contente. È capitato tutto all’improvviso e a realizzare l’impresa è stata Barbara Bonansea, che fino al 9 giugno nessuno in Italia sapeva chi fosse. 28 anni, di Pinerolo, attaccante della Juventus, il 9 giugno 2019 Bonansea metteva la firma sotto i due gol con cui l’Italia sconfiggeva la favorita Australia nel match d’esordio del mondiale francese.
Il secondo lo realizzava al minuto 95, all’ultimo tuffo, e da quel momento il calcio femminile, in Italia, incominciava ad essere qualcosa. Il giorno dopo si scoprì infatti che 3 milioni di italiani erano rimasti incollati alla tv, all’ora di pranzo, per seguire il debutto delle azzurre; che da carneadi divennero protagoniste vincendo il girone e che nel terzo match, quello col Brasile, tennero 6 milioni e 525 mila italiani (il 29,3 % di share, quasi uno spettatore su tre sintonizzato sulla partita) davanti al video in prima serata a fare il tifo per Giuliani e Gama, Bartoli e Guagni, Girelli e Giacinti.
La Cina battuta agli ottavi, poi il ko con l’Olanda nei quarti: ma mai sconfitta fu meno sconfitta di quella. Le “handicappate” di Tavecchio (presidente Figc), le “quattro lesbiche” di Belloli (presidente Dilettanti), il calcio che dava il voltastomaco a Collovati: tutto cancellato. Grazie a due gol. Di Barbara Bonansea.

Voto: 8

 

Rosario Fiorello
Categoria: Showman

“Grazie, grazie, grazie” ha commentato entusiasta la direttrice di Rai Play Elena Capparelli il 21 dicembre, all’indomani dell’ultima puntata. E te credo, si direbbe a Roma. Fiorello è, al momento, l’unico showman in grado di tirare su le sorti della tv italiana e il suo atterraggio sulla piattaforma digitale della Rai ha permesso un numero record di visualizzazioni: quindici milioni (finora, dal momento che le puntate del suo “VivaRaiPlay!” rimarranno online) con 13 milioni e mezzo di app scaricate. Un programma andato in onda dal 4 novembre al 20 dicembre che, grazie anche al traino della prima settimana in diretta su Rai Uno dopo il Tg delle 20, ha centrato l’obiettivo. Come sempre, Fiore è stato in grado di intercettare le novità – quelle che possono accaparrarsi un pubblico più giovane, come i benedetti, si fa per dire, “tik-toker” – senza togliere spazio al già visto di qualità. E così gli ospiti Vip che gli hanno tenuto compagnia negli studi di via Asiago – completamente rinnovati per l’occasione – non hanno fatto neanche troppo l’“effetto Sanremo”. Solo Rosario poteva pensare di affrontare una simile sfida, rilanciare il digitale Rai – a fronte di quale cachet? – vincendola agilmente. E non soltanto perché il suo è talento puro, ma perché Fiorello ha un grande pregio: quando non si ritiene pronto o crede di non aver nulla da dire, si ferma, tace e studia. A differenza di molti suoi colleghi, che ripetono in eterno le stesse noiose battute.

Voto: 9

 

Woody Allen
Categoria: Regista

Woody per sempre. Mentre il ditino globale punta il #MeToo, Allen il saggio continua a fare quel che sa fare meglio, il cinema, e indica la luna: in Un giorno di pioggia a New York siamo rischiarati dal satellite romantico e malincomico del Nostro, e che raffinatezza, che sprezzatura gentile.
L’hanno rimesso alla gogna, Woody, non sazi della verità processuale, digiuni di nuovi elementi, solo affamati di vendetta: lui ha rivendicato l’inclinazione di genere femminile del suo corpus, ha sostenuto le buone ragioni del movimento femminista, eppure non è bastato. Gli attori, da Timothée Chalamet a Selena Gomez, gli si sono rivoltati contro, dissociandosi e devolvendo il cachet a “Time’s Up” e compagnia militante, negli States A Rainy Day in New York non arriverà mai probabilmente, e peggio per loro: Allen va a avanti, a testa alta per onorabilità e bassa per laboriosità, e il nuovo “Rifkin’s Festival” girato a San Sebastián con Louis Garrel e Christoph Waltz è già in post-produzione.
Rimane, a nostro carico, il vilipendio di maestro, la lesa maestà di un signore che il primo dicembre del 2020 compirà ottantacinque anni.
Con la solita ironia, che anche sotto la pioggia illumina: “Ho visto tutti i classici americani, in particolare gli europei. Kurosawa è il mio preferito”. Lunga vita, Woody.

Voto: 8

 

Matteo Garrone
Categoria: Regista

L’impresa più proibita del cinema, italiano e non, l’ha compiuta Matteo Garrone. Se altri, Francesco Nuti (OcchioPinocchio, 1994) e Roberto Benigni (Pinocchio, 2002), hanno portato sul set il burattino all’apogeo della propria carriera, Garrone s’è fatto bastare il piccolo successo di Dogman e ha frullato Apuleio e Ovidio, filologia e artigianalità, infanzia e perversione polimorfa riguadagnando lettera e testamento di Collodi nella semplicità. Gli incassi gli danno ragione, la prossima Berlinale ne terrà a battesimo l’avventura internazionale, e nel novero delle belle verità ci stanno Massimo Ceccherini, Volpe e co-sceneggiatore di gran fiuto, e Roberto Benigni, che dopo l’hybris di volersi Pinocchio a cinquant’anni si riscopre spelacchiato e devoto Geppetto. Mentre l’altro Dioscuro, Paolo Sorrentino, varia sullo spartito internazionale, dalla serie The New Pope all’atteso Mob Girl con Jennifer Lawrence, Garrone le proprie Lezioni americane le mutua da Calvino: “Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici, di pensare per immagini”. Grazie, Matteo.

Voto: 7,5

 

Lorenzo Jovanotti
Categoria: Cantante

I dati della Siae parlano chiaro: il Jova beach Tour è stato il più seguito tra tutti quelli del 2019 e – nello specifico – il concerto a Linate quello con più biglietti venduti. Il motivo è molto semplice: Lorenzo ha azzeccato un format vincente, lanciato diversi anni fa da Fat Boy Slim a Brighton, migliorato con alcuni innesti quali ospiti indie-rock e world music, dj set e la presenza di artisti del calibro di Salmo e Coez ad animare una grande festa popolare e trainare nuovi adepti.
Il successo deriva anche dalla scelta di Jovanotti di presentarsi come cerimoniere di festa anzi quale Dj vero e proprio, ciò che indubbiamente sa fare meglio, togliendo spazio alla parte più cantautoriale, quella espressa nell’ultimo album “Lorenzo sulla luna”. Quando si torna a ballare e troviamo il mattatore di “Non m’annoio” gli si perdona anche qualsiasi eccesso.
Non sono mancate le polemiche con le associazioni ambientaliste, con le quali l’artista ha scritto un post pesantissimo (“il mondo dell’ambientalismo è più inquinato dello scarico della fogna di New Delhi”) e pure quelle sul presunto lavoro in cambio merce.
Dalla sua ha i numeri che hanno premiato un tour indubbiamente coraggioso e sulla carta decisamente incosciente. E gli va riconosciuta una innata capacità di comunicare e, soprattutto, di ricaricare gli animi.

Voto: 5

 

Niccolò Ultimo
Categoria: Cantante

Dieci spettatori nei club testaccini tre anni fa, un tour già sold-out negli stadi e al Circo Massimo per il 2020. Un Natale trascorso per la seconda volta in visita alla Comunità di Sant’Egidio, e in agenda c’è una missione nel Mali, da “ambasciatore di buona volontà” dell’Unicef: devolverà parte degli incassi dei suoi concerti per realizzare strutture di prima necessità in Africa. Come un piccolo Bono. C’è il rischio di decretare la santificazione laica di Ultimo, il ragazzo di San Basilio che in un vorticoso giro di giostra del destino si è ritrovato nel ruolo di precoce popstar con una illimitata linea di credito aperta sulla carriera.
Nel momento di transizione della scena italiana, mentre l’indie tradisce la missione originaria e il trap resta credibile solo se proposto dagli ultratrentenni, Ultimo trionfa con una scrittura di taglio classico: canzoni concepite “alla vecchia” (con mentori e fratelloni come Venditti e Moro), di solida musicalità, ma capaci di intercettare la sensibilità della generazione Z e non solo.
A Niccolò ha giovato, per paradosso, la tumultuosa sconfitta a Sanremo, che gli ha garantito ancor di più la fedeltà del suo pubblico. L’anno che verrà lo attende alla sfida decisiva: verso una possibile Ultimomania, e l’eredità della scuola romana da caricarsi sulle spalle. Sperando che reggano.

Voto: 7

 

A cura di Beccantini, Biondi, Buttafuoco, Dentello, D’Onghia, Mannucci, Pontiggia, Truzzi e Ziliani

Discoteca per vecchi: tra pacemaker, drink e porta-stampelle

Accade in Scozia, dove la Weekday Wow Factor, una comunità che organizza attività per anziani, ha messo su a Glasgow una discoteca dove per pochi dollari entri, consumi bibite calde e sandwich e balli; accade, infine, anche, a Londra, dove di recente hanno aperto cinque Posh Club, nati un po’ per caso dall’idea di due fratelli di celebrare il compleanno dell’anziana madre in maniera inedita, e diventati discoteche di successo. Frequentati, appunto, da ultra-anziani, tanto che la signora più attempata in sala è stata una 108enne. Ma cosa fa in una discoteca chi giovane non è? Quello che fa un ventenne: vestirsi come gli pare, anzi sono particolarmente accetti abiti sgargianti e capelli colorati; parlare seduti ai tavoli, sorseggiando thè invece che superalcolici (ma volendo c’è un po’ di champagne); ballare, se ti va e con chi ti va, con o senza stampelle; in generale divertirsi, ma senza sballarsi: droga non ne gira, anzi una volta una signora si è sentita male perché aveva dimenticato di prendere le sue pasticche. E non c’è neanche il rischio di stragi del sabato sera, la patente ce l’hanno in pochi e abitano tutti vicini. Insomma una ricetta semplice, persino banale, eppure, nei quartieri dove si trova, il Posh Club ha creato una piccola rivoluzione perché andare in discoteca è meglio che inzepparsi di psicofarmaci, rivitalizza senza effetti collaterali. Lo ha detto pure uno dei frequentatori del locale, il parroco della cattedrale Saint Paul’s, Niall Weir: “Qui c’è tutto ciò che serve, connessione, risate, attività fisica. La salute ci guadagna”. E infatti a Glasgow la discoteca è frequentata anche da malati di Alzheimer, perché cantare musiche conosciute sembra aiutare anche la memoria.

Chi guarda tutto ciò giudicandolo grottesco sbaglia due volte: primo, perché credere che il divertimento sia solo per chi è giovane è un “pensiero” degno degli stupidi; secondo perché quello degli anziani, e anzianissimi, depressi è isolati è un problema sociale enorme, che le nostre società non sanno come affrontare. E la questione non è solo economica – il costo dell’assistenza medica e del welfare – ma anche culturale: queste persone in costante crescita andrebbero finalmente considerate non solo come una nuova fetta di mercato, ma ancor prima come esseri umani che, come tutti, e anzi di più, avrebbero bisogno anzitutto di divertirsi. D’altronde, come canta Battiato, “i desideri non invecchiano, quasi mai, con l’età”. Quello che muta, semmai, sono le possibilità di scelta, che scemano via via e su questo si può agire poco. Moltissimo, invece, si può fare sul linguaggio con cui ci si riferisce agli anziani – da noi, spesso, anche a livello istituzionale, l’anziano è chiamato “nonno” pure se non ha nipoti – e sul modo con cui li si immagina: persone parcheggiate di fronte alla tv, senza sentimenti né aspirazioni. Quando magari sarebbero felicissime di ballare un Twist&Shout con la passione che nessun apatico ventenne saprebbe metterci.

Alla Coca-Cola babbo Natale porta ben 150 licenziamenti

Le ritorsioni della Coca Cola contro la tassa sulla plastica e sullo zucchero, contenute nella legge di stabilità, stanno per fare le prime vittime. Nel pieno delle vacanze natalizie, i lavoratori della Sibeg di Catania – una delle aziende del gruppo, addetta all’imbottigliamento – hanno saputo che quanto ventilato nelle ultime settimane accadrà davvero: andranno a casa in 151 su 340. Lo stabilimento siciliano sarà smantellato per metà e quella parte di produzione sarà trasferita in Albania. Una destinazione che negli ultimi anni ha accolto tante imprese italiane, attratte dall’altro lato dell’Adriatico non solo per ragioni fiscali ma anche per gli stipendi molto bassi.

La nuova fuga è stata annunciata in questi giorni, proprio sotto Natale, dall’amministratore delegato Sibeg, Luca Busi, a conferma che le minacce fatte pervenire al governo per tutto il tempo di discussione della manovra erano da prendere sul serio. “Abbiamo ospitato nella nostra sede il sottosegretario Buffagni – ha spiegato Busi – chiarendo che con questi numeri non teniamo il mercato: purtroppo saremo costretti a depotenziare i nostri stabilimenti catanesi, spostando gran parte delle produzioni nei nostri impianti di Tirana”. Lo Stato mi tassa? E io scappo. Un format già visto ma con un metodo inusuale: difficilmente chi chiude in Italia per delocalizzare e risparmiare sui costi lo ammette in modo così candido e diretto. Una scelta del tutto impopolare, anche perché cade su un territorio in cui i posti di lavoro scarseggiano e per giunta rovina le vacanze delle famiglie coinvolte. La necessità di portare avanti questa battaglia politica ha prevalso.

Secondo la Flai Cgil, tuttavia, i nuovi balzelli introdotti dalla manovra sono solo un pretesto. Anche perché, nel corso dell’esame in Parlamento, la versione iniziale è stata mitigata. “Non accettiamo strumentalizzazioni – dicono dal sindacato – da parte di aziende che, nascondendosi dietro alla tassa, vorrebbero programmare chiusure di stabilimenti e riduzione degli organici”. La tassa sulla plastica, per esempio, non sarà di un euro ma solo 40 centesimi al chilo, e non partirà subito ma dal primo luglio. La sugar tax, invece, entrerà in vigore il primo ottobre. Si tratta di due tributi “etici” sui quali da tempo è in atto un acceso dibattito. L’obiettivo è orientare i consumatori verso scelte più sane e compatibili con l’ambiente. Come effetto indiretto, riducono gli affari dell’industria delle bibite gassate. Se il prezzo resta uguale, diminuiscono i guadagni; se si alza, si possono ridurre le vendite. Ecco perché la Coca Cola ha condotto da subito una crociata che tra l’altro non si scaglierà solo su Catania, ma anche su altri impianti italiani. I vertici hanno già detto che sarà bloccato il piano di investimenti da 49 milioni di euro e l’intero stabilimento di Marcianise (Caserta) potrebbe essere chiuso travolgendo oltre 800 persone tra diretti e indotto. Inoltre, per recuperare sui costi delle nuove tasse, le arance non saranno più acquistate dai produttori siciliani, ma dall’estero.

2020, la riscossa degli utenti per riprendersi i propri dati

Il 2019 è stato un anno pessimo per i giganti del digitale: il Wall Street Journal ha rivelato che Google manipola i risultati di ricerca per favorire i siti partner più redditizi; Facebook ha pagato 5 miliardi di euro di multa negli Stati Uniti per aver lasciato che Cambridge Analytica usasse i dati degli utenti per manipolare gli elettori; Twitter ha bandito la propaganda politica dal suo social perchè temeva polemiche e sazioni. Per la prima volta i signori degli algoritmi sono sulla difensiva. Ma il 2020 si annuncia come l’anno della riscossa degli utenti, che potranno recuperare controllo sui propri dati e sul valore che questi incorporano.

Dal primo gennaio entra in vigore il California Consumer Protection Act (Ccpa), una legge richiesta da una iniziativa popolare con 600.000 firme. Il Ccpa si applica a tutte le imprese basate in California che hanno più di 25 milioni di dollari di fatturato o che condividono le informazioni di oltre 50.000 utenti all’anno oppure che hanno più del 50 per cento dei propri ricavi che deriva dalla vendita di informazioni personali. Poichè in California, nella Silicon Valley ma non solo, hanno il quartier generale gran parte delle imprese tecnologiche che lavorano con i dati, la nuova legge avrà un impatto notevole. Anche superiore alla direttiva europea Gdpr (General Data Protection Regulation, approvata nel 2018).

La legge californiana è nata a un cocktail party, quando Alastair Mactaggart, un’immobiliarista di San Francisco, ha chiesto a un ingegnere di Google quanto doveva preoccuparsi per la propria privacy. La risposta non gli è piaciuta: “Saresti terrotizzato se avessi chiaro quello che sappiamo di te”. E così Mactaggart ha promosso la nuova legge sulla privacy, grazie al processo di referendum propositivi della California, con l’impegno a ritirare il quesito se lo Stato approvava una legge sulla privacy in tempo utile, cosa che è avvenuta. Il risultato è una rivoluzione: le aziende che raccolgono dati personali ne diventano responsabili, come in Europa, e in caso di violazioni della sicurezza e furti di informazioni devono pagare multe salate (fino a 7.500 dollari per ogni utente). Ma la novità principale è che gli utenti potranno chiedere di avere indietro tutte le informazioni personali accumulate dalle imprese digitali, potranno ottenerne la cancellazione e anche pretendere che quei dati – magari necessari per usare un certo servizio – non vengano ceduti a terzi. E tutto questo dovrà essere facile, con un click su un bottone o con una mail.

Mactaggart, l’immobiliarista-attivista, ha ormai ben presente la resistenza che alcuni colossi come Facebook stanno facendo alla nuova legge e quindi sta preparando una nuova battaglia, per ottenere un’agenzia federale per la privacy, che vigili su tutti i 50 Stati americani, e per classificare alcuni dati come sensibili, tipo la geolocalizzazione dell’utente (così da permettere a Google di usarla per farci usare i suoi servizi, ma non di vendere ad altri la traccia completa dei nostri spostamenti).

Quando è entrata in vigore la direttiva europea Gdpr nel 2018, alcuni siti hanno semplicemente smesso di monetizzare i dati dei loro utenti europei, per non dover affrontare i costi delle nuove regole e per evitare le multe. Grandi giornali americani come il Los Angeles Times hanno rinunciato ai ricavi della pubblicità personalizzata che appare a corredo degli articoli, frutto di una fulminea elaborazione di informazioni personali sull’utente. Ora che questi nuovi vincoli, rafforzati, arrivano in America e nella culla della tecnologia, la California, sarà impossibile far finta di niente. Come sempre in questi casi, le varie associazioni di categoria fanno circolare stime allarmistiche sull’impatto sulle imprese della nuova legge sulla privacy. Un rapporto del Department of Justice della California ha stimato che in dieci anni gli effetti cumulati sul Pil dello Stato possono andare da -0,2 per cento a -6,9 a seconda di quanto stringente sarà l’applicazione dei nuovi parametri. Comunque, si legge nel rapporto, “anche sei i costi di breve periodo sono significativi, da una prospettiva macroeconomica la loro rilevanza è minima”.

Le imprese sono molto attive a denunciare i nuovi costi, ma assai vaghe nel divulgare qual è il valore dei dati che cediamo loro gratis. Il Financial Times ha provato a raccogliere dati per stimare i “prezzi” del settore: informazioni di base come sesso ed età valgono soltanto 0.0005 dollari, ma la storia finanziaria di un consumatore americano, con i suoi debiti e le sue abitudini di consumo, ne vale invece 277 dollari. Come osserva il report del Department of Justice californiano, “a livello individuale la maggior parte di queste informazioni hanno un valore trascurabile, ma una volta aggregate diventano preziose”. E poichè gli stessi dati possono essere usati da più imprese allo stesso tempo, quando un consumatore cede le sue informazioni navigando on line crea materia prima che poi le imprese sanno mettere a reddito. A volte per offrire servizi migliori e gratuiti, ma sempre per ottenere ricavi dalla profilazione e a volte per discriminare con maggiore cura (un utente malato dovrà pagare un’assicurazione più costosa). Dal 2020 gli utenti avranno un potente strumento in più per riappropriarsi di quella ricchezza che finora hanno regalato alle aziende del digitale.

Il ritorno di Ibra è un’adrenalina

La domanda è: se Zlatan Ibrahimovic fosse già stato in forza al Milan, la festa di compleanno a base di champagne e karaoke data da Calabria la sera di Atalanta-Milan 5-0 si sarebbe svolta lo stesso oppure Ibra avrebbe mandato a casa tutti a calci nel sedere? Forse il discorso non si pone nemmeno perchè un Milan con Ibra in campo, c’è da giurarlo, non sarebbe mai affondato in modo tanto inglorioso. Sia quel che sia, ora che il 38enne bomber svedese torna a rimettere piede nello spogliatoio che già fu suo dal 2010 al 2012, quello che festeggiò l’ultimo scudetto del club rossonero, la curiosità è vedere se qualcosa al Milan cambierà. Ibra è l’uomo che ai tempi dell’Inter andò da Moratti e gli disse di fissare sì un bel premio in caso di scudetto, ma per favore di far sparire i premi vittoria; per aver voglia di vincere una partita, disse, un calciatore non ha bisogno di ricompense in denaro.

La verità è che il ritorno di Ibra sui nostri schermi rimette adrenalina in circolo in tutti, dai compagni agli avversari, dagli arbitri agli addetti ai lavori, perchè Zlatan non guarda in faccia a nessuno; e a torto o a ragione, la cosa che predilige è andare allo scontro. “Io sono fatto così – ha detto -, voglio fare errori e imparare da questi”. Anche a costo di rimetterci le ossa. Come quando ai tempi del Milan si accapigliò in partitella con uno dei pochi giocatori più grandi e grossi di lui, il carneade americano Onyewu, colpevole di marcarlo troppo rudemente; ci vollero 20 minuti e 20 giocatori per dividerli, e solo a distanza di tempo Ibra ammise che a perdere era stato lui: lo yankee gli aveva spezzato una costola. Tutto si può dire di Ibrahimovic tranne che sia un santo. Ai tempi dell’Inter fece discutere un suo sputo all’indirizzo di Sottil del Catania che la prova tv decise di non considerare; e ai tempi (più recenti) del Psg, in un momento d’improvvisa crisi d’identità si buttò a terra come un Dybala qualsiasi dopo che Mavuba del Lille, un moscerino al suo cospetto, reagì con coraggio a un suo spintone portandogli una mano al volto. Il gigante Zlatan, udite udite, stramazzò al suolo massaggiandosi il mascellone. Non un bello spettacolo.

Con Ibra in circolazione nessuno può stare tranquillo. Per informazioni chiedere a Cassano che in campo, in piena intervista-tv, dopo la conquista del 18° scudetto del Milan, venne colpito con un calcio alla testa stile-taekwondo: “Lui è l’unico più matto di me”, commentò Antonio, sbigottito ma neanche tanto; o a Boateng, che dopo un gol a San Siro si vide arrivare addosso Zlatan che gli appioppò una manata in testa, in piena corsa, che rischiò di farlo deragliare. Detto che l’uomo che più di tutti lo mandò in bestia non fu il compagno all’Ajax Mido, che gli lanciò una forbice sfiorandogli il viso, ma Van Bommel, che dopo un Olanda-Svezia lo mandò in manicomio trattandolo come Cuccia trattò l’inviato di Striscia la Notizia, cioè ignorandolo completamente, un segno di croce è bene lo facciano anche i giornalisti: ne sa qualcosa Vera Spadini, di Sky, cui Zlatan indirizzò in diretta la famosa frase “Cazzo guardi?”, tirandole poi l’elastico dei capelli, scocciato perchè Vera le aveva chiesto dei dissapori con Allegri facendo semplicemente, e bene, la giornalista. Il giorno dopo le arrivarono dei fiori: ma erano del Milan, la firma di Zlatan non c’era. Purtroppo.

La Dakar torna in Africa, partenza il 5 gennaio

Dopo 30 anni di Africa e 10 di Sud America, con l’anno nuovo e per il prossimo decennio la Dakar prenderà il via per la prima volta dall’Arabia Saudita. E, almeno per questa 42esima edizione, non sconfinerà in altri paesi. Il più importante rally-raid del mondo partirà dunque da Jeddah il 5 gennaio per chiudersi ad Al-Qiddiya il 17 gennaio, dopo le 12 tappe previste. Saranno più o meno novemila i chilometri percorsi (di cui oltre 5.000 di prove speciali) per la maggior parte lungo le dune sabbiose del deserto Rub ‘al Khali. Con un solo giorno di riposo: l’11 gennaio, nella capitale Riyadh.

Ai nastri di partenza 351 mezzi (17 in più rispetto al 2019) con equipaggi provenienti da 60 paesi diversi, divisi nelle quattro categorie tradizionali: auto e side by side (134 veicoli), moto (170), camion (47) e quad. Le nazionalità rappresentate saranno 53, con prevalenza di driver francesi (258), spagnoli (77), olandesi (53) e sauditi (18) che giocano in casa.

Tra i piloti il nome di maggior spicco è quello di Fernando Alonso, a bordo del pick-up Toyota Hilux, affiancato da un navigatore d’eccezione: Marc Coma, motociclista cinque volte vincitore della Dakar. Sono senza dubbio i favoriti, anche perché del team fa parte anche il vincitore uscente Nasser Al-Attiyah.

A contendergli la vittoria ci proverà l’equipaggio del team X Raid, dai nomi altrettanto illustri: il mito del rally Carlos Sainz, affiancato dalla vecchia volpe e pluridecorato della Dakar Stéphane Peterhansel, che viaggeranno su Buggy Mini. Per quanto riguarda invece la partecipazione italiana, i piloti del nostro Paese saranno 27 e gareggeranno per lo più nella categoria moto, mentre saranno solo due gli equipaggi tra le auto.

Aspettando l’elettrico. I modelli che guideremo nel 2020

L’isola non c’è più. Nel 2020 non basterà seguire la seconda stella a destra fino al mattino dell’elettrificazione. La lunga lista di nuovi modelli sembrerebbe quella dell’anno di svolta, ma imboccare un vicolo cieco è questione di un attimo per qualsiasi marchio. Più che mai in bilico tra l’offerta di nuove auto capaci di piacere e vendere, e poi quel listino parallelo delle elettriche, vetture da “distribuire”, turandosi il naso sulle perdite.

Divergenze parallele in cui vedremo muoversi da marzo e con astuzia l’ottava generazione di Volkswagen Golf, con in programma ben cinque varianti di motorizzazione ibrida, cavallo di battaglia anche della nuova Toyota Yaris, mentre l’orizzonte da berlina compatta apparterrà ad Audi A3, Seat Leon e Citroen C4 Cactus.

Oltre c’è solo febbre da ruote alte, con una schiera di novità che comprendono l’attesissimo suv compatto Ford Puma, in concessionaria a gennaio, affiancato da Peugeot 2008, Renault Captur e Nissan Juke, con il debutto in autunno anche di Opel Mokka X.

Inutile raccontarci altre favole, Peter Pan viaggia in sport utility, anche di taglia media. Ne vedremo molti, a partire dalla nuova Ford Kuga, o da Peugeot 3008 in variante ibrida plug-in, o ancora dalla terza generazione di Nissan Qashqai attesa per fine anno, così per Audi Q5, mentre Mercedes GLA dovrebbe riuscire ad atterrare sul mercato entro l’estate.

Tutti avranno a che fare con un incubo mediatico chiamato Alfa Romeo Tonale, il suv medio apparso in forma di concept al Salone di Ginevra dello scorso marzo e da allora protagonista indiscusso della scena e delle ricerche web 2019.

Ora ha trovato finalmente una piattaforma meccanica di provenienza francese con cui affrontare il debutto, previsto in autunno, complice quella fusione Psa-Fca. Che poi tecnicamente sia un progetto che le appartiene, è tutto da dimostrare.

Luglio sarà il tempo della nuova Fiat 500 elettrica, rivoluzione vera per un modello che addirittura è stato annunciato su una piattaforma del tutto inedita. È quello il tassello che ci riguarda più da vicino in un 2020 a batterie inevitabili, che vedrà lo sbarco anche della nuova Smart EQ fortwo, della Mini E, ma anche di intere famiglie di vetture a marchio Citroen, Peugeot e Opel, nel segno di una integrazione forzata per attutire i costi a cui non sfugge Bmw e l’intero gruppo Volkswagen. Capofila la ID.3, in arrivo a giugno, seguita da Seat El-born ancora nella formula da berlina compatte, e poi da Audi con i suv e-tron Sportback e Q4 e-tron. Sarà sfiziosa la citycar tecno-vintage Honda E, si preannuncia promettente lo sport utility Mazda MX-30 con un motore rotativo a benzina per ricaricare le batterie, ma l’isola ancora non c’è. Saltiamo in un buio elettrico, casomai ben illuminato.