Dal bonus bebè alle facciate: le novità per famiglia e casa

La manovra 2020 da 32 miliardi è legge. Il via libera definitivo è arrivato nelle prime ore della vigilia di Natale, portando con sé la solita carica di polemiche e di novità. Nessun aumento dell’Iva, taglio del cuneo fiscale, lotta all’evasione, che si traduce in incentivi all’uso delle carte di credito, e stop al superticket. E poi plastic e sugar tax, che entreranno in vigore rispettivamente da luglio e ottobre, e i numerosi provvedimenti che riguardano famiglia e casa. Vediamoli nel dettaglio.

Famiglia. È un bottino fatto soprattutto di contributi prorogati più che di misure strutturali. Vengono salvati gli sconti esistenti, con l’aggiunta di qualche risorsa in più, e si mette in cantiere una misura robusta: la creazione di una prima dote finanziaria da un miliardo di euro per l’avvio, dal 2021, del Fondo assegno universale e servizi alla famiglia.

Per i neonati cambia il bonus bebè: verrà erogato solo per il primo anno di tutti i nuovi nati o adottati, modulato su tre fasce Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente). Le famiglie entro i 7mila euro di Isee percepiranno 160 euro al mese, quelle tra 7mila e 40mila euro ne avranno 120, mentre chi supera questa soglia potrà contare, per la prima volta, su 80 euro al mese. L’assegno, esentasse, sarà erogato per 12 mesi per ciascun figlio anche per autonomi e partite Iva, e salirà del 20% dal secondo figlio.

Per gli asili nido le famiglie potranno continuare a contare sul bonus specifico che, però, viene rimodulato sulla base di soglie di accesso a scalare: l’attuale erogazione si ferma a 1.500 euro. Quella in arrivo dal 2020 prevede un voucher di 3mila euro per i nuclei familiari con un valore Isee fino a 25mila euro; si fermerà a 2.500 euro per quelle tra 25 mila e 40 mila euro di Isee; resterà com’è, a 1.500 euro, per tutte le altre.

Previsto, invece, un bonus nuovo a favore delle mamme affette da condizioni patologiche che impediscono la pratica naturale dell’allattamento: il contributo per il latte artificiale potrà arrivare all’importo massimo di 400 euro per neonato, fino al compimento del sesto mese di vita del bebè.

Per i diciottenni viene prorogata l’app per le spese culturali, ma l’importo si riduce a 300 euro. È prevista una nuova detrazione, al 19%, per l’iscrizione dei figli a corsi di musica e canto per le famiglie meno ricche. I neo papà potranno stare casa, dopo la nascita, per una settimana: salgono, infatti a 7 i giorni di congedo.

Nessun taglio e alcuni aumenti per un totale di circa 90 milioni di euro in più. Si potrebbero riassumere così le misure stanziate nella manovra a favore dei disabili. Si va dai fondi per assumere educatori e far scontare ai ragazzi in comunità anziché in carcere eventuali condanne, ai corsi per i professori contro il bullismo e cyberbullismo fino al milioni di euro stanziato in più per sostenere gli orfani di femminicidio.

Viene confermata la detrazione del 19% delle spese sanitarie e la norma vale per tutti senza limiti di reddito. In un primo momento, infatti, era stato previsto che il bonus non venisse applicato ai redditi più alti.

Casa. Imu e Tasi che diventano un tributo unico e tutti i bonus per le ristrutturazioni confermati, fino all’introduzione di un nuovo sconto per rifare le facciate. È ricca di interventi per la casa la manovra del 2020 che rifinanzia con 10 milioni il Fondo di garanzia per l’acquisto della prima casa e con 50 milioni quello per l’accesso alla casa in affitto. Per tutti i bonus la detrazione è spalmata su 10 anni, tranne che per il sisma bonus (5 anni e una detrazione fino all’85%).

Il nuovo bonus facciate avrà un importo pari al 90% dei lavori documentati realizzati nel 2020 relativi agli interventi di rifacimento delle facciate degli immobili (sì a pulitura e tinteggiatura, esclusi i lavori di sistemazione delle grondaie, dei cavi esterni e degli infissi). Le zone a scarsa densità urbana non possono richiedere il bonus.

Riconfermati il bonus ristrutturazione (50% fino a 96.000 euro) e quello mobili (fino a 10.000 euro) che si può richiedere solo se si sono fatti lavori di ristrutturazione. Resta anche il bonus per i lavori di efficientamento energetico. Le regole non cambiano e anche le due aliquote di detrazione – 65% e 50% – a seconda del tipo di lavori. Ad esempio godono dell’aliquota al 50% i lavori relativi a infissi e schermature solari e il cambio della caldaia esistente con una caldaia a condensazione.

Prorogato con il dl milleproroghe anche il bonus giardini (36% fino a 5.000 euro) previsto per lavori di sistemazione a verde di aree scoperte private di edifici, unità immobiliari, pertinenze o recinzioni, impianti di irrigazione e realizzazione pozzi realizzazione di coperture a verde e di giardini pensili.

Talk show: le triglie del Sioux…

Sto guardando un talk show in televisione, quelli del pomeriggio, quegli interminabili contenitori dove si trattano argomenti vari. Ho notato che i presentatori quando fanno le domande non ascoltano quasi mai la risposta dell’ospite, perché si concentrano sulla domanda successiva che devono formulare. Sto seguendo l’intervista a un Sioux, vestito proprio da pelle rossa con tutti i segni in faccia e il casco di penne di ordinanza. Insomma uno degli ultimi sopravvissuti al grande genocidio dell’800. Sta raccontando la sua vita nella riserva, la nostalgia del passato, delle grandi praterie dove i suoi antenati andavano a caccia di bisonti, prima che i lunghi coltelli, cioè i soldati dell’esercito americano, li sterminassero. In tutta risposta senza tenere minimamente presente le dichiarazioni dell’indiano, il presentatore gli chiede “Come va il suo ristorante di pesce a Savona? Perché dovete sapere che il nostro amico qui, è un grande cuoco e le sue specialità sono rinomate in tutta la Liguria” il pelle rossa senza scomporsi ribatte “No guardi, ci deve essere un equivoco, io vengo dal Dakota, sono un Sioux. Non so cucinare, tanto meno il pesce e poi dov’è Savona?” – “Ma lei le triglie preferisce cucinarle alla livornese oppure fritte? E del cacciucco, cosa mi dice del cacciucco?” – “Non saprei… il che?” – “ Ah giusto, il cacciucco è un piatto livornese. Lei è un savonese puro sangue!” – “ Ancora! Io vengo dal Dakota. Sono un pelle rossa, lo vede questo? È un tomahawk, un’ascia di guerra. Se lei continua con questa storia del ristorante io le asporto il cuoio capelluto e le faccio uno scalpo così resta pelato per tutta la vita, augh!” – “ Forza ci canti una bella canzone ligure!” e a questo punto il Sioux per disperazione attacca a cantare “Genova per noi”. Questa è la forza della tv!

 

Inflazione, spina per le banche centrali. Le classi di età influenzano i prezzi

Gli anni ‘10 di questo secolo saranno caratterizzati nella storia economica da un’anomala dicotomia: mercati finanziari (soprattutto americani) in continuo rialzo a fronte di un’economia reale non brillante. Il motivo va ricercato nei livelli stratosferici dei debiti pubblici e privati accumulati dopo la Grande Depressione e favoriti dalle politiche iper-espansive delle maggiori banche centrali.

Cosa tiene in piedi questo castello di cartapesta? Un elemento fondamentale: la bassa inflazione. Se i prezzi si impennassero, i tassi di interesse rasoterra (e sottoterra) – nonché i trilioni di obbligazioni accaparrati dalle banche centrali – subirebbero il destino dei fiori di mandorlo dopo una gelata. Dove si annidano le spinte inflazionistiche? In Usa con disoccupazione ai minimi, i salari lievitano e anche nei paesi emergenti, Cina in primis, le paghe da lumpenproletariat diventeranno un ricordo. Inoltre con la tregua nella guerra dei dazi i rischi di recessione globale si sono attenuati e quindi ci si aspetta che si rinfocoli la domanda di energia. Di conseguenza il prezzo del Brent dai 61 dollari al barile a inizio dicembre, veleggia verso i 70 dollari. Ai fattori congiunturali si sovrappone un fenomeno strutturale. Il Working Paper No. 722 della Banca dei Regolamenti Internazionali, Il legame durevole tra demografia e inflazione, di Mikael Juselius ed Elod Takáts offre conferme empiriche ad un’ipotesi inquietante: la distribuzione della popolazione per classi di età influenza nettamente il tasso di inflazione. Specificamente, ad un aumento della quota di dipendenti (cioè i più giovani e i più vecchi) è associato un accentuamento dell’inflazione. Invece quando incrementa la percentuale degli individui in età lavorativa (18-64 anni), l’effetto sull’inflazione è marcatamente negativo. L’unica eccezione riguarda gli ultra ottantenni. Quando la loro percentuale nella popolazione aumenta l’inflazione scende. Lo studio esamina dati annuali per 22 economie avanzate dal 1870 al 2016 quindi copre un periodo esteso e variegato. L’effetto delle coorti d’età risulta significativo sia a livello di singoli paesi che a livello globale e permette di ottenere previsioni abbastanza affidabili sul trend di inflazione nel lungo periodo, in quanto i fenomeni demografici evolvono con lentezza.

In particolare il paper implica che le pressioni inflazionistiche siano destinate a riemergere perché la popolazione anziana si amplierà mentre quella giovane si ridurrà a livello globale e marcatamente nelle economie maggiori. Peraltro le banche centrali così come trovano difficoltà nel contrastare i bassi tassi di inflazione disporranno di armi inefficaci contro la spirale dei prezzi. Non vorremmo essere nei panni di chi ha comprato obbligazioni a rendimento negativo quando si materializzerà questo cambio di regime.

Una sorpresa nelle classifiche Usa: alla riscoperta della poesia di Rumi

Il New York Times s’interroga: How did Rumi become one of our best-selling poets? Ecco: com’è possibile che Rumi sia diventato uno dei nostri poeti più venduti? La risposta, affidata al romanziere Brad Gooch – autore di una fortunata biografia di Rumi – è che nel mondo post-religioso, dipingere Rumi come un proto-umanista lo renda una figura ideale a guidare una spiritualità neutra, che si possa declinare a ogni appartenenza culturale o ideologia.

Il poeta più letto negli Stati Uniti d’America è, dunque, Rumi. Il mistico persiano, vissuto nel tredicesimo secolo a Konya, in Turchia, infonde di nuovo vigore la vita spirituale degli studenti. Nei campus dei college, infatti, è il luogo dove la lettura di Rumi assume valore iniziatico, e dove sono rinati i circoli di poesia.

Il New Yorker nota che non soltanto Rumi è il più venduto tra le classifiche di poesia negli Usa, ma è entrato a fare parte della cultura pop. Sono tante le celebrità a rivolgersi a Rumi come “guida spirituale” – da Madonna a Chris Martin, che nell’ultimo lavoro dei Coldplay include la lettura di una poesia di Rumi – tutte evidentemente lontane dall’Islam come religione. L’Islam, però, non ha bisogno di spogliarsi della sua essenza per accogliere in sé figure come Rumi. Si tratta di una vera e propria “cancellatura dell’Islam dalla poesia di Rumi” – erasure of Islam from Rumi’s poetry – che volentieri è definito mistico, santo, illuminato, e assai meno spesso è chiamato musulmano.

Eppure è all’interno della tradizione musulmana che Rumi ha cambiato ogni cosa. Da ortodosso insegnante di diritto, attraverso l’incontro con il mistico errante Shamsuddin – il mio acciarino, lo chiamerà Rumi – scaturisce dal suo cuore la poesia. Dopo la morte di Shamsuddin, Rumi dedica il resto della sua lunga vita a insegnare come il suo maestro gli abbia aperto i segreti del cuore, e come il Corano e la tradizione del Profeta gli siano ora chiari.

L’interesse per Rumi in Occidente nasce però prima di qualunque influenza hollywoodiana. Nell’era vittoriana, le prime traduzioni di poeti dell’Islam generarono scalpore per il loro contenuto mistico, inconciliabile con l’idea di Islam costruita dagli albori dell’Orientalismo. La spiegazione fu che figure come Rumi erano spirituali non grazie all’Islam, ma malgrado ciò. E così, quasi nessuno tra i lettori americani di Rumi sa che la confraternita fondata dallo stesso poeta a Konya, in Turchia, è tuttora uno degli ordini spirituali più numerosi nel mondo musulmano. Certo, ogni luogo e ogni tempo costruirà il proprio Rumi, come è naturale per le figure universali. Solo riconoscendone la fede e la vita si può fare giustizia a questa forza creativa. E così, in Afghanistan, la piccola libreria di Haidari Wujodi, da più di cinquant’anni offre ai cuori martoriati la consolazione della poesia di Rumi. Wujodi ha più di ottant’anni, e riceve un salario governativo per sedere al suo tavolo nella libreria e ricevere ospiti. Arrivano musicisti che cercano testi per le loro canzoni, giovani poeti che vogliono un parere sulle proprie composizioni, studenti universitari intenti a scrivere la tesi, e asceti. A tutti offre lo stesso rimedio: ogni lunedì e giovedì, per due ore, riunisce chi lo cerca per una lettura del Mathnavi, il poema mistico di Rumi, che chiama all’ascolto di un amore nuovo: “Ascolta il flauto di canna, com’esso narra la sua storia, com’esso triste lamenta la separazione”.

Gadda, Garibaldi: a cena con un pezzo della nostra storia

Anche questo capita a Natale. Di finire a un tavolo di normali professionisti accanto a una signora di una certa età di cui non sai quasi nulla e che a un certo punto sembra suggerirti, con soave noncuranza, “io sono la storia”. Quella con la “S” maiuscola. Ma non pensate alle battaglie civiche spesso ospitate in questa rubrica. Se oggi ho scelto questo ritratto è perché mi si è fulmineamente ripresentata la storia orale. A spiegarmi che il passato lontano, quello che da bambini consideravamo preistoria, è invece vicino, accanto a noi. Basta saperlo ascoltare.

La signora è oltre l’ottantina. A pranzo sono tutti impegnati a lodare il suo paté di fegato, specialità in cui eccelle. E lei nelle pieghe di una educata e simpatica conversazione mi dà una prima coordinata. Mio nonno era un garibaldino, dice con levità. Sussulto. Come un garibaldino? In effetti ho avuto nonni andati giovanissimi nelle trincee della Grande Guerra. Ma come si fa a tornare indietro fino ai Mille? Conti difficili, al limite dell’improbabile. In effetti era il bisnonno, si chiamava Giuseppe Alessio, e non partì per Marsala. Ma era garibaldino con la camicia rossa, c’è ancora un suo quadro in casa. E a Milano aveva l’usanza di dare ogni giorno la sveglia al palazzo di via Pindemonte, di proprietà familiare, suonando la tromba. Sembra un altro mondo e invece è lì, depositato nella sua eleganza accanto a me. La prossimità mentale dell’Ottocento mi inquieta. Siamo abituati a contare le generazioni di ventennio in ventennio. Ma tre generazioni in una stessa famiglia travalicano il secolo. La speciale creazione gastronomica si assottiglia fino a sparire e la signora dà la seconda coordinata. Io sono una Gadda. Non capisco subito. Lei precisa: mio padre era cugino primo di Carlo Emilio Gadda. Un balzo nei libri di storia. La figlia conferma orgogliosa. Si fa largo un caleidoscopio di nomi e parentele a cui fatico a star dietro, anche prendendo appunti improvvisi. La famiglia di origine della mia commensale si chiamava Panfili, stava in Austria, e si trasferì a Trieste quando scoppiò la Grande Guerra, perché parteggiava per gli italiani. A Trieste aveva immobili, e qualcosa di più. Un Odorico Panfili aveva cantieri navali e trasmise il cognome alle famose navi che vi si allestivano. Un successo. I cantieri fallirono però perché Odorico, spacciandosi per un Panfili dell’aristocrazia romana, corteggiava le dame nascondendo gioielli nei fiori. La signora invece, che si chiama Maria Oda, ha vissuto sempre a Milano, anche se trasuda civiltà asburgica: dal nome e dal portamento, compreso il modo in cui comanda il bastone. Di punto in bianco intravedo la Milano austroungarica, una vertigine mentale assurda. E Gadda? Oh, la famiglia, al di là della letteratura, brillava per ricchezza. Ancora nel secondo dopoguerra le sorelle Gadda avevano in mezzo agli immobili di proprietà milanesi una piscina, dove tenevano a galleggiare le bottiglie di champagne durante le feste. Una di loro, Oda, vinse una gara di ballo dallo Scià di Persia, premio un bracciale di brillanti. Cose da copertina di Oggi o Gente di quei tempi. La signora spiega mitemente, ed ecco la terza coordinata, che la sua famiglia un giorno era padrona della zona dove ci troviamo, quella di Porta Venezia, la parte di città che si apriva verso oriente. Case, immobili, giardini, oggi pubblici, dove i molti cugini piccoli andavano a cogliere mughetti, appartenevano in blocco a loro. Come pure alcuni cinema. E lei ricorda benissimo quando quelle vie erano percorse dai navigli, quelli che appunto portavano a Venezia. Dice: e che storia è mai questa? Qual è il suo sugo? Risposta: è il fascino di una microstoria che vola d’improvviso verso la grande storia, che apre scorci e squarci sul passato. La vita di una riservata signora ottantenne che ti fa capire senza intenzione che tu della tua città non sai praticamente nulla anche se ci abiti da una vita intera, che gli scenari del boom economico di cui fregi le tue memorie sono nulla rispetto a quelli che può sfoderare lei. Risorgimento e dinastie esotiche. Che una città è fatta dalle famiglie. Che l’alta borghesia ricca di un tempo sapeva forse essere più “società” di quella attuale. Racconta di avere quattro bisnipoti, che ancora ospita d’estate in campagna, tra la pianura e i laghi, come usava una volta nella nobiltà o nell’alta borghesia cittadina. Sì, è una storia che non trabocca di eroismo. Ma parla, evoca, ti incanta. Durante le feste è un lusso consentito.

Ragazze uccise a Roma “Io, distrutto dall’incidente e dal lavoro dei giornalisti”

Ciao Selvaggia, ho letto il tuo articolo a proposito dell’infelice titolo del giornale sull’incidente avvenuto a Roma. Io so di cosa di cosa si parla. Non voglio giustificare il ragazzo, ma quelle ragazze sono morte e lui non se la passerà meglio. Io lo so. Ti spiego perché.

Quasi due anni fa mio padre era a bordo del suo camion, sul quale ogni santo giorno viaggiava per portare a casa la pagnotta. Quello non è stato un giorno qualunque però. Dopo tre ore di marcia, è stato coinvolto in un incidente in cui, ahimè, dopo il ricovero è morta una donna. Ma questo lo abbiamo saputo tempo dopo.

La colpa di mio padre è stata quella di non aver rispettato la distanza di sicurezza. Qualcuno può spiegare a chi di dovere, che se io sono incolonnato nel traffico e rispetto la distanza di sicurezza è difficile mantenerla se qualcun’altra pensa bene di tagliarmi la strada da destra e sinistra? Perché ecco, questo è successo a mio padre. Solo che quando sei tu il “più grosso”, quando sei tu a guidare quei mezzi enormi, sei sempre e solo tu il colpevole.

Non la donna che non indossava la cintura di sicurezza.

Non chi viaggiava sulla corsia d’emergenza pur non avendone bisogno.

Non chi taglia la strada da destra.

Non chi cerca di sorpassare pur non avendo lo spazio necessario per farlo.

No. Paga il più grosso. E sfido chiunque a dire che almeno una volta nella vita non abbia giudicato male un camionista. Intendiamoci, è normale. Viaggiamo con diverse prospettive, ed è per questo che è difficile immedesimarsi o essere clementi con loro. Con “i grossi”. Certo, non voglio dire che tutti i camionisti coinvolti in incidenti siano prudenti e innocenti. Come non voglio dire che il ragazzo che ha investito le ragazzine a Roma sia per forza innocente. No. Voglio semplicemente dire che, come sempre, giudicare con pochi elementi è semplice. Mio padre è un uomo distrutto, mortificato. Ha saputo cosa è successo alla donna solo un mese dopo che era morta, e ha saputo che era colpevole, ma non troppo, solo un anno dopo. Quando finalmente l’avvocato ha avuto accesso alle perizie.

Senza patente. Senza lavoro. Senza dignità. Sicuramente in parte ha le sue colpe, ma non proporzionate a quello che sta pagando.

A volte dovremmo solo essere un po’ più empatici, immedesimandoci. Non dovremmo sparare a zero, perché dall’altra parte potremmo esserci noi, “piccoli” o “grossi” che si sia.

N.

 

Ciao Selvaggia, mi chiamo A., ho 30 anni e ti scrivo dalla Sardegna riguardo il titolo di Repubblica sulla storia delle due ragazze investite, “Autista drogato”. Ho vissuto la stessa situazione undici anni fa con la differenza che la ragazza morta era in auto con me quando è successo l’incidente. Fin da subito i giornali locali mi hanno attaccato e accusato di qualsiasi cosa: drogato, assassino, immaturo e così via, attaccando pure i miei genitori. Il tutto è durato per un anno intero, finché non ho dimostrato che le analisi avevano trovato tracce di venti giorni prima (due canne, avevo 19 anni). Hanno continuato anche dopo, anche quando il processo ha stabilito la mia colpa: omicidio colposo e 1 anno e 4 mesi di pena. Ho pagato fino in fondo, giustamente aggiungo, senza appelli ed escamotage vari perchè ho sbagliato e dovevo pagare. Ma per oltre tre anni la stampa ha cercato di distruggerci, e questo mi ha devastato: sono stato descritto come quello che non ero e che non sono. Ci dovrebbero essere dei limiti nel giornalismo che hanno a che fare col rispetto della verità e di una tragedia. Sono vicino alle famiglie delle ragazze, ma sì, anche del ragazzo.

Un semplice sfogo per sperare che questa testimonianza possa arrivare a tante persone, specialmente a quelle che scrivono sui giornali.

A.

 

Cara Selvaggia, il titolo di Repubblica “autista drogato” su Pietro Genovese relativo all’incidente in cui sono morte le due giovani ragazze romane è stato inaccettabile.

L’orrore degli articoli di cronaca non salva nessuno e affonda chi cerca di restare a galla, o chi quanto meno ci prova.

Nel 2006 cercai di fare causa a un noto quotidiano perché, dopo un brutto incidente stradale che mi vedeva direttamente coinvolta in cui persero la vita marito e moglie, scrisse un articolo fazioso e ingannevole rifugiandosi dietro a continue virgolette e condizionali che li parava da ogni accusa.

Nel 2006, viaggiando sull’autostrada A1 in direzione Roma, non potei evitare una coppia la cui macchina si fermò avendo urtato il guardrail proprio dietro una curva sulla corsia di sorpasso.

Purtroppo la figlia che era alla guida li fece scendere dall’auto e per me fu impossibile evitarli.

Non ti dico quello che comportò a livello umano tutto questo perché è impossibile.

Il giorno dopo il noto giornale intitolò l’articolo “Travolti e uccisi sotto gli occhi della figlia” insinuando il fatto che io corressi sulla corsia di emergenza su una lussuosa macchina da corsa.

All’epoca dei fatti ero la scenografa di una fiction che andava in onda su Mediaset e questo rendeva l’articolo più interessante, immagino.

Ho capito subito che tutto sarebbe cambiato. Ho capito subito che nella mia vita ci sarebbe sempre stato un prima e un dopo, una me di prima e una me di dopo. C’è voluto tanto tempo e tanta terapia per realizzare quello che tutto questo avrebbe comportato. Immagino che il compito di un giornalista non sia di essere pietoso o misericordioso, ma da lì all’essere peggio di un avvoltoio ce ne dovrebbe passare. E invece.

B.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.,  selvaggialucarelli @gmail.com

Gli atei votano le “clericalate” del 2019: il vincitore è Salvini (ovviamente)

La parola è orrenda ma rende bene l’idea. Clericalata. E quali sono state le peggiori clericalate di quest’anno ormai terminato? Quelle di Matteo Salvini, of course. A stilare la classifica dei politici più bigotti del 2019 non poteva che essere l’intransigente Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – tutto con la maiuscola a proposito di integralismo – che sul proprio sito ha fatto votare militanti e simpatizzanti del Nulla Eterno.

Con i suoi rosari e le invocazioni mariane in luogo pubblico e politico, il leader leghista si è guadagnato ampiamente la prima posizione. Ma la hit parade delle clericalate ha finanche un prezioso criterio geografico ed è la Liguria la regione più clericale d’Italia. In una lunga dichiarazione il segretario dell’Uaar Roberto Grendene elenca in modo zelante tutti gli atti che hanno portato i liguri in cima alla classifica: “In gennaio il consiglio comunale di Genova ha approvato una proposta per garantire agevolazioni e benefici nella fruizione dei servizi pubblici solo alle famiglie iscritte in un apposito ‘registro comunale’, istituito nel settembre precedente, che comprende solo coppie sposate con figli ed esclude tutte le altre forme di famiglia; in febbraio il consiglio regionale della Liguria ha approvato una mozione anti-aborto, proposta da Matteo Rosso (FdI); in maggio il consiglio comunale della Spezia ha approvato una mozione per stipulare convenzioni con le scuole paritarie della zona”.

E così via fino al dicembre corrente. In alcuni casi si tratta di critiche condivisibili, in altri viene qualche dubbio sui criteri per selezionare i politici più clericali. Per esempio che senso ha mettere all’indice l’Università di Bari per aver promosso un convegno sui percorsi di “guarigione tra fede e scienza”, con tanto di saluti del sindaco Decaro? Un conto è accusare Salvini per l’ostentazione dei simboli religiosi, un altro è attaccare chi dibatte di fenomeni tra fede e scienza: dov’è l’attentato all’ateismo militante? Così come Virginia Raggi viene inclusa nella classifica per aver ricevuto papa Bergoglio in Campidoglio. Il punto vero è che peggio degli integralisti cattolici, ci sono gli integralisti atei. Dio ce ne scampi.

Un pernacchio di “testa e petto” ai meridionali che votano Lega

Caro Coen, auguri per l’anno nuovo e per tutto. In queste feste vorrei parlarti del, o della, pernacchio o pernacchia, rubando le parole del professore, Eduardo de Filippo, nel capolavoro di De Sica L’oro di Napoli. Lo faccio avendo ben presente che “c’è pernacchio e pernacchio. Il vero pernacchio non esiste più. Quello attuale si chiama pernacchia, è una cosa volgare. Brutta. Il pernacchio classico è un’arte. Siamo tre o quattro a conoscerlo e a praticarlo in tutta Napoli, il che significa in tutto il mondo. Il pernacchio può essere di testa e di petto, ma nel caso nostro li dobbiamo fondere, deve essere di testa e di petto, cervello e passione”. Ecco, caro Coen, così deve essere il pernacchio che in queste righe dedico, insieme a tanti meridionale di buona volontà, a Umberto Bossi. Cervello e passione da scaricargli addosso dopo le frasi ignobili (“quelli del Sud aiutiamoli a casa loro, altrimenti straripano come l’Africa”) pronunciate al congresso della Lega. Simile trattamento va esteso al leader dj Matteo Salvini, che ha sorriso (prima di diventare la brutta copia di Putin cantava arrivano i napoletani e puzzano come cani) e ha fatto finta di criticare le parole del senatùr. Approfittando della pazienza del “professore” Eduardo, estendiamo il “piacevole” concertino a tutti quei cittadini del Nord che ritengono i “terroni” brutti, sporchi e cattivi, beandosi di tali razzistiche banalità. Ma il pernacchio più potente e fragoroso va dedicato ai meridionali, quelli che votano per la Lega e per Salvini, gli adoratori che fanno la fila per un selfie col sovranista alla nutella. Sono loro i veri africani del Sud, “askari” nemici del loro popolo, pronti a sostenere politicanti locali di bassa ciurma che hanno indossato mille e mille casacche (ovviamente di governo e di potere) prima di vendersi al comandante. Pernacchi in quantità, quindi, elargiti con feroce magnanimità, ma sempre di “testa e di petto, cervello e passione”.

Un Natale dopo l’altro, tra appelli e il solito razzismo

1) A Bologna. “Bella ciao” in chiesa, è polemica. Titoletto del Corriere della Sera. Datato 18 dicembre. Ma dello scorso anno…

2) A Gallarate. Sempre il Corriere: “No alla cena natalizia gratis per i sinti”, 19 dicembre. Del 2018…

3) “Buonista” alla gogna, “triste segno dei tempi”. Rubrica “Parolacce e paroline” di Umberto Folena, Avvenire del 16 dicembre. Sempre 2018.

4) Torino. “Nel presepe dell’integrazione Maria è una donna di colore”. Il presepe multietnico del quartiere Aurora è raccontato dalla Stampa il 17 dicembre. Del 2018.

5) “L’altra sera mi sono resa conto che il Natale è ormai vicino. Il caldo anomalo di quest’autunno me lo aveva quasi fatto scordare…”, scrive Susanna Tamaro il 20 dicembre. 2018, che recensisce L’anima, saggio di François Cheng, sul senso delle feste natalizie. Ora, caro Enrico, non ti suona tutto ciò familiare? Un déjavu. Un qualcosa che si ripete. Ogni anno, celebri scrittori si affannano a raccontarci i temi profondi e, a loro dire, trascurati delle celebrazioni e i loro significati religiosi. Ma le cronache impietose registrano spesso storie diverse. Le polemiche sul presepe. Sull’albero, “usanza nordica” che il fascismo proibì nelle scuole (dicembre 1933), in quanto “introdotta per un male inteso spirito di imitazione”. Il Papa ha condannato i sovranismi e i nazionalismi, come lo scorso anno. Razzismo e xenofobia si accentuano in questo Paese della cattiveria, dove la discriminazione è in agguato da Nord a Sud. Si parla di crisi del Natale, e si discetta sulla fede, come il Ducetto legaiolo che la esibisce a mo’ di clava propagandistica, anche di recente. La fede, però, non può essere un’imposizione, tantomeno una tradizione. Dio è gratis, ha detto il Papa, non si vende, non si compera. Per chi crede, è una luce, un’illuminazione della mente, del cuore. Per chi non crede, è da rispettare. Come la dignità umana dei migranti, trasformati in schiavi nel silenzio arrendevole delle nostre coscienze.

La nuova via della seta passa per la Turchia

Il 6 novembre scorso è giunto alla stazione di Ankara il primo treno merci in arrivo dalla Cina e diretto in Europa. L’evento, celebrato dalle autorità turche, è l’esito più eclatante di tanti anni di cooperazione per portare a buon fine il progetto cinese delle “nuove vie della seta”, che punta a rilanciare le rotte commerciali storiche. Se Mosca fa sfoggio del suo recente riavvicinamento con Ankara, c’è infatti un’altra capitale che, con molta più discrezione, sta avanzando le sue pedine in Anatolia: Pechino. Per la Cina la Turchia è un alleato cruciale per poter realizzare il suo progetto commerciale verso i mercati europei: ma a condizione che Ankara chiuda un occhio sugli abusi cinesi contro i “cugini” uiguri. Il treno, partito da Xi’an (Cina nord-occidentale), con 40 vagoni carichi di prodotti elettronici, ha attraversato le steppe del Kazakistan, il Mar Caspio e il Caucaso per raggiungere la capitale turca in dodici giorni. È poi ripartito per Praga, dove è arrivato sei giorni dopo, passando per Istanbul e il tunnel ferroviario sotto lo stretto del Bosforo. La tratta lunga 11.500 km dovrebbe essere operativa a un ritmo quasi giornaliero a partire dal 2020. “Abbiamo stipulato dei contratti con le autorità cinesi per organizzare 300 treni il primo anno e mille il secondo.

L’obiettivo del governo cinese è di raggiungere i cinquemila treni nel 2023 – ha dichiarato Cem Kaniogullari, direttore generale della Srap, l’azienda che gestisce la linea ferroviaria, sentito da Mediapart -. Il nostro obiettivo è di gestire un quarto dei treni che partono dalla Cina”. Avviato dal presidente cinese Xi Jinping nell’ottobre 2013, il gigantesco progetto Belt and Road Initiative (Bri) ha già portato la Cina a investire 800 miliardi di euro nelle infrastrutture di 70 paesi che servono a unire l’Asia all’Europa attraverso una rete di collegamenti terrestri e marittimi. Il BRI, destinato a facilitare gli scambi ma anche a rafforzare l’influenza cinese in questi paesi, potrebbe costare in tutto alla Cina tra 3.200 e 6.500 miliardi di euro. Nel progetto di Pechino, la Turchia svolge un ruolo di primo piano. “È un punto di passaggio obbligato. Gli scambi dall’Europa verso la Cina e viceversa dovranno per forza passare per la Turchia”, sottolinea il responsabile per il commercio del consolato della Cina a Istanbul, Huang Songfeng, citato dall’agenzia di stampa turca Dha. Per quanto riguarda gli scambi per via terrestre, “la Cina ritiene che la Turchia rappresenti la piattaforma principale”, spiega Selçuk Colakoglu, docente di relazioni internazionali all’Università Yildirim Beyazit di Ankara, specializzato sull’Asia.

Un primo treno merci cinese aveva raggiunto Londra nel gennaio 2017 passando per Mosca, ma “la Cina non intende dipendere dalla Russia”, precisa l’esperto. Secondo un recente rapporto del think tank turco Seta (Fondazione per la ricerca politica, economica e sociale), le aziende pubbliche cinesi hanno investito 720 milioni di dollari (650 milioni di euro) sulla linea ferroviaria Ankara-Istanbul. Inoltre “per la Cina la Turchia rappresenta la porta di ingresso per il Medio Oriente”, aggiunge Colakoglu, che è anche consigliere del Centro di ricerca strategica del ministero degli Esteri turco.

Per quanto riguarda la via marittima, i porti turchi sono seri rivali del porto greco del Pireo, di cui la Cina ha acquisito la quota di maggioranza nel 2016. Pechino ha anche un progetto di treno ad alta velocità tra Atene e Budapest. A fine 2015 un consorzio cinese ha acquisito il 65% delle azioni del Kumport, il porto per navi container di Istanbul, per 940 milioni di dollari (850 milioni di euro). Ora Ankara sta tentando di interessare gli investitori cinesi ad altri tre porti: quello di Candarli, sul Mar Egeo, di Mersin, sul Mediterraneo orientale, e di Zonguldak, sul Mar Nero. “Tutti e tre presentano un certo interesse per la Cina”, ha affermato Altay Atli, specialista di relazioni economiche con l’Asia all’università Koç di Istanbul. “Il porto di Candarli è situato di fronte al Pireo, ma sta raggiungendo i suoi limiti naturali e non può più essere ampliato. Mersin è importante perché rappresenta un collegamento con il Medio Oriente: quando la ricostruzione della Siria prenderà il via, la Cina avrà infatti bisogno di un porto – aggiunge il docente – Zonguldak, infine, rappresenta il punto di collegamento tra la Turchia e i paesi che si affacciano sulla riva nord del Mar Nero”. Per Altay Atli, che è anche direttore di un’agenzia di consulenza in strategia aziendale con la Cina, la via marittima è la vera sfida di questa nuova via della seta. “Il treno cinese che ha appena attraversato la Turchia trasportava 40 container, mentre la più grande nave portacontainer del mondo ne può trasportare 23.700”, precisa.

Gli investimenti cinesi in Turchia non si limitano alle infrastrutture per i trasporti. A fine 2018 sono stati registrati 15 miliardi di dollari di investimenti (13,5 miliardi di euro), soprattutto nel settore dell’energia. Quest’ultimo ha rappresentato da solo il 63,1% degli investimenti cinesi in Turchia, serviti a finanziare soprattutto la costruzione di una centrale termoelettrica ad Adana e il gasdotto Tanap, tra il Mar Caspio e l’Europa. La partecipazione cinese nell’economia turca è favorita da un accordo di cambio di valute (swap) stipulato nel 2012 e rinnovato nel 2019, che ha consentito il trasferimento in Turchia, a metà anno, dell’equivalente in yuan di un miliardo di dollari, nonché l’ingresso sul mercato turco delle banche cinesi Icbc (che detiene il 75,5% delle azioni di Tekstil Bank) e Bank of China. L’afflusso di denaro cinese passa anche per lo sviluppo del turismo: il numero di visitatori cinesi è passato da 77 mila nel 2010 a 394 mila nel 2018 (decretato dalle autorità cinesi come l’“anno del turismo in Turchia”) e a 383 mila nei primi nove mesi del 2019. Una manna per la Turchia che esce da nove mesi di recessione, con una timida ripresa della crescita (+0,9%) nel terzo trimestre 2019, ma deve far fronte a elevati tassi di disoccupazione (14% ad agosto) e all’inflazione (10,56% a novembre). Il riavvicinamento economico con la Cina riflette anche la volontà di Ankara di riaffermarsi sul piano diplomatico. Volontà che si è già tradotta nell’acquisto di missili terra-aria russi S-400 e nell’offensiva dell’esercito turco nella regione curda siriana del Rojava, lanciata ad ottobre malgrado l’alleanza stipulata dalla Nato, di cui la Turchia è membro, con l’amministrazione curda per combattere i jihadisti dell’Isis.

L’istituto Seta, vicino al governo islamico-conservatore, non esita a menzionare nel suo rapporto sulla Cina un cambiamento di paradigma diplomatico: “L’atteggiamento unilaterale, capriccioso e autoritario degli Usa sta spingendo in modo irreversibile la Turchia e la Cina verso un nuovo sistema di alleanze”. La spiegazione non convince Altay Atli: “Il comportamento del governo turco non è dettato dall’ideologia – ritiene l’esperto -. Il mondo è cambiato, è interdipendente e la Turchia deve poter essere in grado di andare d’accordo e di fare affari con chiunque. Tutto il resto è politica interna”. Se delle correnti anti-occidentali ed “eurasiatiche” esistono nella cerchia del potere ad Ankara, con lo scopo di utilizzare Russia, Cina e Iran per fare pressione sugli alleati occidentali della Turchia, questi ultimi, secondo Selçuk Colakoglu, “non hanno capito le realtà e le priorità” di questi tre paesi che, su varie questioni, come la Siria e Cipro, sono in netta opposizione con il governo turco. Per quanto riguarda la Cina, queste divergenze sono la causa principale di ritardi nell’attuazione dei progetti di cooperazione. Gli esperti puntano il dito contro l’atteggiamento di Pechino che, per realizzare i progetti che finanzia, vuole imporre le proprie aziende, e che si oppone al trasferimento di tecnologie. Atteggiamento a cui Ankara, in un contesto di rapporti già impari tra i due paesi, rifiuta di cedere.

Nel 2018, la Turchia ha importato dalla Cina, secondo fornitore dopo la Russia, 20,72 miliardi di dollari (18,7 miliardi di euro), soprattutto di prodotti manufatti, contro appena 2,91 miliardi di dollari (2,6 miliardi di euro) di esportazioni, di materie prime in particolare (marmo, metalli, boro). Ma nelle relazioni divergenti tra i due paesi intervengono innanzi tutto fattori di ordine politico. La Turchia, che tradizionalmente protegge le popolazioni di origine turca d’Asia centrale e ospita una vasta comunità di esiliati uiguri, ha più volte denunciato, negli ultimi venti anni, i soprusi commessi dalle autorità cinesi contro gli uiguri musulmani e di lingua turca nell’ambito della sua campagna di “sinizzazione” della provincia dello Xinjiang. Erdogan si è spinto fino a accusare Pechino nel 2009 di “quasi-genocidio”.

La Cina ha a sua volta accusato la Turchia di sostenere il “terrorismo uiguro” e di favorire il trasferimento dei jihadisti uiguri in Siria, dove vengono addestrati al combattimento prima di un eventuale ritorno nello Xinjiang. Ma le critiche delle autorità turche verso Pechino si sono attutite molto, tanto che le rivelazioni, a metà novembre, del New York Times sui campi di concentramento uiguri nello Xinjiang non hanno sollevato alcuna reazione ufficiale da Ankara. “Queste rivelazioni hanno solo confermato ciò che si sapeva già: cioè che la Turchia non può più permettersi di criticare le violazioni dei diritti umani nei confronti dei suoi fratelli -, osserva Bayram Balci, direttore dall’Istituto francese di studi sull’Anatolia di Istanbul e specialista d’Asia centrale -. Isolata, in difficoltà economiche, la Turchia non ha altra scelta che tacere”.

(traduzione Luana De Micco)