Erano dove tutto scricchiola, nel regno del buio, dei fantasmi e delle cose che non si usano più. Quando a Pietroburgo nel 2017 Asya Melkumyan ha aperto la porta della soffitta della casa di Masha Ivashintsova, 17 anni dopo la sua morte, ha scoperto tre cose: 30mila negativi perfettamente conservati, un’Unione Sovietica sopravvissuta e meticolosamente custodita nella galassia onirica della fotografa, e molta polvere. Quella che, dice oggi, ha avuto misericordia del talento incompreso di sua madre e non ha corrotto le sue foto in bianco e nero. Nata nel 1942, figlia di aristocratici di Pietroburgo, i cui beni finirono requisiti dai bolscevichi dopo la rivoluzione, Masha Ivashintsova passò la sua prima infanzia sulle punte a passo di danza per volere della famiglia che l’avrebbe voluta ballerina. Finita in un istituto tecnico, divenne infine alunna di corsi di drammaturgia per trovare lavoro come critica d’arte. La tristezza che la perseguitò sempre come un’ombra nera la trascinò nella disoccupazione e poi nella povertà. Per dieci anni le porte delle cliniche psichiatriche sovietiche si aprono prima davanti ai suoi occhi e poi dietro le sue spalle. Tornò nei teatri che tanto amava, ma per fare la guardia di sicurezza o l’addetta al guardaroba.
Nelle fotografie ritrovate di Masha tutto è chiaro, ma anche indecifrabile, incastrato in un linguaggio ambiguo e contemporaneo, estraneo ai cittadini del suo tempo: i sovietici. Un mondo ormai scomparso è letteralmente emerso dal buio di una metaforica camera oscura, la soffitta dove Masha aveva nascosto la mastodontica mole di immagini, un’Atlantide sovietica intatta e inedita, a volte perfino irriconoscibile. Scatti rubati per strada, profili carnosi, visioni tortuose raccolte per caso, enigmatiche come le due bambine che guardano imbronciate chi le osserva e nessuno saprà mai quali sono i loro nomi. Chi sono quelle due ragazze col fazzoletto in testa? Chi sono gli uomini che passeggiano sulla Neva? Erano l’Urss, lo rimarranno sempre.
Nelle sue foto c’è il mondo comunista delle giostre a forma di razzo per futuri cosmonauti, l’universo color neve profondamente russo, nudo e travolgente, passeggeri distratti di un’epoca irripetibile. Ci sono i ritratti sovietici. Quelli che faceva a se stessa e agli altri. “Fotografava ovunque si trovava, mentre ci portava da qualche parte, poteva capitare che ci fermassimo per ore mentre scattava” dice oggi sua figlia Asya. Inquieta e peregrina, ossessiva nel registrare tutto, volubile ed eccessiva. Per descrivere sua madre mentre parla al telefono da Pietroburgo, Asya con suo marito Egor, usa una lista di aggettivi. Masha era tutto, ma non saggia: il genio raramente sa esserlo. “Era come una bambina”, prigioniera dello stupore delle meraviglie del mondo.
Come Vivian Maier, la babysitter più talentuosa d’America, è morta senza sapere chi era. Ha colto la felicità cauta del byt (tradotto: la vita quotidiana russa), imprigionandola con l’indice sulla sua Leica. Tra le mani non smise mai di stringerla con incosciente coraggio, nonostante il baratro più volte percepito sotto i suoi piedi. Un vuoto che non imparò mai a sorvolare. La tristezza che le impediva di vivere viene onorata dal titolo della sua prima mostra postuma organizzata a Tallin: “Chiaroscuro”, “per le stagioni della sua vita, prima chiare e poi scure”, perché il buio dalla vita di Masha non scomparì mai. Perché alternò momenti di luce e sorrisi allo specchio a ombre amare da cui finiva periodicamente risucchiata.
Quesiti suggestivi e oziosi spingono molti a chiedersi che cosa sarebbe successo se la fotografa avesse sviluppato le immagini mentre era in vita, o almeno, se le avesse mostrate a qualcuno. “Masha non ha creduto mai che valessero qualcosa, non le ha mai mostrate a nessuno, neanche sviluppate” dice oggi sua figlia. Una scelta che avrebbe privato dell’alone della sua scoperta in un tempo nuovo, il nostro, che viaggia alla velocità della luce e si espande nell’infinito emisfero virtuale. Dal giogo artistico dei soviet, da un manicomio all’altro, fino alla tomba. Ma dopo, infine, Instagram, dove ha migliaia di follower: Masha nell’universo virtuale è diventata una stella perduta e ritrovata. Il web è il luogo dove sua figlia Asya ha creduto di concederla al mondo, e il mondo, di ricambio, l’ha amata.
Dall’età di 18 anni ai suoi 58, quando il cancro le chiuse per sempre gli occhi nel 2000, l’unica cosa che non smise mai di fare fu scattare foto. Le sue immagini potevano sbiadire, scomparire o semplicemente andare perdute: invece sono arrivate fino a qui. Non si sa perché, ma si sa come. Masha, la ragazza con la Leica che ha tenuto nascosta la Russia comunista e poetica nel soppalco della sua casa pietroburghese per mezzo secolo, non fornisce definitive risposte ma solo altri interrogativi, lasciandoci chiedere in quante altre soffitte è ancora nascosto quel mondo che non esiste più: l’Unione sovietica.