L’Unione Sovietica nascosta negli scatti di una donna

Erano dove tutto scricchiola, nel regno del buio, dei fantasmi e delle cose che non si usano più. Quando a Pietroburgo nel 2017 Asya Melkumyan ha aperto la porta della soffitta della casa di Masha Ivashintsova, 17 anni dopo la sua morte, ha scoperto tre cose: 30mila negativi perfettamente conservati, un’Unione Sovietica sopravvissuta e meticolosamente custodita nella galassia onirica della fotografa, e molta polvere. Quella che, dice oggi, ha avuto misericordia del talento incompreso di sua madre e non ha corrotto le sue foto in bianco e nero. Nata nel 1942, figlia di aristocratici di Pietroburgo, i cui beni finirono requisiti dai bolscevichi dopo la rivoluzione, Masha Ivashintsova passò la sua prima infanzia sulle punte a passo di danza per volere della famiglia che l’avrebbe voluta ballerina. Finita in un istituto tecnico, divenne infine alunna di corsi di drammaturgia per trovare lavoro come critica d’arte. La tristezza che la perseguitò sempre come un’ombra nera la trascinò nella disoccupazione e poi nella povertà. Per dieci anni le porte delle cliniche psichiatriche sovietiche si aprono prima davanti ai suoi occhi e poi dietro le sue spalle. Tornò nei teatri che tanto amava, ma per fare la guardia di sicurezza o l’addetta al guardaroba.

Nelle fotografie ritrovate di Masha tutto è chiaro, ma anche indecifrabile, incastrato in un linguaggio ambiguo e contemporaneo, estraneo ai cittadini del suo tempo: i sovietici. Un mondo ormai scomparso è letteralmente emerso dal buio di una metaforica camera oscura, la soffitta dove Masha aveva nascosto la mastodontica mole di immagini, un’Atlantide sovietica intatta e inedita, a volte perfino irriconoscibile. Scatti rubati per strada, profili carnosi, visioni tortuose raccolte per caso, enigmatiche come le due bambine che guardano imbronciate chi le osserva e nessuno saprà mai quali sono i loro nomi. Chi sono quelle due ragazze col fazzoletto in testa? Chi sono gli uomini che passeggiano sulla Neva? Erano l’Urss, lo rimarranno sempre.

Nelle sue foto c’è il mondo comunista delle giostre a forma di razzo per futuri cosmonauti, l’universo color neve profondamente russo, nudo e travolgente, passeggeri distratti di un’epoca irripetibile. Ci sono i ritratti sovietici. Quelli che faceva a se stessa e agli altri. “Fotografava ovunque si trovava, mentre ci portava da qualche parte, poteva capitare che ci fermassimo per ore mentre scattava” dice oggi sua figlia Asya. Inquieta e peregrina, ossessiva nel registrare tutto, volubile ed eccessiva. Per descrivere sua madre mentre parla al telefono da Pietroburgo, Asya con suo marito Egor, usa una lista di aggettivi. Masha era tutto, ma non saggia: il genio raramente sa esserlo. “Era come una bambina”, prigioniera dello stupore delle meraviglie del mondo.

Come Vivian Maier, la babysitter più talentuosa d’America, è morta senza sapere chi era. Ha colto la felicità cauta del byt (tradotto: la vita quotidiana russa), imprigionandola con l’indice sulla sua Leica. Tra le mani non smise mai di stringerla con incosciente coraggio, nonostante il baratro più volte percepito sotto i suoi piedi. Un vuoto che non imparò mai a sorvolare. La tristezza che le impediva di vivere viene onorata dal titolo della sua prima mostra postuma organizzata a Tallin: “Chiaroscuro”, “per le stagioni della sua vita, prima chiare e poi scure”, perché il buio dalla vita di Masha non scomparì mai. Perché alternò momenti di luce e sorrisi allo specchio a ombre amare da cui finiva periodicamente risucchiata.

Quesiti suggestivi e oziosi spingono molti a chiedersi che cosa sarebbe successo se la fotografa avesse sviluppato le immagini mentre era in vita, o almeno, se le avesse mostrate a qualcuno. “Masha non ha creduto mai che valessero qualcosa, non le ha mai mostrate a nessuno, neanche sviluppate” dice oggi sua figlia. Una scelta che avrebbe privato dell’alone della sua scoperta in un tempo nuovo, il nostro, che viaggia alla velocità della luce e si espande nell’infinito emisfero virtuale. Dal giogo artistico dei soviet, da un manicomio all’altro, fino alla tomba. Ma dopo, infine, Instagram, dove ha migliaia di follower: Masha nell’universo virtuale è diventata una stella perduta e ritrovata. Il web è il luogo dove sua figlia Asya ha creduto di concederla al mondo, e il mondo, di ricambio, l’ha amata.

Dall’età di 18 anni ai suoi 58, quando il cancro le chiuse per sempre gli occhi nel 2000, l’unica cosa che non smise mai di fare fu scattare foto. Le sue immagini potevano sbiadire, scomparire o semplicemente andare perdute: invece sono arrivate fino a qui. Non si sa perché, ma si sa come. Masha, la ragazza con la Leica che ha tenuto nascosta la Russia comunista e poetica nel soppalco della sua casa pietroburghese per mezzo secolo, non fornisce definitive risposte ma solo altri interrogativi, lasciandoci chiedere in quante altre soffitte è ancora nascosto quel mondo che non esiste più: l’Unione sovietica.

The App: il film è così brutto che può diventare un cult

Elisa Fuksas, figlia dell’archistar Massimiliano Fuksas, ha diretto un film che si chiama The app prodotto da Indiana per Netflix. E questa è la parte positiva della recensione. Ora passiamo a quello che non va, cioè tutto. Tutto nel senso filosofico del “pan”. E se Dio è Tutto e in Tutto, non va bene manco Dio in questo film. Non va bene la trama, non va bene la realizzazione, non va bene la recitazione, non va bene la pellicola, non va bene la custodia della pellicola, non va bene neppure che i fratelli Lumière abbiano inventato il cinema senza prevedere che un giorno sarebbe arrivata Elisa Fuksas con The App come chi ha inventato l’energia atomica non ha previsto che un giorno sarebbe arrivato Truman con Hiroshima.

Per meglio comprendere la bruttezza travolgente di questo film, vi devo dare dei riferimenti perché non vorrei vi convinceste che sia una scialba questione di gusti. C’è un’oggettività spietata e onesta nella bruttezza di questo film che supera il giudizio di una donna sul proprio culo davanti allo specchio. Il riferimento cinematografico più o meno dichiarato della regista è Her, capolavoro di Spike Jonze. Quello inconscio della regista è The Lady, ciofeca cult di Lory Del Santo. E non scherzo. Prendete tutti gli elementi di The Lady – dialoghi surreali, scene inutili, il jet set stereotipato, le telefonate che dettano il ritmo della narrazione, le location inutilmente patinate, la recitazione oltraggiosa – aggiungete il tema app di incontri trattato con la profondità di una piscinetta di plastica, moltiplicate il budget per mille e avrete The app. La storia è più o meno questa (contiene spoiler ma tanto non arriverete mai alla fine del film da svegli, quindi il mio è servizio pubblico): lui è un attore che si innamora di un algoritmo tanto da trascurare lavoro e affetti, l’algoritmo a un certo punto gli dice “tanti cari saluti” e la app muore. Se vi sembra la trama di Her è perché è la trama di Her, mescolata a fanatismo religioso, maternità indesiderate, un paio di scene di sesso buttate lì per fare ciccia e l’autoflagellazione, che tu vedi la povera attrice sanguinante col cilicio e pensi che sia nulla rispetto alla punizione di recitare in questo film.

Poi sì, c’è la recitazione. Il mistero per cui il protagonista parli italiano, la sua fidanzata con un vago accento dell’est e il regista del film parli inglese è qualcosa che deve avere a che fare con un’idea del tipo: il tizio burbero che parla in inglese nel film è una nota esotica, dà respiro internazionale alla pellicola, è una di quelle robe per cui in Italia ci si stupisce ancora, tipo Cattelan a X Factor che chiede “How are you?” a Robbie Williams e tutti a twittare “Che gran professionista Cattelan!”. Ecco: che gran film The app! C’è Abel Ferrara che sbraita in inglese! Perché tra parentesi, il tizio esotico è davvero Abel Ferrara. Come in The Lady c’è il cameo di Maccio Capatonda, qui c’è Abel. Il dubbio che sia stato fatto recitare in inglese con gli altri che recitavano in italiano perché così non capisse una cippa della sceneggiatura, il dubbio che sul set fosse un po’ il bambino de La vita è bella in cui tutti gli facevano credere di essere in un ingranaggio meraviglioso è forte, ma non ne ho le prove. Ci sono invece le prove, ahimè, che The app sia stato scritto, approvato, prodotto e mandato in onda.

Come sia possibile non è chiaro, ma non è certo perché la Fuksas è figlia di cotanto padre. Lei supera di una spanna l’ingegno paterno. Il padre non sarebbe mai stato capace di architettare una struttura che non sta in piedi ma viene costruita lo stesso, con investitori, capo-cantiere, collaudatori che dicono “Bravo, bravissimo, avanti tutta!” pur sapendo che al taglio del nastro collasserà.

C’è del genio, in Elisa Fuksas. E sbaglia chi dice che The app è un po’ Black Mirror, perché Black Mirror è distopico. The app è dispotico. Lo guardi e vuoi che ritorni un despota, un regime qualunque, un Istituto Luce che applichi la censura sulla cinematografia mondiale. Vuoi Goebbels al posto di Franceschini. E pensi pure che sia necessario, perché vi giuro, basterebbe proiettare The app su un mega schermo, in una piazza qualunque, e le sardine si trasformerebbero in black bloc. Basterebbe specificare che la regista è la figlia di Fuksas per tornare alle rivolte operaie. Basterebbe specificare che è un film prodotto da chi produce anche Virzì o la Archibugi, per far sentire tutti metalmeccanici sfruttati. C’è un unico aspetto positivo in questa faccenda: The app è così inevitabilmente brutto che è destinato a diventare un cult. E un giorno, potete scommetterci, arriverà qualcuno che girerà un The Disaster Artist sulla storia di questo film. Anzi, un Disaster artist’s daughter. Sapremo così cosa pensava davvero il povero protagonista Vincenzo Crea quando recitava con un pitone gigante nel letto dell’hotel Parco dei Principi tentando di strozzarlo o Greta Scarano quando doveva caricarsi sulla schiena una croce di lampade led e tutto il set quando ad ogni scena drammatica doveva soffocare le risate nel collo della t-shirt. Perché una cosa è certa: la Nuvola di Massimiliano Fuksas non resisterà all’usura del tempo, mentre The app di Elisa Fuksas resterà lì per sempre. Capolavoro immortale come The Lady ed eterno monito come i reattori di Chernobyl.

Scoprire la grande Italia lungo i confini delle città

Finalmente ha smesso di piovere. Finalmente un sole freddo asciuga le pietre e innalza i nostri cuori. Questi giorni di confine – giorni in cui abbandoniamo senza rimpianti il cadavere del 2019, e ci apprestiamo a sorridere, con speranza ingenua quanto necessaria, al nuovo anno in fasce – sono dunque ideali per dedicare qualche ora alle pietre delle nostre antiche città. Non andate nei musei, però – per carità, tornate a ripararvici quando ricomincerà l’infinito monsone del nostro povero clima cambiato. Ma ora no, non andate a ingrossare gli “sbigliettamenti” festivi che il superdirettore analfabeta di turno sventolerà giulivo di fronte al non meno gonzo intervistatore di regime. No. Rompete la gabbia. E, come diceva quel profeta di civiltà che era Luigi Veronelli, andate a “camminare la città”, a “camminare la campagna”. Anzi: andate a cercare proprio i punti in cui l’una trascolora nell’altra. Quel magico limen, quella soglia dove la città inizia e smette d’esser tale, e dove si fonde, si sposa, si dissolve nella campagna.

Sappiatelo: avrete molte orribili sorprese. È proprio qua che alligna lo sprawl, la moltiplicazione disordinata del cemento: quartieri informi a bassissima densità che a volte mangiano l’intera campagna (come nel Veneto inghiottito dai capannoni), o costruiscono un muro invalicabile di squallore (come quello con cui abbiamo seppellito la dolce campagna romana, per esempio a Tor Vergata). Ma non tutto è perduto, e l’infinita bellezza dell’Italia resiste: e proprio in quella cesura sublime tra città e campagna, troppo spesso fattasi piaga, ancor oggi essa può brillare di un chiarore rigenerante.

L’ho reimparato ancora una volta misurando i pochissimi passi che permettono di salire, dal centro della mia Firenze, in un paesaggio senza paragoni. L’avevo fatto portandomi nello zaino un libro: da leggere una volta arrivato alla mèta, come un premio virtuoso. Ed è questa, davvero, la grandezza unica dell’Italia: non c’è, da noi, angolo così diseredato da non poterne trovare eco nelle voci che, lungo gli anni e i secoli, ci hanno preceduto. Così che ogni passeggiata è anche un dialogo, ogni gita è anche un colloquio con generazioni di donne e uomini ancora vivi nelle loro parole. E doppiamente vivi quando quelle parole siano lette, magari a voce alta in un gruppo di amici, nei luoghi che le ispirarono. Il libro che avevo scelto è uno dei più bei regali di questa stagione editoriale: il primo volume delle Immagini dell’Italia di Pavel Muratov (Adelphi). È il viaggio in Italia di un coltissimo russo, poi divenuto uno dei principali storici dell’arte russa, che arriva da noi nel 1907 e pubblica quindi le sue impressioni tra il 1911 e il 1912: un capolavoro che solo ora Adelphi sta pubblicando in italiano (saranno, alla fine, tre volumi).

Muratov legge Firenze come forse nessuno dei fiorentini di oggi saprebbe fare: il che, tra l’altro, ci rammenta quanto l’immagine dell’Italia, la nostra famosa (ormai famigerata) identità, debba allo sguardo e all’amore degli ‘stranieri’ che questa terra hanno amato quanto e più di noi, che una sorte senza merito ha voluto italiani.

Ebbene, scrive Muratov, “Ci trovavamo nella chiesa di San Niccolò a contemplare l’Assunzione di Alesso Baldovinetti. Quando uscimmo dalla chiesa, il sarcofago fiorito nell’affresco dell’ingenuo Alesso stava sprofondando nell’ombra. Ci ritrovammo in breve oltre le porte della città, ma anziché dirigerci verso San Miniato cominciammo a salire il monte a man destra, seguendo le mura merlate che s’inerpicano verso il pendio. Su un lato l’angusto sentiero era costeggiato da oliveti e in quell’umida serata l’argento del fogliame, asperso di pioggia tiepida, splendeva come un cristallo. Salivamo piano, respirando a pieni polmoni. Inspirando un profumo di ulivi, terra e umidore – il profumo penetrante dell’autunno fiorentino. Le tenebre scendevano quiete sopra di noi. Il giorno smoriva, dissolvendosi in un chiarore sommesso che ammantava ogni cosa: l’etereo nitore del cielo, l’argento degli oliveti, le pietre fradice delle antiche mura. Una sensazione di serafica trasparenza pervase la nostra anima con forza inaudita. … Si sentiva il palpito del cuore, si percepiva come l’amore per Firenze vi penetrasse, per non lasciarlo mai più. In quella tiepida e umida sera di autunno, ai margini della città, il mondo ci si mostrò più luminoso che mai. … L’alito rorido di una simile serata campestre è in grado di ristorare a lungo l’aridità di una troppo assidua confidenza, in musei e gallerie, con la ‘polvere dei secoli’. Firenze vive, e la sua anima non è soltanto nei quadri e nei palazzi, ma comunica con tutti in un idioma semplice, chiaro e familiare. Forse la costante prossimità della campagna è ciò che più piace al viaggiatore russo. … Qui ciò che è semplice non è mai stato volgare, né mai lo sarà”.

Più di 100 anni dopo, quei luoghi sono ancora come li aveva visti e sentiti Muratov: e mentre la volgarità ha inghiottito Firenze e la sua anima, lì, sul confine invisibile tra città e campagna, sentiamo che quell’idioma ci parla ancora, e che tutto questo amore potrebbe ancora avere un futuro. E, salendo lungo le strade percorse da Muratov, viene da rivolgere a ognuno di quegli olivi, a ciascuna di quelle pietre, l’invocazione in cui Vittorio Sereni parafrasava una preghiera della liturgia cattolica: “Ma dimmi una sola parola / e serena sarà l’anima mia”.

Dal piombo all’antipolitica: l’Italietta di Gelli e Andreotti

Dopo i fasti della politica, si fa per dire, l’ex parlamentare bersaniano Miguel Gotor è tornato a fare lo storico a tempo pieno e ci consegna un mostruoso lavoro di ricerca sul Novecento italiano che interseca il potere e la società lumeggiando con juicio e acume i buchi neri del nostro martoriato Paese. E così il trionfo odierno dell’antipolitica, consacrato dalle Politiche del 2018, in realtà parte dal ’94.
L’anno, cioè, in cui per convenzione poniamo l’inizio della fatidica Seconda Repubblica. Quella che invece, il bravo Gotor preferisce chiamare la “Repubblica dell’antipolitica”, in cui si distinguono dapprima il bipolarismo centrosinistra-centrodestra, indi le “larghe o medie intese” tra partiti rivali alle elezioni, compresa la coalizione giallorossa oggi in auge. Procedendo quindi nel catalogo puntiglioso di tutti i tipi dell’anti-Casta (lo storico non risparmia nessuno, dal cittadino strafottente e cinico o deluso a quello occhiuto, attivo e militante) Gotor rileva come è “cresciuta la tendenza a fare politica e a conquistare il potere mediante l’antipolitica. (…). Forse non a caso i protagonisti emersi negli ultimi venticinque anni di storia italiana, il cui avvento è stato accompagnato da notevoli ondate di consenso, hanno sempre interpretato una postura anti-establishment”.

Ovviamente è l’ex Cavaliere Silvio Berlusconi il patriarca che inizia questo lungo elenco che non esclude nessuno. Del resto il pluriottantenne B. è stato il primo campione del populismo di fine secolo nell’intero orbe terracqueo, anticipando di molto il riportone biondo di Donald Trump, icona contemporanea del sovranismo. Però, ed è qui la sorpresa, l’elenco comprende tutti i vari premier o leader comparsi sulla scena italiana. Anche nel campo del centrosinistra. “Prodi (si è presentato, ndr) come il ‘professore’ interprete di un indistinto ‘popolo delle primarie’, reso autorevole dal fatto di non appartenere ad alcun partito”. Vero. “Renzi come il giovane ‘sindaco’ e dinamico ‘rottamatore’ (…) allergico ai riti romani e alle lungaggini dei partiti tradizionali”. Verissimo.

Questa analisi di Gotor chiude una cavalcata narrativa che comincia più di cent’anni prima con la sconfitta dell’imperialismo crispino ad Adua, il primo marzo del 1896, umiliante sigillo alla guerra di Abissinia. Ossia il prologo dell’ultimo lavoro dell’ex parlamentare bersaniano, che insegna Storia moderna all’Università di Torino. I meriti dell’opera sono molti. E non solo per incasellare l’antipolitica corrente in un arco di tempo che non riguarda solo il boom grillino e lo straripamento del fascioleghismo salviniano. A dire il vero Gotor è un accademico che finalmente inserisce a pieno titolo nella storia d’Italia l’inclinazione autoctona a destabilizzare il potere. Di qui – dopo aver a lungo esaminato e raccontato le vicende giolittiane e quelle del fascismo – la funzione decisiva della strategia della tensione nella parabola politica di settant’anni di repubblica. Tentativi di colpi di Stato, dossier, bombe, stragi, attentati con il fondamentale contributo dello Stato antistato (Servizi e basta, non sempre deviati, coperti dal partito della Dc) che anziché proteggere i cittadini li uccideva sopra un treno (Bologna 1980) o mentre erano in banca (Milano, piazza Fontana, 1969). Da un lato la Costituzione formale, antifascista. Dall’altra quella materiale, rigorosamente anticomunista, che ha usato ogni mezzo, sotto la vigilanza anglo-americana, per tenere il Pci lontano dal governo.

Ergo nel gioco degli opposti estremismi, ai trastulli pericolosi e sanguinosi dell’intelligence nostrana, venne utile anche il terrorismo rosso, dalle Br fino al “Partito armato” che continuò ad ammazzare pure dopo la tragedia di Aldo Moro nel 1978 (di cui, peraltro, Gotor è uno dei massimi studiosi). “Oggi sappiamo che, tra il 1969 e il 1975, la stragrande maggioranza delle azioni violente ebbe origine a destra, nel variegato mondo neofascista: tra il 1969 e il 1973 addirittura il 95 per cento degli attentati. La violenza di sinistra, invece, subì una brusca impennata tra il 1976 e il 1977”.

Il culmine della strategia della tensione si ebbe appunto con il caso Moro e dopo iniziò il cosiddetto triennio andreottiano in cui prosperò la loggia P2 del venerabile massone Licio Gelli. E tra le tante anime nere della nostra storia quella di Andreotti resta sempre la più buia. Gotor riporta testimonianze giudiziarie in cui il presunto statista dc viene indicato come il vero capo della loggia gelliana, ma il punto vero e per certi paradossali è che la stagione dell’antipolitica, innestata su un atavico antiparlamentarismo (si vedano gli anni del consenso del regime di Mussolini) prese a germogliare proprio negli anni settanta. Paradossale ché furono anni di crescita economica, seppur minore ai Sessanta, ma che finirono nelle fogne dell’Antistato.

Politici, giornalisti, giudici. L’Oroscopo (semiserio)

Un poco di malcontento e una spiacevole sensazione di sopraffazione maschile coglie Lilli Gruber, Ariete. Il Punto di Paolo Pagliaro all’interno di Otto e Mezzo forse si ritaglia sempre più autonomia, Rete4 è sempre più aggressiva ma per Gruber vale il detto di Hölderlin: là dove è il pericolo cresce ciò che salva. Le donne hanno poco spazio a sinistra, anzi, non hanno nessun ruolo ma il trio Plutone, Saturno e Giove in Capricorno impone ai duri di scendere in campo. Altro che Giuseppi Conte leader futuro del Pd per come auspica Nicola Zingaretti, gli astri parlano chiaro: Lilli torna in politica, a primavera diventa segretario del partito e rais delle sardelle tutte. In estate direttamente capo della coalizione di centro-sinistra (in autunno, dopo l’ennesimo litigio tra Salvini e Di Maio, è premier del governo di salvezza europeista).

Venere protegge Marta CartabiaToro – fino a settembre alla guida della Corte Costituzionale ma già nella prima decade di febbraio, coi benefici effetti di Saturno in Capricorno avrà agio di effondere idee e far colpo vieppiù per arrivare all’atteso risultato: l’elezione a Capo dello Stato. A marzo, infatti, col passaggio in Acquario in Saturno potrà lavare ogni traccia di antica vicinanza a Comunione e Liberazione che è comunque il posto dove sono cresciuti gli andreottiani Vittorio Sbardella e Pietro Giubilo, non certo un Galante Garrone o un Norberto Bobbio, dopodiché – con Giove in transito – prima di dicembre, e dunque alle porte del 2021, con tutti i rami secchi tagliati, e il sostegno del Governo Gruber, è fatta.

Gemelli è Milena Gabanelli, giornalista, nonché autorità morale e riserva della Repubblica. Il 2020 è un anno cerniera per i Gemelli la cui unica meta è darsela a gambe e mollare quanto fatto fino ad adesso, e figurarsi quanto sia grande la voglia di Gabanelli costretta ad attardarsi ancora con la finestrella del Corriere della Sera – i servizi online – e poi i pochi minuti concessi da Enrico Mentana su La7. I transiti veloci dei pianeti lavoreranno per lei, tutto quanto fatto fino a oggi – per completare la sudatissima gavetta – avranno un esito. E anche l’imbarazzo della scelta. Le stelle indicano diverse opportunità: prendere il posto di Fabrizio Salini in Rai, come Ad; quello di capo politico del M5S, al posto di Luigi Di Maio; oppure direttore di IoDonna (col Corriere, va da sé, come supplemento). Pensava di doversela sbrogliare solo con Matteo Salvini e invece, Luigi Di MaioCancro – nel 2020 avrà contro Plutone, Saturno e Giove, inesorabili a sfruculiarlo nel suo punto debole: cercarsi un impiego stabile per averne indipendenza e un livello più interessante di quello attuale. Il 2020 per Di Maio non prevede viaggi all’estero, anzi, tutto sembra consumarsi tra Campania e Roma e perciò è facile intuire che lascerà la Farnesina ma la sua vera difficoltà è la ricerca del vero alleato, ancora più difficile del vero amore. Gli astri sono chiari. Luigi vive di nostalgia ma ogni giorno litiga di santa ragione con sappiamo tutti chi senza mettere mai da parte l’orgoglio giallo per ricominciare col verde.

Il presidente del Consiglio Giuseppe ConteLeone – come tutti quelli del suo segno ha poca voglia di stabilizzarsi in uno schema. Dopo un anno bellissimo con la Lega, con ancora sul groppone un anno allucinante con il Pd, capisce di avere esaurita tutta la pazienza concessagli da Padre Pio – fieramente meloniano – e per evitare l’ira del Santo se ne sta cercando di nuovi nel paradiso dei Poteri Forti. Un tentativo, questo, proprio velleitario. Per il tutto il 2020 i pianeti saranno lenti, nessuno si disporrà in angolazione diretta e quelle che fino a oggi sono stati fardelli, lungaggini e ritardi, diventeranno veri e propri segni del destino (cinico e baro). Neppure Guido Alpa, il professore, potrà essere di aiuto. Figurarsi Rocco Casalino.

Fortuna, successo e riscatto per la Vergine. Sarà così anche per la leghista Lucia Borgonzoni, attualmente in corsa per la presidenza della Regione Emilia-Romagna? Il profilo astrale del 2020 è tutto rose e fiori per i nati della Vergine ma il risultato in sé, quello di gennaio, sarà da mettere in conto al 2019 appena trascorso o al futuro? Gli astrologi non si avventurano in facili previsioni ma con Urano in Toro, Nettuno che arriva in Pesci ben poco potrà contrariare. Le sardelle, infatti, nulla possono. Plutone, Giove e Saturno offrono un quadro astrale come manco Fabrizio Masia, Giovanni Diamanti e la stessa Alessandra Ghisleri potrebbero mai divinare.

Il 2020 si mette tutto in discussione e Silvio BerlusconiBilancia – dà fondo ai desideri incompiuti. Sarà prioritario, per il segno, arrivare alla svolta tanto attesa. Chiude Forza Italia, Berlusconi, vende tutte le sue aziende e si dedica alla spensieratezza che lo contraddistingue, senza darsi pena dei litigi tra i suoi del cerchio magico, di Gianni Letta che lo invita alla cautela, di Mara Carfagna che se ne va per i lidi della presentabilità sociale e siccome Saturno in Acquario porta determinazione nessun transito dissonante potrà distoglierlo dalla sua decisione: godersi la vita. Chiama ancora una volta a sé Fedele Confalonieri e con lui al pianoforte se ne va a fare una nuova tournée nelle navi crociera. Con le stelle, in cielo, a fare girotondo.

Si lascia andare al futuro, Paolo GentiloniScorpione – e dunque torna al suo passato migliore, quello di militante di Democrazia Proletaria, altro che pesce nella broda liberal-laburista qual è stato fino a oggi. Con Urano in Toro non si darà ai tormenti strategici e si lascerà trascinare dai cambiamenti. Le referenze acquisite presso le élite non lo fermeranno, infatti, nel ruolo di Commissario signorsì in Europa ma troverà l’opportunità di un fragoroso colpo di scena. A costo di peccare di esibizionismo il suo ritorno alla falce e martello su globo internazionalista avrà uno sbocco strategico: l’alleanza con Vox Italia, la formazione politica che fa riferimento al filosofo Diego Fusaro.

Sempre costruttivo e produttivo il Sagittario e così Mara Carfagna – già esponente di Forza Italia, oggi co-leader in pectore di Italia Viva – nata sotto cotanto segno nel 2020 mette a disposizione dell’intero Occidente libero la sua intraprendenza e la sua freschezza. Accanto a lei si mobilitano i migliori ingegni della modernità, da Carlo Cottarelli a Stefano Parisi, da Riccardo Puglisi a Giggino a’ Purpetta, fino ad arrivare alla più avanzata delle analisi popolari, liberali e riformiste, siano essi renziani che le stesse sardelle con cui – dichiara a La Repubblica – ha molti punti in comune. Carfagna ha voluto rileggere ogni virgola e ogni parola di questo suo oroscopo, nel 2020 non ci saranno nuove elezioni, e così riuscirà restare. Costruttivamente e produttivamente.

Carriera, amore, famiglia, cristianità. Tutto concorre per il Capricorno e così con Plutone, Saturno e Giove ne proprio segno, Giorgia Meloni – leader di Fratelli d’Italia nata sotto il segno invernale – andrà dritta come un missile, anzi, come un Mas della onorata flottiglia. Tacita ed invisibile, come un sommergibile, dalle posizioni ultime del centrodestra Meloni raggiunge Forza Italia e la supera definitivamente e con la consapevolezza che nulla di negativo può accadere. Il 2020 sarà per Meloni un anno di compiaciuta solitudine, tornerà suoi propri passi quando il transito del trigono in Urano la farà scontrare con un misterioso Pesci, ostile a lei peggio che le sardelle tutte.

Beati loro, i nati sotto il segno dell’Acquario, sono empatici, affascinanti, travolgenti e seducenti. Autentici e dinamici. E così è lei, solo lei, sempre lei: Maria Elena Boschi. Un 2020 proprio inaspettato per lei. Un ulteriore ruolo nella scena politica – questa volta internazionale – se le stelle disegnano sul suo profilo astrale una coincidenza di segni che nella storia hanno avuto soltanto l’Iskander, ovvero Alessandro il Macedone, e poi Mariano Rumor e Giovanni Malagodi. Non sarà impegnata nel conflitto contro Gog e Magog come il figlio di Giove Ammone ma se ne uscirà da Italia Viva, a marzo sarà chiamata da Emmanuel Macron per sostituire Sandro Gozi e rientrerà nel Pd per fare da vice a Lilli Gruber.

Ti ricordi quella strada – via Bellerio – “eravamo io e te”. Così gli sussurra con voce roca, Umberto Bossi. “E la gente che correva, e gridava insieme a noi”: Padania libera! Tutto quello che voglio, pensavo – dice a se stesso Matteo Salvini, nato sotto il segno dei Pesci – è solamente amore. E poi dice che l’astrologia non è sovranista. Nel 2020 non c’è neppure un transito contro per Gemelli. Il segno ha solo e soltanto sostegni: Nettuno in Pesci, quindi Plutone, Giove e Saturno in Capricorno e Urano in Toro. Manca soltanto il ritorno di Luigi Di Maio nella sua curvatura astrale e così Salvini potrebbe anche finirla con le sue manie e le polemiche e cantare, infine: “Ed è unità per noi, che meritiamo un’altra vita”.

“Il Pd in Emilia non perderà Ma se succede, salta il governo”

Si è chiuso l’anno più pazzo della nostra storia recente. E quello che verrà? L’oroscopo della politica comincia a essere impegnativo già dai primi vagiti del 2020. Abbiamo chiesto lumi ad uno degli osservatori più attenti (e sinceri) delle vicende italiane, Massimo Cacciari.

Professore, nel 2019 è accaduto l’impensabile: l’avvicendamento di due governi di segno opposto guidati dallo stesso premier.

Non era poi così imprevedibile: nell’assenza di un qualunque nucleo politico organizzato con gruppi dirigenti definiti e strategie di medio periodo era anche immaginabile che ci si trovasse nella necessità di improvvisare governi privi di sostanza politica, dettati dall’emergenza. Una situazione che perdura da diversi anni, a dire il vero. Navighiamo a vista, o forse semplicemente ci limitiamo a galleggiare.

Prima abbiamo visto governi tecnici e governi di intese più o meno larghe. Che differenza c’è?

Le larghe intese avvenivano all’interno di schieramenti che avevano qualche tradizione in comune. Nessuno si sarebbe aspettato di vedere governi tra forze culturalmente del tutto divergenti, penso a Lega e 5Stelle, e forze che magari avevano possibili terreni di dialogo, ma mai coltivati, come Pd e 5 Stelle. C’è stato un salto nell’emergenza: siamo passati da un’emergenza, per così dire, fisiologica, ad un’emergenza patologica, con alcuni tratti di follia.

L’alleanza giallorosa terrà?

Il governo è così fragile che può cadere su qualunque buccia di banana. Se 5 Stelle e Pd, a cavallo delle ultime elezioni, avessero fatto uno sforzo per misurare divergenze e convergenze forse l’attuale alleanza potrebbe dare più garanzie. In realtà questo governo nasce dalla dannata paura dei 5 Stelle di andare alle elezioni e dalla vocazione ministeriale del gruppo dirigente democratico, perfettamente consapevole – Zingaretti in testa – di non saper più fare l’opposizione e nemmeno le campagne elettorali.

Si è appena dimesso Lorenzo Fioramonti.

E chi è?

Il ministro all’Istruzione: aveva chiesto che fossero stanziati 3 miliardi su scuola, università e ricerca nella manovra. Così non è stato.

Ma hanno fatto benissimo a non metterli!

Perché?

Sono materie in cui competenza e strategia, se si vogliono utilizzare bene i fondi, sono indispensabili. Non si può andare a caso. Il punto è come sono organizzate le nostre istituzioni formative, ormai ridotte peggio che nella vecchia Unione sovietica: centralismo totale, incapacità di competizione tra atenei, tutto omologato… Prima pensino a come ristrutturare scuola e ricerca, dalle elementari ai dottorati, poi a mettere i soldi.

Il 12 gennaio si congela l’entrata in vigore della riforma del taglio dei parlamentari, con l’eventuale referendum. Che effetto avrà sul governo?

Le riforme istituzionali non si fanno tagliando qualche parlamentare e qualche vitalizio. Occorre un riassetto del sistema, nella sua interezza, una revisione complessiva dei rapporti tra organi e livelli dello Stato. Questione centrale è poi la semplificazione, taglio dei mille nodi burocratico-amministrativi che soffocano il Paese. Una politica industriale assente da trent’anni, vedi Alitalia, Ilva, ecc.

Il grande appuntamento saranno le elezioni in Emilia. Se il Pd non dovesse farcela, il governo reggerà?

Non credo: il colpo a livello d’immagine sarebbe troppo forte. Ma non perderanno.

Perché il governatore uscente si presenta con una buona esperienza di governo?

Sì. E poi perché l’Emilia Romagna è conservatrice, perché dall’altra parte c’è l’impresentabile e perché sono nate le sardine.

Ecco: ne nascerà qualcosa di più propositivo?

Dovranno decidersi. Certo non possono continuare a portare in piazza migliaia di persone senza dire nulla. Stanno dicendo: governate bene, parlate bene, comportatevi bene, vogliatevi bene. E poi Bella ciao e siamo antifascisti. Mi pare poco più del vuoto; anche se antifascista, poca cosa. Arriveranno presto a un trivio: o provare a contare qualcosa nel Pd, o mettersi in proprio, o fare la fine dei vari girotondi del passato. Per il momento bene che ci siano.

Le inchieste sui due Mattei che effetto avranno?

La politica non si cambia per via giudiziaria. Mani Pulite è l’esempio perfetto. C’è poi un fatto: poco importa la corruzione di uno o dell’atro, quel che rileva è che il Paese è rotto e funziona sempre peggio. La corruzione che conta, Machiavelli docet, è quella sistemica: se in un Paese che funziona bene c’è qualche ladro poco importa. Renzi con grande fiuto politico si è reso conto che dopo l’esperienza veltroniana il gruppo dirigente era sfasciato e il partito era facilmente scalabile. Ha gestito malissimo la sua conquista. L’errore clamoroso è stato fare il Patto del Nazareno per poi sfasciarlo sull’altare di Mattarella: il suicidio suo e di Berlusconi.

E Salvini?

Lui ha praticamente tutte le regioni del Nord: vuol dire che è strutturalmente forte, non è opinione, è potere. I 5 Stelle sono pura opinione, se perdono spariscono. Stessa sorte o quasi per il Pd se fallisse in Emilia. La Lega invece è un sistema di potere reale. È vero però che tutti i potentati regionali – Zaia, Fontana e gli altri – sono insoddisfatti di come il capo ha gestito la crisi: si aspettavano risultati concreti sull’autonomia.

Si parla di leadership alternative, Zaia per esempio.

Se questi arconti locali mettono fuori il naso, fanno la fine di Tosi. Devono attendere che la spinta di Salvini si esaurisca.

Conte?

È stato ed è l’uomo ideale per gestire questa situazione. È l’alchimista che riesce a combinare le sostanze più disparate. Non le trasforma in oro, ma le mette insieme in qualche modo. Prontissimo a indossare ogni vestito. Senza di lui questo governo, ma anche il precedente, non esisterebbe.

Voci sul Colle: urne inopportune prima del referendum sul taglia-parlamentari

Al Quirinale le continue fibrillazioni politiche impensieriscono il giusto. E così c’è chi tra consiglieri e funzionari ha descritto al capo dello Stato tutte le ipotesi di scuola sull’incrocio fatidico del prossimo anno tra referendum confermativo sul taglio dei parlamentari ed eventuali elezioni anticipate.

In pratica, cosa succederà se le urne politiche dovessero arrivare prima del completamento della riforma?

Le nuove norme votate in quarta e ultima lettura alla Camera ad ottobre, entreranno in vigore a breve, ma solo se entro il 12 gennaio prossimo non verrà formalizzata in Cassazione la richiesta di referendum confermativo della riforma. Se invece sarà così (a Palazzo Madama un quinto degli eletti, ossia 64 senatori parrebbero intenzionati a chiedere la consultazione popolare come previsto dalla Costituzione) lo scioglimento anticipato delle Camere metterebbe in discussione il valore più prezioso per l’istituzione repubblicana: la nomina del nuovo inquilino del Quirinale. È questo probabilmente il dato che più preoccupa il Colle. La scelta del presidente della Repubblica nel 2022 da parte di un organo diverso (un Parlamento ancora composto da 945 membri) da quello disciplinato dalle norme che saranno vigenti al momento della sua elezione infatti “getterebbe un’ombra sulla stessa rappresentatività del nuovo Capo dello Stato”, secondo un studio fatto pervenire a Mattarella.

E così si fa sapere che “sembrerebbe opportuno” (ove proprio si dovesse andare a votare prima della conclusione naturale della legislatura nel 2023), che lo scioglimento delle Camere “avesse luogo dopo la piena operatività delle nuove norme, quindi, a partire dal prossimo autunno”. Ma se invece la situazione dovesse precipitare? La possibilità di una crisi di governo mentre è ancora in corso il processo referendario, è presa certamente in considerazione.

Ma non si scarta affatto l’ipotesi che la necessità di salvaguardare il processo di riforma costituzionale (dopo il via libera del Parlamento e in attesa che i cittadini si esprimano), potrebbe convincere Sergio Mattarella a ricorrere allo strumento del “governo di tutela istituzionale”. Con l’obiettivo di consentire il regolare svolgimento della campagna referendaria e l’entrata in vigore della riforma. Un “governo di tecnici d’area” che a quel punto rimarrebbe in carica quanto meno fino all’estate”. Anche se non viene affatto escluso che, divenuto operativo il taglio dei parlamentari, si verifichino “le condizioni che rendano nuovamente possibile un governo politico”. Tradotto: a quel punto, di fronte alla prospettiva di tornare alle urne per eleggere un Parlamento in cui ci sarà posto per un numero di eletti inferiore di un terzo rispetto a quello attuale, le forze politiche potrebbero convincersi ad andare avanti comunque per i due anni che restano.

Dal punto di vista del Colle, invece, la questione del referendum promosso dal Carroccio sul quale la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi entro il 10 febbraio, ha molte meno implicazioni. Perché il quesito ha una disciplina diversa trattandosi di referendum abrogativo.

Migranti, sbarchi e rimpatri: ha fatto meglio la Lamorgese

Sorpresa: Matteo Salvini critica l’arrivo dei migranti. Stavolta l’input è il via libera allo sbarco della Alan Kurdi a Pozzallo, che aveva a bordo 32 persone soccorse nel Mediterraneo la notte di Natale. La decisione di assegnare il porto sicuro è arrivata sabato dal Viminale, a bordo c’erano dieci minori, alcuni in tenera età, e cinque donne, di cui una incinta. Tutti di nazionalità libica. “Altri sbarchi, altri soldi… Governo complice, non vedo l’ora di andare a processo per difendere l’onore del mio Paese” ha detto il leader della Lega, ex titolare del ministero dell’Interno, sostenendo ancora che da settembre, con il governo Conte 2 e il ministero guidato da Lamorgese, gli sbarchi sono aumentati. Il punto di vista è sbagliato perché ragionare su poco meno di 12 mila sbarchi in un anno e farlo come se i flussi dei migranti fossero scanditi dalla stessa regolarità delle stagioni, è poco attendibile. A ogni modo, questi i dati ufficiali al 27 dicembre: nel 2019 sono sbarcate poco meno di 11.450 persone, a dicembre circa 560, effettivamente in aumento da settembre (2.500, 2.000 e 1.200 tra settembre e novembre mentre erano tra i mille e i 1.200 tra giugno e agosto, poche centinaia nei primi mesi). Ma di cosa parliamo?

Di poche migliaia di persone e nessuna emergenza, almeno per ora. Basta infatti allargare lo sguardo a una prospettiva annuale per riportare il fenomeno alle sue reali dimensioni e verificare che se a fine dicembre 2018 gli sbarchi erano stati 21 mila, nel 2017 e nel 2016, rispettivamente ce n’erano stati 118mila e 181mila. Non è neanche semplice attribuire univocamente il merito del calo degli sbarchi a qualche politico o a qualche porto chiuso. Assodato, infatti, che l’impatto più rilevante l’hanno avuto i pur discussi accordi negoziati nel 2017 da Marco Minniti con le autorità di Tripoli e dintorni, secondo gli ultimi dati dell’Unhcr tra il mese di gennaio e la seconda metà di dicembre, dall’Africa sono partite 123mila persone, meno delle 141mila del 2018, e nel contesto di questo progressivo, seppur lento, calo la Grecia ha accolto oltre 73mila stranieri mentre 31mila hanno raggiunto la Spagna. Gli sbarchi, poi, sono chiaramente legati alle cause che li determinano come, ad esempio, l’escalation del conflitto in Libia delle ultime settimane che determina l’aumento delle imbarcazioni (finora soprattutto ‘barchini’ con poche persone a bordo e organizzati autonomente).

Altri numeri per i rimpatri e i ricollocamenti. Nel primo caso, i forzati sono aumentati. Al 23 dicembre erano 6.986, il 4,4 % in più rispetto ai 6.820 del 2018, di cui 2.300 da settembre (657 in media al mese contro i 574 dei primi otto mesi). Certo, sono dati che riguardano migranti in Italia da anni e di poco più dell’1 per cento degli irregolari che, oltretutto, sono in aumento per l’abolizione della protezione umanitaria (decreto Salvini 1) e la stretta sull’asilo (iniziata con Minniti) a cui si aggiunge l’esclusione di almeno 30 mila su 100 mila richiedenti asilo dal sistema dell’accoglienza, per la quale pochi giorni fa il Tar del Veneto ha stabilito la non retroattività del Decreto sicurezza a chi si è già visto riconoscere il diritto ad accedere al sistema.

Aumentano anche i ricollocamenti nei Paesi Ue, passati dagli 11 al mese sotto il ministero di Salvini ai 98 al mese da quando si è insediata la Lamorgese. Qualcosa insomma si è mosso: secondo l’accordo di Malta dovrebbero essere ricollocati entro quattro mesi dallo sbarco, i tempi sono molto più lunghi. Ma non è una gara. Meglio tenerlo a mente, soprattutto nella prospettiva di un progressivo aumento delle tensioni in Libia.

Sempre più Salvini in talk e tg: padrone anche a novembre

Il pluralismo nell’èra della personalizzazione ossessiva della politica non può limitarsi a fotografare riguardare l’equilibrio tra le forze politiche. Che non esistono quasi più, distrutte dalla disintermediazione dei nuovi media e dal direttismo dei leader. Se le regole del pluralismo oggi vanno piuttosto tarate sul protagonismo dei singoli più che sui soggetti collettivi, come sembrerebbe logico alla luce delle trasformazioni della comunicazione politica, allora c’è un problema molto grande per la democrazia. Non a Houston ma a Roma. Un problema che impone la ridefinizione del concetto stesso di par condicio.

Esposizione abnorme e ingiustificata

La premessa è importante proprio nel sottolineare l’anomalia che ancora una volta, pur con numeri leggermente inferiori a quelli precedenti, vede sempre lui, Salvini, esercitare una primazia assoluta sulle televisioni nazionali grazie ad un’esposizione abnorme. E grazie anche alla incomprensibile e subalterna complicità di quasi tutto il giornalismo tv.

Egli infatti colleziona con le sue dichiarazioni uno spazio del tutto ingiustificato dalle possibili esigenze delle testate (coprire l’attualità) proprio perché oramai succede da tanto, troppo tempo. Così accade che per il mese di novembre, secondo i dati diffusi dall’Agcom, rimanendo alle sette principali reti generaliste (le tre della Rai, le tre Mediaset più La7), egli incameri oltre 10 ore di parlato, staccando di gran lunga gli altri soggetti politici e istituzionali. Il pur molto presente Di Maio, infatti, ottiene “solo” 6 ore e 6 minuti, il capo del governo Conte 5 ore e 46 minuti (soprattutto nei telegiornali), la sorprendente Meloni 4 ore e 3 minuti, il redivivo Renzi 3 ore e 33. E una volta tanto la maglia nera del tempo di parola tocca a Berlusconi (1 ora e 28 minuti, di cui la quasi totalità realizzata sulle sue reti), mentre Nicola Zingaretti, tra tiggì e programmi in onda in voce, forse anche per colpa sua, totalizza poco più di 2 ore.

Da luglio al mese scorso: 111 ore e 21 minuti

Ora pure nel mese di ottobre il leader della Lega si era preso la parte del leone con 15 ore e 17’ di parlato nei tiggì e nei talk: il 50% in più del premier e il triplo di Di Maio, e così era successo ad agosto, a luglio e via retrocedendo. Da luglio a novembre lo score del parlato di Salvini è di 111 ore e 21 minuti (realizzato solo sulle sette principali reti); il premier, che è l’unico a non stargli a una distanza siderale, si ferma a poco più di 96 ore, Di Maio è a 43, Zingaretti a 31. Se questo non è un problema, grande, di pluralismo, allora vorremmo sapere di cosa si tratta. In tutto questo resta da rimarcare come siano Rete4 e La7 i canali che più di altri porgono i loro microfoni all’ex comunista-padano: su queste due reti ottiene oltre il 70% del tempo di parola totalizzato nel mese di novembre.

Trionfo assoluto su Retequattro

Sempre su Rete4 Forza Italia è in assoluto il soggetto politico-istituzionale prevalente (conflitto d’interessi, do you remember?), mentre al tg de La7 spetta il singolare record di riuscire ad oscurare il presidente Mattarella. Insomma sembra che ci sia un’attrazione malata tra il populismo di Salvini, e non solo, e una buona fetta dell’informazione nazionale: c’è un sistema intossicato dalla politica ma che ha rinunciato da tempo (salvo le eccezioni, che ci sono) al suo ruolo. Basta osservare ciò che succede nei talk: gli applausi a comando, le domande e gli ospiti spesso concordati, a volte anche le inquadrature e le riprese, i politici, sempre gli stessi, chiamati non in base ai loro ragionamenti ma se fanno audience (con quali mezzi, poi, magari con l’insulto, interessa meno).

Slogan sempre uguali

ancora, quello che succede nei telegiornali dove il politico gode della libertà anche di insolentire o di mentire, senza il minimo contraddittorio, mentre gli esponenti chiamati a dichiarare lo fanno con frasi e slogan sempre uguali, e tutti zitti a reggere il microfono senza mai una domanda. Meglio se la dichiarazione è su FB: del resto si fa anche meno fatica (a reggere il microfono).

Ma mi faccia il piacere

Bei tempi. “Adesso è assolutamente necessario che il Parlamento approvi una legge che interrompa il decorso della prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, anche se sarebbe meglio che ciò avvenisse dopo il rinvio a giudizio” (Armando Spataro, allora procuratore capo a Torino, Repubblica, 14.2.2016). Domanda: “L’ex procuratore di Torino Armando Spataro apprezza solo l’intento della legge Bonafede. Perché?”. Risposta: “L’intento è arrivare a concludere il processo. Ma prevedere un tempo infinito non va bene e urta contro il principio della sua ragionevole durata. Né la condanna di primo grado equivale a una sentenza definitiva” (Armando Spataro, Corriere della sera, 29.12.2016). Ora che i 5Stelle lo accontentano, lui s’incazza.

La vera sinistra. “Conte non è punto di riferimento dei progressisti” (Maria Elena Boschi, Corriere della sera, 29.12). Mica è Verdini.

Programmi di evasione. “Dio mi darà la forza per uscire da qui e non mollare mai” (Roberto Rosso, assessore regionale FdI del Piemonte, arrestato per voto di scambio con la ’ndrangheta, Repubblica-Torino, 29.12). La classica torta con dentro il seghetto?

Dàgli al drogato. “Travolte a 16 anni. Autista drogato” (Repubblica, 24.12). “I tossici al volante uccidono e lo Stato liberalizza la droga” (Libero, 27.12). “Arrestato l’investitore di Gaia e Camilla. Salta l’aggravante della droga” (Repubblica, 27.12). Ma va? E chi gli avrà mai dato del drogato? Ah saperlo.

Chi risarcisce chi. “Concessioni, Autostrade: pronti a risolvere il contratto e a chiedere tutti i danni” (Il Messaggero, 23.12). Sì, ai 43 morti sotto il Ponte Morandi.

Fate la carità. “Formigoni torna in video. E i suoi implorano la grazia: ‘Non si cancellano 18 anni di buongoverno’” (il Giornale, 24.12). Sei milioni di mazzette invece sì.

I valori della famiglia. “Sala: ‘La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione’. La lettera del sindaco di Milano: riflessione sul rapporto con la religione” (Repubblica, 24.12). Gentile Sala, un consiglio da un umile peccatore: pazienza un matrimonio, magari due, ma tre! Come diceva Corrado Guzzanti, nei panni di Rutelli: “A Berlusco’, qua dai dati risulta che c’avete tutti quattro mogli e dodici amanti: er Santo Padre s’incazza, ‘o sai? Ahò: una famija, no quattro!”.

26 anni buttati. “Lascio Forza Italia, se ne vanno 26 anni di vita” (Micaela Biancofiore, deputata FI, 26.12). Complimenti per i riflessi.

Mangino brioche. “Il reddito di cittadinanza? Uno spreco colossale!” (Deborah Bergamini, ex segretaria di B., ex deputata FI, ex dirigente Rai, ora vicedirettrice de Il Riformista, 19.12). Le auguriamo di tutti cuore di averne presto bisogno.

Dal Vangelo secondo Betulla/1. “Saviano posta la Madonna che partorisce Gesù. Il campione dei progressisti in crisi di ispirazione riscrive il Vangelo” (Renato Farina, Libero, 27.12). Infatti Gesù lo portò la cicogna direttamente nel presepe.

Dal Vangelo secondo Betulla/2. “Dogma della verginità. La Madonna partorì misteriosamente senza dolori. Questo ci dice la tradizione. E si lega alla certezza della sua verginità prima e dopo il parto” (ibidem). Purtroppo il dogma della verginità della Madonna se l’è inventato Farina: forse lo confonde con quello dell’Immacolata concezione, che però riguarda Maria concepita senza peccato originale.

Ammazza quanto rosichi. “La Francia ha dimenticato la sua anima. Sulle pensioni solo grida, insulti e rabbia. I sindacati si sono opposti alla riforma di Macron prima di conoscerla” (Bernard-Henri Lévy, La Stampa, 20.12). Sono pazzi questi francesi: anziché dar retta Lévy, si rifiutano di farsi rapinare la pensione pur di dare addosso a Macron.

Truffe da sbarco. “La Chirico in missione a Mosca. ‘Putin non è un barbaro, aiutiamolo’. La giornalista ha assistito al discorso di Putin. Poi gli incontri con gli esponenti della Duma” (Libero, 23.12). Ormai questa crede di fare capoluogo.

Il titolo della settimana/1. “I motivi dei cambi di partito sono diversi, non tutti negativi” (Livio Caputo, il Giornale, 20.12). Dipende da quale lasci e in quale vai.

Il titolo della settimana/2. “Studio europeo: l’Italia ha il record di giornalisti di sinistra. Elettori moderati, analisti schierati: nessuno come noi” (il Giornale, 23.12). Uahahahahahahahah.

Il titolo della settimana/3. “Il maggiordomo scagiona il Cav: non ha mai pagato per far sesso” (Libero, 24.12). Il processo Ruby ter come il Cluedo: è stato il maggiordomo.