È un Natale tutto Ficarra, Picone e Pinocchio (inseguendo il Re Leone)

È tempo di bilanci anche al cinema, specie alla vigilia dello tsunami Checco Tolo Tolo Zalone che, salvo eclatanti sorprese, governerà incontrastato la classifica del 2020. Ma anche senza il fuoriclasse degli incassi, il botteghino del 2019 può abbozzare un sorriso, che diventa una risata se paragonato a quello magrissimo del 2018, il peggiore degli ultimi dieci anni. Dati Cinetel (aggiornati alla notte del 27/12) alla mano, il totale della Top 10 dell’anno in chiusura registra 187.866.511 euro ottenuti grazie a 28.108.648 biglietti staccati. Rispetto ai 131,6 milioni per 19,4 milioni di presenze del 2018, l’andamento è in considerevole crescita, anche al netto di un fattore: i dati segnalati sullo scorso anno erano datati a inizio 2019, a quelli dell’annata in corso mancano 4 preziosissimi giorni (da oggi al 31 incluso), che potrebbero sortire alcuni doni natalizi last minute, come Il primo Natale di Ficarra & Picone uscito il 12/12, che – mentre scriviamo – sta superando la soglia dei 10 milioni di euro: questo consentirebbe al duo palermitano di portare l’unico titolo tricolore nella Top 10 2019, ma anche il primo italiano da tre anni a valicare i 9 milioni. Come connazionale ad incalzarlo c’è solo il Pinocchio di Garrone (circa 7,5 milioni) mentre fra i “generici” natalizi non può mancare la Forza dell’ultimo Star Wars che i 9 milioni li ha appena oltrepassati. Ma i conti vanno fatti hic et nunc, e dunque la Top 10 2019 a oggi rileva quanto segue.

A far da sovrano è un vero re, che nella foresta chiamata box office non ha avuto rivali: con 37.506.094 di euro e 5.691.863 presenze Il re leone (The Lion King, live action ispirato al celeberrimo cartone) è il miglior incasso dell’anno solare, praticamente insuperato nelle varie settimane da quel 21/8 che lo vide esordire nelle sale. Seconda posizione per il capitolo finale degli Avengers (Endgame) con 30.282.559 di euro e 4.098.421 biglietti staccati, a conferma che la saga Marvel continua a essere la preferita dal pubblico (il precedente episodio, Infinity War, arrivò secondo anche nel 2018). Al terzo posto, invece, la grande sorpresa dell’anno, ovvero Joker di Todd Phillips, capace di intercettare 4.188.253 spettatori per un totale di 29.331.125 di euro. Il film d’animazione Frozen II – Il segreto di Arendelle e il live action Alladin firmato da Guy Ritchie, che l’ha basato sull’omonimo cartoon, sono rispettivamente quarto ( 17.225.630 per 2.673.298 presenze) e quinto ( 15.440.188 e 2.411.786 biglietti staccati). Un altro sequel figura al sesto posto, Maleficient – Signora del male che si assesta a 12.364.686 di euro con 1.871.455 ingressi. La settima posizione è occupata dall’unico “film d’autore” dei Top 10: Quentin Tarantino fa incassare al suo C’era una volta a… Hollywood 11.883.478 di euro equivalenti a 1.715.489 presenze; lo seguono all’ottavo Spider-Man: Far From Home ( 11.768.785 e 1.768.717 biglietti staccati), al nono Dumbo ( 11.212.272 per 2.004.882 presenze) e al decimo Ralph Spacca Internet ( 10.851.694 con 1.684.484 ingressi). L’identità delle opere (finora) più ricche del 2019 incorona l’en plein degli Usa come Paese di provenienza della Top 10 con solo due Major in classifica (Disney e Warner Bros) dove però la casa di Topolino lascia solo “briciole” ai Bros, siglando ben 7 dei 10 titoli, fra cui i primi due. Il dato non è una novità – la Disney ha sempre avuto la parte del leone, e quest’anno anche letteralmente – per questo, forse, il 2019 può essere ricordato l’anno di un outsider di nome e di fatto come Joker (Warner Bros), esattamente come il 2018 fu quello di re Freddie Mercury, laddove Bohemian Rhapsody sorprese tutti come miglior incasso assoluto, con oltre 21 milioni di euro.

Lolita, il “fattore decisivo” non soltanto per Kubrick

Una vita lunga un film. Uno solo, che per un’attrice non è il massimo. Il successo a soli quattordici anni, il ritiro a soli trentaquattro e la solitudine forse racconta davvero chi fosse Sue Lyon, l’indimenticabile e però dimenticata Lolita di Stanley Kubrick, morta a settantatré anni dopo lunga e non meglio precisata malattia. Nata ultima di cinque figli, cinque sono anche i matrimoni, non molti di più i titoli, eppure, riuscì a essere unica, a farsi preferire tra oltre ottocento candidate per incarnare, a giudizio insindacabile dello scrittore Vladimir Nabokov, la “perfetta ninfetta”. Nomen omen, “sue”, l’abbiamo citata in giudizio nelle nostre inconfessabili fantasie, nell’immaginario collettivo pruriginoso, sebbene l’adattamento kubrickiano dovette emendarsi dalle pagine più sensibili e sensuali di Nabokov, che rimase nei credits quale sceneggiatore, guadagnandosi anche una nomination agli Oscar, ma poco più che nominalmente.

Fece Kubrick, e ancor più poté la censura, segnatamente il Motion Picture Production Code, sicché Dolores Haze detta Lolita prese tre anni, dai dodici cartacei a quindici, sul grande schermo e lasciò all’eccentrico professore Humbert Humbert, interpretato alla grande da James Mason, la sola gioia proibita di farle una pedicure. Nel cast Shelley Winters, la madre affamata di sesso di Lolita che Humbert finirà per sposare, e Peter Sellers, un pedofilo con cui lo stesso Humbert entrerà in competizione, il film non eguagliò né la trasgressione né il valore del libro, ma elevò a potenza conturbante e immaginifica Sue Lyon nel momento stesso in cui la scopriamo in scena, distesa in giardino ad ascoltare musica, un cappellaccio e gli occhiali a dissimularne il fascino, un solo sguardo per rapire il professore di liceo e noi con lui. Una scena che, come tutto il film, Sue non vedrà all’anteprima: il divieto ai minori la esclude.

Natali a Davenport, Iowa, il 10 luglio del 1946, presto orfana di padre, si muove con la famiglia da Dallas a Los Angeles, dove inizia a posare e recitare: i soldi a casa fanno assai comodo, Sue è bella, si laurea Miss Sorriso della Contea di Los Angeles e sa farsi strada, accaparrandosi il ruolo di Laurie in The Loretta Young Show e una piccola parte nella serie Dennis the Menace. Kubrick la vede nel primo, la sottopone al vaglio dei produttori, incassa il nulla osta di Nabokov, rimane avvinto dalla ragazza, giacché “tutto ciò che faceva, cose banali come maneggiare oggetti o attraversare una stanza, o solo parlare, era fatto con modi estremamente affascinanti”. Miscela di malizia e ingenuità, seduzione e incanto, tentazione e purezza, Sue Lyon con Lolita ottiene il “defining role” della sua carriera, nonché il Golden Globe quale attrice esordiente più promettente. Non è poco, ma non otterrà molto di più: La notte dell’iguana (1964) di John Huston, tratto da Tennessee Williams, dove replica la giovane seduttrice accanto a Richard Burton, Ava Gardner e Deborah Kerr; Missione in Manciuria (1966) di John Ford; L’investigatore (1967) di Gordon Douglas, al fianco di Frank Sinatra; Carta che vince, carta che perde (1967) di Irvin Kershner, e serie tv quali Love, American Style, Fantasy Island, Police Story e Night Gallery.

Doppietta deprecabile già dal titolo, I vizi morbosi di una giovane infermiera e Erica… Un soffio di perversa sessualità, tra 1972 e 1974, l’ultimo ruolo è nel 1980 in Alligator, un horror. Prima, durante e dopo, i matrimoni.

Nel 1964 impalma Hampton Fancher, lo sceneggiatore di Blade Runner, dura un solo anno, poi un incidente la lascia in sedia rotelle per due, la rinascita passa dall’altare, il secondo marito è un afroamericano, l’allenatore di football Roland Harrison, e le polemiche non latitano. Nulla, comunque, in confronto a quelle sortite dal terzo, Cotton Adamson: lo conosce in prigione, dove l’uomo sconta una pena per rapina e omicidio di secondo grado. Arriveranno anche Edward Weathers e, dal 1985 al 2002, Richard Rudman. Nona, la figlia avuta da Harrison, le sopravvive.

“Ho salvato Gino Paoli e Dalla mi apriva in slip. Zucchero è un egoista”

Il suo “biglietto da visita” è dentro un numero: “In carriera ho venduto oltre 80 milioni di dischi. E nel mondo. Nessun altro manager italiano è arrivato a tanto”. Per raggiungere questo traguardo, Michele Torpedine ha scoperto, lanciato e seguito buona parte della hit parade made in Italy, da Giorgia a Gino Paoli, da Luca Carboni a Biagio Antonacci, e soprattutto Zucchero, con il quale non si è lasciato benissimo: “Racconta un sacco di frottole, e soprattutto non mi riconosce i giusti meriti: sono stato io crearlo”.

Nato a Minervino, Puglia, anno di grazia 1952, da ragazzo si stabilisce con la famiglia a Bologna (“ed eravamo poverissimi. Non poveri, proprio ‘issimi’”), fino a quando anticipa i comuni canoni della ribellione, e a 15 anni è già il batterista di una band, a 16 su un palco prima di Sua maestà Jimi Hendrix, mentre l’illuminazione decisiva arriva una sera a cena con Gino Paoli.

80 milioni.

Cinquanta e passa solo con Andrea Bocelli, un successo enorme, e il punto fondamentale è uno: in carriera non mi sono fermato a un solo artista.

Ha spaziato.

Quasi tutti i miei colleghi hanno impostato la carriera su un nome solo: Roberto Galanti da quarant’anni con Eros Ramazzotti, Guido Elmi tutto su Vasco Rossi, Angelo Carrara con Ligabue, mentre io ho investito su sette, otto nomi forti.

Con le sue “scoperte” non si è sempre lasciato benissimo…

Infatti ho pubblicato una biografia per ricostruire la storia, mi ero rotto le palle di ascoltare e leggere una serie imbarazzante di bugie o negligenze: con Zucchero all’improvviso non sono più esistito.

Nell’ombra.

Fino a quando si vendevano i cd, allora i ruoli erano ben definiti e scritti, ma da quando la musica viaggia solo in Rete, allora chi sta nell’ombra, nell’ombra muore, e i vari artisti all’improvviso fingono la memoria corta.

Ingrati.

Prenda Sanremo degli ultimi vent’anni, da quel palco sono realmente usciti solo tre nomi di livello internazionale: Bocelli, Giorgia e Il Volo. Tutti miei.

C’è anche Laura Pausini.

Lei solo in certi paesi, non nel mondo; comunque ho lanciato quei tre, eppure nelle varie commissioni non mi chiamano mai, preferiscono coinvolgere un mezzo cuoco (si riferisce a Bastianich).

Non la coinvolgono neanche nei talent.

Lì vincono le logiche televisive, non quelle oggettive, preferiscono puntare su un risultato gestibile.

Sempre.

Anche quest’anno per Sanremo si parla più delle vallette al fianco di Amadeus che della qualità dei concorrenti, anche a costo di riciclare artisti senza mercato come Al Bano.

Meglio con Baglioni.

Infatti non ho capito tutte le polemiche contro Claudio, uno dei pochi con un curriculum, mica come Zucchero.

È avvelenato con lui…

Non capisco il motivo delle sue parole, delle sue mancate verità.

Da quando e perché vi siete distanziati con Zucchero?

A un certo punto mi ha accusato di non essere all’altezza del mercato estero, per sua sfortuna poi ho lavorato con Bocelli e Il Volo, e certe tesi bislacche si sono sgonfiate, e ho dimostrato che il problema era dell’artista, non del management.

Cioè?

Gli americani non volevano e non vogliono ascoltare la brutta copia di Joe Cocker, meglio un made in Italy doc.

Però vanta duetti internazionali importanti.

Per forza, sono sodalizi creati da me e soprattutto pagati.

Zucchero sostiene che Miles Davis ha apprezzato la sua voce.

Macché! Non è vero, come non è reale la partnership con Pavarotti: la prima volta andai insieme a un paio di dirigenti della PolyGram da Luciano a Philadelphia e con l’incisione di Miserere, e ci disse di “no”. Subito dopo chiamai Zucchero per rassicurarlo: “Non ti preoccupare, trovo la soluzione”.

Qual è stata?

Dopo quindici giorni mi contattano: “Il maestro ti deve parlare”. Bene. Vado a Modena e Pavarotti mi racconta di un concorso ippico, e di uno spettacolo alla fine della gara. Accetto. Ma pongo una condizione: doveva cantare Miserere, e da lì è nato il Pavarotti and Friends.

Zucchero ha fama di caratteraccio.

In realtà è più egoista, pretende di apparire sempre e in qualunque occasione: per questo abbiamo perso la causa con gli eredi di Piero Ciampi.

In che occasione?

Quando in un brano inserì la frase: “Il mare impetuoso al tramonto, salì sulla luna e dietro una tendina di stelle… se la chiavò” (è anche il titolo della canzone). Ecco, bastava citare Ciampi, perché è una sua poesia, e tutto si sarebbe risolto, invece lui glissò.

Risultato?

Pagati fior di quattrini. E pensare che Piero Ciampi l’ho conosciuto benissimo, e con Paoli abbiamo inciso un album dedicato a lui, alla sua poetica. Album fantastico.

Ciampi genio e sregolatezza.

Lui e Léo Ferré in questo sono stati i numeri uno; a Piero le case discografiche lo avevano allontanato, non riuscivano a gestirlo, troppo imprevedibile. Poi è morto di cirrosi epatica.

Lei ha definito Paoli un “maestro”.

Perché mi ha aiutato molto: è stato il primo a darmi il ruolo di manager quando ero un batterista.

In quale contesto?

Una sera eravamo a tavola, e all’improvviso lo rendo partecipe di una riflessione: “Scusa Gino, c’è la Vanoni che fa i soldi con le tue canzoni, mentre tu guadagni il minimo e non arrivi a fine mese?”.

Addirittura.

A quel tempo suonavamo nei locali per due milioni a sera.

Non poco.

Ornella, Califano, Peppino Di Capri arrivavano a 25-30 milioni.

Insomma…

Prendo il coraggio e aggiungo: “Perché non organizzate una tournée insieme?”. E lui: “Te ne vuoi occupare?”. Quel tour è diventato un trionfo, record al Sistina di Roma, e la vita è cambiata per tutti, a partire dal punto di vista economico.

Fondamentale.

Vengo da una famiglia più che modesta, insomma messa male.

La Vanoni ha un animo schietto…

È di una simpatia unica, completamente fuori di testa, e con l’età si sente sempre più libera; io Ornella la amo da sempre, perché non ho mai apprezzato Mina: al suo urlare, ho sempre preferito chi alla tecnica associa il cuore; però mi è piaciuto l’ultimo album inciso con Fossati, ci sono dei pezzi da perdere la testa.

Secondo Adriano Aragozzini “gli artisti non sono mai riconoscenti”.

È vero, e un po’ di tempo fa mi ha stupito Jovanotti quando in un programma di Bonolis ha ricordato gli inizi della carriera, ha ringraziato Claudio Cecchetto, suo ex manager.

Qualcuno da salvare c’è…

Tra questi certamente Carboni: lo seguivo quando era agli apici, e una sera un tizio lo avvicina e gli propone un giro di fatture strane e di contanti; Luca non gi consentì neanche di terminare il discorso: “Io pago tutto, non ti permettere”. Anche i ragazzi de Il Volo sono speciali.

Un rischio del suo mestiere.

Ah, un classico è “l’effetto Yoko Ono”: spesso quando arrivano le fidanzate cambia ogni rapporto, saltano gli automatismi e lì scatta un detto: “Il manager è prima l’uomo che ti fa guadagnare l’80 per cento, dopo è quello che ti ruba il 20 per cento”.

Ed è dolore.

Degli artisti si sono rovinati appresso alle donne, in stile Bill Clinton.

Quando ha conosciuto Lucio Dalla?

A quindici anni, a sedici già suonavamo insieme alla Festa de l’Unità di Bologna, poi giravamo la città, e piano piano è diventato “Ragno”.

Il suo soprannome.

(Ride a lungo) Inevitabile vista la quantità di peli mai nascosta, anzi naturalmente esibita: quando andavamo a casa sua, era facile trovarlo vestito appena da un piccolo slip.

Però…

Era un grandissimo, dotato di bravura e sicurezza in se stesso, uno che viveva la città senza atteggiamenti divistici, ma come uno qualunque. (cambia discorso) A sedici anni ho suonato prima di Jimi Hendrix.

Non male.

Ero in uno dei gruppi di spalla per la sua tappa di Bologna. Niente cachet. Solo il premio di una foto insieme a lui e nei camerini; mentre suonavamo il pubblico era insofferente, volevano solo Hendrix, così ci tirarono di tutto.

Lei com’è oggi da batterista?

Con certi pezzi blues e soul ancora dico la mia, ma un po’ di tecnica l’ho persa.

Un rimpianto.

Ivano Fossati. Otto anni fa abbiamo lavorato insieme due mesi per creare un evento all’Arena di Verona: lui insieme a un gruppo di colleghi-artisti. All’ultimo ha rinunciato, non se l’è sentita, e dopo un po’ ha chiuso la carriera.

Con De Andrè ha lavorato?

Anni fa avevo un’agenzia con Bruno Sconocchia (storico manager di De Andrè), e condividevamo un gruppo di artisti come lo stesso Fabrizio, i Pooh, Giorgia, Antonacci e altri…

Quindi.

Ho più che altro collaborato con il figlio Cristiano per il tour “De Andrè canta De Andrè”…

Anche lui carattere particolare.

Come il padre.

Ma prima della svolta con Paoli, lei viveva di musica?

No, più che altro seguivo Bibi Ballandi (produttore e manager), ero il suo autista e tuttofare, compreso il segretario quando me lo chiedeva.

C’è un’ampia narrativa di autisti lesti alla scalata.

È vero, e anche di batteristi.

Come mai i batteristi?

Perché stanno sempre indietro, nessuno li considera, e si crea una sorta di ribellione; il più alto esempio è Stefano D’Orazio (dei Pooh): è lui l’anima manageriale del gruppo, non bravissimo a suonare, ma fenomenale nel gestire le sorti di loro quattro.

Mentre gli autisti ascoltano e imparano…

Esatto, fino a quando decidono di iniziare a suggerire e mutano le prospettive.

Bocelli.

Ah, e qui mi tocca parlare nuovamente di Zucchero.

Ancora?

Quando ho portato Andrea a Sanremo con Il mare calmo della sera, subito dopo la vittoria finale ho chiamato proprio Zucchero: “Bocelli è forte, lo produciamo insieme?”. Risposta: “Preferisco di no, lo trovo pessimo”. Oggi racconta a tutti di averlo lanciato.

La qualità più grande di Michele Torpedine.

La sensibilità di musicista e quella di capire immediatamente se un artista ha qualità; una sera vado in un locale di Roma, un posto molto frequentato dal mio ambiente. Mi siedo. E ascolto una vera “voce”: era Giorgia. Eppure prima di me nessuno si era accorto di lei, ed è stata una lotta farle cantare Come saprei. (Ride ancora)

Su cosa sorride?

Mi è venuta in mente un’altra vicenda legata a Zucchero: non voleva incidere Diamante, per lui era un pezzo melenso.

Torniamo indietro: ma quando lei a 15 anni andava in giro a suonare, i suoi cosa dicevano?

Mi riempivano di botte, perché non studiavo né lavoravo, e loro volevano almeno uno stipendio. Noi eravamo veramente poveri.

Il primo sfizio economico?

Dalla tournée di Vanoni e Paoli ho iniziato a sistemare la famiglia, ad acquistare il primo appartamento; il giorno in cui ho messo la moquette a casa abbiamo organizzato una festa. (Ci pensa) Ecco, dalla festa per la moquette poi sono arrivato alla Casa Bianca, e per ben due volte, prima con Clinton, poi con Bush e insieme ad Andrea Bocelli. Sì, chi lo avrebbe mai detto?

 

Balcani, sei Paesi aspirano all’Unione. Zagabria prepara la sua strategia

Fra due giorni, il 1° gennaio 2020, una Croazia senza presidente assumerà la presidenza di turno semestrale del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dando il cambio alla Finlandia della premier più giovane al mondo, Sanna Mirella Marin, 34 anni. Zagabria si offre come ponte all’allargamento dell’Unione ai Balcani occidentali, anche se nessuna nuova adesione è prevista fino al 2025. Il ballottaggio sulla presidenza si farà il 5 gennaio: Zoran Milanovic, ex premier socialdemocratico, candidato del centrosinistra unito, è avanti nei sondaggi (48% contro 41%) sulla presidente uscente, la conservatrice Kolinda Grabar Kitarovic, appoggiata dalla destra euro-tiepida d’Andrej Plenkovic, un premier che fa talora recitare alla Croazia il ruolo di membro aggiunto del Gruppo di Visegrad. Al primo turno delle presidenziali, il candidato dei sovranisti, Miroslav Skoro, un cantante, aveva ottenuto un quarto dei consensi, spaccando il fronte conservatore. La “vacanza presidenziale” incide poco sul ruolo della Croazia alla guida del Consiglio dell’Ue, poiché, dopo che il Paese passò dal sistema semi-presidenziale a quello parlamentare, nel 2000, il presidente della Repubblica ha funzioni essenzialmente rappresentative. L’avvicendamento tra Helsinki e Zagabria chiude il giro degli esordi alla presidenza: la Croazia ci arriva sette anni dopo l’ingresso nell’Unione, nel 2013. Inciderà probabilmente poco sulle scelte Ue economiche, digitali, ambientali e di bilancio e sui negoziati sulla Brexit, ma dovrà tuttavia gestire le trattative. Durante il semestre, a maggio, Zagabria ospiterà il Vertice tra l’Ue e i Balcani occidentali, sei Paesi che puntano all’ingresso nell’Unione nel 2025. Il processo s’è arenato a ottobre sul veto francese all’apertura dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord, mentre le trattative sono già avviate con Serbia e Montenegro. Devono ancora partire con Bosnia e Kosovo, punto d’attrito perché vi sono Paesi dell’Ue, fra cui la Spagna che non lo riconoscono. La Croazia ambisce a un ruolo di mediatore. E, intanto, si appresta a entrare fra i Paesi di Schengen, nonostante le critiche sollevate dal trattamento violento e discriminatorio della polizia di frontiera verso i migranti che risalivano i Balcani verso l’Ue. Una delle principali critiche è che Bruxelles abbia dato alla Croazia fondi per prepararsi alla libera circolazione delle persone e che Zagaria li abbia utilizzati per respingimenti e deportazioni vietati dal diritto internazionale.

L’internazionale jihadista è nera e parla africano

Nonostante decenni di guerra civile, causa del collasso dello Stato somalo, la strage di ieri compiuta a Mogadiscio da un kamikaze ha inorridito e terrorizzato anche i più coraggiosi abitanti della capitale africana. Sono almeno 76 i morti dilaniati e un centinaio di feriti gravi. La maggior parte delle vittime e dei mutilati dalle schegge sarebbe costituita da ragazzini e universitari, saltati in aria appena scesi da un pulmino in prossimità di un check point militare. Si tratta di uno degli attentati più efferati mai realizzati in Somalia e rivendicati dagli al-Shabaab, affiliati di al Qaeda. “L’unico obiettivo perseguito dai terroristi nel nostro Paese è di uccidere gente innocente in modo indiscriminato” ha detto il presidente Mohamed Abdullahi Farmajo, che dopo l’attentato ha esortato il Paese a essere unito davanti “al nemico della dignità umana”. A fine settembre, fu attaccato un convoglio italiano su cui viaggiavano alcuni militari di ritorno da un addestramento delle forze di sicurezza somale, fortunatamente tutti rimasti illesi. Ma nel continente non è solo il Corno d’Africa a essere nel mirino dell’internazionale jihadista.

Anche il Sahel sta sperimentando una escalation del terrore che ha preso il via poco dopo l’uccisione in Siria del leader dell’Isis, al-Baghdadi, due mesi fa. La serie di attentati che in queste ultime settimane ha fatto strage di soldati e civili in Nigeria, Mali, Niger e Burkina Faso è segno che l’Isis – spesso in contrasto con al Qaeda – dopo la sconfitta (non definitiva tuttavia) del Califfato Islamico in Siria e Iraq, ha trovato nel Sahel una nuova base di reclutamento sicura da dove ricominciare a mietere vittime nella regione e rilanciare il jihad a scapito della popolazione cristiana quanto musulmana. Se è evidente che il franchising del terrore instaurato per primo da al Qaeda ha attecchito anche nell’Africa occidentale, è altrettanto palese che la soluzione militare, per come è stata impostata dai governi locali e dall’ex potenza coloniale francese, non ha avuto successo. Va anche ricordato che, da sole, le armi non possono sconfiggere i problemi strutturali del Sahel, fonte principale della radicalizzazione dei giovani. In mancanza di un sistema scolastico e di prospettive di lavoro, tanti continuano a tentare di approdare in Europa o, in alternativa, a unirsi a Boko Haram nell’Africa centro orientale e allo Stato Islamico nel Grande Sahara.

L’operazione militare francese in corso non sembra in grado di bandire i terroristi risorti negli ultimi mesi in Mali e diffusisi in Niger, dove sono tracimate, sommandosi, le conseguenze del conflitto libico e l’instabilità sahelo-sahariana. Il fronte terroristico si è esteso oltre il suo epicentro maliano arrivando fino alle province di Sum e Udalan, nel vicino Burkina Faso. L’escalation odierna è l’esito anche della mancanza di una reazione militare appropriata da parte dell’Europa e della comunità internazionale agli attacchi a Ouagadougou nell’agosto 2017 e nel marzo 2018 che hanno segnato la fine dell’eccezionalità dell’Africa occidentale. È anche diventato chiaro che l’attacco di Grand-Bassam (Costa d’Avorio) del marzo 2016 ha inaugurato una nuova era in cui la previsione degli attacchi è diventata irrilevante. Non si può più negare che le soluzioni militari siano un male necessario per arginare le crescenti minacce e fornire soccorso ai paesi in condizioni di totale insicurezza. Ma l’esperienza passata e le realtà quotidiane delle popolazioni nelle aree di confine dimostrano che finora non sono state né realmente efficaci né durature.

Inoltre, ispirano e alimentano la propaganda terroristica. I gruppi armati sono maestri nell’uso dei simboli per inviare i loro messaggi alla popolazione impoverita dalle misure di sicurezza draconiane che uccidono le economie locali.

Sfortunatamente, Abul Walid Al-Sahraoui, l’attuale mente dello Stato Islamico nel Grande Sahara, ha scelto l’approccio “giusto” dopo la fine dell’operazione “Serval” francese. Ha evitato cioè le strategie generali che richiedono organizzazione e logistica complesse. Al loro posto ha creato un numero crescente di zone instabili e ha capitalizzato i conflitti etnici e comunitari con l’ingrediente dell’ideologia religiosa . Nella sua mente, questo è un modo infallibile per provocare l’intervento occidentale, una delle migliori armi nell’arsenale della propaganda jihadista. L’impressione più che fondata è che l’Occidente non sia in grado di spezzare questo circolo vizioso e sanguinoso.

Prete ucciso da un ragazzo che aveva molestato

C’è una drammatica storia di pedofilia dietro l’omicidio di un prete francese: Roger Matassoli, 91 anni, è stato ritrovato morto il 4 novembre scorso nella sua casa di Agnetz (nord della Francia) con diversi ematomi sul corpo e un crocifisso conficcato nella gola. A ucciderlo sarebbe stato Alexandre V., 19 anni, una delle sue giovani vittime. Il ragazzo era stato fermato il giorno stesso in stato di shock al volante dell’auto di Matassoli e ricoverato in ospedale psichiatrico a Clermont. Poi, il 26 dicembre, è stato incriminato per omicidio e tortura. Roger Matassoli aveva preso i voti nel 1956. Secondo la stampa francese, avrebbe abusato di almeno quattro giovani tra il 1960 e il 2000 mentre era sacerdote nella parrocchia di Saint-André-Farivillers. Secondo monsignor Benoît-Gonnin, vescovo di Beauvais, solo nel 2009, dopo due denunce, il prete era stato sospeso e dallo scorso anno era al centro di un’inchiesta ecclesiastica. Le Parisien parla di una “grande omertà” che ha regnato per anni nella parrocchia. Sembra che il prete chiedesse ai bambini di fare la doccia in parrocchia e poi sfilava loro gli asciugamani. Anche Alexandre sarebbe stato abusato da piccolo: il prete lo faceva spogliare per fare dei lavori in casa sua. Ma anche il padre di Alexandre, 46 anni, sarebbe stato a sua volta vittima di Matassoli quando aveva dai 7 a 14 anni. A Le Parisien, che ha raccolto la sua testimonianza, l’uomo ha parlato anche di “orge”: “Era gentile, lo abbiamo lasciato fare. Ora mi rendo conto che la mia vita è stata un calvario”.

“Macron, ho perso l’aereo”: vacanze francesi da incubo

I francesi che hanno acquistato un biglietto del treno per partire durante le feste non possono fare altro che incrociare le dita e sperare di non trovare sul cellulare il fatidico sms: “Allerta SNCF: il tuo treno è stato annullato a causa dello sciopero nazionale”. Messaggio che la società delle ferrovie francesi ha inviato al 48% di chi aveva previsto di viaggiare in treno il 23 e 24 dicembre. Degli 800 mila viaggiatori attesi nelle stazioni di tutta la Francia in due giorni, poco più di 400 mila avevano infatti il posto garantito in un treno. Per gli altri c’est la galère, come si dice. Ovvero, il caos. Non c’è stata la “tregua di Natale” che il governo aveva chiesto ai sindacati e in cui i francesi, che al 50% sostengono la protesta, avevano comunque sperato. È dal 5 dicembre che la Francia è paralizzata. È già stato battuto il record del 1995, con i 22 giorni di sciopero “storico” contro la riforma del servizio pubblico.

All’epoca il presidente Chirac e il suo premier, Alain Juppé, avevano finito col ritirare la riforma, proprio a qualche giorno dal Natale. Ma questa volta, a 25 giorni dall’inizio dalla mobilitazione, né il governo né i sindacati sembrano disposti a cedere. Sotto accusa, la riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron che prevede l’introduzione di un sistema universale a punti, la fine dei regimi “speciali” (ben 42 in Francia) e, a partire dal 2022, l’obbligo di lavorare fino a 64 anni per ottenere una pensione a tasso pieno, contro i 62 attuali. All’arrivo delle feste, dei disagi si sono registrati anche negli aeroporti. 19 dicembre, scalo parigino di Orly: il 20% dei voli è cancellato a causa dello sciopero dei controllori di volo che difendono il loro regime “speciale”. Il volo Easyjet per Fiumicino delle 12.35 è indicato in orario sui monitor, ma alle 13 non si conosce ancora l’ora dell’imbarco. L’aereo finisce col partire con tre ore circa di ritardo. 24 dicembre, stazione di Montparnasse, Parigi. Solo un TGV su tre è mantenuto. Chi rimane a piedi si mette in fila agli sportelli nel tentativo di prenotare un altro treno. Per i meno fortunati le alternative sono scarse: “La SNCF non mi ha proposto soluzioni, devo cavarmela da sola”, riassume Camille, che avrebbe dovuto raggiungere la famiglia a Niort (centro della Francia) parlando con Le Figaro. Ma anche l’ingegno certe volte non basta. Da giorni i siti di car-pooling sono saturi. A Parigi non c’è più neanche un’auto a noleggio disponibile. Con la sospensione dello sciopero negli aeroporti (il 23 i controllori hanno infatti ottenuto garanzie dal governo), non si trovano neanche più posti sui voli nazionali. Tanti alla fine hanno dovuto rinunciare a trascorrere il Natale in famiglia. “La mobilitazione continua anche in questi giorni di festa, è un messaggio forte per il governo”, ha detto Philippe Martinez, segretario generale del sindacato CGT, primo oppositore della riforma, durante il nuovo corteo che ieri ha attraversato Parigi. Alcune tensioni si sono registrate lungo il percorso, a Châtelet. “Non ci si ferma quando si sono già persi 20-25 giorni di stipendio”, ha ribadito Laurent Brun della CGT-Ferrovieri. Il sindacato, grazie alle collette solidali, ha trovato sotto l’albero più di 250 mila euro di doni.

Di questo Natale francese poco gioioso resteranno le code sulle strade e le lunghe attese in stazione. Per chi è rimasto a Parigi, i rari metrò affollati, i negozi vuoti, le sale dei musei chiuse, Louvre compreso. E una scena, che ha fatto il giro del mondo: le ballerine in tutù che danzano a sorpresa ai piedi dell’Opéra Garnier. Più di 50 spettacoli sono stati annullati da inizio mese. Ma il caos non è finito: si ricomincia tale e quale per Capodanno. I negoziati tra governo e sindacati sono infatti fermi in questo momento e riprenderanno solo il 7 gennaio. Il 9 è attesa una nuova giornata di sciopero nazionale. Ci si aspetta che Macron faccia degli annunci nel tradizionale discorso dall’Eliseo del 31 dicembre. Ma per il politologo Nicolas Tenzer è una “illusione” pensare che il governo ritiri la riforma.

Tre mutui “regalati” per togliere il palazzo ai senzacasa di Roma

La Banca Popolare di Bari nel 2017 ha “beffato” il Comune di Roma permettendo a una società “veicolo” di riacquistare un edificio occupato, gravato da un’ipoteca monstre di 54 milioni a vantaggio dello stesso istituto pugliese. Un palazzo che il Campidoglio avrebbe voluto comprare per destinarlo a famiglie in graduatoria per l’edilizia residenziale pubblica (12 mila in tutto), ma è tornato a ingrossare i crediti della banca – sull’orlo del fallimento – nonostante la prima compravendita, finanziata dalla Banca Tercas di Teramo (acquisita poi nel 2015 da Bpb), sia al centro del processo per la bancarotta dell’istituto abruzzese.

L’edificio, 98 appartamenti, è in via Bibulo, zona Quadraro, occupato dal 2006 da famiglie assegnatarie e da altri 46 nuclei sostenuti all’epoca dalle requisizioni dell’ex presidente di municipio di Rifondazione, Sandro Medici, azioni poi revocate dal Tar. L’istituto pugliese ne aveva già finanziato l’acquisto nel 2007: un mutuo da 27 milioni di euro alla Araba Fenice Srl. Nel 2010, attraverso Tercas, un altro prestito di 27 milioni alla Dierreci Costruzioni Srl, all’epoca già in liquidazione e con un capitale sociale di appena 10mila euro. Capitale minimo, tanto più che in occasione del secondo rogito sarà iscritta un’ipoteca sul palazzo da 54 milioni di euro in favore di Tercas. E infatti quest’ultima compravendita, oltre al processo sul crac dell’istituto teramano, è al centro di un’inchiesta della Procura di Roma sul fallimento della società edile: il sospetto degli inquirenti è che parte dei soldi, attraverso una serie di partite di giro, sia finita in conti privati a San Marino.

Dopo il fallimento Dierreci, l’edificio di via Bibulo nel 2016 va all’asta. Andate deserte le prime due battiture, a febbraio 2017 la nuova presidente del Municipio VII, Monica Lozzi, prospetta all’allora assessore capitolino al Patrimonio, Andrea Mazzillo, la possibilità che il Comune acquisti l’edificio al prezzo di legge per la destinazione Erp (1.000 euro a mq). Il 9 marzo Mazzillo va in Regione Lazio dal suo omologo, Fabio Refrigeri, e il 23 marzo ottiene l’ok al finanziamento, osteggiato in realtà dai dirigenti del Dipartimento comunale.

Nel frattempo, però, avviene l’imponderabile. Il 25 febbraio da una costola della Hera International Real Estate nasce la Loanka Srl, appena 10 mila euro di capitale sociale – interamente finanziati, ancora una volta, da Bpb – che il 25 marzo presenta un’offerta “fuori asta” di 13,5 milioni di euro al curatore fallimentare di Dierreci, cifra poco superiore alla seconda battitura andata deserta il 9 febbraio. Insomma, condizioni molto simili a quelle del 2010. A questo punto, sarebbe importante che il Comune partecipi alla terza battitura, se non vuole perdere l’acquisto. Mazzillo, osteggiato dai dirigenti – gli stessi che poi avalleranno l’acquisto dal gruppo Armellini delle “case di sabbia” di Ostia, ndr – chiede più tempo alla giudice, che però non accetta: andato deserto anche il terzo “round”, il 16 maggio 2017 il giudice assegna l’edificio a Loanka, forte di un mutuo concesso ancora una volta dalla Popolare di Bari.

Con questa operazione, oggetto di un esposto in Procura presentato dal leader romano degli inquilini di Asia Usb, Angelo Fascetti – Bpb ottiene a credito la maxi-ipoteca da 54 milioni – nel frattempo accollata a Loanka – costruita in seguito alle operazioni precedenti e, di fatto, riprende possesso dell’edificio. Il credito, infatti, viene dichiarato “non esigibile” e a dicembre 2017 viene inserito in un fondo gestito da Prelios Credit, per essere messo sul mercato. Alle stesse valutazioni immobiliari – e qui sta l’altro nodo – che i magistrati hanno definito “non regolari” e che, secondo la tesi inquirente, ha permesso ai manager indagati di appropriarsi di parte dei finanziamenti. Tutto ciò non solo a scapito dei risparmiatori che hanno investito in Bpb – con il Consiglio dei ministri che il 16 dicembre scorso ha stanziato 900 milioni per il “salvataggio” – ma anche delle quasi 100 famiglie di via Bibulo, gran parte in emergenza abitativa, destinatarie di una richiesta di sgombero inoltrata alla Prefettura di Roma. E Loanka Srl dovrà “risarcire” il Comune di Roma per circa 400 mila euro, ovvero l’Imu arretrata per questi due anni e mezzo di proprietà.

Da Mps a Etruria&C. La prescrizione salva i banchieri dai crac

Le sette inchieste sulla Popolare di Bari sono l’ennesimo capitolo di un romanzo seriale che tra drammi e mancata vigilanza si sviluppa col solito refrain: oltre al salasso di soldi pubblici e privati per tenere in vita gli istituti di credito, i banchieri finiti sotto inchiesta potrebbero restare impuniti per la beffa della prescrizione.

 

Banca Etruria

L’accusa è la bancarotta

È un groviglio di inchieste quello che riguarda la Popolare quotata di Arezzo commissariata da Bankitalia l’11 febbraio 2015 per le “gravi perdite del patrimonio” e mandata poi in risoluzione. Il 13 giugno scorso i magistrati hanno notificato la chiusura delle indagini per bancarotta su 17 ex amministratori, tra i quali anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi per il filone d’inchiesta sulle consulenze affidate a Mediobanca, che avrebbe dovuto essere advisor dell’operazione, e ad alcuni studi legali tra giugno e ottobre del 2014 in vista della fusione mai realizzata con la Vicenza e che, secondo l’accusa, sarebbero state inutili. Per tutti gli indagati, tra i quali figurano l’ex presidente di Banca Etruria Lorenzo Rosi e i suoi vice, Alfredo Berni e Boschi, il reato ipotizzato è la bancarotta. Con rito abbreviato il 31 gennaio sono stati condannati per bancarotta fraudolenta a 5 anni l’ex presidente Giuseppe Fornasari e l’ex direttore generale Luca Bronchi e a due anni Berni. Il 2 aprile scorso per Boschi è stata chiesta l’archiviazione nel filone sull’ipotesi di bancarotta fraudolenta per la liquidazione da 700mila euro all’ex dg Bronchi. A febbraio è stata archiviata per Boschi l’accusa di falso in prospetto. Resta in piedi l’azione di responsabilità promossa dal liquidatore Giuseppe Santoni.

 

Carife

Assoluzione in 1° grado

Sul crac della Cassa di risparmio di Ferrara, finita in risoluzione il 22 novembre 2015, la giustizia è lontana dal dire l’ultima parola. Il 15 agosto la procura estense ha presentato ricorso contro le assoluzioni nel processo di primo grado sull’aumento di capitale da 150 milioni del 2011. L’11 febbraio scorso il tribunale ha condannato l’ex presidente Sergio Lenzi (2 anni e 6 mesi) e l’ex dg Daniele Forin (2 anni e 3 mesi) per i reati di falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza e aggiotaggio (solo per Lenzi), mentre è caduta l’accusa di bancarotta fraudolenta e sono stati assolti con varie formule gli altri imputati. Il 25 settembre 2015 è stata pronunciata la seconda sentenza dalla Corte d’appello di Milano sulle ipotesi di truffa legate alle operazioni di sviluppo immobiliare Milano Santa Monica e MiLuce, finanziate da Carife e dalla sua controllata Vegagest Sgr tramite i fondi Aster e Calatrava. Nelle operazioni Carife ha subito rilevanti perdite e il 18 luglio 2013 in primo grado 7 persone sono state condannate per truffa. La seconda sentenza di appello ha stabilito la prescrizione per la truffa nel progetto Santa Monica, legato al fondo Aster, e l’assoluzione per il progetto Miluce, legato al fondo Calatrava. Il 30 ottobre scorso è ripartita l’azione civile di responsabilità contro gli ex vertici con una richiesta di danni per 800 milioni.

 

Carige

Annullate le condanne

Il 16 ottobre la Cassazione ha annullato le condanne di primo e secondo grado contro Giovanni Berneschi, ex presidente di Banca Carige, e gli altri coimputati nel processo per la presunta truffa da 22 milioni ai danni delle assicurazioni Carige Vita Nuova. Tra i reati contestati: associazione a delinquere finalizzata alla truffa, riciclaggio e falso. In appello a Genova Berneschi è stato condannato a 8 anni e 7 mesi, cinque mesi in più rispetto al primo grado. Ma per la Cassazione hanno ragione i legali che contestavano l’incompetenza territoriale. Così il processo dovrà ricominciare da Milano e la prescrizione incombe. La truffa avrebbe fruttato a Berneschi e agli altri imputati circa 22 milioni. Berneschi ha annunciato che chiederà milioni di risarcimento danni. Il 5 marzo scorso a Roma è iniziato un altro processo contro Carige, Berneschi e altri 9 manager per le accuse di aggiotaggio e ostacolo all’autorità di vigilanza: fino al 2013 avrebbero indotto centinaia di risparmiatori a investire su titoli destinati a precipitare. Tra gli imputati anche l’ex vicepresidente Alessandro Scajola (fratello dell’ex ministro).

 

Popolare di Vicenza

10 mesi senza colpevoli

Sette imputati, oltre alla Banca Popolare di Vicenza citata in giudizio, un processo in corso e 18 posizioni archiviate. Il crac dell’istituto di credito vicentino guidato per molti anni da Giovanni Zonin ha partorito risultati tutto sommato modesti. I pm Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori sono riusciti a portare a giudizio per aggiotaggio, ostacolo alle autorità di vigilanza e falso in prospetto informativo, sei persone: l’ex presidente Zonin e gli ex amministratori o dirigenti Giuseppe Zigliotto, Emanuele Giustini, Andrea Piazzetta, Paolo Marin e Massimiliano Pellegrini. Risulta, invece, stralciata la posizione del direttore generale Samuele Sorato per gravi motivi di salute. Il maxi processo di primo grado è iniziato nel dicembre 2018 ed è ancora in corso. La Procura ha chiesto e ottenuto l’archiviazione di 18 componenti del cda o sindaci, tra cui Giovanna Dossena, Franco Miranda, Andrea Monorchio (ex ragioniere generale dello Stato), Roberto Zuccato (ex presidente degli industriali), Marino Breganze (ex vicepresidente) e Nicola Tognana (ex presidente degli industriali veneti).

 

Monte dei Paschi

Due condanne in 7 anni

Per lo scandalo di Mps c’è un solo punto fermo accertato il 29 maggio scorso dalla Cassazione: l’ex presidente Giuseppe Mussari, l’ex direttore generale Antonio Vigni e l’ex capo area finanza Gianluca Baldassarri non hanno ostacolato la vigilanza nascondendo il contratto Alexandria tra Mps e Nomura. È stato disposto un appello bis a Firenze per valutare un proscioglimento “perché il fatto non sussiste”. Dunque la Banca d’Italia sapeva o poteva sapere che quei BTp presentati a bilancio in realtà erano derivati. L’8 novembre i magistrati di Milano hanno, invece, condannato gli ex vertici della banca e tutti i 13 imputati per irregolarità che, dal dicembre 2008 al settembre 2012, sarebbero servite a occultare le perdite di Mps per l’acquisto di AntonVeneta nel 2008. Mussari è stato condannato a 7 anni e 6 mesi, Vigni a 7 anni e 3 mesi, Baldassarri a 4 anni e 8 mesi, l’ex direttore finanziario Daniele Pirondini a 5 anni e 3 mesi. Assoluzione per ostacolo alla vigilanza grazie alla prescrizione per i titoli Fresh emessi nel 2008. Gli imputati ricorreranno in appello. Il 17 luglio 2018 è iniziato a Milano il processo contro l’ex presidente di Mps Alessandro Profumo e l’ex ad Fabrizio Viola per le accuse di aggiotaggio e falso in bilancio sulla contabilizzazione dei derivati Santorini e Alexandria. Il 28 luglio la procura generale, che ha mandato a processo Profumo e Viola, ha respinto per la quinta volta la richiesta dei pm di archiviare il procedimento.

 

Banca Marche

Processo solo all’inizio

È alle battute iniziali il processo per il collasso dell’istituto per azioni di Jesi finito in risoluzione il 22 novembre. Dopo una serie di ispezioni della Vigilanza che hanno scoperto gravi irregolarità, Bankitalia il 22 ottobre 2013 ha mandato i commissari Federico Terrinoni e Giuseppe Feliziani, ai quali il 5 giugno 2014 si è aggiunto Bruno Inzitari. Il 13 ottobre 2015 via Nazionale ha prorogato di due mesi il commissariamento. Il procedimento penale al tribunale di Ancona per il filone principale d’indagine è iniziato il 20 maggio scorso: sono imputati l’ex presidente Lauro Costa, l’ex dg Massimo Bianconi e altre 11 persone. Le accuse contestate vanno dalla bancarotta fraudolenta all’ostacolo alla vigilanza, dal falso in bilancio al falso in prospetto. Saranno chiamati a deporre anche il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, l’ex capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo e l’ex presidente Consob Giuseppe Vegas. Il 2 luglio scorso è arrivata dalla Corte d’appello di Ancona la conferma della sentenza di condanna a tre anni di Bianconi e a due anni, pena sospesa, per Davide Degennaro per l’accusa di corruzione tra privati in un procedimento stralcio su Banca Marche per presunti scambi di favori. Bianconi è stato invece assolto da un capo d’imputazione contestato in primo grado. Sono stati confermati anche i sequestri a carico degli imputati. La difesa di Bianconi sostiene l’infondatezza delle accuse: presenterà appello.

 

Veneto banca

Un solo responsabile

Un uomo solo, l’ex amministratore delegato Vincenzo Consoli, sarebbe responsabile dei reati di aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza e falso in prospetto, legati al crac di Veneto Banca, l’istituto di credito con sede a Montebelluna. Tutti gli altri erano all’oscuro delle azioni “baciate”, il sistema di autofinanziamento legato alla concessione di mutui ai clienti dietro impegno ad acquistare titoli, per mantenerne alto il valore. Il sostituto procuratore Massimo De Bortoli a novembre ha ottenuto l’archiviazione per tutti gli altri indagati dello scandalo, ritenendo che non vi siano prove per dimostrare la connivenza dei componenti del cda, la complicità dei dirigenti o la colpevole cecità del collegio sindacale. Sono così usciti dalla scena l’ex presidente Flavio Trinca, i manager Stefano Bertolo, Mosè Fagiani, Flavio Marcolin, Renato Merlo e Massimo Lembo, gli ex sindaci Diego Xausa e Michele Stiz, oltre a Pietro D’Aguì, amministratore delegato di Banca Intermobiliare, e l’imprenditore Gianclaudio Giovannone. Rimane aperto un più recente secondo filone, per bancarotta fraudolenta, che vede indagati il solito Consoli e altri 8 persone. Secondo il pm, la mala gestione causò un gigantesco depauperamento e la quasi totale dissipazione del patrimonio.

Mail Box

 

La prescrizione fa il gioco di chi vuol sabotare la giustizia

Alla base della prescrizione c’è un principio condivisibile: dopo troppo tempo trascorso dalla consumazione del reato, lo Stato perde l’interesse a punire. Come dire che il valore pedagogico, riparatorio e rieducativo della sanzione è eroso dal ritardo. Se questo concetto fosse proclamato in buona fede, non avrei nulla da eccepire. Ma visto che invece è stato strumentalizzato in malafede per “farla franca”, allora vedo con favore le limitazioni della prescrizione in vigore dal prossimo anno.

La funzionalità della giustizia, infatti, è sabotata da anni. Le cause sono note, a iniziare dalla cronica carenza di personale nei tribunali. Ma un processo rapido metterebbe in crisi il fiorente settore dell’illegalità, che genera una domanda indotta d’impunità da prescrizione – ampia e ben remunerata – per far felici tutti quei mercanti del tempio, che fuori dal Parlamento scambiano la valuta del consenso con favori e livori delle clientele.

Massimo Marnetto

 

Bibbiano, le strane accuse somigliano a un depistaggio

Sono a dir poco sconvolgenti le dichiarazioni di Federica Anghinolfi e del collega Francesco Monopoli, entrambi indagati nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui fatti di Bibbiano.

I due parlano di una rete di pedofili che agirebbe incontrastata, con tanto di perversioni e riti esoterici, tirando in ballo anche il nome di Tommaso Onofri, il “piccolo Tommy”, ucciso il 2 marzo 2006 a San Prospero Parmense da un balordo della peggior risma, quando aveva appena 18 mesi.

Una tragedia immane che i due ex assistenti sociali riportano alla ribalta delle cronache legandola a questa fantomatica rete di malvagità pura, quasi satanica, che si sarebbe avvalsa della protezione di magistrati, ecclesiastici e forze dell’ordine. Sembra di esser dinanzi a un ennesimo romanzo di Dan Brown in versione ancora più dark. Ovviamente Anghinolfi e Monopoli avrebbero cercato di contrastare, come eroi silenziosi, questa vera e propria setta di malvagi.

Ora queste dichiarazioni verranno vagliate anche se, di primo acchito, sembrano un goffo tentativo di depistaggio, un depistaggio mediatico che specula su una giovanissima vittima e una tragedia immane. E lo fa senza remore, con uno sciacallaggio mediatico che rende l’idea dei personaggi in questione.

Mi auguro che qualora queste dichiarazioni roboanti non trovassero nessun riscontro, questi individui si trovino a pagare anche per quelle.

Cristian Carbognani

 

La coerenza di Fioramonti e il suo errore comunicativo

L’aveva detto, dichiarato fin da settembre che si sarebbe dimesso se la scuola non avesse avuto 3 miliardi di euro. Gliene hanno dati solo 2. Quindi le dimissioni sono un gesto di coerenza.

Tanto di cappello a Fioramonti! La cifra rappresenta il 12,5% dei 24 miliardi necessari per portare la scuola italiana ai livelli europei. Quindi Fioramonti ha chiesto “briciole” per far galleggiare la scuola e mantenerla in vita.

L’errore è stato quello di preannunciare la possibilità di un nuovo soggetto politico in appoggio al governo. E ciò ha costituito un magnifico assist per i tanti commentatori, che invece di parlare del disastro del sistema scolastico (tema a loro ostico), hanno concentrato le loro riflessioni su questo aspetto.

Gianfranco Scialpi

 

Il rispetto della parola data è una merce rara in politica

Il ministro dell’Istruzione Fioramonti prima minaccia le dimissioni se il governo non aumenta gli stanziamenti a favore della scuola, poi, una volta sconfitto, tiene fede alla parola e si dimette. Incredibile, un politico tiene fede alla parola… che differenza con altri quaqquaraquà della politica, che proclamano le loro prossime dimissioni e restano attaccati col Vinavil alla loro poltrona!

Vogliamo ricordare Renzi? Eccolo: “Se perdo al referendum non mi vedrete più. Se vince il No finisce la mia storia politica, cambio mestiere e non mi vedrete più”, maggio 2015; e ancora “Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica”, gennaio 2016. Il simpatico guascone di Firenze è ancora lì a tirare i fili del teatrino della politica…

E Franceschini? “Il ritiro in caso di vittoria del no non è una minaccia. Questo governo nasce per fare le riforme. Se le riforme non si fanno chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio”. È stato immediatamente confermato nel governo Gentiloni…

E la Boschi? “Se Renzi perde anch’io lascio la politica, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme. Come potremmo restare e far finta di niente?”. Ovviamente è ancora in Parlamento…

Viva Fioramonti!

Cristiano Urbani

 

Uno spazio fisso che smonti le balle sulle grandi opere

Vi scrivo per ricambiare gli auguri di serene feste a tutto lo staff del Fatto. Colgo l’occasione per segnalarvi due suggerimenti che mi stanno a cuore:

– sviluppare maggiormente la sezione finanza (in particolare penso a un apporto più costante di Salvatore Gaziano, che con la sua esperienza, è in grado di mettere in luce criticità e opportunità nel mondo dei risparmiatori;

– dedicare uno spazio fisso alle “grandi opere” e a tutte le “balle mediatiche” connesse, seguendo lo stile del libro Perchè No Tav.

Luca Colombo

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’intervista al sindaco di Napoli Luigi de Magistris pubblicata ieri, si parla di Nicola Adamo come primo “imputato” nell’inchiesta Why Not. L’errore è mio, non di de Magistris, e la parola esatta era “indagato”.

EF