I giornali, Visco, Eco e l’assassino di Popolare Bari scoperto a Natale

Tra le molte cose che un giornale può essere c’è pure questa, la cui definizione dobbiamo a Umberto Eco: “Il bollettino di un gruppo di potere che fa un discorso ad altri gruppi di potere”. Tenendo presente questo, vorremmo dunque far notare com’è cambiato da una settimana a questa parte il racconto attorno alle difficoltà della Popolare di Bari. Nei giorni del commissariamento (13 dicembre) si era partiti all’ingrosso da questa prospettiva: “Prestiti facili e buco Tercas” (CorSera 15 dicembre); “Quando Bankitalia autorizzò l’operazione che portò al crac” (Repubblica, 16 dicembre); “L’ombra della corruzione sul caso Tercas” (Sole 24 Ore, 22 dicembre). Riassumendo: l’acquisizione della Cassa di Teramo da parte di Bari, caldeggiata da Banca d’Italia, aveva affossato i conti dell’istituto, sulla cui gestione non proprio ottimale a quel punto la Vigilanza ha dovuto chiudere un occhio. Dal 23 dicembre, però, tutto è cambiato. Il governatore Ignazio Visco ha beatificato tanto le opere che le omissioni di Bankitalia sul CorSera, mentre su Repubblica faceva la sua comparsa il nuovo colpevole unico: la famiglia Jacobini, dalla fondazione a oggi sempre al centro della vita della banca. “Così Jacobini svuotò la cassa” (Repubblica, 23 dicembre); “La girandola di ville e immobili degli Jacobini” (Corsera, ieri). Ora, a noi degli Jacobini interessa il giusto, ma ci pare proprio che un gruppo di potere domiciliato a via Nazionale stia facendo un discorso ai gruppi di potere basati tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama.

Gaia e Camilla: un colpevole e tutti i concorsi di colpa

 

“Il senso della vita non è bere e fumarsela, non è guidare sbronzi”.

Dall’omelia di don Gian Matteo Botto ai funerali di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann

 

C’è stato un passato nel quale un certo giustificazionismo peloso trovava il modo di accollare le responsabilità individuali a una collettività indistinta, cosicché dietro l’autore di una rapina o di un omicidio c’era sempre una società “sbagliata” che non aveva saputo crescerlo o educarlo o comprenderne le segrete pulsioni per tentare di sottrarlo al proprio destino. La tragedia di Corso Francia che ha causato la morte delle giovanissime Camilla e Gaia non è sicuramente “colpa della società”: sappiamo chi l’ha causata e sulla dinamica del drammatico impatto esistono pochi dubbi. Eppure su quel pezzo d’asfalto si concentra altro ancora rispetto alla scena che giornali e tv ci hanno raccontato.

Come in un quadro in movimento, altri personaggi, altre storie vanno ad aggiungersi a ciò che viene prima di quell’istante e a ciò che viene dopo. Un’arteria più simile a una pista di Formula Uno che a un tracciato urbano, priva di autovelox e di qualsiasi altro tipo di controllo ma soprattutto male illuminata di notte, con una visibilità resa ancora più ridotta dalla pioggia battente.

Su questa fettuccia mortale il giovane Pietro Genovese, dice l’indagine, con il semaforo verde lancia il Suv “a velocità elevata e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite”. Già in passato gli era stata ritirata la patente per violazione del codice della strada, ma quel documento gli è stato poi restituito. Da parte di quale ufficio e con quali motivazioni? A bordo c’erano due amici di Pietro il cui comportamento dopo l’impatto non è ancora chiaro: consigliato o meno il ragazzo resta sul posto e si mette a disposizione della polizia municipale. Per Camilla e Gaia non c’è più niente da fare: testimoni parlano di due ragazze “che attraversano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali”.

Abbiamo dunque una strada pericolosa dove tutti corrono e dove un giovane pilota imprudente, e già sanzionato, incrocia l’imprudenza di due quasi coetanee. Tutto ciò in un quadro di noncuranza, di superficialità e dove tutto è concesso come fosse un videogioco. C’è un colpevole e insieme un concorso di colpe, sia pure di entità e gravità diversa. Un mondo a parte dove il “senso della vita”, di quelle vite, in un attimo non ha più senso.

Giuseppe fugge con Gesù e Maria: l’umanità nelle mani di un padre

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”. Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzareth, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: “Sarà chiamato Nazareno” (Matteo 2,13 – 15,19 – 23).

La comprensione autentica di ciò che l’evangelista in sintesi racconta: prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò, ci è data dalla ripetizione dell’espressione perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta.

Il tempo del Messia ricorda e rende attuale la vicenda di Mosè! Anche Gesù, infatti, è perseguitato fin da piccolo, costretto a fuggire, vittima di un nuovo faraone. Erode tenta invano d’impedire la realizzazione della promessa di Dio, ma c’è un Giuseppe disarmato e mosso dai sogni del Signore che veglia su questa famiglia. Proprio il carattere della sofferenza assunta dal Salvatore, simile a quella del popolo che Egli viene a salvare, fa dire al credente che Gesù è il portatore dello Spirito di Dio.

La discendenza di Davide continua a dipanarsi in incognito nelle persone di Giuseppe, Maria e Gesù. Il tiranno, che ha usurpato il trono, teme un pretendente e combattendo persino l’impotente Bambino crede di governare la storia. Ma proprio in questa lotta condotta dagli uomini contro la promessa, Dio realizza il suo piano: si compie, infatti, ciò che Egli ha detto, avviato e promesso ai Patriarchi dell’Antico Testamento. Giuseppe sogna le parole di Dio. L’angelo non rivela un progetto, ma momento per momento mette in movimento Giuseppe. Egli deve andare e toccherà alla sua responsabilità cercare le condizioni propizie per custodire opportunamente Maria e il Bambino. A Giuseppe viene data tanta luce quanto basta per quel giorno. L’ordine di fuggire per mettere al sicuro la famiglia si concretizza mediante la prudenza di un uomo saggio che ha a cuore le persone che ama. È bello pensare che le sorti della storia, dell’umanità si sono decise nella famiglia di Nàzaret, con un padre come Giuseppe, una madre come Maria e un figlio come Gesù. La famiglia diventa luogo dove gli affetti dolci e continui si stringono attorno alla vita, insegnano ad amarla servendola, la donano perché libertà e felicità non manchino dal mondo. Dal momento, poi, che Giuseppe si stabilisce a Nàzaret con la sua famiglia, si adempie la profezia secondo cui Gesù sarebbe stato chiamato nazareno.

Nell’odierna festa della santa Famiglia facciamo memoria anche del precetto del decalogo: Onora il padre e la madre. E istruiti dalle parole di Paolo ai Colossesi (3,12 – 21) l’amore di Dio comincia e ricomincia dal volto di chi ci ama: rivestitevi di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri. Questa è la grazia di Dio che si sperimenta in famiglia.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Noi, Imperdonabili e la nostra libertà messa sotto accusa

Sarebbe stata una sollevazione morale in special modo e collettiva, autodeterminarsi, avere in testa una specie di orgoglio folle, una voce fuori campo a incitarci: “seppur tutti, io no”. E questo era nelle intenzioni quando abbiamo pensato alla nascita di un movimento letterario, Gli Imperdonabili, io e un gruppo di scrittori e editori, Giulio Milani, Davide Brullo, Franz Krauspenhaar, Gian Ruggero Manzoni, Andrea Ponso, e altri ancora che man mano hanno partecipato, aderito, redatto manifesti, idee e così via. Non aveva – il movimento e sin da allora – una tirannia da istituire, ma siamo già in regime di accentramento (e non certo a causa nostra) e lo spiegherò. Siamo troppo ingovernabili, innocenti fino all’autolesionismo, per concepire un ordito da tesserati e prossimo ai mestieranti sepolcrali che oggi restituiscono in ordinate e irreparabili conventicole (sempre le stesse, sapete, un rimestare in identiche acque) la razione di “Pensiero” del Paese. Pensiero moderato, al ribasso, a scanso di equivoci. Tutto il resto è rosicamento o “fascismo”. Il movimento si è messo di traverso a un sistema, che decide autori, gusti del lettore, classifiche e premietti. L’aristocratico e deregolamentato talento non è nemmeno considerato, salvo quando sia possibile trasformarlo in caso umano. Il sistema funziona per ambiti precisi, ideologizzato, se fossimo in tempi aurei, direi piuttosto beceramente politicizzato. Il sentiero da seguire è sempre lo stesso. Fuori dal recinto, non hai molto da concludere. Tanto denuncia il Movimento, ovvio che dai sepolcri, estemporanei walking dead non hanno tardato a indirizzarci nobilissime obiezioni: rosiconi e fascisti. Non sto neanche a precisare alcuni passaggi della mia vita (ma a chi potrebbero interessare?) giacché sconfesserebbero questa prevedibile macchina di sterco che sta irrorando il nostro agire tutto intorno, preoccupatissima la macchina dello sterco a ribadire e ribadire il nostro estremismo ai limiti dell’eugenetica. Siamo fanatici forse, abbiamo investito sulla sponda infuocata della scrittura, non abbiamo molto da perdere, orgogliosi nondimeno del trofeo: non aver niente da perdere. Non siamo fascisti, naturalmente. La nostra libertà sotto accusa. Non meglio identificati scrittorucoli hanno già afferrato un manganello, promettendoci: non dormiremo la notte, se è necessario, verremo a prendervi. Avete capito bene. E noi saremmo una frangia oltranzista di terroristi di estrema destra.

Scrittorucoli, con romanzetti di fantascienza al limite nel loro concentrato curriculum. Non esiste un sistema, si scompongono dentro sorrisi di contenuta sobrietà dall’altra parte della barricata. In ogni caso, al di là di ogni faccenda, di ogni coraggio o pavidità, l’uno spacciato per estremismo, l’altra per ragionevolezza, rifletto con meraviglia sulle 43 citazioni o recensioni (ognuno le definisce come gli pare, a sua convenienza) al romanzo di Veronesi, Colibrì, nelle colonne del medesimo quotidiano, il Corriere. Non vi fa specie, solo un po’ dico? Non vi chiedo di interrogarvi sul significato di tale ridondanza, o su noiosissime attinenze a concetti come “etica”, “deontologia” o “paraculismo”.

Il regime di cui dicevo sopra non è il procurato allarme coltivato da ligi agricoltori dell’odio e della paura, in un fastidioso bramire; è la rete di privilegi e privilegiati a tradurlo spaventosamente, in una divisa rassicurante, noi del movimento diremmo: perculante. Stai fuori. O stai dentro. Ma dentro restano in pochi. Gli altri beoti dietro la porta aspetteranno pateticamente un turno che non succederà mai, non uno squillo di tromba glorioso, mai, non per loro.

Chi sono davvero gli italiani

Quando ha appreso di essere indagato per sequestro di persona (nave militare italiana Gregoretti, con più di cento profughi appena salvati, molti bambini, tenuta per 10 giorni lontana dalle coste italiane col divieto di sbarcare, per ordine del ministro dell’Interno) Salvini ha detto che “gli Italiani sono indagati e gli italiani andranno in tribunale” con lui. Anzi, ha aggiunto di sapere che si auto-denunceranno a milioni, benché nessuno di loro sia stato ministro dell’Interno e si sia impegnato a dare ordini non secondo la legge e la Costituzione, ma per ragioni personali (voti e potere) e con la complicità del ministro delle Infrastrutture (è lui che chiude i porti) e del ministro della Difesa (la nave – trasformata in prigione militare). Spetta certamente a Salvini di avere inventato gli italiani. Sono tutti quelli che stanno con lui, sono un popolo a parte, ma sono anche tutti e Salvini parla per loro, subito seguito, qualunque cosa dica, da un continuo scroscio di applausi e di selfie come sulla spiaggia del Papeete. Ma bisogna riconoscere che la trovata ha attecchito. Accade spesso che leader di destra e di sinistra guardino in camera e dicano: “Gli italiani devono sapere”. “Questi soldi li dovete restituire agli italiani”. E anche: “Abbiamo restituito questi soldi agli italiani” che naturalmente non hanno ricevuto nulla. Se volete, anche il presidente del Consiglio è stato contagiato quando ha detto: “Sarò l’avvocato del popolo italiano”, mostrando la persuasione che c’è un governo qui e un popolo là, due cose distinte e separate, indicate spesso dalla usatissima frase “andate a spiegarlo agli Italiani”. Si tratta di una alterazione del rapporto fra qualcuno che ha il microfono aperto e la gente che lo ascolta. È un rapporto che non è traducibile in altre culture e altre lingue. Perché, nelle culture e nella vita politica degli altri che conosciamo, chi parla fa parte (o mostra di far parte) della folla che lo ascolta. E dice “noi”, usa ed esalta un plurale inclusivo che significa interesse comune per qualcosa che dobbiamo fare insieme. Come insegna qualunque esperto di linguaggi, il modo in cui parli dice molto di te. In questo caso sembra rivelare un gioco in cui i cittadini sono le pedine sulla scacchiera di altri che poi decidono le mosse, che devono apparire scatto volontario e inarrestabile. Ogni vittoria svergognerà l’altro giocatore, che aveva tentato invano mosse diverse, salvo accusa (si dice anche “salvo intese”) di imbroglio… Gli italiani erano previsti sotto le case degli avversari, e in ogni luogo e modo in cui avrebbero potuto fare paura e recare danno, e sono stati invocati da tutte le destre. Infatti ogni disobbedienza alla destra è un gesto ostile contro gli italiani. Che sono tutti di destra. Gli altri, naturalmente, non sono italiani… Ecco un testo di Forza Nuova dopo un Angelus di Papa Bergoglio in difesa dei migranti: “Chi, come Mimmo Lucano e Jorge Bergoglio, odia l’Italia e gli italiani, chi ci vuole silenziare, troverà la resistenza di Forza Nuova. Chiunque ripeta le litanie di Soros, ne difenda nei fatti gli interessi deve essere combattuto. Guerra al fronte immigrazionista di Papa Francesco, che, come Pietro Badoglio, è simbolo universale del tradimento più vergognoso. Il sentimento cattolico degli italiani non può essere usato come il cavallo di Troia di chi vuole che gli italiani non facciano più figli e le nostre donne abortiscano per sostituire gli italiani con gli immigrati. Il Papa dovrebbe salvaguardare il deposito della fede, promuovere dottrina e Verità, non favorire gli interessi di forze globaliste che fanno dello sfruttamento, dell’odio e del terrore le loro armi. Le posizioni politiche contrarie agli interessi nazionali, vanno combattute per costruire muri a difesa della civiltà”.

Come vedete “gli italiani” sono le comparse di un film che sarebbe del tutto inventato se i suoi registi non avessero avuto a lungo (Lega di Bossi, Lega di Maroni, Lega di Salvini) le mani nel potere, girando liberamente le loro scene di abbandono in mare non solo di navi di volontari, ma anche (Diciotti e Gregoretti) di navi militari, dunque arrampicandosi su una realtà assurda oltre che illegale. Ma, attraverso la dichiarazione fatta a nome di tutti da Forza nuova, associano gli italiani usati come “comparse” con la parola odio e l’invito a combattere. Per questo bisogna essere grati alla frase semplice e grande di Liliana Segre: “Io non odio”. Ci dice così che l’antidoto all’odio è spiazzare l’odiatore, costretto a dare un pugno nel vuoto. Ma l’odio è stato anche improvvisamente fronteggiato dalla gentile iniziativa delle sardine, quei milioni di persone che fanno apparire piccole e inutili le piazze violente, e liberano “gli italiani” dalla condizione della loro identità succube che li fa andare, reagire, sostenere, odiare secondo istruzioni ricevute. Perché gli italiani si vedono, in tanti, non dalla parte degli odiatori, ma dalla parte della affermazione di Liliana Segre: “Io non odio”.

Danni erariali, da Galan al generale Spaziante

Vittorio Giuseppone, giudice della Corte dei conti, era un anello della lunga catena costruita da Giovanni Mazzacurati, il padre-padrone del Mose, l’opera idraulica da 6 miliardi di euro che dovrebbe salvare Venezia dall’acqua alta. Stando all’accusa, formulata ancora nel 2014, questo magistrato contabile avrebbe svolto un ruolo funzionale alle aspettative della “cricca” che operava in Laguna, garantendo una copertura nella struttura di controllo contabile che, altrimenti, avrebbe potuto creare qualche grattacapo.

“Senza il visto della Corte dei conti si blocca tutto, serve il suo visto per far continuare tutto il flusso. Noi avevamo molti problemi con la Corte dei conti, anche se non gravi, però fastidi, ritardi (…) a me sembrava che se noi potevamo stabilire un rapporto anche con queste persone poteva essere un fatto positivo”. È partendo da quelle parole messe a verbale da Mazzacurati che i pubblici ministeri veneziani ricostruirono i pagamenti di cui Giuseppone avrebbe beneficiato. Anche lui finì nella retata del Mose, agli arresti domiciliari per corruzione, accusato di essere stato a libro-paga del Consorzio Venezia Nuova. Cifre importanti: fra i 300 e i 400mila euro annui, oltre a un aggiustamento di 600 mila euro nel 2005-06. La verità giudiziaria si è poi fermata ai limiti della prescrizione, che sanò le pendenze penali. Ma era rimasto in piedi il capitolo contabile con il rinvio a giudizio nel 2017 e una richiesta di risarcimento sostanziosa.

L’ex giudice era rimasto in servizio a Venezia fino al 2009 e poi era stato trasferito alla Sezione centrale di Controllo di Roma. Ma non è l’unico a cui la magistratura contabile ha presentato conti salati. Prendiamo Giancarlo Galan, governatore del Veneto per 15 anni, di Forza Italia. È stato condannato per le tangenti Mose a rifondere poco più di 5 milioni di euro, ma poi ha subito una seconda condanna a pagare 764 mila euro a causa di fondi della Salvaguardia dirottati per finanziare lavori del Patriarcato di Venezia, anziché interventi sulla Laguna. C’è poi Renato Chisso, sempre di Forza Italia, già assessore ai trasporti della Regione Veneto nelle giunte di Giancarlo Galan e poi di Luca Zaia. La Corte dei conti lo ha condannato a pagare 5 milioni 376 mila euro per le mazzette del Mose. Emilio Spaziante, generale della Guardia di finanza, è stato condannato a rifondere un milione di euro per aver fornito agli indagati informazioni riservate sulle indagini in corso e su alcune verifiche fiscali operate dalle fiamme gialle sulle attività del Consorzio Venezia Nuova.

Ma c’è anche un ex magistrato alle acque di Venezia, Patrizio Cuccioletta, romano, che dal 2007 al 2013 avrebbe ricevuto una specie di stipendio annuale di circa 400 mila euro e quando era andato in pensione, con un bonifico su un conto in Svizzera, altri 500 mila euro: per quelle tangenti è stato condannato a pagare 2 milioni 736 mila euro. Infine, c’è la posizione di Giovanni Mazzacurati nei cui confronti sono stati eseguiti dalla magistratura sequestri per 21 milioni di euro. Ma l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova è deceduto.

“Il garante della corruzione del Mose” è un ex giudice

Era stato coinvolto nell’inchiesta sul Mose. Ma il processo, per lui, si era concluso con la prescrizione. Adesso, però, l’ex magistrato della Corte dei conti Vittorio Giuseppone è stato condannato dai colleghi magistrati contabili di Trento a un maxi risarcimento: oltre 450mila euro. L’accusa? Quella di avere “sviato” le funzioni di controllo della Corte intascando tangenti per favorire i privati, facendo anche perdere tempo e soldi alla magistratura.

Il progetto per la creazione del Mose, il sistema di dighe che avrebbero dovuto contrastare l’acqua alta a Venezia, è stato avviato nel 2003 e non è ancora concluso, come ricordano i recenti allagamenti della città lagunare. Giuseppone era finito nell’inchiesta insieme, tra gli altri, all’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan. Per lui nel 2017 è arrivata anche la condanna della Corte dei conti: 5,8 milioni di risarcimento in favore della Regione. A questa condanna ne sono seguite altre. Sono i primi tentativi di recuperare il “danno” complessivo legato alle tangenti e quantificato in circa 33 milioni di euro.

Al giudice Giuseppone, in servizio fino al 2005 prima alla Sezione giurisdizionale poi presso quella di controllo della Corte dei conti veneta e ora in pensione, era stato contestato in sede penale di aver intascato somme fino a trecentomila euro l’anno dal Consorzio Venezia Nuova, per accelerare le pratiche relative al Mose ed evitare rallentamenti che avrebbero danneggiato le imprese. I soldi sarebbero passati attraverso il cosiddetto “fondo Neri”, dal nome del funzionario che avrebbe avuto il compito di consegnare le somme. Ma Giuseppone è stato anche accusato di aver partecipato, in sostanza, alla modifica di una deliberazione della Corte dei conti del Veneto: una “correzione” che ha ridimensionato i potenziali ostacoli in semplici richiami formali, e che sarebbe stata completata proprio nello studio del Consorzio dove sono stati rinvenuti due file: quello originario e quello “rivisto”.

La vicenda giudiziaria, dal punto di vista penale, è terminata per Giuseppone con un “non luogo a precedere” per la prescrizione del reato di corruzione: sono fatti accaduti tra il 2000 e il 2008. Nonostante ciò, la Corte dei conti ha deciso di avviare un procedimento contabile. Anzi, ha preso spunto dai contenuti dell’inchiesta e della sentenza di non luogo a procedere per sostenere l’accusa.

La sentenza nei confronti dell’ex magistrato, che porta la firma del presidente Pino Zingale è molto dura. I giudici della competente Corte dei conti di Trento non fanno sconti all’ex collega del Veneto. Giuseppone viene definito infatti come uno “strumento di garanzia della complessa azione corruttiva”. L’addebito contestato è quello di “danno da disservizio”. In pratica, annotano i magistrati contabili, la “Corte dei conti si è trovata a sprecare risorse pubbliche per un’attività di controllo derubricata a mera liturgia formale, agevolativa nel raggiungimento di un risultato utile per i privati piuttosto che per la collettività”. E ancora, secondo i magistrati, nell’operato di Giuseppone “la funzione di controllo e verifica di legalità risulta essere stata sostanzialmente vanificata in favore del perseguimento degli interessi privati, asservita alle tutele di coloro la cui attività avrebbe dovuto essere, invece, destinataria del controllo, attraverso un complesso sistema corruttivo”. Per i giudici di Trento è innegabile il “comportamento illecito” di Giuseppone e il danno provocato alla Corte dei conti: in pratica le risorse “umane, strumentali e finanziarie” della magistratura contabile sarebbero state utilizzate “violando i canoni della legalità, dell’efficienza, dell’efficacia e della produttività, provocando un decremento nella produttività formale dell’amministrazione”.

Per calcolare la portata del risarcimento, allora, i giudici contabili di Trento sono partiti dai compensi di Giuseppone in qualità di magistrato: poco più di 900 mila euro complessivamente tra il 2000 e il 2008. E hanno quindi chiesto indietro la metà degli stipendi incassati: 450.149 euro, per l’esattezza. Una stangata per l’ex collega che avrebbe “tradito” i principi della magistratura contabile.

Cucchi, Dj Fabo, i premi ai boss, il caso Open, la Lega al Metropol

 

Stefano Cucchi

La sentenza Dieci anni dopo: “Fu omicidio”

A dieci anni dalla morte di Stefano Cucchi, una sentenza della Corte d’assise di Roma per la prima volta stabilisce che quello del geometra romano fu omicidio preterintenzionale. Il 14 novembre due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, sono stati condannati per questo reato a 12 anni di reclusione. Francesco Tedesco – che ha ammesso dopo molti anni che due colleghi avevano picchiato Cucchi – è stato invece condannato a due anni e sei mesi per falso. Lo stesso reato contestato a Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione Appia: 3 anni e otto mesi. Ilaria Cucchi, che aveva fatto riaprire le indagini nel 2015 insieme all’avvocato Fabio Anselmo, dopo la lettura della sentenza riceve il baciamano di un maresciallo dell’Arma che lavora da anni negli uffici giudiziari romani. Contro questa decisione gli imputati faranno appello. Sempre il 14 novembre è arrivata anche un’altra sentenza, quella della Corte d’assise di appello di Roma per cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini: un medico è stato assolto, per gli altri c’è la prescrizione. Nel 2019 il pm Giovanni Musarò, oltre al processo contro i carabinieri, ha condotto un’indagine parallela sui presunti falsi e depistaggi messi in atto sul caso Cucchi. Il 16 luglio otto militari, tra cui alti ufficiali, sono stati rinviati a giudizio. Tra loro Alessandro Casarsa, nel 2009 alla guida del gruppo Roma e poi capo dei corazzieri del Quirinale. Il processo è appena iniziato.

 

Moscopoli

Caso Savoini: “Scambio con i russi per finanziare la Lega”

Rubli russi che dovevano finire nelle casse della Lega. Trattative per compravendita di gasolio. Società di stato russe e l’italiana Eni, che nega tutto. Il caso Moscopoli punta dritto sul partito di Matteo Salvini. Esplode a giugno quando si apprende di un’inchiesta per corruzione internazionale aperta dalla Procura di Milano sulla base anche di alcuni articoli de L’Espresso. Al centro c’è l’incontro all’hotel Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018. Presente Gianluca Savoini, all’epoca portavoce di Salvini per le questioni russe. Sei persone al tavolo, tre italiani (oltre a Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda e il manager Francesco Vannucci) e tre russi, due vicini all’entourage del presidente Putin. Si discute di un carico di 1,5 miliardi di dollari dal quale fare uscire 65 milioni per la Lega e per finanziare le elezioni europee del maggio scorso.
Il tutto immortalato da un audio il cui autore resta ad oggi un omissis. A luglio scattano le perquisizioni e i sequestri a carico dei tre indagati (Savoini, Meranda, Vannucci). Si cerca la prova dell’accordo. Eni non è al momento coinvolta. Savoini farà ricorso al riesame che invece darà ragione alla Procura. Si stabilisce così che i sequestri sono legittimi e l’audio è utilizzabile. Quadro confermato pochi giorni fa dalla Cassazione.
L’inchiesta prosegue, a gennaio la Procura di Milano farà richiesta al gip di prorogare gli accertamenti per i prossimi sei mesi.

 

Suicidio assistito

Caso Dj Fabo. La sentenza storica della Consulta

Il 27 febbraio 2017 Marco Cappato, esponente dell’associazione “Luca Coscioni” accompagna Fabiano Antoniani noto come Dj Fabo in un clinica svizzera. Qui il giovane milanese, tetraplegico, si sottopone al suicidio assistito. Il radicale Cappato sarà rinviato a giudizio con l’accusa di aiuto al suicidio. I pm di Milano ne avevano chiesto l’archiviazione. Si apre il processo. Il 14 febbraio 2018 la corte di Assise decide di inviare gli atti alla Consulta sostenendo l’incostituzionalità del reato contestato. Nell’ordinanza il giudice scrive che all’individuo va “riconosciuta la libertà” di decidere “come e quando morire” in forza di principi costituzionali. In aprile il governo si costituisce alla Consulta a difesa del reato. Il 24 ottobre la Consulta si esprime. In sostanza l’attuale assetto normativo sul fine vita lascia prive di tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti. Si investe il Parlamento del compito di trovare nuove soluzioni. Il Parlamento resta fermo per un anno e a settembre la Consulta con una sentenza storica apre al suicidio assistito. E stabilisce che non è punibile chi agevola il suicidio nei casi come quelli di Dj Fabo, cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale, ma consapevole della sua volontà di considerare quelle condizioni di vita non compatibili con la sua dignità. Così si torna in aula a Milano. E il 23 dicembre scorso il Tribunale, come richiesto dalla Procura, assolve Cappato.

 

Caso Fadil

L’indagine: la morte della modella-testimone

Una delle testimoni chiave del Rubygate muore per una grave malattia il primo marzo all’ospedale Humanitas di Rozzano dopo un mese di sofferenze. La notizia del decesso della modella di origini marocchine viene data solo due settimane dopo. È il 15 marzo e in quella giornata si parla prima di avvelenamento e poi di avvelenamento da sostanze radioattive. Il caso è delicato. La Procura indaga per omicidio volontario. Il fascicolo è e resterà sempre a carico di ignoti. Il 18 settembre la Procura chiede l’archiviazione della vicenda. Sei mesi d’indagini, dunque, non hanno risolto il mistero. Hanno però escluso l’avvelenamento radioattivo. Imane, spiegano i pm, è morta di una malattia rara che ha provocato l’aplasia midollare acuta. “Volevano farmi fuori” aveva detto Imane al suo legale. I mesi dell’inchiesta saranno alimentati da forti polemiche. L’autopsia e le analisi successivi però non chiariscono e anzi non arrivano a una soluzione definitiva. Gli esperti hanno stabilito che a uccidere la ragazza è stata l’aplasia midollare acuta – anche se è rimasta ignota la causa di questa malattia di cui in Italia ci sono 50 casi all’anno – ed escluso ogni responsabilità dei medici dell’Humanitas. Secondo Mirko Mazzali, legale della famiglia della modella, “le scelte terapeutiche non sono state azzeccate” e sebbene la consulenza abbia “escluso la colpa medica, il fronte delle terapie deve essere approfondito e la famiglia farà di tutto per sapere come è morta Imane”.

 

Open

Cassaforte del renzismo Bianchi e Carrai indagati

Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione Open, l’allora cassaforte del renzismo, è indagato a Firenze per traffico di influenze e finanziamento illecito. Solo quest’ultimo reato è contestato anche a Marco Carrai, imprenditore amico di Matteo Renzi che nella Open è stato membro del Cda. Al centro dell’inchiesta su Bianchi c’è una consulenza affidata al suo studio legale nel 2016 dalla Toto Costruzioni Generali. L’incarico riguardava una accordo transattivo tra la Toto e la società Autostrade, finite in un contenzioso che si trascinava da anni. Bianchi – che per l’occasione lavora all’interno di un collegio di avvocati – risolve la disputa tra le due aziende e riesce a far incassare alla Toto circa 70 milioni di euro. Per gli investigatori però la consulenza a Bianchi è solo un modo per nascondere un finanziamento. Infatti sospettano che una parte del denaro sia finito nelle casse della Fondazione Open, che ritengono essere “un’articolazione di partito politico”. Per questo hanno chiesto alla Finanza di verificare – tra le altre cose – anche le “ricevute di versamento da ‘parlamentari’”. “La Fondazione Open – scrivono i magistrati in un decreto di perquisizione – ha rimborsato spese a parlamentari e ha messo a loro disposizione carte di credito e bancomat”. Non solo. I pm di Firenze nei mesi scorsi hanno anche perquisito i finanziatori della Fondazione, che però non sono stati iscritti nel registro degli indagati.

 

Ergastolo ostativo

La Consulta Permessi premio per i mafiosi

Anche gli ergastolani mafiosi e terroristi possono aspirare ad avere permessi premio pur non avendo mai collaborato con la giustizia. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che a ottobre, dopo un’analoga pronuncia della Corte europea dei diritti umani, ha bocciato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che regolamenta l’ergastolo ostativo, ma solo sull’esclusione dei permessi premio. In attesa di capire se ci sarà un intervento legislativo affinché le decisioni siano prese da un organismo unico, come auspicano i pm antimafia, saranno i giudici di Sorveglianza di ciascun tribunale a dover pronunciarsi. Nelle motivazioni depositate il 4 dicembre, la Corte ha spiegato cosa l’ha portata a questa decisione: “È ragionevole” che un detenuto sia premiato nel caso collabori con la giustizia ma “non può essere ‘punito’ se non collabora”, non gli si possono negare a priori i benefici, concessi a tutti gli altri detenuti. Cioè, secondo la Corte, non può esserci una presunzione di pericolosità “assoluta” in caso di mancata collaborazione con la giustizia, quindi diventa relativa. Per ottenere un permesso premio senza collaborazione, però, il magistrato deve poter escludere che il detenuto mafioso abbia ancora legami con l’associazione criminale o li possa ripristinare durante un permesso. Quindi, non si deve dimostrare la pericolosità, che per i mafiosi si dà per scontata (ora relativamente). Si deve dimostrare l’assenza di collegamenti criminali.

 

Caso Consip 

Lotti e altri a processo per la fuga di notizie

Il 3 ottobre Luca Lotti, ex ministro dello Sport, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e fedelissimo di Matteo Renzi (anche se con la scissione è rimasto nel Pd), è stato rinviato a giudizio. È imputato di favoreggiamento nell’ambito di un filone dell’indagine Consip che riguarda chi spifferò all’ex amministratore delegato della Centrale acquisti, Luigi Marroni, l’esistenza di un’inchiesta napoletana sulla società che gestisce gran parte dei maggiori appalti pubbliuci. Con lui a processo sono finiti anche l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio del Sette (accusato di rivelazione di segreto) e l’ex comandante della Legione Toscana, Emanuele Saltalamacchia, imputato di favoreggiamento. Lo stesso reato contestato all’ex presidente della fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni. La prima udienza del processo è fissata per il 15 gennaio. Il 3 ottobre è stato invece scagionato l’ex capitano del Noe dei carabinieri Gianpaolo Scafarto, accusato dai pm romani di due falsi, uno commesso quando in un’informativa ha attribuito la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, quando in realtà era stata pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino. Nel corso del 2019 arriverà anche la decisione del giudice Gaspare Sturzo, sulla posizione di Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier. Inizialmente era indagato per traffico di influenze, ma per lui la Procura ha chiesto l’archiviazione. Si attende la decisione del gip.

 

Carola

Rackete-Lampedusa. Lo sbarco senza autorizzazione

La strategia dei porti chiusi, che dal 2018 costringe le navi delle Ong e perfino quelle militari italiane a lunghe attese durante le trattative per i ricollocamenti in Europa dei richiedenti asilo soccorsi nel Mediterraneo, precipita il 29 giugno a Lampedusa. La Sea Watch 3 dell’omonima Ong tedesca entra senza autorizzazione nel porto di Lampedusa con 53 naufraghi in mare da giorni. Una motovedetta “occupa” il molo del traghetto mentre la nave compie la manovra e solo all’ultimo si sfila. Le due imbarcazioni si sfiorano. Al comando della nave umanitaria c’è Carola Rackete, 31 anni, tedesca, laureata, parla cinque lingue. Dirà che non riusciva più a controllare i migranti a bordo. Viene arrestata per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ma dopo due giorni il giudice nega la convalida e la giovane torna in libertà. Resta indagata. Però finora nessun appartenente alle Ong è stato processato o condannato per quel reato. In Italia e altrove Rackete diventa il bersaglio delle destre e la campionessa di una parte della sinistra che le tributa onoreficenze da Parigi a Barcellona. Numerose crisi si sono aperte anche nel 2019 ad ogni arrivo di navi delle Ong, almeno fino ad agosto e cioè finché Matteo Salvini è stato al Viminale con il governo gialloverde. L’immigrazione via mare si riduce, per effetto dei pur discussi accordi di Marco Minniti con i libici, dalla metà del 2017 (quell’anno 119 mila arrivi di cui 83 mila fino a giugno, nel 2018 sono 23 mila, quest’anno non si arriva a 12 mila).

 

Caso Palamara 

Perugia. Scoppia un terremoto nel Csm

L’estate scorsa il Csm è stato investito dal più grosso scandalo dai tempi della P2. Palazzo dei Marescialli si è trovato sull’orlo dello scioglimento. Ben 5 consiglieri togati sono stati costretti alle dimissioni. E pure il procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare sui magistrati insieme al ministro. Tutto è nato da un’indagine, ancora in corso, della Procura di Perugia su Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm, ex Csm, pm di Roma sospeso, accusato di corruzione per alcune utilità, come soggiorni all’estero, che sarebbero stati pagati dall’imprenditore Fabrizio Centofanti. È accusato pure di rivelazione di segreto in concorso con l’ex membro del Csm Luigi Spina e l’ex pm romano Stefano Rocco Fava. Gli avrebbero fornito notizie sull’indagine perugina. Per questo, Fava è stato trasferito in via cautelare al tribunale di Latina e Spina si è dimesso dal Csm. A luglio si è dimesso il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio, indagato sempre per rivelazione a Palamara. E grazie al trojan iniettato dai pm nel cellulare di Palamara, è venuto fuori l’incontro notturno tra 5 togati del Csm, poi dimissionari e due parlamentari: Cosimo Ferri, ora a Italia Viva, magistrato in aspettativa e Luca Lotti, deputato Pd (imputato a Roma in uno dei filoni Consip): per la nomina a procuratore di Roma volevano puntare sul pg di Firenze Marcello Viola (a sua insaputa). E non sembravano gradire Creazzo, procuratore a Firenze (dove indaga anche sui genitori di Renzi). La nomina slitta all’anno nuovo.

 

Bibbiano

Falsi abusi sui bambini. Il business degli affidi

Il 27 giugno esplode l’inchiesta “Angeli e Demoni” della procura di Reggio Emilia, coordinata dal procuratore Marco Mescolini e dalla pm Valentina Salvi. Meno di trenta gli indagati, tra cui un sindaco, alcuni assistenti sociali e psicoterapeuti. Secondo l’accusa il copione era sempre lo stesso: bastava un accesso al pronto soccorso o la chiacchiera di un bimbo a un’insegnante, qualsiasi segnalazione presentasse un elemento, anche labile, di un abuso sessuale metteva in moto un meccanismo rodato. Allontanamento del minore dalla sua famiglia, relazione ora ritenuta falsa che assume per certa la violenza e invio del minore presso la struttura pubblica La Cura a Bibbiano, nella Val d’Enza. Qui i piccoli venivano sottoposti a un presunto “lavaggio del cervello” da parte di professionisti riconducibili all’associazione Hansel & Gretel di Moncalieri, fondata da Claudio Foti, dominus dell’ipotizzato sistema di gestione degli affidi. “I ricordi dobbiamo metterli a posto, se no facciamo confusione!” dicevano ai bambini. Lo scopo sarebbe quello di frodare il sistema pubblico: se a Torino la stessa terapia costava 60 euro l’ora a Bibbiano tra i 100 e i 135 euro. Diversi i capi d’imputazione, a vario titolo falso, frode processuale, depistaggio, tentata estorsione. L’inchiesta è dall’inizio al centro della polemica politica, con attacchi feroci contro il Partito Democratico da parte di Matteo Salvini che sul palco di Pontida porta addirittura una bambina, definita, falsamente, la “Greta di Bibbiano”.

 

A cura di Sarah Buono, Alessandro Mantovani, Antonella Mascali, Davide Milosa e Valeria Pacelli

“Paperino” Sozzani e il caffè con Gavio per le grandi opere

Puntava molto in alto Diego Sozzani. Voleva diventare il regista delle grandi opere in Italia utilizzando come potente leva l’Igi, sì proprio l’Istituto per Grandi Infrastrutture, il centro studi guidato fino alla sua morte da Giuseppe Zamberletti. Il deputato forzista novarese aveva scelto un alleato di peso per la scalata: Gavio. Le intercettazioni dimostrano un solido rapporto con il gruppo piemontese (non coinvolto nell’inchiesta) e in particolare con “Marcello Gavio (parente e omonimo del fondatore, ndr) della Gavio corporation”, società del gruppo Itinera, colosso delle costruzioni. Il 5 dicembre 2017, Sozzani è al telefono con un commercialista di Voghera.

Dice Sozzani: “Due cose Carlo ti chiamo per disturbarti (…) passerei a trovare…”. Il professionista lo interrompe: “Marcello, a trovare Marcello”. Si tratta, annota la Finanza, di Marcello Gavio. Prosegue Sozzani. “Ho mandato un messaggino oggi e mi riceverebbe lunedì mattina per un caffè (…). Magari gli riporto anche notizie politiche”. Il commercialista approva: “Hai fatto bene, tieni un rapporto, il 2018 è qua sai, bravo Diego”. Dopodiché si raccomanda: “Non parlargli di politica che non gli frega niente, parlagli di quella cosa lì di Abu Dhabi, dà retta a me, la politica l’hanno bandita per il momento”. E sì, perché Sozzani il business non lo fa solo in Italia. Il futuro deputato di Forza Italia spiega: “Collaboro con una grossa società di ingegneria di Abu Dhabi (…), la Itinera (sempre Gruppo Gavio, ndr) ha vinto un grosso lavoro di un centro commerciale”. L’incontro annunciato con Gavio avverrà, come dimostra un’intercettazione di sei giorni dopo tra Sozzani e la moglie. Qui emerge la mira sull’Igi.

Scrive la Finanza: “Sozzani informa la coniuge di aver parlato con Marcello Gavio, responsabile della Gavio Corporation, al quale ha riferito della sua idea di prendere in mano le grandi infrastrutture in Italia tramite l’Istituto grandi infrastrutture (Igi)”. L’istituto si legge sul sito “è un centro–studi, fondato nel 1986 dai grandi costruttori di opere pubbliche”. Ecco, dunque, Sozzani illustrare l’incontro con Gavio: “Gli è piaciuta anche la mia idea dell’Istituto grandi infrastrutture, mi fa: questa è una bella idea, bravo. Del fatto che io possa prendere in mano un po’ le grandi infrastrutture in Italia. Devo dire che me l’ha chiesto due volte, mi fa: raccontamela un attimo come potrebbe essere. Gliel’ha spiegata poi anche a questo amministratore delegato, fa: poi digli che Sozzani ha una buona idea”.

L’Igi è citato in un comunicato del 19 febbraio 2018 di Agorà Novara, l’associazione di cui Sozzani era presidente. Due mesi dopo quella chiacchierata con Gavio, l’Agorà di Sozzani organizza un bel convegno sul futuro della logistica. Sulla locandina, accanto al presidente della Sitaf (gruppo Gavio) Sebastiano Gallina, c’è proprio l’allora presidente dell’Igi Zamberletti, poi scomparso e ovviamente ignaro delle idee di Sozzani sull’istituto.

Allora Sozzani era un consigliere regionale piemontese. L’amico Mauro Tolbar pensava che con la sua elezione in Parlamento avrebbe avuto meno occasioni per gli affari: “Avrai ancora meno tempo di quanto ne hai adesso?”. Ma l’attuale deputato di Forza Italia e vicecoordinatore del partito in Piemonte, non aveva avuto dubbi. “Come fai a non portarlo a casa!? Hai una serie di interlocutori”. Tradotto: la politica aiuta. Scrive il giudice: “Sozzani spiega che la sua elezione, gli potrà consentire di portare a casa ulteriori clienti per lo studio”. Quelle parole finirono nell’inchiesta sulle tangenti in Lombardia. Da parlamentare azzurro Sozzani, soprannominato “Paperino”, è finito indagato per un finanziamento illecito di 10 mila euro, ma non arrestato come aveva chiesto la Procura di Milano. La Camera ha votato per l’immunità.

“Refrattario alla legalità”, ha scritto giorni fa il tribunale del Riesame. Se da un lato Sozzani è ritenuto “impermeabile alle regole”, dall’altro è particolarmente attento agli affari, anche più della politica. A dimostrarlo una volta di più alcune intercettazioni agli atti dell’inchiesta milanese sul tangentificio Lombardia attribuito a Nino Caianiello, ex coordinatore di Forza Italia a Varese e presidente dell’associazione Agorà, reo confesso e presunto ras della mazzetta padana. Il tutto si svolge nel dicembre del 2017. Sozzani è consigliere regionale in Piemonte con la prospettiva del salto a Montecitorio, che avverrà nel 2018. In quel 2017, così, la Guardia di finanza fissa i rapporti tra il politico vicino a Daniele D’Alfonso – imprenditore milanese che, secondo la Procura, è legato alla ’ndrangheta – e il mondo delle opere infrastrutturali, anche con l’imprenditore Claudio Milanese vicino al leghista Giancarlo Giorgetti, una persona di “cui non si può fare a meno” dirà Caianiello. Insomma “una fittissima rete di rapporti”, scrive il Riesame per motivare l’arresto. Sozzani oggi, da persona libera, attende il processo chiesto dai pm e resta indagato per corruzione in un secondo filone per fatti legati allo studio Greenline che ha col fratello.

Bonaccini s’affida alla sua Modena, bastione rosso su campo verde

Nella sede del Pd di Modena c’è una cartina colorata che racconta l’evoluzione politica della provincia. Il capoluogo è sempre rosso, non c’è discussione, ma tutto intorno si moltiplicano minacciose macchie verdi, terre di conquista del centrodestra trainato dalla Lega. Sassuolo, Pavullo, Fiumalbo, Montefiorino, San Felice, Mirandola, Finale. Il verbo di Salvini arriva più forte nei borghi della bassa colpiti dal terremoto del 2012 e nei comuni di montagna nel sud della provincia: soprattutto alle Europee per il Pd è stato un bagno di sangue. Persino a Zocca, il paese di Vasco Rossi – 4mila e 500 abitanti arroccati 800 metri sopra il livello del mare e a 40 chilometri dal capoluogo – il Carroccio è salito al 45%, il Pd ha preso poco più della metà.

Modena è diversa. La città si muove al suo passo lento. Sembra bella e immobile come le foto di Kenro Izu nella rassegna esposta in questi giorni nel museo delle ex tabaccherie. L’artista giapponese ha scelto come soggetto i calchi di Pompei, le figure umane scolpite per sempre nel momento fatale; li ha posizionati in mezzo alle rovine del parco archeologico e le ha immortalate in una luce straordinaria e tragica.

Modena resta a sinistra, o quel che ne rimane. Il sindaco del Pd Gian Carlo Muzzarelli è stato rieletto addirittura al primo turno lo scorso 26 maggio. Il fenomeno sardine è stato battezzato qui, subito dopo Bologna, quando Piazza Grande si è riempita per oscurare un comizio di Salvini. E da qui passa anche la riconferma di Stefano Bonaccini al governo della Regione. Da casa: il presidente dell’Emilia-Romagna è nato nelle campagne di Campogalliano, una manciata di chilometri fuori Modena, oltre il fiume Secchia. Era un ragazzo di sezione, senza barba, occhiali a goccia e sguardo truce alla Bruce Willis. Ha fatto tutta la trafila dalla sinistra giovanile: segretario provinciale, consigliere comunale, poi regionale, poi presidente. Ora Bonaccini fa campagna guardandosi bene dal mostrare il simbolo del Pd, ma si aggrappa ai voti della sua città e alle splendide rovine – riecco Kenro Izu – di un’antica comunità politica.

Il segretario del Pd modenese si chiama Davide Fava e racconta il senso della sinistra emiliana con una battuta: “Qui votavi comunista perché era tradizione, se tuo figlio non votava comunista era una questione familiare; era il primo segnale di disagio, il secondo era la droga…”. Fava ride, ma poi si fa più grave: “Ormai il voto è conteso, è tutto in discussione perché quel terreno ideologico non c’è più. E perché negli ultimi dieci anni la sinistra ha abdicato alle sue funzioni”. Quali? “La redistribuzione, il lavoro, l’inclusione sociale. Noi qui abbiamo avuto una capacità spettacolare di costruire prospettive – dice Fava – Mio nonno era un orfano che ha combattuto la prima guerra mondiale e ha conosciuto la fame, io sono stato il primo laureato di famiglia. Di generazione in generazione i genitori avevano la certezza che i loro figli sarebbero stati meglio. In Emilia – come nel resto d’Italia – questa percezione è andata smarrita”.

La parola chiave è “percezione”. Anche a Modena e provincia si è diffuso come un virus un senso d’incertezza e declino. Al riparo dalle belle case del centro e dai negozi pieni delle strade commerciali si è tramandato di bocca in bocca il comandamento della “sicurezza”. Lo cavalca come sempre la Lega.

A proposito di percezione: la Cgil di Modena ha diffuso un questionario sull’immigrazione in alcuni licei della città, hanno risposto i ragazzi delle ultime classi, quelli pronti ad affacciarsi al mondo universitario. Alla domanda “Quanti sono gli stranieri in Italia?”, il 27,4% degli studenti ha risposto “tra il 21 e il 30% della popolazione”, per il 19,4% invece sono “tra il 31 e il 40%”. Alla risposta corretta (l’8,7%) si è avvicinato poco meno di uno studente su cinque.

Il volto del Carroccio modenese è Stefano Bargi, trentenne di Sassuolo che fa politica praticamente da quando era in fasce: è entrato nel consiglio cittadino a 19 anni, il partito aveva ancora la parola “Nord” nel titolo. “Modena non è un gioiello – dice – Andate a vedere fuori dall’anello del centro. Andate a dare un’occhiata alle strade verso viale Gramsci, all’Hotel Eroina, il condominio R-Nord abbandonato allo spaccio e ai clandestini. È una città che si è lasciata andare”.

La Lega tra il 2009 e il 2014 in Regione è passata da 2 a 9 consiglieri. Ora sente il profumo del colpaccio, il colpo finale al governo giallorosa e a una rete sociale, politica e di potere che si sta sgretolando: “Non ci sono più i comunisti, il Pd è in crisi. Esistono ancora realtà dove contano rapporti clientelari, ossidati e consolidati nei decenni, ma è un mondo che sta finendo. Ora tocca a noi”. Di Lucia Borgonzoni, il giovane Bargi dice che “è brava in televisione, è un volto conosciuto”, ma poi in realtà “siamo noi a farci il mazzo sul territorio”, mica la candidata. E Bonaccini? “Ha governato bene, è vero, ma amministrare male l’Emilia sarebbe stato difficile”. E in fondo – conviene il giovane leghista – il voto è sempre su di lui, nel bene o nel male: vince o perde Matteo Salvini.