Da Sgarbi agli ex grillini: ecco chi corre

Volti noti, perfetti sconosciuti e tanti ex riciclati. In tutto diciassette liste, sette candidati a governatore di cui tre donne: a meno di un mese dal voto in Emilia-Romagna si accende la competizione con la presentazione ufficiale dei candidati.

La sfida principale sarà tra Stefano Bonaccini, attuale governatore del Partito democratico in cerca del bis, e Lucia Borgonzoni, senatrice della Lega: entrambi hanno schierato a proprio sostegno sei liste. Il Movimento Cinque Stelle, dopo lunghe tribolazioni, ha optato per una corsa in solitaria puntando su Simone Benini, informatico di Forlì scelto sulla piattaforma Rousseau con 335 voti. Diversa la scelta di molti ex grillini, che corrono invece per far vincere Bonaccini: Gianluca Sassi, consigliere regionale coi Verdi, Mara Mucci, ex deputata attualmente iscritta ad Azione di Carlo Calenda, e Pietro Vandini, braccio destro del sindaco di Parma Federico Pizzarotti.

Sono riusciti a raccogliere le firme necessarie anche i no vax che si presentano con la lista Movimento 3V (Vaccini Vogliamo Verità). Affollamento a sinistra con ben tre liste, profondamente lontane dal Pd: Stefano Lugli, attuale segretario regionale di Rifondazione comunista, è il leader de l’Altra Emilia-Romagna, “la lista che si oppone al centrismo rosé dell’attuale maggioranza”; Marta Collot, unica under 30 capolista, musicista precaria è la punta rossa di Potere al Popolo (“vogliamo introdurre il salario minimo di 9 euro l’ora per gli appalti della Regione, abolire l’ultima legge sull’edilizia residenziale pubblica e quella sull’urbanistica, perché noi vogliamo bloccare davvero la cementificazione”); il Partito comunista di Marco Rizzo propone invece Laura Bergamini, già candidata al Parlamento europeo alla scorsa tornata elettorale, educatrice e sindacalista.

Impossibile, nonostante i tentativi fatti, unire le tre sigle sotto un’unica lista, ma di certo durante il prossimo mese i compagni daranno filo da torcere al presidente Bonaccini, “colpevole” di aver imbarcato diversi centristi nelle liste di sostegno. Tra gli altri Giuliano Cazzola, ex parlamentare berlusconiano capolista per +Europa di Emma Bonino, e Roberto Pasquali, sindaco di un paese nel piacentino per anni iscritto alla Lega che ha abbandonato solo lo scorso novembre, inserito nella lista del Presidente. Molto lontani, seppur nella stessa coalizione, i candidati di “Coraggiosa”, nata sotto l’aura del senatore Vasco Errani che punta sull’ex eurodeputata Elly Schlein, i giovani europeisti di Volt e i Verdi.

Per il centrodestra la vera sorpresa di queste elezioni potrebbe essere Fratelli d’Italia che punta a essere il terzo partito in Regione grazie alla candidatura di un colonnello dei Carabinieri, vicecomandante regionale dell’Arma Raffaele Fedocci, in apposita licenza. Per la candidata leghista sono scesi in campo anche Stefano Bulgarelli, figlio del calciatore Giacomo, “gloria” del Bologna dello scudetto, Isabella Bertolini, tra i fondatori del partito di Berlusconi nel 1994 e oggi passata alla Lega, e Vittorio Sgarbi, che guiderà Forza Italia a Bologna, Parma e nella natìa Ferrara.

La resistibile ascesa politica della previtiana di Calabria

La previtiana all’assalto della Calabria. Durante la conferenza stampa di presentazione, Jole Santelli si era definita “candidata per fato”. In realtà il destino c’entra poco con le fortune dell’ex sottosegretario alla Giustizia. Piuttosto sono state le relazioni, politiche e non, che ha coltivato sin da ragazza, ad avergli aperto qualsiasi porta.

Parlamentare dal 2001 (cinque legislature), la candidata del centrodestra in Calabria è stata deputata per quasi la metà dei suoi 51 anni, festeggiati proprio ieri, nel giorno della presentazione delle liste che la sosterranno alle elezioni del 26 gennaio. Dagli anni Novanta, la Santelli vive di “pane e politica” nei salotti romani, sponda Cesare Previti e Marcello Pera, e in quelli con vista Arcore, dalle parti di Casatenovo e precisamente a Villa Maria, dove vive la sua cara amica Francesca Pascale, la fidanzata di Silvio Berlusconi.

A dispetto della storica scarsa empatia tra la Calabria e Santelli, la sua è stata una carriera fulminante: iscritta a Forza Italia dalla sua fondazione, è subito entrata nell’ufficio legislativo del partito. Erano gli anni in cui, come avvocato, collaborava con lo studio di Cesare Previti: 8 mesi fondamentali per entrare nel cerchio magico di B. Finì a coordinare il dipartimento giustizia di Forza Italia, a stretto contatto con Marcello Pera che assunse proprio la sorella minore di Jole, Roberta Santelli, come assistente parlamentare, prima nella sua segreteria particolare e poi in quella della presidenza del Senato. Un incarico che la più giovane delle Santelli mantenne fino al 2016, quando fu assunta nello staff del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, la cui vice era proprio Jole: è ancora lì, Roberta, nonostante la sorella si sia dimessa dopo che Berlusconi l’ha indicata, proprio al posto di Occhiuto, come candidata governatrice.

Tornando indietro, va ricordato che quello di Jole Santelli nella politica nazionale fu un debutto col botto: nel 2001, neoeletta nel collegio di Paola, finì in via Arenula come sottosegretario del Guardasigilli leghista Roberto Castelli. Da allora ha sempre messo a disposizione del partito, per così dire, la sua esperienza giuridica. Quando ci sono condanne la sua dichiarazione non manca mai: Previti? “Processo mediatico e politico”; Dell’Utri? “Sentenza che provoca sconcerto”; e via così. Quando esce dallo spartito, peraltro, incorre in qualche infortunio: mirabile, a suo modo, l’intervista rilasciata nel 2014 alle Iene quando definì l’Isis “un progetto anti-terrorismo”.

Mai sfiorata da guai giudiziari, il nome della candidata Jole Santelli comparì solo in una vecchia intercettazione all’interno dello studio di Paolo Romeo, ex parlamentare del Psdi condannato per concorso esterno con la ’ndrangheta e oggi imputato nel maxi-processo “Gotha”. Era il 5 agosto 2003 quando una donna, probabilmente una dipendente del ministero della Giustizia, si lamentava con Romeo dicendo di aver “contattato la segreteria dell’onorevole Valentino per un trasferimento in Calabria”. Il tentativo non funzionò e “insieme al fidanzato – è scritto nell’informativa della polizia – cercava un’altra raccomandazione attraverso l’onorevole Santelli, la quale si è prodigata ed è riuscita ad ottenere il trasferimento”.

Negli ultimi anni, tra i fedelissimi della Santelli c’era Luca Mannarino, ex tesoriere di Forza Italia in Calabria del quale la candidata ha sottolineato più volte “la competenza e la cultura manageriale”. È lo stesso Mannarino che da ex presidente di Fincalabra nel 2017 è finito al centro di un’inchiesta per peculato sui fondi comunitari che la Regione doveva spendere per lo sviluppo delle Pmi. Da domani inizia la campagna elettorale e la squadra è già pronta: tra i candidati nella lista “Santelli Presidente” c’è pure un transfuga del Pd di Vibo Valentia, Vito Pitaro, non indagato ma citato più volte nelle carte dell’inchiesta “Rinascita”.

La conferenza. I giudizi sul premier

 

La presentazione di due nuovi ministri, qualche frecciata all’ex alleato Matteo Salvini e diversi spunti per la cosiddetta Fase 2 del governo che dovrebbe partire a gennaio, a meno di incidenti di percorso. La conferenza stampa di fine anno di Giuseppe Conte è servita al presidente del Consiglio per rivendicare quanto fatto nell’emergenza della prima manovra e a confermare la tenuta del suo esecutivo, nonostante gli ultimi scossoni natalizi che hanno portato alle dimissioni del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti.

In questi sei pareri abbiamo affidato l’analisi della conferenza a sei tra nostre firme ed esperti di comunicazione politica, tentando di giudicare contenuti e forma del Conte di fine anno.

 

Antonio Padellaro

Tra immigrazione e pieni poteri, il vero bersaglio è Matteo Salvini

Da quell’indimenticabile 20 agosto, quando al Senato menò alla grande un rintronato Salvini, Conte non perde occasione per regolare i conti con il suo unico, vero avversario. Così la conferenza di fine anno è stata per il premier un’imperdibile occasione per dire all’ex Capitan Fracassa che da quando non c’e più lui, al Viminale si ottengono “ottimi risultati” nel contrasto all’immigrazione clandestina. E ciò senza l’inutile “clamore” dell’ex ministro tutto chiacchiere e distintivo, sostituito dall’energica e silenziosa Lamorgese. Che dire poi della non velata allusione alle fregole dittatoriali dell’uomo del mojito con quella richiesta dei pieni poteri? Un modo per suggerire alla Lega, di cui riconosce il peso e la legittimità a governare, di non fidarsi troppo di un leader ad alta gradazione alcolica. Ma l’affondo più efficace sono le risposte compiaciute di un premier che si sente saldamente in sella. Così, dando implicitamente ragione alle ingiurie della destra, forse Conte voleva dire a Salvini qualcosa del tipo: io sono a palazzo Chigi e tu no.

 

Pietrangelo Buttafuoco

Fuori un ministro, dentro due mossa degna della Dc di Fanfani

Ci voleva il M5S a far tornare la Dc. Togli uno e ne metti due. Questo ha fatto Giuseppi Conte. Una trovata, questa di separare l’istruzione, di Amintore Fanfani e poi perfezionata da Ciriaco De Mita quando alla Ricerca e Università nominò Antonio Ruberti. D’altronde, si sa: il governo è nato per rimediare ai danni del precedente. Presieduto da lui stesso va da sé – un dettaglio – ma è il signor Conte lui. È uno ed è due. La location è quella di Villa Madama tanto adorata dal Cav adesso toccata a Conte, un democristiano delle file remote pur sempre segnato dal berlusconismo o forse ben istruito da Casalino: coglie l’orario dei due tg, 1 e 2, e ne approfitta per salutare i telespettatori. I giornalisti che fino a quando era un gialloverde lo sfottevano ma adesso, per il miracolo della legittimazione del Pd, lo trattano meglio di una figlia femmina. L’intercalare del cerimoniere è tutto un “se ce lo concede Casalino…”, “se Rocco vuole…”. Sì, ci volevano i 5 Stelle per far tornare il berlusconismo. Ma in forma minore. Niente buffet. Manco un bicchiere d’acqua.

 

Michela Morizzo

Il “mediatore” piace ai cittadini. In economia ci si aspetta altro

Dal punto di vista dei consensi, almeno in teoria, direi che la conferenza è a saldo zero. Nel senso che Conte ha confermato la sua immagine da mediatore di grande equilibrio, una caratteristica che è alla base del suo alto gradimento personale. In un governo che piace molto poco – siamo al 26%, soltanto 3 punti in più di quando cadde Renzi – la sua fiducia personale è figlia proprio di questa capacità, oltreché del fatto di non poterlo identificare con alcuna bandiera. Non a caso, Conte ha preso le distanze da eventuali nuovi gruppi parlamentari in suo nome. D’altra parte, credo non sia stata una grande mossa definire “una maratona” la strada economica da qui ai prossimi anni. Lui lo ha fatto perché probabilmente voleva rassicurare sulla durata dell’esecutivo, ma gli italiani vogliono risposte molto più rapide, non si accontentano di un programma su tre anni. Abbiamo appena misurato la fiducia dei cittadini sull’economia e solo il 12% crede che le cose miglioreranno tra un anno. Troppo poco per pensare a una maratona.

 

Nadia Urbinati

Pare convinto di poter durare a lungo: difficile, ma possibile

Mi è sembrato che Conte abbia voluto gettare acqua sul fuoco, moderare i toni e mandare il messaggio che è vero, i problemi sono in agguato ma sono anche tutti sotto controllo. In questo stesso modo sono state trattate anche le dimissioni di Fioramonti, che invece sono importanti perché ci testimoniano quanto poco peso abbiano ancora oggi, nella politica, ministeri cruciali come la Scuola e la Ricerca. Se fosse saltato un ministro “forte”, avrebbe scombussolato il governo? Credo di sì, e invece purtroppo siamo di fronte a un ministero di “Serie B”. Per il resto, mi è sembrato un premier convinto di poter durare a lungo e sono d’accordo: se riusciranno a litigare col silenziatore, possono arrivare a fine legislatura. Il primo scoglio però sarà già a gennaio, perché bisognerà vedere cosa voteranno i renziani sul caso Salvini e Gregoretti. Dopodiché, come ha sottolineato lo stesso Conte, la vera sfida del prossimo anno sarà quella di una seria lotta all’evasione.

 

Gavin Jones

Ha superato le diffidenze iniziali, ma occhio a compiacersi troppo

La metamorfosi di Conte è abbastanza straordinaria se si pensa agli esordi del premier, con la controversia sul suo curriculum e la famosa scena con Luigi Di Maio che doveva aiutarlo a metter in ordine i fogli del suo primo discorso. Ora sembra a suo agio in ogni situazione e la conferenza stampa ne è stata un esempio. Parla per tre ore e risponde a tutte le domande con sicurezza, anche quando rimane sul vago, e sembra sempre più rassicurante e tranquillo. Poi magari il governo cadrà fra due mesi, ma questo dipende poco da lui.  È notevole come ha superato le diffidenze iniziali del Pd e ora non risulta più così vicino ai 5 Stelle, ma equidistante fra i due partiti. Sembra un naturale mediatore, visto che anche Salvini lo elogiava in questo ruolo fino a poco prima della rottura. Nella conferenza stampa ho notato però qualche attimo di autocompiacimento, e a questo Conte dovrà stare attento, perché nella politica italiana appena cominci a far vedere che ti consideri bravo, ti fregano.

 

Giovanni Diamanti

Che cambiamento in un anno: ora parla da leader di coalizione

Trovo interessante come Conte abbia preso le distanze da chi vorrebbe creare gruppi parlamentari in suo nome. È sintomo di come il premier abbia parlato da leader di coalizione, superando anche l’immagine di uomo dei 5 Stelle che gli era stata messa indosso. Non si tratta solo di una condizione dettata dalla necessità di mediare tra gli alleati, ma anche di un progetto per il futuro a cui credo il premier stia facendo più di un pensiero. Rispetto al Conte dell’inizio del governo gialloverde, ha cambiato del tutto strategia e immagine, anche perché non deve più fare i conti con due vicepremier così ingombranti. A differenza di allora, oggi Conte ha un nemico chiaro, ovvero Matteo Salvini, con cui accetta lo scontro talvolta attaccando lui per primo l’ex alleato. Nel precedente governo questo non accadeva: Renzi e Zingaretti non erano mai stati trattati da “nemici”. Il celebre discorso in Senato dello scorso agosto contro Salvini ha fatto capire che questo modello poteva essere la strada più efficace.

Contiani, il gruppo prova a contarsi: “Noi critici siamo tra i 10 e i 15”

Giuseppe Conte li invita a stare fermi, così i presunti contiani provano a contarsi. L’ormai ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti è il possibile punto di riferimento di un nuovo gruppo parlamentare alla Camera che si collocherebbe di impronta ambientalista, tanto che ieri sera circolava già il possibile nome, Eco. E dovrebbero confluirvi molti 5Stelle, qualche ex grillino e schegge varie di sinistra. Ma bisogna arrivare a venti. Non facilissimo, dopo lo stop del premier. Però ieri qualcuno ha messo fuori la testa, come il romano Massimiliano De Toma: “Non mi sento di escludere la possibilità che venga formato un nuovo gruppo o una componente del Misto, ci sono tra i 10 e i 15 deputati critici”. E De Toma riconosce che a motivarli c’è anche la guerra nel M5S sulle restituzioni: “Stanno facendo pressioni sui ritardatari esortandoli a mettersi in regola. Ma sarà un boomerang”. Parla anche il marchigiano Roberto Cataldi: “Il nuovo gruppo? Sono in una fase di riflessione, non ho deciso”. Mentre un’ex 5Stelle, Gloria Vizzini, si definisce “un’osservatrice”. Ma ex grillini come Andrea Cecconi e Silvia Benedetti sono attivissimi. E 5Stelle come Nadia Aprile e Roberto Rossini sono pronti al salto.

Il rettore Manfredi finisce al governo anziché alla Regione

La nomina del Rettore dell’Università Federico II di Napoli Gaetano Manfredi a ministro dell’Università e della Ricerca scientifica ha forse messo una pietra tombale sulla speranza di un’intesa Pd-M5S per le regionali in Campania. Un’ipotesi rilanciata pochi giorni fa dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa in un’intervista al Fatto e subito stoppata dalla capogruppo regionale pentastellata, Valeria Ciarambino, fedelissima di Luigi Di Maio.

In queste settimane il nome di Manfredi era stato messo in pista, con le cautele del caso, dal renziano Gennaro Migliore. Presentato come l’unico in grado di compattare un’area larga alternativa al centrodestra, da Italia Viva al Pd al M5s fino agli arancioni di DemA, il movimento del sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Condizione indispensabile per provare a convincere il governatore dem uscente, Vincenzo De Luca, a fare un passo indietro.

Il profilo professionale, personale e politico di Manfredi pareva disegnato apposta per la mission impossible. Classe 1964, ingegnere figlio di ingegnere, docente in Tecnica delle Costruzioni, poi Rettore della Federico II e presidente della Conferenza nazionale dei rettori da circa un lustro, Manfredi nel 2016 ha concluso l’accordo tra il suo ateneo e la Apple che ha consentito lo sbarco del colosso informatico americano nel campus di San Giovanni a Teduccio per la creazione della prima Ios Developer Academy in Europa. Una partnership che i comunicatori napoletani dell’allora premier Matteo Renzi hanno dipinto come uno dei grandi successi del suo governo.

Con la rete di relazioni trasversali che il ruolo gli porta in dote, e la stima, diffusa e bipartisan, dell’intero mondo politico e produttivo campano – non è un caso che ieri siano partiti comunicati di apprezzamento alla persona anche da Forza Italia e da Fratelli d’Italia – sarebbe stato difficile porre obiezioni alla discesa in campo di Manfredi. Forse l’unica che gli poteva essere mossa: la candidatura sarebbe stata incasellata in quota Iv-Pd, e non tecnica, e chissà se i pentastellati di area dimaiana avrebbero gradito. Considerato infatti da sempre di area dem, Gaetano Manfredi è il fratello di Massimiliano Manfredi, già deputato Pd nella penultima legislatura, vicino a Dario Franceschini e a Maria Elena Boschi. Entrambi, dal 2006 al 2008, hanno collaborato col ministro della pubblica amministrazione del governo Prodi, Luigi Nicolais: Massimiliano come capo della segreteria, Gaetano come consigliere.

Peraltro, non era la prima volta che il nome di Gaetano Manfredi veniva accostato a una candidatura o a un incarico politico a Napoli. E sempre “in ambienti di sinistra”, come gli ricordò Bianca De Fazio in un’intervista sulle cronache locali di Repubblica. Era il 2016, e lui rispose con parole che è interessante rileggere oggi che sta per accettare una nomina in un governo. “Sì, hanno provato a convincermi. Ma io faccio il rettore. (…) Certo, gli inviti a candidarsi fanno piacere. Ma io credo che per cambiare la nostra società ognuno si debba impegnare al massimo nel suo ruolo. La politica lasciamola fare ai politici. Attingere alla cosiddetta società civile, per incarichi politici, significa impoverire quella componente sociale il cui lavoro può essere davvero di aiuto, nel caso specifico, anche al sindaco che verrà”. Sulla riflessione “la politica lasciamola fare ai politici”, forse il Rettore ha maturato un ripensamento.

Azzolina, deputata e preside: attira critiche e “haters”

“Fare peggio di Fioramonti sarà difficile, ma lei inizia col piede giusto”. Per Giorgia Meloni Lucia Azzolina incarna alla perfezione i 5 Stelle arrivati a Palazzo per aprirlo con l’apriscatole, salvo poi accorgersi che starci dentro come il tonno non è poi tanto male. E così alla notizia che sarà proprio lei il nuovo ministro della Scuola, la leader di Fratelli d’Italia le ha dato il benvenuto, a modo suo. Ricordandole di aver partecipato al concorso da preside l’anno scorso quando era già in Parlamento e per di più nella commissione Istruzione della Camera. Cosa per la verità che le rimproverano anche alcuni suoi colleghi pentastellati che qua e là sui giornali hanno lasciato trapelare più di un mal di pancia per la sua nomina in odore di conflitto di interesse. Per non dire delle perplessità sulla consistenza del suo profilo politico fatte presenti da qualche maggiorente del Movimento a Luigi Di Maio e superate in corner con lo spacchettamento del ministero dell’Università e della Ricerca, affidato al Magnifico Rettore dell’Università di Napoli, Gaetano Manfredi.

Va detto che i giudizi poco lusinghieri che le ha riservato proprio ieri in una lettera a Repubblica il presidente della Commissione di esame di quel famoso concorso, di certo non le hanno fatto piacere. Ma Azzolina è una che se la sente sempre, forte delle due lauree, una in Filosofia, l’altra in Giurisprudenza, che sono la sua assicurazione sulla vita una volta che terminerà l’esperienza politica. Che ha sempre sostenuto di vivere a tempo, come prescrive la regola dei due mandati del Movimento 5 Stelle. Mica come Giorgia Meloni che lei, se fosse una sua studentessa, boccerebbe senza pietà, se non altro per le assenze: “Il 72% in Parlamento, il 90% in Consiglio comunale a Roma. Due lavori e non ci va mai. E il cittadino paga” ha annotato tempo fa la neoministra dopo aver compulsato il registro di classe della Camera. All’apice di uno scontro con quelli di Fratelli d’Italia che non digerisce proprio. Chiedere per conferma pure a Giovanni Donzelli, altro deputato di FdI, che ha messo dietro la lavagna quando è deflagrata la polemica attorno all’istituzione della Commissione d’inchiesta voluta dalla senatrice a vita, Liliana Segre. “Questi si sono astenuti e non si sono neanche alzati ad applaudirla” ha detto Azzolina in tv indicandolo col dito, nemmeno si trattasse di uno scolaretto indisciplinato.

Il fatto è che Lucia Azzolina, 37 anni, siciliana di Siracusa ma residente nel Biellese, un passato come dirigente nel sindacato della scuola Anief (dove la ricordano come “diligente, determinata e competente”) ha molto netta la distinzione tra buoni e cattivi: di qua, nel suo pantheon ad uso social Papa Francesco, Nilde Iotti, Piero Angela e le piazze, pure quelle delle Sardine. Di là Hitler, le bombe di Piazza Fontana, l’intero campionario del centrodestra, specie Salvini (con cui lei non si sarebbe mai alleata) e pure i transfughi 5S che hanno trovato riparo nella Lega.

E poi gli odiatori sui social e i commentatori sessisti che le rimproverano il rossetto rosso fuoco, ma soprattutto la bellezza: quando Di Maio più di un anno fa la scelse tra i volti nuovi da mandare in tv, le sue prime apparizioni furono per molti un’epifania tanto conturbante che gli epiteti da bar sport si sprecarono. Lei non gradì, così come non regge l’invidia che anche nei 5S colpisce quelli che sono più vicini al capo.

“La No fly zone è strumento utile per far cessare le ostilità in Libia”

Una no fly zone sulla Libia è nell’ordine delle possibilità. A dirlo è il premier Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa di fine anno: “Anche una no fly zone può essere uno strumento per raggiungere un obiettivo: la cessazione immediata delle ostilità”. Con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan pronto a portare aiuto militare al governo di Fayez Serraj vengono prese in considerazione soluzioni finora non sul tavolo.

Domani a Bruxelles ci sarà un tavolo tecnico sulla missione che porterà una delegazione Ue in Libia il 7 gennaio. A livello europeo si ragiona anche su un mandato per l’imposizione e il mantenimento del cessate il fuoco, con impegno militare (magari aereo per una no fly zone). Ma l’iniziativa principale per il nostro paese resta politica e diplomatica. “È necessario creare una grande pressione”, ha ribadito il premier. “Di Maio è stato di recente in Libia, ci torneremo, stiamo lavorando anche a livello di ministri degli Esteri dell’Ue e con la conferenza di Berlino”. Chiarisce: “Sulla Libia c’è stata e c’è un’incessante attività diplomatica da parte dell’Italia spesso non visibile”. Racconta: “Ho scongiurato il presidente Erdogan e l’ho invitato a ponderare bene un intervento militare sul terreno, che non aiuterebbe affatto a riequilibrare le forze in campo ma anzi darebbe luogo ad un’incredibile escalation militare”. Il premier ha parlato anche con il presidente russo, Vladimir Putin e con quello egiziano Al Sisi (schierati con il generale Haftar), dicendo loro le stesse cose. Ma dalla Farnesina alla Difesa, per finire a Palazzo Chigi, c’è la consapevolezza che potrebbe essere decisiva solo un’entrata in campo convinta degli Usa, per ora defilati. Intanto, sarà determinante l’incontro Putin-Erdogan, previsto l’8 gennaio. In vista di quel vertice, il voto del Parlamento turco per il via all’intervento potrebbe restare il 9.

Pressing di Verdini su Renzi: “Salvate anche voi Salvini”

Chat infuocate, piani di battaglia e riflessioni a più livelli: in questi ultimi giorni dell’anno dentro Italia Viva è il dibattito sulla prescrizione che tiene banco. Ma gennaio è un mese che si annuncia complicato per i renziani: si inizia con la giustizia, ma il 20 la Giunta del Senato vota per l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per il caso Gregoretti. Una decisione difficile politicamente per il partito del fu Rottamatore, che adombra un salvataggio del suo omonimo, ma si trova in un doppio imbarazzo. Primo. Solo una settimana dopo si vota in Emilia-Romagna e il rischio di far passare il leader leghista per martire è enorme. Secondo: i renziani in Giunta, sul caso della Diciotti a gennaio, votarono compatti per l’autorizzazione. Ma i tempi sono cambiati, il dialogo tra Renzi e il capo della Lega rimane intenso, e si racconta persino di un intervento di Denis Verdini. “Denis ha sicuramente parlato con Renzi, facendogli notare che anche per la Gregoretti, Salvini si è mosso nel solco della politica dei migranti perseguita dal Conte I”, raccontano gli amici dell’ex senatore.

Si parte dalla prescrizione. La norma Bonafede, in vigore dal primo gennaio, che blocca la prescrizione dopo il primo grado, dev’essere neutralizzata. Su questo i pareri dentro Iv sono concordi. Come? “Siamo pronti a votare la legge Costa”, dice Ettore Rosato. Mentre Davide Faraone, in un’intervista al Corriere della sera, fa trapelare la possibilità di una proposta di legge alternativa a quella del Pd. Tanto più rispetto alla poca volontà dei dem di andare fino in fondo. “Ho sentito le dichiarazioni di Conte sulla prescrizione. Non mi hanno convinto”, dice al Fatto quotidiano Lucia Annibali, che lunedì notte alla Camera si è alzata in piedi per annunciare il sì dei renziani all’ordine del giorno Costa. “Sul merito siamo d’accordo. Ma siamo in maggioranza”, ribadisce lei. Nella conferenza stampa di fine anno, il premier Giuseppe Conte è tornato sull’argomento. Prima di tutto per difendere la norma Bonafede: “Una prescrizione che sia sospesa in corrispondenza della sentenza di primo grado, sia essa di assoluzione che di condanna, non è un obbrobrio giuridico. Gli effetti della norma non si avranno subito, occorreranno 3-4 anni”. Ma poi ha parlato di correttivi necessari: “Siamo in dirittura d’arrivo per quanto riguarda la riforma del processo penale dove introdurremo meccanismi di garanzia”.

Dichiarazioni soddisfacenti? “Siamo sempre allo stesso punto – dice la Annibali – non mi pare che le posizioni cambino. Non basta garantire che verranno introdotte delle garanzie processuali, perché la prescrizione sostanziale e processuale sono diverse: eliminare la prescrizione sostanziale significa che il reato non si estingue più. Bisogna fare una valutazione molto più attenta, stabilire un termine di chiusura”.

Anche Italia Viva punta gli occhi sul vertice di maggioranza del 7: se l’esito non sarà soddisfacente, le contromosse sul tavolo sono più d’una. L’8 scadono gli emendamenti alla legge Costa (alla quale i renziani potrebbero decidere sia di presentare come emendamento proprio la proposta del Pd, per sfidarlo, sia una loro proposta), il 10 si vota. E Iv potrebbe decidere di dire di sì, anche solo per differenziarsi.

Matteo Renzi è convinto che i suoi continui distinguo e gli strappi più o meno quotidiani rispetto alla linea ufficiale della maggioranza, prima o poi pagheranno in termini di consenso. Le valutazioni sul caso Salvini sono più difficili. L’istruttoria è in mano al vice presidente della Giunta, Giuseppe Cucca. Un garantista convinto ma che sul caso di Nave Diciotti non ha avuto dubbi e ha votato per concedere l’autorizzazione a procedere. “Non ho ancora esaminato le carte. Fino al 7 non se ne parla”, dice l’interessato al Fatto. Mentre cresce nella maggioranza il partito del rinvio a dopo il voto in Emilia. Che il Presidente Maurizio Gasparri non pare intenzionato a concedere: “Ho programmato le sedute in modo da chiudere il 20 come prescritto da regolamento. Che non risponde ai desideri della politica”.

Due ministri per la tregua: “Ora maratona di 3 anni”

L’avvocato deve aver capito che in politica il primo avversario è quell’immagine nello specchio, la propria. Così dal microfono piazzato tra gli stucchi e gli affreschi di Villa Madama a Roma, Giuseppe Conte lo giura agli altri ma forse anche a se stesso: “Io indispensabile? Di indispensabili sono pieni i cimiteri”. Ma non è aria di corone di fiori nella conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio: casomai di operazione molto politica, dissimulata tra i sorrisi e gli auguri. Perché Conte da un lato prova a calmare la maggioranza con un mini-rimpasto, cioè con due nuovi ministri, assicurando ovviamente che di gruppi contiani non ne vuole. Dall’altro ricorda che c’è un nemico da lasciare fuori della porta, Matteo Salvini, “insidioso per la democrazia per il modo in cui interpreta la sua leadership, e con quel suo invocare pieni poteri” come accusa rispondendo a una domanda delFatto. Precisando però che la Lega “è una forza pienamente legittimata dal voto democratico”, piena di “persone che stimo”. Ed è chiaro l’obiettivo, isolare il “cattivo”. Assai pericoloso, e per questo il premier temporeggia sul caso della nave Gregoretti, conscio che il suo ex vicepremier lì lo aspetta, a un eventuale, minimo errore sul tema delle responsabilità nella gestione di quella vicenda.

 

Quei nomi che accontentano tutti

Conte doveva trovare un nuovo ministro, e invece ne annuncia due. Perché come da previsione la 5Stelle Lucia Azzolina sostituisce il dimissionario Lorenzo Fioramonti. Ma riceve “solo” la delega alla scuola. “Dobbiamo rilanciare il comparto delle università” sostiene il premier, consapevole che le lamentele di Fioramonti sui fondi insufficienti hanno trovato sponde in vari ambienti. Così ecco un ministro ad hoc per Università e la Ricerca, il rettore della Federico II di Napoli, mossa di cui il Quirinale è stato informato venerdì sera. Perfetta, più o meno per tutti. Per il Pd (il fratello è stato deputato dem), per Matteo Renzi che lo conosce benissimo e pure per il campano Luigi Di Maio, che ai 5Stelle che chiedono lumi ne parla benissimo. Anche se un big grillino sussurra malumore: “Conte ha deciso quel nome assieme a Renzi”. Ma non può essere solo così, se Dario Franceschini twitta di soddisfazione: “Giusto separare scuola da università e ricerca, e Manfredi è un tecnico di grandissimo profilo”. Casomai va notato che la siciliana Azzolina e il napoletano Manfredi sembrano spostare ancora verso Sud il baricentro di governo. E dal M5S, dove il tema del Nord trascurato nelle nomine è un nodo, affiora il malessere del sottosegretario lombardo Stefano Buffagni: preoccupato, raccontano, “perché una parte del Paese non è ascoltata”.

 

Il Carroccio buono con il capo cattivo

Il capo della Lega viene spesso evocato come un convitato di pietra, quella pesante. “Il tema del governo non è tutti contro Salvini” dice per forza Conte, che prova a prendere le distanze dal suo ex vicepremier: “Non sono mai stato favorevole allo schema porto aperto e porto chiuso, e la politica dell’immigrazione del Conte uno non era quella urlata nel dibattito pubblico”. Soprattutto, tenta sminuirne i proclami sull’immigrazione a colpi di numeri: “Stiamo ottenendo risultati senza clamori, abbiamo migliorato la performance degli sbarchi e dei ricollocati: i ricollocati sono 98 al mese rispetto agli 11 del precedente governo”, cioè con Salvini al Viminale. E infatti il leghista non gradirà (“Tutte balle”). Poi arriva l’affondo diretto. Prima “contro la campagna acquisti” del Carroccio in Senato, “e lo stesso Salvini era critico su cose del genere in passato, certi processi non vanno alimentati”. Gli chiedono se la Lega al potere può minare la stabilità democratica del Paese, e l’avvocato morde: “Salvini ha operato slabbrature istituzionali e strappi, questo modo di invocare pieni poteri e di saltare le regole è insidioso”.

 

Quella trappola chiamata Gregoretti

Logico che la parola Lega chiami la domanda sul caso della nave Gregoretti, per cui il tribunale dei ministri di Catania chiede di processare per sequestro di persona l’allora ministro dell’Interno. Il Carroccio sostiene che Conte e Di Maio fossero stati informati della scelta di tenere al largo delle coste sicule l’imbarcazione con 131 migranti. “Ho le prove, i documenti, tutti sapevano di quella vicenda” ripete Salvini. Conte, mentre gli chiedono del caso, tira su con il naso, chiaro segno di nervosismo. Se ne accorge per primo, e prova a tamponare: “Ero uno starnuto abortito”. Di sicuro prende tempo: “Sto completando le verifiche, perchè mi occupo contemporaneamente di tantissimi dossier. Con il massimo scrupolo verificherò il ruolo che ho avuto. Ho già controllato il telefono (i messaggi WhatsApp da Salvini, ndr), sto facendo fare una verifica sulle email”. E un primo esito c’è: “Dal primo riscontro c’è stato un coinvolgimento della presidenza, come è sempre avvenuto, per la ricollocazione. Ma non ho avuto ancora riscontri sul mio coinvolgimento per quanto riguarda lo sbarco”. Non si può sbagliare nulla. Specialmente dopo che Di Maio ha già ordinato ai suoi in Giunta in Senato di votare sì al processo per il leghista. Il futuro sarà comunque diverso, senza di lui: “I decreti sicurezza vanno depurati da condizioni che ritengo inaccettabili”.

 

Il futuro in un partito? “Non in una nuova forza”

“In questi mesi abbiamo fatto i cento metri, ora ci attende una maratona di tre anni” preconizza il premier. Però c’è un altro problema, vari 5Stelle pronti a uscire per formare un gruppo in suo nome. E lui dice no: “Dar vita a nuovi gruppi rischia di destabilizzare l’iniziativa di governo, quindi mi appello ai parlamentari, rimanete nelle forze politiche”. Insiste, su questo: “Non ho velleità di avere un gruppo di riferimento”. Però gli ricordano del Nicola Zingaretti che lo ha citato come “punto di riferimento dei progressisti”. Lui si schermisce, “se vengo apprezzato fa piacere, ma non vedo il mio futuro in nuovi partiti”. Però la butta lì: “Se proprio dovessi scegliere non propenderei su un ulteriore elemento divisivo”. E c’è chi subito fa uno più uno: “Pensa a un futuro da leader dei 5Stelle”. Però l’avvenire certo sono le Regionali. “Non sono un referendum sul governo” si cautela. Ma lo dice, che bisogna insistere su accordi tra Pd e M5S, “piano, valutando caso per caso”, anche se in Umbria non ha funzionato. Perché la direzione è quella, verso sinistra.

Funeral Party

Quando, tra qualche anno, le università studieranno la morte del giornalismo, non potranno prescindere dalla fine del 2019. In quei giorni – spiegherà il prof ai suoi attoniti studenti – la prima notizia sui principali quotidiani era un tragico ma ordinario incidente stradale, identico a quelli che accadono ogni giorno in tutte le metropoli del mondo. I loro siti trasmettevano in diretta streaming i funerali delle giovani vittime, falciate nottetempo da un giovane automobilista alticcio mentre attraversavano a piedi una strada buia col semaforo rosso, in una specie di roulette russa piuttosto diffusa nella zona. E l’indomani le prime pagine aprivano con l’omelia del parroco, dai contenuti davvero sconvolgenti: tipo che non bisogna guidare sbronzi. Negli stessi giorni l’Italia rischiava di darsi un sistema processuale semi-civile, adottando il sistema di prescrizione vigente da sempre nei paesi sviluppati: se lo Stato non dà un nome e un volto al colpevole di un reato, dopo tot anni il reato si prescrive; ma, se lo Stato individua il presunto colpevole, il processo arriva in fondo senza più prescrizione che tenga: se il tizio è innocente verrà assolto, se è colpevole verrà condannato e le vittime avranno giustizia. Questa norma di minima civiltà era stata invocata per 20 anni da tutti gli esperti in buona fede, scandalizzati da quell’amnistia selettiva, classista e censitaria che consentiva ai colpevoli ricchi e potenti di farla franca allungando ad arte i tempi dei processi con ricorsi, eccezioni, cavilli, ricusazioni, rimessioni e impedimenti pretestuosi fino alla prescrizione, magari dopo due condanne e un giorno prima della terza e ultima, con tanti saluti alle loro vittime.

Così, negli ultimi 10 anni, si erano prescritti 1,5 milioni di processi, cioè l’avevano scampata oltre 2 milioni di colpevoli (i processi di solito hanno più imputati) ed erano rimaste senza giustizia almeno 3 milioni di vittime. La prescrizione, infatti, è riservata ai colpevoli: gli innocenti il giudice è tenuto ad assolverli, non a prescriverli (se non c’è reato, non c’è nulla da prescrivere). Per vent’anni i maggiori quotidiani avevano raccontato e deplorato questo sistema scandaloso, che aveva miracolato addirittura due ex premier: Andreotti (prescritto per mafia) e Berlusconi (9 volte prescritto per corruzione di giudici, senatori e testimoni, finanziamenti illeciti a politici, falsi in bilancio e frodi fiscali). E avevano ospitato giuristi e magistrati che chiedevano di riportare la prescrizione al suo spirito originario: se a un reato non segue un processo, dopo un po’ si volta pagina; ma se il processo è partito, deve arrivare alla fine.

Non per nulla, la prescrizione durante il processo esisteva solo in Italia e in Grecia, finchè una norma della legge Spazzacorrotti voluta dai 5Stelle, ma annunciata per anni anche dal Pd, la bloccò dopo la sentenza di primo grado per i reati commessi dal 1° gennaio 2020. Ma la cosa, anziché rallegrare quanti avevano sempre sostenuto quella riforma di puro buonsenso, li gettò nel panico e nella costernazione. I giornali che avevano sempre denunciato lo scempio dei 150 mila processi prescritti all’anno, cominciarono a difendere la vecchia prescrizione unica al mondo (Grecia a parte). La Stampa, che un tempo ospitava gli editoriali di grandi giuristi come Alessandro Galante Garrone e magistrati come Giovanni Falcone, pareva la parodia degli house organ berlusconiani, con titoli del tipo: “Prescrizione, per salvare Conte il Pd cede alla riforma dei 5Stelle. Gli avvocati prevedono una pioggia di ricorsi: norma punitiva,così si torna al Medioevo”, “Zingaretti si arrende al giustizialismo”, “I dem sperano nella Consulta” (come se farla franca fosse un diritto costituzionale). Il Corriere della sera, facendo rivoltare nella tomba le sue grandi firme del passato nemiche della prescrizione, da Vittorio Grevi in giù, si affidava ai delirii di Angelo Panebianco: il noto giurista per caso sosteneva, restando serio, che bloccare la prescrizione “è quanto di più vicino ci sia all’introduzione della pena di morte” (che dunque vige in tutto il resto d’Europa all’insaputa dei più); vìola “il principio di non colpevolezza” (ma agli innocenti si dà l’assoluzione, non la prescrizione); infrange “l’equilibrio fra potere politico e ordine giudiziario” (ma la prescrizione riguarda tutti i reati, mica solo quelli dei politici: forse per Panebianco tutti i politici sono colpevoli?). E lanciava uno straziante Sos alla Consulta (senza precisare quale articolo della Costituzione imporrebbe la prescrizione fino all’ultimo grado di giudizio).

Ma il meglio, come sempre, lo dava Repubblica: dopo aver pubblicato migliaia di articoli per chiederne lo stop, affidava l’encomio solenne di Santa Prescrizione a Luigi Manconi, che la definiva “prezioso istituto di garanzia del singolo”, scavalcando a destra persino B. e bollando di “populismo penale” vent’anni di battaglie del suo giornale. Poi definiva la prescrizione “uno dei maggiori fattori di accelerazione del processo” (infatti gli avvocati, quando manca poco alla decorrenza dei termini, chiedono al giudice di fare udienze a oltranza, anche di notte, inclusi i festivi, per scongiurarla). E, dopo un corso accelerato di diritto presso il Divino Otelma, spiegava agli stupefatti lettori di Repubblica che, con la “sciagurata” norma Bonafede, “potrà succedere che chi sia stato assolto dopo 29 anni e mezzo dall’accusa infamante di voto di scambio, venga condannato al limbo dell’incertezza processuale per un altro lustro”. Cioè restare imputato per 35 anni. Peccato che il voto di scambio, punito dai 10 ai 15 anni con la riforma del 2018, si prescriva dopo 18 o 19: la metà di 35. I funerali dell’informazione si svolgeranno in luogo e data da destinarsi. In diretta streaming sui siti dei migliori quotidiani, ça va sans dire.