“Tolo tolo? molti sperano che sia un flop”

Alle 16 di ieri pomeriggio, Luca Medici non ha più le sembianze di Checco Zalone: da ore è assediato da telecamere e attenzioni per il lancio del suo ultimo film Tolo Tolo (in sala dal primo gennaio, in oltre 1200 copie), e oramai è solo con se stesso, la sua stanchezza, la tensione (“è agitato” confessa la moglie), quindi fuma con gesti automatici, lo sguardo fisso sul cellulare, cerca ossigeno ma non sa dove trovarlo, e arriva a giustificarsi: “Scusate, vado un attimo in bagno per la pipì”. E quando il suo produttore, Pietro Valsecchi, lo prende in giro, quasi non reagisce.

Lui ha la responsabilità del successo, è obbligato a portare sulle spalle il botteghino italiano, a zittire gufi, polemiche e critiche (“In Italia il mondo del cinema è portato a godere dei tonfi altrui”), e fuori dallo schermo non è sfrontato e spavaldo come il suo personaggio.

Checco Zalone è il vero alter ego. È la maschera dietro cui rifugiarsi, il cugino adulto e forte al quale si chiede di picchiare il bullo che ci assilla, mentre Luca Medici ha lo sguardo profondo e grigio di chi si pone dubbi, troppi dubbi, senza trovare sempre le giuste risposte (“per favore sottolineate che a volte esagero per scherzare, non voglio litigare con tutti”).

Comprensibile.

Già solo la canzone di lancio ha scatenato l’inferno, con le peggiori accuse di razzismo e sessismo, quando al contrario Tolo Tolo è un film dove si ride, si riflette, ci si può commuovere e del salvinismo non ha proprio nulla. Anzi.

In molti cinema con sole prenotazioni è già tutto esaurito.

Questo aspetto mi fa un po’ paura.

Valsecchi sostiene: “Sono un grande interventista, ma con Zalone non è facile. E ha quasi sempre ragione lui”.

Quando fai incassare molto, sono capaci di dire qualunque cosa; nel primo film Pietro è intervenuto tantissimo, poi meno, e in Tolo Tolo non l’ho quasi mai visto.

Fiducia.

Forse più i 50 gradi all’ombra del Kenya; con me è stato paziente (due anni di lavoro) visto quanto è costato il film.

Tanto?

Tantissimo, e siamo stati costretti a rigirare delle scene, a volte ad attendere delle settimane per affrontare gli imprevisti.

Compresa la pioggia nel deserto.

È incredibile, non accadeva da vent’anni: ci sono delle scene buie proprio a causa del temporale. Un marocchino è arrivato ad alzare le mani in segno di resa: ‘Tu porti una sfiga incredibile, vattene brutto bianco di merda’.

Questa volta è anche regista: si è sentito solo?

Spesso, e ho percepito la piena responsabilità del progetto, poi i set sono fortemente irregimentati; chi ha la responsabilità viene rispettato, ma chiuso il ciak si resta con se stessi.

Seguire la regia ha tolto spazio all’improvvisazione dell’attore?

Boh, ci devo ancora pensare; però le scene inattese sono nate quando ero in preda alla disperazione, e le amo. A un certo punto non avevo più le comparse.

Com’è possibile?

In una scena ne avevo 400 e in una giornata avevo girato solo un “campo” (la visione di una telecamera); il giorno dopo era previsto il controcampo, ma non c’erano le stesse persone: erano già partite per un’altra zona del Marocco.

Carlo Verdone: “Dovrebbe quotarsi in Borsa. Comprerei le sue azioni”.

Qui mi gratto un po’ le palle (e porta realmente le mani al pube). Lui è un grandissimo. Ma grande veramente.

Però…

In generale nel mondo del cinema e dello spettacolo c’è una rivalità incredibile.

Su di lei il cinema punta.

Non è vero.

Lei risolve i problemi di botteghino.

Anche qui: non è vero; al massimo risolvo i miei, quelli del produttore, del distributore e dell’esercente (sorride e ci ripensa). Oh, non mi fate entrare in polemica con Carlo, siamo amici!

Maurizio Micheli: “Normalmente il comico subisce. Lui no. Non è un perdente e per questo è un grado sopra gli altri”.

Non l’ho capita, però mi è piaciuta, quindi l’appoggio.

Anche Alberto Sordi non subiva sempre.

Passava indenne e con il suo atteggiamento da stronzo; in questo film il dramma iniziale non sfiora minimamente il mio personaggio.

È il mondo che si rapporta a Zalone.

Questa è troppo difficile, togliamola.

In Tolo Tolo chi sono i cattivi?

Non ci sono, così come i buoni, ed è uno dei punti di cui vado più fiero.

Proprio nessuno?

In teoria il giornalista francese potrebbe inserirsi sotto la categoria “buonista” (il personaggio gira in zone disagiate per riprendere e denunciare), in realtà è un grande ipocrita: va lì, ma usa i poveri per ottenere visualizzazioni.

Sembra lo stereotipo del radical-chic.

No, è proprio il radical-chic; ma in Tolo Tolo attacchiamo anche il fascistoide e il nero che alla fine ci tradisce.

Mentre scriveva il film ha pensato al nostro passato coloniale?

All’inizio volevamo girarlo in Eritrea, poi non è stato possibile.

In alcune scene si tramuta in Mussolini.

Qui voglio citare il mio amico Caparezza, quando dice: ‘È la nostra parte intollerante a uscire con il caldo, lo stress e i problemi’; il comico quando scrive un pezzo non pensa ai significati sottintesi, ma immagina una scena.

Ma perché ha assimilato il fascismo alla candida?

Non lo so, ma a Ungaretti uno chiedeva il motivo di certe scelte?

Sì.

Volevo arrivare alla battuta che il fascismo si guarisce con il Gentalyn (ci ripensa). Ho pensato alla candida perché è una malattia fastidiosa, ma risolvibile.

Non sempre.

Lo so io, si guarisce.

Ha il timore di essere diventato un autore di sinistra?

Per favore non lo scrivete o perdiamo tantissimo pubblico! Comunque in molti sostengono che questo film sia più impegnato di quelli vecchi, e questa riflessione la trovo ingenerosa per il mio passato; qui sicuramente si vedono i soldi spesi e più momenti commoventi e poetici.

Perché in sottofondo si parla di un dramma vero.

È così, e c’è più forza, c’è della verità, c’è un coglione in mezzo a delle facce reali; in alcuni momenti la difficoltà è stata quella di dover spiegare alle comparse il senso di certi passaggi.

Cioè?

All’inizio qualcuno si è scocciato della frase ‘da qualche parte nell’emisfero c’è uno stronzo un po’ più nero’, poi ci ho parlato, ho puntato l’accento sul senso di speranza e tutto è cambiato. Alla fine mi hanno abbracciato.

Sergio Castellitto: “Zalone è un geniale qualunquista”.

Il mio personaggio lo è, nella vita no.

Giorgio Panariello: “Non è normale non invitarlo ai David di Donatello”.

Va bene così, non ci tengo, non è tra le mie priorità.

Siamo un Paese razzista?

No, siamo in sofferenza e qualcuno ne approfitta per solleticare l’intolleranza.

Lei è permaloso?

No, dipende da come mi dicono le cose (al suo fianco si siede la moglie Mariangela. Sorride. Non è proprio d’accordo).

Stefano Sollima: “È intelligente. Interessante. Arguto. Non so se durerà”.

Chi è? Il regista di Gomorra?

Sì, anche.

Io spero che non duri la Camorra, così non gira più nulla. Oh, mi raccomando, precisate sempre il tono scherzoso.

“Non mi godo il successo, sono coglione e soffro”. queste sono parole sue.

E purtroppo confermo, sono perennemente in ansia e ne paga le conseguenze la mia famiglia (la moglie annuisce).

Signora, suo marito quanto ha dormito negli ultimi giorni?

Poco e stressa tanto: è un rompipalle, prende la Melatonina, poi sta male e va perennemente tranquillizzato con frasi tipo: ‘Andrà tutto bene, stai facendo un ottimo lavoro’.

E serve?

A volte, poi si ributta giù, perché sul lavoro è un perfezionista. Solo sul lavoro.

Lo è sempre stato o lo è diventato?

Diventato.

(Torna Luca Medici) Sente l’ostilità del cinema italiano?

Ostilità mi sembra esagerato, comunque in questo settore si gode più della sconfitta altrui che dei propri successi, e questa ostilità un po’ la capisco; in tedesco si dice schadenfreude…

Davvero?

Se Tolo Tolo non dovesse andare bene, tantissimi amici e colleghi brinderanno e questo atteggiamento lo considero umano, e probabilmente al posto loro farei lo stesso.

Un film italiano che le è piaciuto?

Anime nere e Dogman. Più Dogman.

Antonio Manzini sostiene: “Ora che sono uno scrittore da classifica, mi chiedono opinioni su tutto. Eppure sono quello di prima che non contava nulla”.

Io qualunque cosa dico scoppiano le polemiche.

Qualunque.

Televisione, giornali, social, sempre la medesima reazione.

Quando parla riflette più di prima?

Un po’ sì.

È meno libero.

È così; tempo fa scrivo una canzoncina, e il titolo originario era: Gnocca d’Africa. Uno dei miei collaboratori un giorno mi chiama: ‘Sai, Luca, devo depositarla alla Siae, però Gnocca d’Africa mi sembra troppo, meglio Se t’immigra in mezzo al cuore’.

Risultato?

Ho accettato, temevo l’accusa di sessismo, anche se è meno efficace.

Oggi in Italia è più eticamente sensibile il fascismo o il sessismo?

Di tutta questa polemica quella di razzismo era talmente surreale che mi ha divertito; invece non ho tollerato il sessismo, quando nel film ho creato un bellissimo ruolo per Amanda (una delle protagoniste).

Proprio ci tiene.

Per anni al cinema e in televisione abbiamo vissuto le docce più strampalate, le scene più assurde, mentre nelle mie pellicole non sono mai pruriginoso, non ho mai fatto spogliare un’attrice, non ho mai toccato un culo (e guarda la moglie) quindi l’accusa di sessismo non la tollero.

A cena preferirebbe andare con Salvini o Greta Thunberg?

Con Salvini, ma solo perché Greta non mi farebbe mangiare nulla e romperebbe per i piatti di plastica.

Teo Teocoli: “Zalone è l’Abatantuono degli anni Ottanta”.

Teo è un amico e vorrei tanto essere il Teocoli degli anni Ottanta.

Nel film cita Mussolini e fa recitare Vendola: in mezzo c’è qualche politico in cui credere?

Non lo so, sono la faccia della stessa medaglia, con leader tutti presi da loro stessi, oppressi da un ego smisurato…

E…

Alla fine si confondono tra loro, e tra questi c’è Matteo Renzi che un tempo ho votato: anche lui è affetto dalla malattia dell’“io”.

Sul set qualcuno la chiamava “maestro”?

Ma che scherziamo? Davanti mi chiamavano Luca, poi alle spalle mi prendevano in giro…

Greta e il pianeta agli sgoccioli Trump, impeachment-show

 

Donald Trump

Nazione: Stati Uniti

Che Donald Trump finisca sotto accusa (“impeached”) e debba lasciare con ignominia la Casa Bianca, prima del termine del suo mandato, è ipotesi remota, al tramonto del 2019 e all’alba del 2020: il Senato lo giudicherà, probabilmente, a gennaio, e lo assolverà, perché questo è un processo politico, non giuridico. La Camera, dove i Democratici sono maggioranza, lo ha rinviato a giudizio per abuso di potere e ostruzione alla giustizia; il Senato, dove i Repubblicani sono maggioranza, non lo condannerà e cercherà di mettere sul banco degli imputati i Democratici che lo hanno inquisito. L’impeachment era nell’aria dall’inizio della presidenza, anzi dalla notte in cui Trump fu eletto presidente, percepito come un “usurpatore” perché il verdetto dei Grandi Elettori contraddiceva quei tre milioni di voti popolari in più andati a Hillary Clinton. I Democratici hanno prima testato per 30 mesi la via del Russiagate, rivelatasi un vicolo cieco anche perché il procuratore speciale Robert Mueller temporeggiava (‘non lo rinvio a giudizio, ma non lo assolvo’); poi in 30 giorni si sono buttati a corpo morto nell’Ukrainagate. Dove Trump ha certamente fatto tutte le male azioni che gli vengono contestate, ma che non eccita i cuori e non scandalizza le menti. E, così, l’impeachment tentato e non riuscito potrebbe diventare un boomerang per i Democratici e rivelarsi un trampolino di lancio per il presidente verso la rielezione a Usa 2020 il 3 novembre.

Voto: 4

 

Boris Johnson
Nazione: Regno Unito

È l’anno perfetto di Boris Johnson: ha finalmente coronato il sogno di bambino di farsi “re del mondo”, anche se il mondo è un Regno Unito lacerato dalle conseguenze politiche della Brexit. A dicembre 2018 era ancora l’eterna promessa del partito conservatore, costretto a scusarsi in Parlamento per 52 mila pound di guadagni non dichiarati. Nei mesi successivi non ha perso occasione di picconare il governo di Theresa May, fino a prenderne il posto a luglio. Da primo ministro ha radicalizzato lo scontro fra il suo governo e il Parlamento britannico, presentandosi agli elettori come il campione del popolo contro l’istituzione. Ha imposto la sospensione del Parlamento per 5 settimane, garantendosi l’assenso della Regina con motivazioni che la Corte Suprema ha dichiarato illegittime; poi ha sbloccato l’impasse ottenendo elezioni anticipate. Le ha stravinte ripetendo alla nausea un unico slogan, “Get Brexit Done”, e promettendo una linea dura anti-immigrazione. Uscito indenne da gaffe e scandali, oggi ha una maggioranza solida, il suo piano di uscita dall’Ue appena approvato in seconda lettura dalla neo-eletta Camera dei Comuni con una maggioranza addirittura superiore a quella ottenuta alle elezioni, la Brexit promessa finalmente dietro l’angolo, il Labour stordito dalla disfatta elettorale e Corbyn fuori dai giochi. Lo aspetta un 2020 di resa dei conti. Ne uscirà da clown, Joker o nuovo Pericle?

Voto: 5

 

Carrie Lam
Nazione: Cina-Hong Kong

Le proteste contro il governo di Carrie Lam – leader vicina alla classe dirigente di Pechino – iniziano il 9 giugno in risposta a un emendamento sulla legge per le estradizioni. Secondo la nuova norma, la Cina potrà chiedere l’estradizione di persone arrestate sul territorio dell’ex colonia britannica. Per i movimenti pro democrazia, si tratta dell’ennesimo tentativo del Dragone di limitare le libertà a Hong Kong. Da quel giorno, la polizia ha arrestato 6.105 persone, di cui 2.430 studenti. Da metà agosto, Pechino ha aumentato la presenza di truppe a Shenzhen, sul confine continentale. La protesta è stata la scintilla che ha portato nelle strade migliaia di persone per ogni fine settimana, e gli scontri con la polizia sono stati, in modo esponenziale, sempre più duri. In alcuni casi, gli agenti hanno sparato a bruciapelo, in altri, gang legate al crimine organizzato delle Triadi hanno pestato i dissidenti alle fermate della metropolitana. Carrie Lam ha ritirato la proposta di legge, ma non è bastato. Il movimento ha fatto cinque richieste: le dimissioni di Lam, elezioni realmente democratiche, nessuna ingerenza cinese nel sistema giuridico, una indagine indipendente sulle violenze delle forze dell’ordine, la scarcerazione degli arrestati. Secondo Bank of England gli scontri continui e la minaccia di intervento di Pechino hanno provocato una fuga di capitali di 5 miliardi di dollari.
Voto: 2

 

Greta Thunberg
Nazione: Svezia

Persona dell’anno per il 2019 secondo il Times, Premio internazionale per la Pace dei bambini, Nobel mancato, Greta Thunberg, la sedicenne svedese che lotta contro i cambiamenti climatici ha segnato per sempre il modo in cui i suoi coetanei vedono questo mondo. Ma soprattutto ha dato una sveglia agli adulti: agiscano prima che sia troppo tardi. Certo, insulti a parte – in questo ha messo d’accordo il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che le ha dato della “mocciosa” e il suo omologo statunitense Donald Trump, che su Twitter l’ha definitiva una ragazzina ridicola che deve lavorare sulla gestione della rabbia – la sua campagna Fridays for Future, seppure abbia coinvolto decine di migliaia di persone in numerosi Paesi, non pare aver sortito grossi risultati. Il summit per il clima tenutosi a Madrid a dicembre non ha segnato un punto a favore dell’azione immediata sugli accordi di Parigi. La resistenza all’abbassamento dei livelli di CO2 da parte di Cina, Arabia Saudita, Giappone e Stati Uniti è ancora forte, per non parlare della deforestazione dell’Amazzonia contro la quale si battono davvero solo le popolazioni indigene a cui Greta a Madrid ha dato voce. Ma la sedicenne svedese ha prontamente dichiarato di non lasciarsi abbattere da questo fallimento. “Non ci arrendiamo, abbiamo appena iniziato”, ha detto a conclusione della Cop25. Una cosa è certa, dall’arrivo di Greta sulla scena il motto “Non c’è più tempo” è diventato universale.

Voto: 10

 

Baghdadi “Il califfo”
Nazione: Iraq

Vi sono personaggi che occupano a lungo le cronache con violenza e virulenza; e poi finiscono in un cono d’ombra da cui escono solo con un lampo di luce alla loro morte. Abu Bakr al-Baghdadi, ultimo nome noto dell’auto-proclamato Califfo, votatosi all’integralismo in un carcere militare statunitense in Iraq, stava nel cono d’ombra da quasi due anni, cioè dopo la disfatta territoriale del suo sedicente Stato islamico, la perdita di Raqqa, la capitale, la presa di Baghouz, l’ultima roccaforte. Nella notte tra il 26 e 27 ottobre, un commando Usa informato da una talpa che intasca 25 milioni di dollari, lo stana a Barisha, nel nord-ovest della Siria, vicino a Idlib, a 5 chilometri dalla frontiera turca: il califfo si fa saltare in aria con un figlio, innescando una cintura esplosiva. Nel blitz, durato circa due ore, sarebbero state uccise pure due delle mogli e numerosi miliziani. Donald Trump lo dileggia, “È morto come un vigliacco”. E posta una foto di lui e del suo staff che seguono in diretta la fine del Califfo. Ma è un falso, una messa in scena: la foto è stata presa a cose fatte, tutti in posa a guardare la telecamera. Nessuno parla più di come è morto il Califfo, ma dell’ennesimo trucco del magnate e showman. La stessa notte, in un’altra operazione, viene ucciso Abu Hassan al-Muhajir, il portavoce dell’Isis. Che di lì a poco si dà un nuovo Califfo, Abu Hamzaal-Quraishi, il quale avvisa gli Usa di “non gioire” perché Daesh continuerà la sua battaglia sia dentro che fuori dal Medio Oriente.

Voto: 0

 

Benjamin Netanyahu
Nazione: Israele

L’annus horribilis di Benjamin Netanyahu – votato in quattro elezioni dal 2009 e con un record di 13 anni al potere che gli ha fatto superare David Ben Gurion, uno dei fondatori dello Stato Ebraico – si è aperto con un fallimento alle elezioni di primavera, quando il suo Likud non è stato in grado di sbaragliare un partito che due mesi prima nemmeno esisteva, Kahol Lavan (Blu e Bianco). Finì in un sostanziale pareggio con il partito dei generali esordienti in politica, come Benny Gantz per quattro anni comandante in capo dell’Idf. Per un risultato comunque scarso, Netanyahu ha imbarcato nella sua alleanza della destra elementi che erano stati espulsi dalla politica, come gli eredi politici del rabbino razzista Kahane e i suprematisti ebraici. Scommettendo sulla sua vittoria, Netanyahu ha spinto politicamente per nuove elezioni nella disperata corsa contro il tempo. Perché dopo l’incriminazione – nei tre casi di corruzione, frode e abuso di potere a fini personali per cui andrà a processo – può sperare nell’immunità solo se resta premier. Il voto d’autunno non ha cambiato le cose e per la prima volta nella sua storia Israele voterà una terza volta consecutiva il prossimo 2 marzo. Netanyahu stavolta spera di farcela; ha già vinto la fronda interna che avanzava nel Likud: Gideon Sa’ar lo ha sfidato per la leadership, ma si è dovuto ritirare con un ben misero risultato. Nel partito il motto “tutti per uno” è ancora “tutti per Bibi”.

Voto: 4

 

Pedro Sánchez
Nazione: Spagna

Premier in carica per soli otto mesi, dal febbraio 2019 Pedro Sánchez è il primo ministro uscente e contemporaneamente incaricato di formare un nuovo governo, dopo la caduta del suo precedente per mano degli indipendentisti catalani che dopo mesi di tira e molla non gli votarono la manovra economica. Alle elezioni di giugno, però, il partito socialista di cui Sánchez è leader non ha ottenuto una maggioranza in grado di governare, risultato confermato alle votazioni di novembre, le seconde in un anno. L’unica differenza tra le due tornate elettorali, oltre all’astensionismo degli spagnoli stanchi di andare al voto, è stato l’accordo programmatico in 10 punti sottoscritto tra Psoe e Podemos di Pablo Iglesias per un esecutivo di coalizione progressista, inedito viste le idiosincrasie tra i due. Tuttavia questo passo in avanti per dare un governo alla Spagna è stato neutralizzato dalla sentenza della Corte di Giustizia di Strasburgo che ha riconosciuto un errore da parte di quella di Madrid nell’infliggere la prigione preventiva a uno dei leader catalani, Oriol Junqueras, poi condannato dalla sentenza del Supremo a 13 anni per sedizione e malversazione in relazione ai fatti del referendum per l’indipendenza del 2016. Questo ha aperto una nuova crepa nel dialogo tra i separatisti di Esquerra republicana e i socialisti sull’appoggio degli indipendentisti al futuro governo. Il nuovo anno potrebbe portare buone nuove, oppure un febbraio elettorale.

Voto: 5

 

Nicolas Maduro
Nazione: Venezuela

Dopo un anno di manifestazioni represse nel sangue, di espatri di centinaia di migliaia di cittadini nei Paesi limitrofi per trovare cibo e medicine e di arresti arbitrari da parte del regime di Nicolas Maduro, il Venezuela rimane un Paese diviso e in crisi sotto ogni profilo. Il muro contro muro tra il presidente “chavista” e il presidente ad interim riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale, in primis gli Stati Uniti , Juan Guaidó, potrebbe sgretolarsi il 5 gennaio 2020. Si tratta di una data chiave per le sorti del Paese latinoamericano perché i membri dell’Assemblea nazionale voteranno per decidere se il leader dell’opposizione, Juan Guaidó, che attualmente la guida, verrà riconfermato. Se accadrà, Guaidó potrà continuare a dichiarare di essere il presidente ad interim del Venezuela, essendo Maduro stato eletto per il secondo mandato presidenziale attraverso brogli riconosciuti da molte nazioni del mondo. I parlamentari fedeli a Maduro promettono già di inficiare il voto essendo contrari alla decisione del Parlamento di permettere ai candidati dell’opposizione di votare via posta elettronica per sfuggire alle ritorsioni del regime. Gli onorevoli maduristi contesteranno formalmente il risultato – se Guaidó verrà riconfermato – presso la Corte suprema del Paese, che è costituita da uomini dell’erede di Chavez sostenuto dalla Russia. Senza l’aiuto di Putin, Maduro sarebbe probabilmente caduto l’estate scorsa.

Voto: 4

 

Emmanuel Macron
Nazione: Francia

5 dicembre 2019. Almeno 800 mila francesi scendono nelle strade per protestare contro la controversa riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron. È il primo giorno di una vasta mobilitazione sindacale che continua a paralizzare il Paese. Il governo intende riformare il sistema pensionistico, che conta 42 sistemi di calcolo diversi, e instaurare un sistema “universale a punti”. Il progetto viene presentato come “equo” e più giusto ma implica la soppressione dei “regimi speciali”, tra cui quello dei ferrovieri, più vantaggioso di altri, e lo spostamento in avanti nel 2022 a 64 anni dell’età pensionabile a tasso pieno, invece dei 62 attuali. Una misura a cui sono contrari anche i sindacati più moderati e riformisti, pronti al dialogo, come la Cfdt di Laurent Berger. La riforma di fatto non era una novità, perché faceva già parte del progetto presentato in campagna elettorale del candidato Macron. Ma la collera è esplosa lo stesso. I sindacati più radicali, come la Cgt del carismatico leader Philippe Martinez, ne chiedono il ritiro. Una nuova giornata di sciopero generale, la quarta, è già annunciata per il 9 gennaio. Un altro episodio ha messo alla prova il presidente: la sera del 15 aprile la cattedrale di Notre-Dame è stata distrutta da un incendio. Per la prima volta in 200 anni non c’è stata messa di Natale. Macron aveva promesso una ricostruzione record in cinque anni. Otto mesi dopo si sa che il restauro vero e proprio non inizierà prima del 2021.

Voto: 5

 

Recep T. Erdogan
Nazione: Turchia

Per la stampa che lo attacca, Recep Tayyip Erdogan è il “Sultano”. L’uomo che ha in mano il destino di una nazione, anche se il suo strapotere ha iniziato a scricchiolare avendo perso in giugno le elezioni-simbolo a Istanbul. Ha vinto Ekrem Imamoglu (Partito popolare repubblicano) superando Binali Yildirim, ex premier legato al presidente. Successo doppio per Imamoglu; la prima consultazione era stata annullata proprio per le pressioni di Erdogan che aveva chiesto di ripeterle a causa di “brogli”. È stata la prima volta in 25 anni che la formazione di governo, il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) è stato sconfitto a Istanbul. Il “Sultano” ha cercato di recuperare la sua popolarità riproponendo un tema a lui caro: la sconfitta dei terroristi curdi. Il 9 ottobre le truppe di Ankara hanno invaso il nord della Siria: l’operazione “Fonte di pace” ha avuto lo scopo di creare una zona-cuscinetto a est del fiume Eufrate. Nessuna pietà per le forze curde che fino a quel momento sono state baluardo contro l’Isis. L’America di Trump si defila, l’Unione europea abbaia ma non morde – e resta sotto scacco dinanzi alla minaccia della Turchia di mandare via milioni di rifugiati – la Nato sta a guardare e le milizie dell’Ypg restano sole. Erdogan ha la sua vittoria, e ora immagina di replicare lo schema in Libia. Il piano è spedire truppe ad aiutare il governo di al Sarraj nel respingere l’assedio di Tripoli messo in atto dal generale Haftar.

Voto: 2

 

A cura di Valerio Cattano, Luana De Micco, Giampiero Gramaglia, Alessia Grossi, Sabrina Provenzani, Fabio Scuto e Roberta Zunini

Ue, la missione proposta da Roma si terrà il 7 gennaio

L’unica notizia certa nella crisi libica è che il 7 gennaio si terrà la missione dell’Unione europea, che era stata proposta dal ministro degli Esteri Di Maio; a confermarlo l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell (nella foto) in un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri libico Mohammed Taher Syala. Sarà lo stesso Borrell a guidarla; oltre a Di Maio ci saranno i suoi omologhi di Francia, Germania e Regno Unito. La Farnesina conferma: “Si tratta di un passo avanti ma stiamo ancora definendo i dettagli”. Sul campo, una serie di notizie difficilmente verificabili: l’Esercito nazionale libico (Lna) guidato dal generale Khalifa Haftar, secondo Al Arabiya, ha rivendicato di aver preso il controllo dell’aeroporto di Tripoli (30 km a sud della Capitale, chiuso dal 2014), di alcuni depositi di carburante, del ponte Al-Frosseya e del campo militare di Al Naqlia. Al Arabiya segnala scontri sulle strade che portano al centro della capitale Tripoli ancora difesa dalle forze fedeli al governo di al Sarraj. Gli ufficiali di Haftar fanno annunci: “Fra poche ore ci saranno sorprese”. Sarraj spera che prima di queste sorprese arrivino i rinforzi turchi: si è diffusa la voce che i primi ad essere schierati saranno i miliziani siriani alleati di Ankara. Un loro impiego può avvenire senza autorizzazione da parte del parlamento turco. Youssef Hamoud, dell’Esercito nazionale siriano, interpellato da Aki-Adnkronos International smentisce. Si sono parlati anche i due alleati di Haftar, l’Egitto e la Russia: il presidente Putin e il presidente egiziano al Sisi, “hanno confermato la loro intenzione di coordinare gli sforzi per stabilizzare la situazione”.

Il Likud, da partito a regno di Bibi

Non c’è quasi nulla da imparare dal risultato nelle primarie del Likud di giovedì notte. Ha confermato ciò che si sa da tempo: Benjamin Netanyahu è il più abile politico della scena israeliana degli ultimi 15 anni. Il Likud – che fu di Menachem Begin, Yitzhak Shamir e Ariel Sharon – ha da tempo cessato di essere un movimento ideologico e si è trasformato nel ‘partito Bibi’, eletto nuovamente leader con oltre il 70% dei consensi.

Viste le circostanze, il 27,5 per cento dei voti dovrebbe essere visto come un risultato decente per il suo sfidante Gideon Sa’ar. Sapeva che le sue possibilità erano scarse e sperava di superare il 30 per cento, soglia psicologicamente importante. Ma come è successo in tante elezioni, Netanyahu ha lavorato molto più duramente del suo rivale. Il video nel quale lo si vede telefonare ai singoli elettori e persino cercare le babysitter – in modo che gli iscritti al partito potessero uscire e votare per lui – non era una scena preparata. Questa è la mentalità di Netanyahu: combatte per ogni voto. All’età di 70 anni, e dopo così tante elezioni, non ha cambiato modo di fare o perso lo sprint dei momenti iniziali. E i Likudniks, gli uomini del partito, lo hanno votato una volta in più perché hanno intuito che in lui c’è ancora voglia di battersi e di lottare.

Bibi ha ancora dentro quel fuoco che uno sfidante molto più giovane non ha saputo accendere. La gente di Sa’ar ha esortato i membri del partito mentre entravano nei centri elettorali che “un voto per Netanyahu è un voto per il prossimo leader dell’opposizione. Un voto per Sa’ar è per il prossimo primo ministro”. Ma non sono riusciti a convincere la maggioranza del partito. Il Likud è fedele a Netanyahu perché crede ancora di poter vincere con lui, così come gli altri partiti della Destra e la comunità ultraortodossa, a eccezione di Yisrael Beiteinu, il partito dell’ex sodale Avigdor Lieberman. La prossima settimana, come previsto, Netanyahu chiederà l’immunità parlamentare dalle sue accuse di corruzione, frode e violazione della fiducia. Ed è consapevole che questo potrebbe non aiutarlo nel voto di marzo, ha vinto solo le primarie nel partito. Sa che, lo indicano i sondaggi, la maggioranza degli israeliani vorrebbe mandarlo a casa, e che la scelta che sta presentando potrebbe spingere ancor di più gli elettori della destra storica a rimanere a casa o votare per Kahol Lavan di Benny Gantz il prossimo 2 marzo. Ma è disposto a scommettere. Gli ultimi sondaggi danno il partito di Gantz, avanti tre-quattro seggi rispetto al Likud. Ma nel suo primo discorso dopo il voto, Netanyahu ha indicato la strada per recuperare terreno. Ha ringraziato Trump, per le sue “decisioni storiche” di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, trasferire l’ambasciata Usa nella Città Santa, di ritirarsi dall’accordo nucleare iraniano, di riconoscere la sovranità di Israele sulle alture del Golan e di non considerare più illegali gli insediamenti colonici in Cisgiordania. Netanyahu ha promesso “passi storici” nei prossimi anni in caso di vittoria al voto e ha definito un piano il cui primo atto – in aprile – sarà l’estensione della sovranità israeliana nella Valle del Giordano e il suo immediato riconoscimento dagli Stati Uniti. Una sfida per gli arabi e un’umiliazione per la comunità internazionale che ancora insegue il fantasma della soluzione “dei due Stati”.

Il figlio combatte l’Isis, la polizia arresta il padre

Il figlio parte per combattere con i curdi dell’Ypg in Siria, il padre viene arrestato per complicità in terrorismo. Si tratta del primo caso nel Regno Unito. In Italia, i giovani volontari di Torino hanno subito un processo, ma almeno le famiglie sono state risparmiate dal punto di vista penale. Protagonista – ma di certo non avrebbe voluto esserlo – è Paul Newey, 49 anni, portato negli uffici di polizia assieme al figlio Sam, 18 anni; per 13 ore, racconta il Guardian, sono stati interrogati sulla scelta di Dan Newey, 27 anni, che ha lasciato il Regno Unito nel 2017 e si è recato nel nord-est della Siria per unirsi all’Ypg. Rientrato in patria, Dan era ripartito per la Siria in ottobre, quando la Turchia ha lanciato l’attacco per creare la sua “zona cuscinetto”; per Ankara, l’Ypg è una formazione terroristica.

La vicenda ha coinvolto anche la madre del volontario: ancora il Guardian riporta che gli agenti sono entrati in casa di Vikki l’11 dicembre; la donna ha trascorso 12 ore in una stazione di polizia ed è stata interrogata prima di essere rilasciata. L’accusa verso Newey padre si basa sul Terrorism Act 2000 e prevede una pena fino a 14 anni di reclusione. Newey è rimasto in carcere quattro giorni ed è stato rilasciato su cauzione. Non è stata ancora fissata una data in tribunale per il suo processo. Ci sono dei precedenti: in giugno John Letts e Sally Lane, di Oxford, sono stati condannati a 15 mesi di detenzione (12 mesi sono stati sospesi) per aver inviato al figlio 223 sterline nel settembre 2015, quando era in Siria a contrastare lo Stato Islamico. Una situazione paradossale perchè – come del resto ha fatto l’Italia inviando i suoi corpi speciali con compiti di addestramento – anche Londra ha aiutato i combattenti curdi fornendo armi e supporto delle truppe di terra, essendo parte della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro i jihadisti del ‘califfo’ al Baghdadi. Eppure, verso il padre di Newey è stata usata la stessa formula che è stata in genere utilizzata per mettere con le spalle al muro i familiari e gli amici dei britannici che si sono uniti all’Isis. La condizione dei volontari internazionali che si uniscono ai curdi siriani è diventata più complicata da quando gli Stati Uniti – su volere del presidente Donald Trump – si sono ritirati e la Turchia ha invaso il nord della Siria; questo significa, tecnicamente, che i ragazzi che si uniscono all’Ypg combattono non solo le cellule dell’Isis ancora attive, ma pure le truppe di Ankara che sono alleate dell’Inghilterra nella Nato.

Nel maggio 2019, Sajid Javid, allora ministro dell’Interno, intimò a tutti i cittadini britannici che si trovavano nella Siria nord-orientale di andare via entro 28 giorni, altrimenti poi avrebbero rischiato una condanna fino a 10 anni se avessero tentato di rientrare. C’è chi ritiene queste decisioni del governo inglese uno schiaffo e un insulto a quanti hanno versato sangue per fermare i jihadisti che si erano impadroniti di una parte della Siria e dell’Iraq, mettendo in atto attentati sanguinosi anche in Europa. Centinaia di volontari internazionali si sono recati in Siria dal 2014 per combattere a fianco delle forze curde, almeno sette cittadini britannici sono stati uccisi nella guerra all’Isis.

New York e la faida delle lattine

Scene di vita newyorchese, all’epoca del ‘Grande Spreco’ messo al bando. Venerdì pomeriggio nell’Upper East Side di Manhattan, il quartiere dei ricchi per antonomasia – vedere il film Sei gradi di separazione per credere – ad appena tre isolati dalla residenza del sindaco, Gracie Mansion: Rosa, una donna di colore, aspetta fuori da un edificio degli anni Trenta, un condominio dove gli affitti raggiungono 13.500 dollari al mese. All’ora solita, il portinaio del condominio se ne esce con una ventina di sacchi blu contenenti lattine e bottigliette in plastica e li deposita sul marciapiede, per la raccolta differenziata. Poi passa a Rosa alcuni sacchi delle immondizie vuoti da 50 galloni l’uno, circa 200 litri: “Serviti pure, Mami”. E la donna comincia a guadagnarsi da vivere: travasa nei suoi sacchi lattine e bottigliette: valgono 5 centesimi l’una, se restituite; 20 fanno un dollaro.

Non è una scena inedita. Ed è il prodotto di una somma di fattori: la crisi, le norme (che potrebbero presto cambiare) e solo da ultimo l’accresciuta coscienza ambientale. Nel 2013, Maria Teresa Sette, ex editor di Wired riportava già, nel suo blog: “A Broadway, nella Manhattan dei musical e dei neon, un senzatetto si trascina dietro su un carrello di supermercato un’enorme busta di plastica trasparente. Il sacco straripa di bottiglie e lattine vuote. E, camminando per le strade di Manhattan, la scena si ripete. Stessi sacchi, stessi carrelli, volti diversi”. Quello dei raccoglitori di lattine e bottiglie di plastica è un fenomeno che ha dimensioni notevoli, oggi, nella Grande Mela. Dionisia Rivera, ispanica, si fa fotografare da Andrew Seng mentre rovista fra i sacchi blu di un altro condominio: lei – spiega – vende quel che trova a un camioncino che passa ogni giorno e carica, pagandolo, quello che lei e gli altri hanno recuperato. L’economia in rapida transizione verso il digitale e l’automazione, dove muoiono lavori tradizionali a bassa qualificazione e basso reddito, alimenta le fila dei raccoglitori, che sono migliaia: tra 4.000 e 8.000 secondo alcune stime. Un numero elevato, indice delle crescenti disparità e dell’aumento delle persone in difficoltà nella metropoli. Oltre che vendute sulla strada, lattine e bottigliette possono essere portate ai dipartimenti di raccolta e riciclo. Redemption, un documentario prodotto da Hbo e nominato agli Oscar per i docu short, racconta – scrive la Sette – “la storia di questo popolo di emarginati, spesso immigrati senza documenti, o gente che ha perso il lavoro e da un giorno all’altro s’è ritrovata per strada a raccattare lattine e bottiglie di plastica rovistando nei bidoni della città”. Coalition for the Homeless stima a decine di migliaia la popolazione di New York che ogni notte dorme per strada, con un forte aumento mai veramente riassorbito rispetto a prima della crisi del 2008/09.

L’economia cresce, ma gli ultimi della classe non ne traggono vantaggio. Anzi, il gap s’allarga. Nulla a che vedere con gli homeless per eccesso di avidità degli anni Ottanta: tipo i fratelli Duke, portati sullo schermo da Don Ameche e Ralph Bellamy, che da ricchi finanzieri in Trading Places del 1983 (in Italia Una poltrona per due) si ritrovano, a opera di Eddie Murphy e Dan Aykroyd, ridotti a barboni.

Quello delle lattine e delle bottigliette pare un popolo senza speranze di riscatto. Anche se il boom del business innesca litigi, risse e guerre dei prezzi: dove i terreni di raccolta non sono ben definiti, come davanti ai condomini presidiati da Rosa e Dionisia, i raccoglitori si contendono i sacchi blu e le loro miserrime ricchezze.

E ora la situazione potrebbe ulteriormente esacerbarsi se fosse approvata una norma portata avanti dal governatore Andrew Cuomo, che mira ad ampliare il deposito alle bottiglie di vino e liquori. Anche se proprio la coscienza ambientale fra le concause del successo del recupero e del riciclaggio potrebbe rapidamente ‘uccidere’ l’attività, con la diffusione delle borracce che si riutilizzano e la scomparsa definitiva di lattine e bottiglie di plastica.

Adesso Facebook reclama contro il sì a CasaPound: “Da loro odio organizzato”

“Ci sono prove concrete che CasaPound sia stata impegnata in odio organizzato e che abbia ripetutamente violato le nostre regole”. Facebook non si arrende e annuncia di aver presentato un reclamo contro l’ordinanza del Tribunale di Roma che il 12 dicembre scorso ha ordinato l’immediata riattivazione della pagina di CasaPound e del profilo personale del leader del gruppo di estrema destra Simone Di Stefano.

“Non vogliamo che le persone o i gruppi che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono utilizzino i nostri servizi, non importa di chi si tratti. Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose che vieta a coloro che sono impegnati in odio organizzato di utilizzare i nostri servizi. Partiti politici e candidati, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia” ha spiegato un portavoce del popolare social network. La disattivazione della pagina ufficiale era avvenuta il 9 settembre scorso.

La replica di Casapound non si è fatta attendere. “I reclami di Facebook sembrano scritti da un militante dei centri sociali. Noi non facciamo ‘odio organizzato’ e non può essere Facebook a stabilire chi parla e chi no, è lo Stato a dire se siamo illegali” ha dichiarato Di Stefano. Solidale Roberto Fiore, vertice di Forza Nuova, che parla di “repressione del pensiero. La polizia politica di Zuckerberg cerca di colpire la campagna di Forza Nuova contro il governo di estrema sinistra e Bruxelles. Risponderemo con più piazza e più reclutamento”. La società di Menlo Park chiuse quelle pagine nel giorno della manifestazione a Roma organizzata in occasione del voto di fiducia al governo Conte. Non è la prima volta che la ‘creatura’ di Mark Zuckerberg interviene: nei mesi passati ha bloccato la pagina di un’organizzazione che in Myanmar fomentava odio, un’associazione razzista in Australia e in Gran Bretagna il ‘Britain First’ per aver “pubblicato contenuti per incitare all’odio contro le minoranze”.

Lacrime per Camilla e Gaia Polemiche sui domiciliari

“Il senso della mia vita sei tu”. Sono della sorella di Camilla le parole più toccanti nella giornata dei funerali delle due 16enni romane, Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, travolte e uccise la notte del 22 dicembre, in corso Francia, dalla Renault Koleos guidata da Pietro Genovese, 20enne figlio del regista Paolo. Un interrogativo che la ragazzina aveva posto ai suoi familiari, a tavola, pochi giorni prima della sua morte e che hanno costituito il canovaccio dell’omelia di rabbia pronunciata da don Gianni Matteo Botto, parroco della chiesa del Preziosissimo Sangue in via Flaminia Vecchia. “Qual è il senso della nostra vita? Mandarla in fumo? Berci la nostra vita? – ha attaccato il sacerdote – Oggi ci riscopriamo tutti un po’ palloni gonfiati”. Le canzoni di Jovanotti e Tiziano Ferro hanno fatto da colonna sonora all’uscita delle bare bianche, fra le lacrime di migliaia di persone, fra cui tantissimi compagni del liceo linguistico De Santis: “Non ti dimenticheremo mai, le nostre notti non sono più le stesse”, ha detto, singhiozzando, Giorgia, un’amica di Gaia.

Da giovedì sera Genovese è ai domiciliari. Il ragazzo sarà interrogato il 2 gennaio dal gip Bernadette Nicotra. I genitori di Gaia, Gabriella Saracino ed Edward Von Freymann, si sono rivolti per la loro difesa all’avvocato ed ex ministro leghista, Giulia Bongiorno. “Quando troveremo le parole giuste diremo la nostra sulle tante ricostruzioni diffuse dai media con troppa leggerezza”, ha fatto sapere la coppia, in riferimento i rilievi della Polizia Locale che ipotizzano che le ragazze stessero attraversando a Corso Francia, strada a tre corsie, fuori dalle strisce pedonali. Ipotesi che ha portato la sorella di Genovese, Emma, a scrivere sui social che “l’incidente è colpa di Gaia e Camilla”.

E proprio sui social il dibattito sulla congruità – in un senso o nell’altro – della misura cautelare a Genovese ha segnato la giornata di lutto. Per molti il deejay andava incarcerato, mentre c’è chi, come il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, su Twitter afferma: “Bastava impedirgli di guidare, sembra una condanna preventiva, un abuso frequente in Italia”, scatenando un vespaio di polemiche. Il gip ha deciso per i domiciliari contando sul pericolo di reiterazione del reato, anche in assenza della patente, mentre non è certo se le tracce di cocaina e cannabinoidi emerse dalle analisi siano riferibili alla sera dell’incidente: “Questa è la dimostrazione che la droga fa male”, ha sentenziato il leader della Lega, Matteo Salvini.

Niko Pandetta in concerto omaggia i mafiosi al 41-bis (tra cui suo zio Turi)

Concerto con dedica ai detenuti sottoposti al regime del 41-bis. È accaduto a Fisciano, provincia di Salerno, durante la vigilia di Natale all’esterno di un centro commerciale. Protagonista dell’esibizione il cantante neomelodico catanese Niko Pandetta, nipote di Salvatore “Turi” Cappello, boss dell’omonimo clan detenuto al 41bis a L’Aquila, lo stesso zio Turi di uno dei brani del cantante.

Pandetta è recentemente finito al centro delle polemiche per una frase del suo “collega” Leonardo Zappalà, in arte Scarface, su Falcone e Borsellino pronunciata nella trasmissione di Rai2 Realiti condotta da Enrico Lucci, in cui entrambi i cantanti erano ospiti: “Queste persone – disse Zappalà – che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro”. Nella stessa puntata del programma, Pandetta, invece, rivelò il modo in cui finanziò il suo primo album: “Ho compiuto una rapina e ho fatto il cd coi soldi della rapina, ho rubato una macchina e ho trovato 5 mila euro in contanti e ho fatto il cd. Prima facevo il cantante e rubavo, cantante e spacciavo… non sono pentito. Dal 2006 al 2010 sono andato in carcere, poi sono uscito e mi hanno preso di nuovo e ho fatto dal 2010 al 2016. Mio zio l’ho voluto omaggiare con una canzone, parla di lui; poi mio zio mi ha scritto dei testi, perché scrive pure canzoni al 41-bis”,

Pandetta ha anticipato il suo show musicale a Fisciano con un’esibizione in strada davanti ai suoi fan, cominciata con una dedica rivolta proprio a “tutti quelli che stanno al 41-bis con la speranza che possano tornare dalle proprie famiglie”. Dedica che ha fatto il giro dei social network in poche ore suscitando polemiche e indignazione. Il sindaco di Fisciano, Vincenzo Sessa, cade dalle nuvole: “Sono venuto a conoscenza dello svolgimento non autorizzato dell’esibizione solo attraverso i media, provando un forte sentimento di disprezzo per chi ha voluto così omaggiare i detenuti al 41-bis. Il nostro costante impegno a sostegno della legalità e contro le mafie non può essere messo in discussione da simili episodi”. I carabinieri della compagnia di Mercato San Severino (Salerno) hanno aperto un’indagine e sono al vaglio le immagini dei sistemi di video-sorveglianza per valutare eventuali presenze di persone note alle forze dell’ordine durante lo stesso concerto di Pandetta.

Ognuno si fumi solo la propria piantina: manuale Cassazione

Fumare una canna sul divano di casa guardando la televisione, magari con le gambe distese sopra un pouf, o conversando con gli amici potrebbe essere consentito dopo la sentenza della Cassazione resa nota due giorni fa: l’elemento decisivo è la piantina, personale, coltivata con strumenti rudimentali. Il day after la comunque storica affermazione delle sezioni unite della Cassazione si cerca di capire cosa cambia rispetto a prima, cosa è lecito e cosa no, mentre la politica, come spesso accade anticipata dai giudici, si azzuffa tra anti-proibizionisti che esultano e i soliti sacerdoti della conservazione il cui campione ormai è Matteo Salvini.

I limiti fissati dalla Cassazione per poter coltivare in casa cannabis sono essenzialmente due:

1) il consumatore può essere solo e soltanto lo stesso curatore materiale della pianta, diventerebbe invece reato il consumo anche di un altro familiare o in ogni caso il consumo di gruppo: quindi, ad esempio, un giovane che dedicasse qualche ora alla cura di una piantina di cannabis non potrebbe offrire la canna al padre o al fratello, ma neppure agli amici durante una festa in casa, certo non si capisce come questo si possa verificare;

2) le piantine devono essere necessariamente coltivate soltanto con “tecniche rudimentali”, non è chiaro cosa si intenda: un piccolo impianto di irrigazione, ad esempio, può essere considerato rudimentale?

Non ci sono limiti alla quantità di Thc, limiti che, invece, devono rispettare i venditori di cannabis legale (0,6 per cento contro i 5-8% di quella coltivata dallo Stato a fini terapeutici e contro il 20% del mercato illegale): il livello di Thc per la Cassazione non è determinante per chi ha la sua piantina da coltivare in autonomia in casa propria. La massima di diritto della Corte è tuttavia piuttosto chiara: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Devono però ritenersi escluse, in quanto riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

Quel che è certo è che ieri si sono aperte le porte del bar sport, con l’immancabile tuttologia dei leader politici, a cominciare dal capo della Lega Matteo Salvini: “La droga fa male, altro che coltivarsela in casa o comprarla in negozio. La Lega combatterà lo spaccio e la diffusione della droga sempre e ovunque”. Non mancano all’appello con i soliti ritornelli personaggi che sul proibizionismo intransigente hanno costruito carriere politiche e immagini pubbliche, come Maurizio Gasparri e Carlo Giovanardi. Anche la “sorella d’Italia” Giorgia Meloni dice la sua: “Siamo allibiti. Il messaggio che viene lanciato, soprattutto ai più giovani, è devastante e rischia di avere pesanti ripercussioni sulla società italiana, che già vive una drammatica emergenza droga”. Dello stesso tenore la nota mandata alle agenzie di stampa dalla Comunità di San Patrignano: “Esprimiamo la nostra più viva preoccupazione per le eventuali conseguenze che, da questa decisione, si potrebbero riverberare negativamente sul nostro sistema sociale, già duramente colpito da una comprovata emergenza educativa così come più volte ricordato anche da papa Francesco”.

Dal fronte anti-proibizionista la radicale Emma Bonino rivendica: “È il risultato di 40 anni di impegno, in particolare del mio impegno: si è rotto un tabu, è un primo passo per poter ragionare oltre i cliché e gli stereotipi”.

Intanto nella serata di Santo Stefano i carabinieri di Frascati hanno arrestato un 32enne, anche titolare di un negozio di marijuana light ai Castelli romani, ma trovato con una piantagione di marijuana nella sua abitazione di Rocca di Papa: sequestrati un chilo e 14.5 grammi di hashish, in casa una serra artigianale con 340 piantine di marijuana.