Alla pancia non si comanda: questa la morale del sondaggio del Corriere della Sera che ha incoronato volto televisivo degli anni Dieci Barbara D’Urso, la gastroenterologa del video. Qualcuno dirà: ma la D’Urso non fa una televisione vecchia? Appunto. La televisione generalista è un paese per vecchi, proprio come l’Italia. Con l’età i problemi intestinali aumentano, e la dottoressa Giò li cura con impiastri quotidiani di infotainment, quell’amplesso mostruoso tra informazione e intrattenimento a tutto vantaggio del secondo. La politica populista, pane e Nutella, ha trovato il suo naturale Papeete catodico. Ma diventano “informazione” anche le corna, i figli segreti, i matrimoni inventati, i ricatti, gli sputtanamenti, le vendette, le bancarotte. Tutto quello che fino al millennio precedente era demandato alle soap opera di quart’ordine ora si può vedere in diretta, nel reparto geriatrico in cui la dottoressa Giò esegue le sue colonscopie ai Vip alla canna del gas (grazie a lei abbiamo scoperto che l’ultima a morire non è la speranza, e nemmeno la vanità. È la sfiga). Infine, D’Urso incarna meglio di chiunque altro, con ammirevole sprezzo del pericolo, il complesso di Dorian Gray della Tv generalista. Con il trascorrere del tempo non aumentano gli anni. Aumentano i watt dei riflettori sparati, gli stivaloni da piratessa, lo studio astronave da baraccone. Nel favoloso mondo della dottoressa Giò siamo oltre il Gattopardo; nulla deve cambiare, perché tutto resti com’è.
Via la politica dalla Rai: ultima chiamata
“Il servizio pubblico ha toccato il fondo perdendo il senso della propria funzione”
(da un’intervista di Giovanna Melandri, ministra dei Beni culturali – Repubblica, 29 maggio 2000)
Si dice da sempre che la Rai è il sismografo della vita politica italiana: cioè lo strumento per misurare le scosse telluriche, o anche quelle di assestamento, che ne condizionano lo sviluppo. Ma al giorno d’oggi bisognerebbe ricorrere all’elettroencefalogramma per valutare l’attività del servizio pubblico radiotelevisivo. E forse si scoprirebbe così che è diventato “piatto”, prossimo ormai alla morte cerebrale.
Oggi la crisi della Rai rappresenta un’allegoria della paralisi che incombe sul sistema politico. Giovedì 19 dicembre Repubblica ha addirittura aperto la prima pagina con il titolo: “I partiti bloccano la mia Rai”. Mia di chi? Dell’amministratore delegato con pieni poteri, Fabrizio Salini, che la partitocrazia aveva insediato alla guida dell’azienda sotto la maggioranza giallo-verde e che non riesce a fare le nomine interne praticamente già annunciate. Non era un’intervista vera e propria, con un minimo di contraddittorio fra l’ad e un giornalista che pone domande, magari incalzanti, per ottenere risposte. No, era uno “sfogo”, com’era scritto del resto nell’occhiello di quello stesso titolo. Un retroscena, una confidenza raccolta durante una riunione informale del suo staff.
“I partiti paralizzano l’azienda, la politica resti fuori”, proclamava il prode Salini in quello sfogo, proprio lui che dalla politica è stato nominato. E ciò dopo un incontro riservato con il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che – secondo un altro retroscena del medesimo giornale – sarebbe avvenuto il 4 ottobre, non smentito da nessuno. Tant’è che, in seguito all’esternazione dell’ad, il Partito democratico s’è sentito in diritto e in dovere di rimbeccarlo: “Fa la vittima. Lavori se ne è capace”.
Ma è stato poi il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Beppe Giulietti, a toccare il punto centrale della questione, ricordando opportunamente in un tweet che “la legge in vigore attribuisce poteri senza precedenti a Salini: porti le sue proposte, chieda il voto e ne tragga le conseguenze”. Tutto ciò in forza della “riformicchia” varata a suo tempo dal governo Renzi. Quella stessa riforma da cui erano scaturite le nomine di Antonio Campo Dall’Orto ad amministratore delegato e direttore generale e di Carlo Verdelli a direttore editoriale, quest’ultimo costretto poi a dimettersi in seguito alla bocciatura (senza voto) del suo piano sul rilancio dell’informazione da parte del Consiglio di amministrazione.
Se ora il dottor Salini si sente paralizzato dalla politica che l’ha insediato, non deve fare altro che seguire quell’esempio e lasciare il suo incarico. Ma bisogna smetterla con l’ipocrisia di chi si fa nominare dai partiti e poi si ribella quando i partiti chiedono il conto. Altrimenti, un manager va avanti ed eventualmente si fa destituire dal consiglio di amministrazione, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte.
Sono passati (inutilmente) vent’anni da quando l’ex ministra Giovanna Melandri, nell’intervista rilasciata al sottoscritto e citata all’inizio di questa rubrica, avvertì che già allora il servizio pubblico aveva “toccato il fondo” e perso “il senso della propria funzione”. È il momento di prenderne atto una volta per tutte. La maggioranza giallo-rossa ha i numeri in Parlamento per procedere di conseguenza, smobilitando dalla Rai e affrancando l’azienda dalla sudditanza alla politica. Questa è davvero l’ultima chiamata. Ora o mai più.
La prescrizione piace ai buoni (e ai criminali)
GARANTISTA – Il 10 gennaio la Camera vota la proposta del forzista Costa per eliminare la legge che blocca la prescrizione; la ringrazio, Beccaria, per aver accettato il dialogo ed entro subito nel merito: la Bonafede allunga i processi e ne risente pure la sua celebre “presunzione d’innocenza”: siamo all’ergastolo processuale. Che ne pensa?
BECCARIA – Grazie a lei per l’opportunità che mi offre d’attualizzare il mio pensiero. In verità la questione è più complessa di come la pone: ho parlato anche di “certezza della pena”, e l’uso strumentale della prescrizione la calpesta, converrà con me che questo è un problema enorme che non si può sottovalutare.
G. – ‘Meglio un colpevole in libertà che un innocente in carcere’.
B. – Lo dice a me? Ho dedicato parte di Dei delitti e delle pene a questo tema, ma oggi è centrale un altro dato: troppi responsabili di atti gravi – omicidi, reati ambientali, crac bancari – sono in libertà per sopravvenuta prescrizione. Non va bene. Finiscono in carcere solo piccoli delinquenti e la gente non crede più nella giustizia.
G. – Scusi Beccaria, ma pensa davvero di evitare i ‘processi eterni’, sospendendo la prescrizione? Credo s’ottenga l’effetto opposto: avere imputati a vita.
B. – Lei inverte l’ordine dei dati reali, i processi s’allungano perché c’è interesse a dilatarli annullando la certezza che al reato segua la pena: oggi al reato segue la prescrizione, per abilità degli avvocati, per i giudici oberati da carichi di lavoro, per…
G. – Non la riconosco, che fine fa il suo garantismo?
B. – È che lei vede solo quest’aspetto del mio pensiero. In verità parlo anche di adeguata ‘proporzione fra delitti e pene’, del ‘danno alla società’ quale ‘vera misura dei delitti’ (cap. VIII). Quanti gravi danni, oggi, si commettono contro i cittadini e la società? Il garantismo è un valore, certo, ma oggi è diventato un alibi per chi delinque. Le sembra strano che non sopporti di essere strumentalizzato?
G. – Eppure lei ha lottato per trasformare l’antico ‘processo offensivo’ in processo ‘informativo’. C’è bisogno di tempo, di sentire le parti, i testimoni, gli…
B. – Giusto, ma i miei temi vanno letti al presente; le situazioni mutano. Oggi abili avvocati trovano il modo di allungare il processo con la richiesta di nuove perizie, ostruzionismi, escussione di nuovi testimoni, generando disuguaglianze. C’è una giustizia per i ricchi lenta e inconcludente e una, implacabile, per i poveri. Non va bene.
G. – Lei ha parlato di ‘prontezza della pena’, non può contestare la prescrizione…
B. – Oggi tutto è diverso; e comunque la sua citazione è parziale, legga anche il passo successivo del cap. XXX: ‘Quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria tra gli uomini… non meritano alcuna prescrizione in favore del reo’. Vuole che le faccia l’elenco dei delitti e delle frodi che, negli ultimi anni, sono stati prescritti perché non c’era la legge Bonafede? Mi creda, si può intervenire per una riforma complessiva della giustizia (migliorando il sistema), ma abolire quanto c’è di buono è insopportabile: spiace per il Pd (la sua proposta di legge di fatto reintroduce la prescrizione) e per la smemoratezza di qualche magistrato.
G. – Stento a credere che il teorico del ‘giusto processo’…
B. – ‘Giusto processo’ nel Settecento significava soprattutto ‘terzietà del giudice’. Oggi sulla giustizia incombe la mannaia della prescrizione. Vogliono tornare indietro? Facciano pure, ma non in mio nome: lo dico anche ai giornaloni che incredibilmente hanno cambiato idea. Ha ragione Scarpinato: ‘Il sistema penale inefficiente non è un errore, ma una scelta dovuta all’illegalità delle classi dirigenti’. La prescrizione piace alle anime belle come lei (garantiste a oltranza) e ai grandi criminali. I criminali che fanno le leggi. È il delitto perfetto.
Perché in Italia il reo non paga quasi mai
L’effettività della sanzione penale, e del carcere in particolare, è nel nostro Paese una chimera e nel dibattito pubblico non si affronta il tema con la necessaria attenzione. Tale mancanza è una delle principali carenze del sistema penale che vulnera le funzioni stesse della pena astrattamente prevista, che rimane con molta frequenza solo sulla carta. Ciò alimenta la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia e di chi l’amministra. Vediamo di capire quali sono le cause e il perché. La condanna definitiva interviene non solo a distanza di molti anni, quando l’imputato potrebbe aver cambiato vita, ma il condannato in libertà varca le soglie del carcere solo quando la pena supera i 4 anni di reclusione (una percentuale altissima di condanne è sotto quel limite) a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 41/2018, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 656 V c del Cpp, elevando il limite dai 3 ai 4 anni. Fanno eccezione i soli reati indicati nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (quelli di mafia e terrorismo, contro la PA e un ulteriore catalogo di altri gravi reati) ai quali si applica comunque l’istituto della liberazione anticipata, che offre al detenuto che dia prova di partecipazione all’opera di rieducazione la possibilità di detrarre 45 giorni per ogni semestre di pena scontata. Un “bonus” che in concreto viene applicato sistematicamente senza approfondite verifiche anche ai mafiosi condannati all’ergastolo, che si comportano sempre da detenuti modello. Non solo: il carcere non si applica anche quando la pena residua da espiare sia uguale o inferiore ai 4 anni e si computa il periodo di liberazione anticipata alla carcerazione preventiva già sofferta. Dunque, in generale, l’ordine di carcerazione – in caso di custodia in carcere o arresti domiciliari di 2 anni prima della condanna definitiva – può essere emesso quando le pene superano i 4 anni e 6 mesi di reclusione.
Così l’esecuzione di moltissime condanne a pena detentiva per i delitti dei colletti bianchi, come i reati societari, tributari e bancari, e tantissimi reati comuni (es. rapine ed estorsioni non aggravate) viene sospesa e verranno applicate sanzioni alternative al carcere: l’affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà, diverse rispetto a quella prevista dalla norma incriminatrice. La pena detentiva, per essere eseguita, dovrà superare i 6 anni quando si tratta di reati commessi a causa dello stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza e il responsabile partecipa a un programma terapeutico. È poi prevista la liberazione condizionale per il condannato che, durante la pena detentiva, abbia tenuto un comportamento tale da ritenere sicuro il suo ravvedimento, sempre che abbia scontato almeno metà della pena inflitta, qualora il rimanente della pena non superi i 5 anni (il condannato all’ergastolo può essere ammesso dopo averne scontati 26). I magistrati si attestano sempre su pene a ridosso del minimo, come gli viene “insegnato” nel loro periodo di formazione. Così, per quanto grave possa essere un reato, nessuno viene mai condannato al massimo della pena prevista. Perciò gli aumenti di pena introdotti di tanto in tanto dal legislatore si traducono in un nulla di fatto, salvo che non si intervenga drasticamente sui minimi edittali (come si è fatto con le recenti norme contro i reati tributari dette “manette agli evasori”). L’applicazione delle attenuanti generiche, che abbattono la pena sino a un terzo, avviene in maniera quasi automatica e nella massima estensione. È inoltre prevista la possibilità di applicare alla condanna la sospensione condizionale quando la pena in concreto inflitta (quindi tenendo conto delle attenuanti generiche e di tutte le altre attenuanti ritenute sussistenti) sia contenuta entro i 2 anni, caso tutt’altro che infrequente col rito abbreviato (che comporta un ulteriore abbattimento di pena di un terzo) o al patteggiamento (diminuzione sino a un terzo).
Occorre chiedersi se la previsione di una sanzione che non si esegue possa giustificare il ricorso al processo penale. Non è forse più ragionevole costruire un diritto penale minimo, che selezioni i comportamenti meritevoli, carichi di disvalore perché offendono autenticamente i valori costituzionali, munendoli di pene certe, procedendo alla depenalizzazione massiva dei comportamenti di fatto non puniti, applicando la sanzione amministrativa che non può essere sospesa? Può considerarsi rieducativa una pena che si sa che non verrà espiata? La pena ha una funzione retributiva, sebbene raramente lo si ricordi (art. 25 della Costituzione: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”). Come si può distogliere dal commettere un reato la collettività ed evitare che il reo torni a delinquere se la pena prevista non viene eseguita? Come possono essere salvaguardati i diritti inviolabili dei cittadini e le garanzie collettive di libertà, sicurezza, proprietà e iniziativa economica con un sistema penale privo di effettività? È ora di ripensare e ridisegnare il diritto penale dell’esecuzione, depenalizzando le contravvenzioni e i delitti davvero minori, per punire quelli più gravi.
Mail Box
Il governo non sottovaluti le dimissioni di Fioramonti
Non v’è dubbio che un ministro possa essere scontento di non vedere esaudite le sue richieste di maggiori investimenti nella manovra economica per il 2020, a maggior ragione se, come in questo caso, si tratta del ministro dell’Istruzione. Ciò che non si capisce è come mai né Di Maio – segretario del suo partito – né il premier Conte – che minimizza – siano riusciti a convincerlo a rientrare in strada e non fare un assist alle opposizioni salviniane.
E allora, se ciò è accaduto, da un lato significa che ormai nei 5 Stelle c’è anarchia diffusa e intolleranza nei confronti di Di Maio, dall’altro che forse siamo all’inizio della fine di questo governo. E se si aggiunge quanto trapela su un eventuale passaggio di Fioramonti in un gruppo parlamentare formato da ex-grillini ma sempre favorevole al governo, potremmo trovarci, purtroppo, alle scene finali del Conte-2. Si spera, comunque, che il serafico ministro Fioramonti non abbia instaurato contatti con Salvini&c., il che sarebbe veramente disdicevole. E come sempre staremo a vedere, ma Conte farebbe bene a non minimizzare e a preoccuparsi in vista della verifica di governo, rinviata a gennaio.
Luigi Ferlazzo Natoli
Altro che coraggio, al ministro è mancato il buon senso
Egregio direttore, leggo che il ministro della Pubblica istruzione, prof. Lorenzo Fioramonti, si è dimesso perché non ha avuto in finanziaria i tre miliardi per la scuola chiesti al Governo di cui faceva parte. Nella lettera di dimissioni ha dichiarato che il governo avrebbe dovuto “avere più coraggio”.
Da uomo della strada, credo che forse l’on. ministro Fioramonti avrebbe dovuto avere più buon senso e responsabilità. Difatti non ha considerato che il governo di cui faceva parte è composto da una somma di componenti politiche, ognuna con una propria aspettativa, e che alla fine si fa una sintesi alla luce della tenuta dei conti dello Stato. Se ogni altro suo collega ministro avesse richiesto, in forma rigida, una certa somma in finanziaria, prescindendo dalla mediazione, dalla tenuta dei conti, dalle norme sulla contabilità dello Stato e dalle regole europee, e non avendola ottenuta si fosse dimesso, oggi ci troveremmo senza governo, con conseguenze disastrose. Bell’esempio di coraggio dell’on. ministro Fioramonti!
Natale Russo
Il Paese di tweet e gattopardi ha già ripudiato i 5 Stelle
Spiacente, si è trattato di una crisi di rigetto. Il trapianto di cervello è fallito. Possibile? Eppure era un cervello incontaminato. Forse è proprio per quello che è stato ripudiato dal quel corpaccione licenzioso. Poveri 5 Stelle! Siete solo un corpo estraneo. Mai letto Il Principe o Il Gattopardo, eh? Da sempre e per sempre il ricettario del buon governo in questo Paese. Il popolo è impaziente, sa ciò che vuole: è già tempo di un nuovo fenomeno da circo Barnum.
La gente è smart, non ha tempo per, adora i tweet, plaude i “prot” e pappagalla gli slogan. Questo è il patrio bacino d’utenza. Ma cosa pretendevate con le vostre fedine penali pulite, col patetico decurtarvi lo stipendio? Dimenticato. Cosa pensavate di ottenere con il reddito di cittadinanza, con il taglio dei parlamentari o la prometeica impresa di riformare la giustizia? Bocciati.
Non va bene nulla a prescindere.
Scriveva il direttore: nel cassetto ci sono sempre pronti due articoli: per il no se è sì, per il sì se è no.
Tanto tuonò che piovve.
P.S.
Nessun uomo di Oliverio nelle liste Pd in Calabria
L’ex governatore Oliverio non deve entrare in nessun modo nella vita politica calabrese. Neppure un suo accolito dovrà essere presente nelle liste di Callipo. Noi continuiamo a sperare che il Movimento 5 Stelle non si liquefaccia e decida di fare lotta comune con Callipo, non con il Pd. Non è sopportabile l’idea di Salvini vincitore in Calabria.
V.D.G.
Da ingenuo e malgrado i cinici aspetto il discorso di fine anno
Sarò un ingenuo, ma aspetto con interesse il discorso di fine anno del presidente della Repubblica.
Per alcuni sono chiacchiere, per me invece è un modo per ritrovarmi con la mia famiglia allargata: gli italiani. Da alcuni di loro prendo le distanze, di altri le difese, ma tutti sono il mio popolo. Le persone a cui mi sento attaccato, con pregi e difetti. E faccio di tutto affinché nel nostro Paese ognuno – iniziando da me – si assuma i propri doveri inderogabili di solidarietà.
Mattarella parlerà di questo pezzetto di vita comune – il 2019 – che dalla cronaca affidiamo alla storia. In quei pochi minuti – dove i profumi caldi della cucina invadono la casa – faremo memoria attorno a un uomo saggio, che tiene viva la fiamma della speranza di cambiamento.
I rassegnati e i cinici non lo ascolteranno. Io sì, perché sento il dovere di coltivare la mia ingenuità – nel senso latino di generato libero – e la mia responsabilità, prendendo posizione per onorare la sovranità. Quella sovranità che i padri della Costituzione hanno riconosciuto al popolo, come la più alta onorificenza di cui tutti siamo insigniti.
Massimo Marnetto
Polemiche inutili, la custodia in carcere è sempre l’extrema ratio
La notte di domenica scorsa, Pietro Genovese, 20 anni, correva in auto a Roma e aveva bevuto troppo. E potrebbe farlo ancora, perché già in passato gli era stata ritirata la patente. Ecco perché il giudice ha ordinato l’arresto del figlio del regista, indagato per omicidio stradale plurimo, avendo provocato la morte di due ragazze di 16 anni. Per Genovese sono stati disposti gli arresti domiciliari a casa dei genitori, non la detenzione in cella come un tossicodipendente qualunque (si pensi al povero Stefano Cucchi).
Non c’è alcun motivo di principio per mettere in carcere i tossicodipendenti – e non è provato che Pietro Genovese lo sia, potrebbe essere un consumatore più o meno saltuario di alcool e stupefacenti – prima del processo. Il carcere preventivo è l’ultima ratio: non serve ad anticipare le pene, né a ottenere confessioni e chiamate di correo (come probabilmente accadde a Stefano Cucchi), ma a impedire la commissione di altri reati, l’inquinamento delle prove o la fuga. Anzi tossicodipendenti e consumatori di droghe, specie giovani e giovanissimi, andrebbero aiutati e curati, perché dietro l’abuso di sostanze c’è sempre una sofferenza psichica che può essere affrontata e superata, in particolare quando viene curata in tempo. Molti incidenti stradali nascono da atti che a livello inconscio sono quasi suicidari, prima che omicidiari.
L’ordinanza della giudice Bernadette Nicotra non convince lei che vorrebbe il carcere per Genovese e non convince chi pensa, al contrario, che potesse bastare il ritiro della patente per impedirgli di rimettersi alla guida ubriaco. A noi sembra un provvedimento severo, ma equilibrato. La pena sarà stabilita al termine del processo per omicidio stradale, reato colposo che, in alcune circostanze, la legge considera più grave dell’omicidio colposo di un medico che uccide i pazienti o di un ingegnere cha fa crollare una casa sui suoi abitanti. Genovese aveva bevuto e, secondo tutti gli elementi raccolti, correva troppo. Non avrà il massimo della pena se la stessa giudice ha sottolineato l’imprudenza delle due ragazze che hanno attraversato sotto la pioggia, al buio, lontano dalle strisce pedonali, su una strada di grande scorrimento e notoriamente pericolosa, ma certamente sarà condannato se riconosciuto colpevole. E sta già pagando, anche senza i domiciliari. Come ha scritto Selvaggia Lucarelli, “non ci sono vivi e morti, in questa storia, ma morti e sopravvissuti”.
Dall’ex Ilva alla Whirlpool: l’Italia delle crisi aziendali
Che il 2019 sarebbe stato un anno infausto per l’industria italiana lo si era capito subito. La prima avvisaglia è arrivata a gennaio dall’ex Ilva: una minaccia di sciopero da parte dei sindacati, perché l’Arcelor Mittal – subentrata pochi mesi prima nella gestione della fabbrica – non ha completato nei tempi previsti l’assunzione di tutti i 10.700 lavoratori. Un chiarimento, è rientrato tutto, ma quell’inciampo ha segnalato che non tutto sarebbe andato liscio. Cinque mesi dopo, la nuova proprietà dell’acciaieria ha chiesto la cassa integrazione per 1.400 persone. Poi a fine estate la situazione è definitivamente precipitata e ora, come previsto dal nuovo accordo con i commissari governativi, il piano industriale sta per essere riscritto di sana pianta. Gli esuberi – scongiurati dall’intesa di settembre 2018 – saranno inevitabili.
È andata così per tutto l’anno. L’elenco del ministero conta 149 tavoli aperti, con 250 mila lavoratori coinvolti. Le questioni irrisolte sono ancora tutte lì. I progetti di rilancio sono di fatto rimasti sulla carta. Alcuni tra i casi che sembravano definiti positivamente sono ripiombati nel baratro. E sono nate nuove crisi inaspettate. Come quella della Whirlpool, con gli americani che il 31 maggio hanno detto di volersi liberare dello stabilimento di Napoli. Dopo che, in un incontro al ministero dello Sviluppo economico di ottobre 2018, si sono impegnati a investire sulle lavatrici. La proposta di cedere a una società svizzera, poco nota ai non addetti ai lavori, non ha convinto governo e sindacati. Anche qui, i primi mesi del 2020 dovrebbero dipanare i contorni della vicenda, ma la multinazionale non sembra disposta a passi indietro.
Il sempre meno lento sgretolarsi del tessuto produttivo nazionale sta colpendo anche il ricco Nord-Est. Due casi sono emblematici. Uno è la Ferriera di Servola (Trieste): qui il gruppo Arvedi vuole chiudere l’area a caldo e potenziare quella a freddo. L’idea è assorbire gli esuberi nelle attività del porto, punto strategico per i traffici con la Cina. Operazione che non convince la Fiom Cgil che non ha firmato l’accordo. Altra crisi sull’inesorabile fuga delle aziende straniere: i cinesi della Wanbao vogliono chiudere l’impianto di Belluno, dove fanno compressori per frigoriferi.
Nel 2019 si sono intensificati i guai anche nel settore delle automobili. Sui possibili impatti della fusione Fca-Peugeot ci sono rassicurazioni, ma siamo alle dichiarazioni di intenti. Nel frattempo, l’abbandono del diesel ha già fatto vittime tra gli addetti alla componentistica. La tedesca Mahle ha detto di voler chiudere due stabilimenti in Piemonte lasciando a casa 450 persone. Alla Bosch di Bari ci sono 600 esuberi sul tavolo.
Appesi a progetti di rilancio ci sono gli addetti dell’acciaieria di Piombino: sono scaduti i 18 mesi dall’arrivo degli indiani di Jindal – che nel 2017 avevano conteso l’Ilva all’Arcelor Mittal. All’ex Embraco di Riva di Chieri (Torino) è tutto fermo: Fiom, Fim e Uilm hanno minacciato azioni legali contro la nuova proprietà, la Ventures. La Blutec, ex Fiat di Termini Imerese, è stata scossa a maggio dall’inchiesta (con sequestri) che vede i vertici della società accusati di aver distratto i fondi ricevuti per il rilancio. Poi c’è Mercatone Uno che in primavera è finita gambe all’aria e il piano di salvataggio dei dipendenti dopo l’acquisizione Conad-Auchan.
Tante crisi, per il momento tamponate dalla cassa integrazione che nel 2019 è aumentata per la prima volta da quando è stato approvato il Jobs Act: tra gennaio e novembre di quest’anno, hanno già superato quota 243 milioni di ore che per metà si riferiscono alla cassa straordinaria, cioè per crisi gravi. Nonostante l’industria se la stia passando male, il numero totale di posti di lavoro continua ad aumentare grazie alla crescita nei servizi. Ma la maggior parte dei nuovi è part time che ingrossano l’esercito dei sotto-occupati, lavoratori con redditi molto bassi. Restando ferme tutte le crisi che anche nel 2019 non hanno fatto rumore, perché sono scoppiate nelle piccole aziende.
Sardine: coi soldi arrivano le polemiche
È spuntata all’improvviso, nascosta tra le righe di un crowdfunding. Si chiama “6000 Sardine E.T.S.” (ente del terzo settore) ed è l’esordio del movimento nel mondo del diritto, il soggetto giuridico che vuole incanalare l’energia delle piazze anti-Lega. Con un patrimonio di tutto rispetto: 54 mila euro raccolti in soli 4 giorni e la prospettiva di accumularne molti di più. Già, perché lo scopo per cui la misteriosa associazione è nata è fare da “cassaforte” alla raccolta fondi online – lanciata il 23 dicembre – per il concerto-evento del 19 gennaio a Bologna, che in molti definiscono una chiusura “non ufficiale” della campagna elettorale di Bonaccini. “Le donazioni andranno su un conto corrente dell’associazione che ne deterrà piena responsabilità, e rendiconterà la spesa di ogni euro raccolto”, si legge nell’appello.
Per qualche ora la novità ha colto di sorpresa le Sardine di tutta Italia. Nessuno sapeva dell’associazione, né di chi fossero i suoi rappresentanti: nessun annuncio, né invito a candidarsi per gli organi dirigenziali o a contribuire a scrivere lo statuto. Solo dopo numerose richieste di chiarimenti i 4 fondatori hanno comunicato – in privato – che l’iniziativa è stata loro, e che le cariche obbligatorie (presidente e vice, segretario, tesoriere), sono loro appannaggio. E a molti la cosa non è andata giù, soprattutto perché il conto corrente potrebbe arrivare a raccogliere centinaia di migliaia di euro. L’obiettivo fissato per coprire le spese del concerto (50 mila euro) è stato superato a tempo di record, e la raccolta è aperta fino al 16 gennaio. Continuando a questo ritmo si potrebbero sfondare i 200 mila. Che fine faranno le eccedenze? Nell’appello c’è scritto che verranno usate per “finanziare progetti futuri dell’associazione”. Che però, al momento, include 4 persone.
“Mi chiedo a cosa sia servita l’assemblea convocata a Roma”, si sfoga una Sardina della prima ora. “Lì eravamo in 150 e si è detto che tutti contavamo allo stesso modo. Non avevamo il diritto di sapere di quest’associazione? Non avevamo il diritto di farne parte e avere voce in capitolo sulla gestione dei fondi?”. “Chiedere 50mila euro e non dire nemmeno da chi saranno gestiti. È una cosa macroscopica, mi meraviglio che nessuno ne parli”, si legge in una chat Whatsapp. Dopo ulteriore insistenza da parte degli attivisti, alla fine Santori ha condiviso anche un estratto dello statuto, che ricalca il “manifesto” enunciato in piazza san Giovanni: si legge che l’associazione promuove il dialogo e l’ascolto, favorisce lo sviluppo di una società pacifica e consapevole, si impegna contro le fake news e la manipolazione delle notizie.
Ma ora che di mezzo ci sono varie migliaia di euro, i mal di pancia per la gestione accentratrice dei quattro di Bologna aumentano. “Prima l’embargo sulle presenze in tv, ora questo”, lamenta una fonte. E il potenziale elettorale pro-Bonaccini non ha lasciato indifferente il Pd bolognese, che con l’assessore Matteo Lepore (considerato il delfino del sindaco Merola) incoraggia le donazioni: “Per chi volesse contribuire, ecco il link”, scrive su Facebook.
Lega e B. battono gli Occhiutos. Però le loro poltrone vincono
Una telefonata di Berlusconi e i fratelli Occhiuto da Cosenza tornano sull’attenti e riabbracciano Jole Santelli, fino a ieri definita “traditrice” perché scelta come candidata a presidente della Calabria al posto del sindaco cosentino. In realtà Mario Occhiuto e suo fratello Roberto, deputato di Forza Italia, le hanno tentate tutte per “vendicarsi” del fatto che Berlusconi li ha scaricati su richiesta della Lega. Fallito l’approccio con il candidato del centrosinistra Pippo Callipo, che non ha voluto incontrarli, Mario e Roberto hanno chiesto una mano anche a LeU per la raccolta delle firme necessarie per presentare le liste. Mano che era stato promessa ma, all’ultimo momento, ritirata. Sfumato, quindi, l’estremo tentativo di correre da soli, la scialuppa agli Occhiuto come sempre gliela offre B.: “Oggi, al punto in cui siamo – dice Mario Occhiuto – ho giudicato il suo invito giusto e sensato”. Indi, Roberto che, dimenticate le minacce di lasciare FI (“Se dovessi scegliere tra il cognome e l’appartenenza politica, ovviamente sceglierei il cognome” aveva detto due settimane fa), si rimangia tutto e ringrazia molto Berlusconi “per la manifestazione di affetto e vicinanza e la proposta di importanti responsabilità. Mi bastano la sua amicizia e la sua considerazione”.
In realtà sul piatto non ci sono prebende per i fratelli. Piuttosto la loro sopravvivenza politica. Uscire da Forza Italia significherebbe, infatti, ottenere due conseguenze devastanti per la saga degli Occhiuto: far cadere il Comune di Cosenza, perché il centrodestra toglierebbe subito la fiducia al sindaco Mario, e perdere il seggio di Roberto alle prossime Politiche. A questo dramma familiare, vanno sommati i guai giudiziari di Mario Occhiuto, indagato a Roma per associazione a delinquere transnazionale (nell’inchiesta in cui è coinvolto anche l’ex ministro Corrado Clini); rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta a Cosenza e indagato per corruzione dalla Procura di Catanzaro assieme al governatore Mario Oliverio (Pd) e all’ex parlamentare Nicola Adamo (Pd).
Più che un passo indietro, quindi, per gli Occhiuto è stata una scelta obbligata per continuare a galleggiare nei palazzi del potere cosentino dove i destini delle potenti famiglie contano più di ogni cosa. Dinastie che, ieri come oggi, condizionano le scelte dei partiti. Gli Occhiuto sono in guerra da quasi 20 anni con i fratelli Tonino e Pino Gentile. Frizioni, quelle con l’ex sottosegretario e con il consigliere regionale, che per un periodo hanno spinto il deputato Roberto Occhiuto a lasciare Forza Italia.
Dopo una parentesi con l’Udc, quando i Gentile hanno seguito Alfano in Ncd, Occhiuto è tornato alla corte di Berlusconi grazie al rapporto con Jole Santelli poi diventata vicesindaco del fratello Mario al Comune di Cosenza. Il legame con la Santelli, oggi traditrice, era indissolubile fino alla “storia” pubblicata su Instagram da Francesca Pascale il 7 dicembre scorso. Un selfie in primo piano della fidanzata di Berlusconi con sullo sfondo la sagoma sfocata di Jole Santelli e la scritta “Amo la #Calabria”. Un messaggio subliminale al termine di una giornata complicata trascorsa ad Arcore e conclusa, per la Santelli, in villa Maria in compagnia della Pascale. Il tema era il superamento del diktat della Lega sul nome di Mario Occhiuto.
Diktat che a Berlusconi era arrivato in settembre quando a mettere Salvini contro gli Occhiuto sarebbero stati i nemici di sempre, i fratelli Gentile attraverso l’amico Denis Verdini, quasi suocero del leader della Lega. Il retroscena lo ha svelato lo stesso sindaco di Cosenza ai suoi sostenitori. A loro, l’ex aspirante governatore ha raccontato di “una cena a Roma nel corso della quale alcuni esponenti della vecchia politica calabrese avrebbero chiesto a un mediatore, parente di Salvini, l’esclusione di Mario Occhiuto”.
“Con queste persone non sarei mai potuto stare” si sarebbe sfogato il sindaco di Cosenza riferendosi a Pino Gentile e a suo fratello che era in prima fila alla presentazione della candidatura di Jole Santelli. Eppure, a distanza di qualche giorno sono di nuovo tutti insieme: la Santelli, i Gentile e gli Occhiuto che, diventati esperti di capriole politiche, hanno affidato a Facebook le ragioni del loro ripensamento. Lo ha fatto Mario Occhiuto in persona scrivendo: “Ho condotto una dura battaglia e sono stato sconfitto. La mia corsa solitaria sarebbe sembrata quasi una ritorsione o una ripicca; e io sono abituato a costruire, non a distruggere”. E gli amici che lo hanno sostenuto? “Chi tra di loro aspira a candidarsi a consigliere regionale troverà posto nelle liste del centrodestra unito”. Come dire: si salvi chi può.
“Ho una violenta passione per Lucia e Salvini”
Serena Grandi è colta alla sprovvista nel primo pomeriggio: “Stavo dormendo, sono un po’ rincoglionita”. Aspetta una telefonata, ma l’attesa non le toglie il sonno: Lucia Borgonzoni, la donna che potrebbe espugnare l’Emilia-Romagna per conto di Salvini, la vuole candidare in una lista civica. La chiamata è in bilico, il nodo sarà sciolto in queste ore. Ma per la Grandi – storica attrice erotica, musa di Tinto Brass e di molti italiani – il dubbio resta: “Non so, sto metabolizzando, sono indecisa”.
Cosa non la convince?
Non so se candidarsi sia la scelta giusta. Io punto a un impegno più duraturo.
Di che genere?
Mi piacerebbe occuparmi di donne, politiche civili.
Ah! Vuole un posto da assessore in Giunta!
Potrebbe essere. Un ruolo sulle Pari opportunità. Ma anche nella Film Commission o nel Teatro. Pure Lucia (Borgonzoni, ndr) si occupava di questo, prima. E quindi vediamo, vediamo.
Come è nato questo colpo di fulmine per Salvini?
Mi piace la cultura e l’identità che vuole ridare a chi non ce l’ha più.
Cosa intende?
Senta, io non sono pronta per fare un’intervista. Mi sono svegliata adesso, non riesco neanche a parlare!
(La conversazione riprende mezz’ora e un caffè più tardi)
Rieccoci.
Volevo dirle questo. Io sostengo la Borgonzoni, credo in lei. La mia indecisione è per un fatto di verità: entrare in politica senza un minimo di preparazione… vorrei metabolizzare il tutto. E trovare il giusto ruolo istituzionale.
Intanto la sua possibile candidatura ha fatto scalpore.
Ma lo sa che sono stata quarta in Twitter? Per gli hashtag!
È contenta?
Un po’ mi spaventa. Ma devo essere all’altezza. Non mi interessa sparare in alto il mio nome, che è un grosso nome, per due giorni e basta. Bisogna trovare il giusto ruolo.
Mi pare orientata verso il rifiuto della candidatura.
Non so. Avrò notizie entro stasera (ieri, ndr). Ma a meno di sorprese, penso di no.
Prima mi raccontava della fascinazione per Salvini.
Penso ci possa ridare la nostra identità e la nostra cultura. Mi sembra che lotti per cose ben definite, come nella Prima Repubblica.
Le piaceva Almirante?
No no, io ero amica di Bettino (Craxi, ndr). Ma anche di Andreotti.
E quali sono questi valori salviniani che le hanno restituito entusiasmo?
Sovranità e identità nazionale. Io vivo in una città (Rimini, ndr) in cui c’è una delinquenza fortissima. Un mese fa ho subito un furto e ho pensato: ‘Forse ci vuole davvero la ruspa’. Così è nato tutto. La politica la sento con la pancia. Forse in questo momento ci tengo anche più del cinema.
Addirittura.
Voglio diventare attivista, andare nei centri antiviolenza, fare qualcosa per le donne.
Lei abita in una regione rossa, dalla storia comunista.
Secondo me l’Emilia-Romagna s’è stufata, sono convinta che la Borgonzoni vinca. Le cose non vanno bene. Per me Rimini è una piccola Miami, è bellissima, ma ha bisogno di pulizia. Ieri stavo andando dal tabaccaio e in piazza Mazzini ho trovato una siringa per terra.
Immigrati e droga, sempre loro eh.
Esatto. Infatti dopo le 18 io non esco più, ho paura.
Suo figlio, che ha dichiarato pubblicamente la sua omosessualità, non l’ha rimproverata per le posizioni di Salvini sui diritti gay?
Me ne ha ampiamente parlato, mi ha letto certe frasi che ha detto. Ma io ho questa violenta passione per la politica, non me ne frega niente.