Bonaccini ingaggia anche Sala per farsi tirare la volata decisiva

Allontanati i big del partito, Stefano Bonaccini sceglie il sindaco di Milano Beppe Sala per lanciare i propri candidati alle Regionali. Domenica prossima, a Imola, saranno solo loro due sul palco a presentare le sei liste a sostegno del bis del governatore dem. L’ennesima scelta a conferma di una campagna elettorale senza il Partito democratico: assente nei manifesti e nella presenza. “È stato uno dei primi a interpretare un nuovo centrosinistra aperto alla società civile. Incarna anche il modello di una metropoli che è cambiata, Milano e l’Emilia-Romagna sono le due realtà che crescono di più nel Paese e hanno innovato come nessuno in questi anni” ha sottolineato Bonaccini.

Un asse che potrebbe riflettersi anche a livello nazionale nel futuro. Il nome del primo cittadino milanese, molto stimato in ambienti eterogenei, è spesso citato da chi non ama Nicola Zingaretti e vorrebbe vederlo come prossimo premier. Magari proprio in tandem con lo stesso Bonaccini. In caso di vittoria il prossimo 26 gennaio il presidente dell’Emilia-Romagna verrebbe incoronato come l’uomo che ha salvato il Pd dall’ennesima sconfitta. Il precedente d’altronde lo ha già stabilito lo stesso Zingaretti, attualmente segretario e presidente della Regione Lazio. “Se dovessimo farcela, ci sono due aspetti importanti: il primo è che non è vero che si perde per forza, il secondo è che può nascere un nuovo modello di centrosinistra, perché abbiamo presentato per la prima volta una lista legata al presidente, che è un tentativo di mettere insieme persone che nella loro vita hanno dimostrato le proprie qualità”. Parole che ricordano molto quelle pronunciate da Matteo Renzi prima di fondare Italia Viva: “Bisogna guardare a un centro sinistra moderato, perché la nostra storia e tutto il mondo insegnano che le elezioni noi le vinciamo al centro, non a sinistra”. Su sei liste di appoggio a Bonaccini solo una è a sinistra, quella composta dal suo predecessore Vasco Errani. Forse non è un caso: a fare da trait d’union tra i due c’è Marco Agnoletti, ex portavoce del leader fiorentino e oggi consulente per il governatore emiliano. Italia Viva non ha presentato una lista alle regionali ma i ‘renziani’ sanno già chi votare: Mauro Felicori, ex dirigente del comune di Bologna e poi direttore generale della Reggia Di Caserta. Primo nella lista del presidente uscente, “non nascondo le mie simpatie per Renzi, esprime ancora al meglio questa necessità di innovazione nella politica italiana”. Un eventuale ticket con lui, ovvero la doppia preferenza uomo-donna, è estremamente ambito dalle compagne di lista, ma al momento Felicori avrebbe intenzione di correre in autonomia.

Molto consistente la presenza di centristi nelle liste grazie al lavoro degli ex democristiani Gian Luca Galletti e Pier Ferdinando Casini: “Bonaccini deve essere un candidato civico per vincere in Emilia Romagna, come fu a suo tempo Giorgio Guazzaloca”, il primo (e unico) sindaco di Bologna non comunista. Detto, fatto: tra i futuri consiglieri regionali potrebbe esserci Gianluca Faggioli che nel 1999 era proprio uno dei più fedeli collaboratori del sindaco ‘civico’.

Altro nome sorprendente pro Bonaccini è quello di Giuliano Cazzola, ex sindacalista, ex socialista e ex deputato del Popolo delle Libertà. Un tempo forte sostenitore di Silvio Berlusconi, definito “una stella ormai spenta che continua a proiettare la sua luce nello spazio”, Cazzola sarà capolista della lista +Europa, che riunisce il partito di Emma Bonino, il Psi e il Pri. “Ho detto un ‘vaffa’ in diretta tv a Matteo Salvini e ci tengo a ripeterlo, voglio giocare nella squadra contraria a lui. La candidata Lucia Borgonzoni è molto diversa dai grandi presidenti di Regione presentati dalla Lega, Salvini ha fatto un’offesa ai suoi elettori, facendo senatore il suo cavallo come Caligola”.

“M5S deve tornare a essere politicamente scorretto”

L’eurodeputato che ora è anche facilitatore invoca una rotta e una identità definita, per il M5S che “è in una fase di transizione”. E il senso di marcia lo ha chiaro: “Dobbiamo radicalizzare la democrazia, e dobbiamo cominciare a farlo nel rapporto con il Pd. È tempo di tornare politicamente scorretti”. Così la pensa l’europarlamentare siciliano Ignazio Corrao.

Quanto è vicino l’accordo con i Verdi europei? La Brexit, con l’uscita dei britannici dal gruppo, può favorirlo?

I rapporti con i Verdi sono buoni e di vecchia data e il loro gruppo è la nostra sede naturale. Ci sono alcune resistenze all’intesa, soprattutto dalla delegazione tedesca, ma buona parte dei Verdi è favorevole. Il tavolo è aperto e si sta cercando una soluzione. E di certo la Brexit può accelerare questo processo.

Quindi?

Quindi credo che questa sia il momento giusto per ottenere il risultato, e spero che possa arrivare già a gennaio. E sarà fondamentale sia per i Verdi che per il M5S, perché può ridefinire la nostra identità e rilanciare un progetto ecologista e progressista di cui l’Europa ha grande bisogno.

Però nel voto sulla commissaria europea Von der Leyen voi 5Stelle a Bruxelles vi siete spaccati. È stata una frattura tra europeisti, vicini al governo, e anti-europeisti?

Quella vicenda non va estremizzata. I miei colleghi, di cui ho grande stima, hanno seguito la linea del governo, mentre io e altri tre eletti abbiamo portato avanti una posizione più identitaria. Questa è una fase di discussione per il Movimento e ci stiamo confrontando anche su certi principi di fondo. Gli Stati generali di marzo dovranno aiutare a individuare una linea politica generale.

Quel voto però segna una differenza di visione.

Alcuni di noi non sono riusciti a votare la Von der Leyen, perché i suoi programmi sono lontani anni luce dalle battaglie del M5S.

Per Beppe Grillo bisogna proseguire nell’alleanza con il Pd. Ma va costruito un nuovo centrosinistra, come sostiene lui, o meglio restare ago della bilancia come ripete Luigi Di Maio?

Non sono distante dal pensiero di Beppe, abbiamo diversi punti di contatto con il Pd. Però va fatta una distinzione: come tutti i partiti centristi, i dem accettano in maniera incondizionata le regole della globalizzazione e del neo-liberismo, dei mercati. Noi 5Stelle dobbiamo riportarli su temi vicini ai cittadini. Il Movimento ha avuto grande consenso quando è andato a rompere gli schemi tradizionali.

Lei farebbe accordi con il Pd nelle Regioni?

L’intesa in Umbria è stata uno sbaglio, perché fatta con un partito che lì era percepito come il sistema. Dopodiché in altre realtà non si può escludere, scegliendo caso per caso e lavorando sui programmi. Ma deve valutare chi è sul territorio, cioè i nascenti referenti regionali.

Lorenzo Fioramonti si è dimesso, e lei è stato duro nei suoi confronti. Ma l’ex ministro ha sollevato nodi concreti, no?

Fioramonti è una persona valida, ma se non lascerà il ruolo di parlamentare diventerà uno Scilipoti qualunque. I portavoce hanno assunto degli impegni con gli elettori. E va ricordato, specialmente da quelli eletti in liste bloccate.

Ora nel M5S è un rinfacciarsi a vicenda i soldi non restituiti: mesto spettacolo, no?

Non direi: anche in questo caso si tratta di un impegno assunto con i cittadini, in base a un principio del M5S, e la parola data va mantenuta.

Lei è uno dei facilitatori. Non è spiacevole che l’abbiano eletta con un listino bloccato? E comunque, cosa intende fare in questo ruolo?

Parliamo di un ruolo interno, che comporterà poca gloria e molti oneri, e comunque per me se si fosse votato per nomi separati sarebbe andata benissimo. Detto questo, io ho la delega agli enti locali e ci sarà molto da lavorare. Il M5S deve dare una visione a medio e lungo periodo, partendo dai Comuni.

I 5 Stelle ora litigano sui soldi

Per la sostituzione che va fatta di corsa, nel giro di due o tre giorni, il nome più avanti degli altri è quello della sottosegretaria all’Istruzione Lucia Azzolina: ma l’ex sottosegretario Salvatore Giuliano se la gioca. Nel frattempo, nel Movimento che adora farsi del male, volano schegge, sui soldi. Perché il ministro che ha appena detto addio, Lorenzo Fioramonti, risponde ai 5Stelle che lo accusano di non aver restituito 70 mila euro: “Il sistema delle rendicontazioni è poco trasparente, e comunque le mie ultime restituzioni saranno sul conto del Tecnopolo mediterraneo per lo sviluppo sostenibile, un centro di ricerca pubblico che ho promosso a Taranto”. Ma secondo “fonti” del ministero dello Sviluppo economico, “non esiste alcun conto Tecnopolo su cui versare”.

E non finisce qui, perché Gianluigi Paragone, il senatore che ha votato contro la manovra e ora è sotto procedura da parte dei probiviri, vede la breccia. Per questo in un video fa l’elenco di chi non restituisce da tempo, puntando il dito contro due ministre, Fabiana Dadone e Nunzia Catalfo, e due presidenti di commissione, Carla Ruocco e Marta Grande. “Il capo politico Luigi Di Maio non lo sapeva o ha fatto finta di non vedere?”, scandisce. Così è il M5S di fine 2019. Un Movimento dove si litigava sugli scontrini già parecchi anni fa, ma questa volta nei ritardi sulle restituzioni (tanti sono “fermi a quota zero” ricorda Paragone) c’è anche una chiara rivolta contro il patron della piattaforma web Rousseau, Davide Casaleggio, e Di Maio, che con il figlio di Gianroberto ha un asse blindato dalle recenti nomine dei facilitatori colme di figure legate a Casaleggio. Ma adesso la priorità per il capo politico e per il premier Giuseppe Conte è nominare un nuovo ministro dell’Istruzione. E le quotazioni danno come favorita l’attuale sottosegretaria al Miur, la 37enne siciliana Azzolina: spesso in tv, quindi benedetta dai vertici, per di più “in ottimi rapporti con il Pd” giurano. Ma ha buone relazioni con i dem anche il predecessore della deputata al ministero, il pugliese Giuliano. A suo tempo renziano, ora preside a Brindisi, è spinto da diversi big del M5S. “Vorremmo chiudere entro 48 ore” dicevano ieri dal Movimento. Ma ovviamente l’ultima parola spetterà a Conte. Intanto fuori è la battaglia tra 5Stelle sui soldi. Con Fioramonti che si difende: “Ho restituito regolarmente per un anno, poi ho continuato a versare nel bilancio dello Stato”.

E Paragone va a supporto, ribaltando l’accusa sulle restituzioni: “La ministra Dadone è anche probivira e le sue restituzioni sono ferme a 5 mensilità: se non si mette in regola sarò costretto a farle un esposto per chiedere l’espulsione dal gruppo perché io, invece, ho pagato e rendicontato tutto”. Ma i 5Stelle continuano a mordere l’ex ministro, convinti che lavori a un nuovo gruppo con ex grillini e prossimi esuli dal M5S. Soprattutto, avvertono tutti, sempre sulle restituzioni: “A metà novembre è stata inviata a tutti i parlamentari una email con l’invito a mettersi in regola, chi non lo farà entro il 31 dicembre verrà sanzionato”.

 

“Che c’entra la ragionevole durata del processo?”

Franco Roberti, oggi europarlamentare dem e già Procuratore nazionale Antimafia scuote la testa. Questo ennesimo compromesso al ribasso non lo convince proprio, ma del resto nel Pd non sempre le competenze vengono valorizzate. La sua premessa, a proposito della trattativa tra il Pd e i 5 Stelle sul tema della prescrizione, è la seguente: “Mi ascolti bene: la mia impressione è che ancora una volta si stia perdendo l’occasione di intervenire per rendere più efficiente il processo penale, evitando di fare ciò che serve davvero. E invece ci si ostina con questo approccio riduttivo, parlando esclusivamente di prescrizione che è il sintomo del problema, non il problema in sé”.

E il problema allora qual è?

Che sembra che la politica non voglia proprio eliminare le disfunzioni della giurisdizione. Ma come si fa a baloccarsi sul fatto se il blocco della prescrizione debba durare sei mesi in più o sei mesi in meno, quando il sistema delle notifiche in Italia è fermo a 100 anni fa?

Insomma, che ne pensa del ddl del Pd che reintroduce la prescrizione?

Guardi, io penso che il problema della ragionevole durata dei processi che la legge deve assicurare, secondo l’articolo 111 della Costituzione, non si garantisce con la prescrizione: di prescrizione non si dovrebbe più parlare nel momento in cui lo Stato ha manifestato la sua volontà punitiva con la richiesta di rinvio a giudizio. Va bloccata al massimo dopo la sentenza di primo grado. E, a monte, deve decorrere non dal momento in cui viene commesso il fatto come è previsto oggi, ma da quando i pm ne vengono a conoscenza. Questo sarebbe l’ideale, il resto è compromesso.

Ma la proposta dem è un compromesso accettabile o no?

Io penso che il Pd dovrebbe occuparsi della riforma del processo penale che tutti attendiamo da tempo. Se però proprio non si riesce a ragionare in altri termini, di fronte alla necessità di salvare i processi ma pure l’esigenza che non siano infiniti, allora la distinzione che si fa nel ddl del Pd è ragionevole: il blocco della prescrizione nel caso di sentenza di condanna ha un senso, lo ha molto meno in caso di assoluzione.

Quindi benedice il ddl?

Io non benedico nulla. Della prescrizione le ho detto prima cosa penso. Quanto ai compromessi e alle riformette possono essere ragionevoli solo se sono interlocutorie e se servono poi ad affrontare i nodi veri della giurisdizione ordinaria.

Su cosa si dovrebbe intervenire?

C’è la questione dei tempi morti del processo che vanno eliminati. So di dare un dispiacere agli avvocati, ma servirebbe anche un filtro di ammissibilità per evitare giudizi di appello puramente dilatori. Ne dico un’altra? Ha senso che in primo grado si venga giudicati da un giudice monocratico mentre in secondo grado ne servono tre? Di tutto questo dovrebbero parlare Pd e Movimento 5 Stelle, non di prescrizione. Dove sta la riforma del processo penale?

Ci sta lavorando il ministro Bonafede.

E quando la tira fuori? E soprattutto perché il Pd non esige di poterne discutere immediatamente?

Fatto sta che ora il tema è questo. Le rifaccio la domanda: le piace o no la proposta del Pd?

La posso accettare come compromesso interlocutorio, anche se, come dicevo, è un compromesso al ribasso. E bisognerebbe essere capaci nell’interlocuzione con i 5 Stelle di guardare più lontano, a quello che serve davvero ai cittadini.

“Gratteri come me: attaccato perché ha svelato Massomafia”

Cultore del pensiero di Giovan Battista Vico, Luigi de Magistris in questi giorni sta rileggendo la Teoria dei corsi e ricorsi storici. La lettura delle cronache sull’inchiesta “Rinascita” della Procura di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri, un pensiero al suo lavoro di pm nell’inferno calabro, la riflessione sulle teorie del filosofo napoletano.

Corsi e ricorsi, sindaco…

Già, gli stessi nomi, lo stesso contesto, l’identico sistema di relazioni politico-massonico-mafiose che avevo individuato nelle mie inchieste di 12 anni fa. Penso al ruolo strategico da un punto di vista di contestazioni criminali, dell’avvocato Giancarlo Pittelli. Non dimentichiamolo, già deputato, poi senatore, già coordinatore di Forza Italia in Calabria. E penso anche a Nicola Adamo, il primo imputato nella mia inchiesta Why Not, uomo potentissimo nel Pd. Ma vorrei che le analogie con la mia vicenda di magistrato si fermassero qui. Quello che bisogna assolutamente impedire è che si riproduca la tecnica dello strangolamento istituzionale di chi sta portando avanti l’inchiesta.

Lo strangolamento di Gratteri, per capirci.

La differenza con la mia esperienza è che io ero un sostituto procuratore isolato, con un procuratore che invece di guardarmi le spalle mi accoltellava, Gratteri è invece il procuratore capo che tutela i suoi sostituti. Ma ciò non elimina il pericolo concreto di un sabotaggio delle indagini e dell’isolamento dei magistrati, compreso Gratteri.

Lei fu isolato e attaccato?

Lo denuncio da 12 anni. Il Csm eliminò chi indagava sul sistema criminale e lasciò quello stesso sistema, che aveva al suo interno molti magistrati, impunito e libero di agire.

Il procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, giudica “evanescenti” le inchieste di Gratteri.

Un brutto attacco. Anche qui corsi e ricorsi. Io ho avuto la prima ispezione nel gennaio 2005 dal capo dell’ispettorato dell’epoca, Arcibaldo Miller, che si presentò dicendomi di stare sereno. Finì nel 2008 il giorno della mia cacciata da Catanzaro. Il tutto accompagnato dal più alto numero di interrogazioni parlamentari contro un magistrato mai registrate nella storia della Repubblica. Lupacchini fu il primo estensore di quelle ispezioni che cominciarono con l’inchiesta sul caso Reggio, quando io indagai e arrestai Paolo Romeo per fatti di mafia.

Stiamo parlando dell’avvocato ritenuto il Salvo Lima dello Stretto.

Esattamente. Anche in quel caso il sistema sul quale indagavo vedeva insieme politici, magistrati, esponenti dei servizi e massoneria. Come feci gli arresti, novembre 2004, pochi mesi dopo arrivò l’ispezione di Lupacchini. Con tutto il rispetto per lui non ho un ricordo positivo.

Dodici anni dopo quei personaggi e quel contesto già individuati non sono stati colpiti e hanno continuato a esercitare il potere in modo indisturbato.

È così. Il comandante dei carabinieri, Giorgio Naselli, ora arrestato, all’epoca fu mandato a Catanzaro insieme al maggiore Grazioli. Capii subito che non erano arrivati per darmi una mano con le inchieste: di Pittelli avevo ricostruito intrecci e affari, ma il suo legame col procuratore dell’epoca trionfò su tutto; l’ex governatore Chiaravalloti disse che mi avrebbe costretto a difendermi dalle loro accuse per tutta la vita; alcuni nomi del clan Mancuso comparivano nelle mie inchieste. Il Csm sapeva tutto: prima di condannarmi, in I Commissione furono ascoltati i magistrati di Salerno, che sottolinearono la correttezza del mio agire e lanciarono un allarme sugli ambienti che volevano fermarmi.

Come finì?

Il Csm accelerò il processo disciplinare a mio carico e dopo dieci giorni mi trasferirono. Il via libera fu dato da Giorgio Napolitano, capo dello Stato, e da Nicola Mancino, vicepresidente del Csm. Si inventarono la guerra tra procure. Eravamo arrivati a livelli molto alti.

Cosa la colpisce?

Che nessuno, anche dopo l’inchiesta di Gratteri, chieda scusa.

Il danno prodotto alla Calabria da questo sistema rimasto impunito fino a oggi…

È devastante. All’epoca un calabrese mi disse: dottore hanno colpito lei, ma il danno lo hanno fatto a quei 100 mila calabresi che hanno firmato contro il suo trasferimento. Hanno colpito l’idea stessa dello Stato democratico.

Anche Gratteri rischia l’isolamento e non si vedono 100 mila calabresi mobilitati.

Non vedo grandi prese di posizione. Il silenzio rischia di far vincere quei pezzi di Stato corrotti che vogliono strangolare l’inchiesta.

In Calabria si vota, i partiti terranno conto del verminaio scoperto da questa inchiesta?

Dalle liste capiremo se i partiti avranno la forza di affrancarsi dalla massomafia, quel sistema che vede insieme politici, borghesia mafiosa, logge e ’ndrangheta.

Il Pd sfida Bonafede: riecco la prescrizione che piace a B.

La domanda centrale (“Fino a dove siete disposti a spingervi?”) resta senza risposta, anche se davanti alle telecamere, in una conferenza stampa convocata in pompa magna al Nazareno, tra Natale e Capodanno, il Pd si presenta rigorosamente compatto per illustrare la proposta di legge con la quale cerca di reintrodurre la prescrizione. La norma Bonafede la abolisce, dopo il primo grado, a partire dal primo gennaio 2020. “Non vogliamo far cadere il governo”, insiste Walter Verini, responsabile Giustizia dei dem. Ma pure se l’obiettivo è quello di costringere Bonafede a trovare una mediazione finora rigorosamente rifiutata, quella di ieri è una mossa politica che potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Se qualcuno della maggioranza vuol far chiudere l’esperienza Conte, l’occasione per l’incidente è a portata di mano. E c’è chi già ne approfitta. “Se l’8 gennaio venisse presentato un emendamento alla proposta di Forza Italia, contenente questo testo del Pd, lo voteremmo in un minuto”, dice Enrico Costa. La sua legge si vota il 10 gennaio alla Camera, il vertice decisivo è in agenda il 7.

Lo schieramento che si offre alla foto di gruppo è rigorosamente scelto in base al Manuale Cencelli delle correnti, ma le vere finalità di questa mossa politica restano ambigue. C’è sicuramente anche una motivazione mediatica: non restare inermi rispetto alla determinazione con cui il ministro della Giustizia ha difeso la sua riforma.

Dunque, dietro al tavolo al centro è seduto Verini, in quota Nicola Zingaretti. E poi Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, e Andrea Giorgis, sottosegretario alla Giustizia, in rappresentanza di Andrea Orlando (l’ex Guardasigilli, che tratta con Alfonso Bonafede, ma che ai tavoli ufficiali non si fa vedere), Franco Mirabelli, capogruppo dem in Commissione Giustizia in Senato, uomo di fiducia di Dario Franceschini, Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia a Montecitorio, per Base Riformista, per la quale è schierato pure il deputato Carmelo Miceli. E ancora, la responsabile Giustizia del Pd romano, Cristina Michetelli.

La legge – di fatto la riforma Orlando rivisitata (presentata sia al Senato sia alla Camera) – crea una distinzione tra le sentenze di condanna e quelle di assoluzione (“il minimo sindacale”, spiega Bazoli) e prevede di sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e per due anni in caso di appello e per un ulteriore anno in caso di ricorso in Cassazione, prevedendo sei mesi aggiuntivi “se è disposta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. In tutto tre anni e sei mesi di stop.

“Siamo sicuri che in questo modo non si prescriverà neanche un processo in appello e in Cassazione, ma lasciamo una barriera finale per evitare processi infiniti”, insistono i dem. Con Verini che ribadisce: “Tre forze dell’attuale governo si sono contrapposte quando il precedente governo ha presentato e approvato la legge sulla prescrizione. Essendo una coalizione ci aspettiamo che il ministro della Giustizia e il premier facciano una sintesi”.

Per ora, non è dato capire quando la riforma sarà discussa in Parlamento. Quello che si aspettano al Nazareno è che il Guardasigilli, dopo aver cantato vittoria il primo gennaio, faccia una controproposta.

Quel “mazzetto di omicidi” che Sofri ancora non spiega

Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato. Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati. Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo – e in modo ufficiale – chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l’Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto. Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l’Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage.

Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto. Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini.

Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell’anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, come invece stabilito dalla sentenza D’Ambrosio. Potrebbe non averlo visto: lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta. Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l’assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini, sulla base – dice – di un fatto nuovo: nella questura di Milano, dal 12 dicembre 1969 al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra, il suo vice Luigi Calabresi erano “guidati” dagli uomini degli Affari riservati del ministero dell’Interno arrivati da Roma. A prendere la direzione delle operazioni è la “Squadra 54” guidata da Silvano Russomanno e Ermanno Alduzzi.

È una “novità” che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice Carlo Mastelloni, che rivelano anche l’esistenza della “Squadra 54”. Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D’Amato, che aveva uno stuolo di informatori (“Le trombe di Gerico”), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l’infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l’Alcatraz) e agente di Vasco Rossi.

Proprio di D’Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto “conoscente comune” lo mise in contatto con l’anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere “un mazzetto d’omicidi”, garantendogli impunità. Lo ricorda Benedetta Tobagi nella sua replica sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D’Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d’autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D’Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi “come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)”. Tobagi ricorda che fu messa “in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio”, ma “nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D’Amato sorseggiava alcolici d’annata, Sofri bevesse, che so, chinotto”.

Al di là delle bevande, sarebbe bello che l’allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso “conoscente comune” e come sia stato possibile che D’Amato – lo stesso che manovrava la “Squadra 54” – gli abbia chiesto quel “mazzetto d’omicidi”. Conclude Benedetta Tobagi: “L’ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia”. Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: “Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita”.

Energia, bollette della luce meno care. Sale il gas da gennaio

Nel primo trimestre 2020 le bollette dell’energia elettrica risultano in deciso ribasso, mentre quelle del gas saliranno di poco. Il forte calo del fabbisogno per gli oneri generali, il contenimento delle tariffe regolate di rete (trasporto e distribuzione) e le basse quotazioni delle materie prime nei mercati all’ingrosso portano infatti a una riduzione del 5,4% per l’elettricità e a un leggero aggiustamento per il gas, +0,8% per la famiglia tipo 1 in tutela (con consumi medi di energia elettrica di 2.700 kWh all’anno e una potenza impegnata di 3 kW; per il gas i consumi sono di 1.400 metri cubi annui).

Si tratta dell’aggiornamento delle tariffe che ogni tre mesi viene stabilito e comunicato dall’Arera, l’Autorità di regolazione per Energia, Reti e Ambiente. La variazione riguarda la componente materia prima che pesa per il 45% del totale della bolletta per l’elettricità e per il 38% per quella del gas naturale. Per quanto riguarda una misurazione degli effetti sulle famiglie (al lordo delle tasse), per l’elettricità la spesa per la famiglia-tipo nell’anno scorrevole (compreso tra il primo aprile 2019 e il 31 marzo 2020) sarà di 544,2 euro, con una variazione del 2,9% rispetto ai dodici mesi equivalenti dell’anno precedente (1° aprile 2018 – 31 marzo 2019), corrispondente a un risparmio di circa 16 euro/anno. Nello stesso periodo, la spesa della famiglia tipo per la bolletta gas sarà di circa 1.040 euro, con una variazione del -9,5% rispetto ai 12 mesi equivalenti dell’anno precedente, corrispondente ad un risparmio di circa 109 euro all’anno. Rispetto all’anno scorrevole, quindi, il risparmio complessivo per la famiglia tipo per elettricità e gas è di circa 125 euro all’anno, secondo l’Arera.

Con il primo aggiornamento valido per il nuovo anno viene poi completata la riforma delle tariffe domestiche, eliminando il gradino che ancora era presente nella struttura dei soli oneri generali di sistema.

Le balle sull’indennizzo da 23 miliardi da dare alla famiglia Benetton

C’è chi dice che, se venisse revocata la concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi), crollerebbero gli investimenti, settemila dipendenti perderebbero il posto, nessuno straniero investirebbe più in Italia, verrebbe violata non solo la sacralità dei contratti, ma persino la Costituzione. Ma la gente è stufa di essere bombardata di bugie, dai lobbisti come dai politici, e forse è anche per questo cha hanno successo le Sardine. C’è un signore che, pur dopo il crollo del Ponte Morandi, ritiene suo sacrosanto diritto, se gli venisse revocata la concessione, avere dallo Stato un indennizzo di 23 miliardi. Spero che non si offenda e non ci faccia causa se, sommessamente, gli chiediamo: ma lei, scusi, in questa concessione, quanti soldi ci ha messo? Magari è un argomento di cui non ama parlare. Cerchiamo allora noi di rinverdire la storia.

La società Schemaventotto, controllata al 60% dalla famiglia Benetton, acquistò dall’Iri il 30% della società Autostrade pagando, nel marzo 2000, circa 2,5 miliardi. Ma dopo aver accollato alla società circa 7 miliardi di debiti con l’Opa del 2003, vendendo parte delle azioni così acquisite e con i dividendi percepiti riuscì a recuperare più della metà di quanto pagato all’Iri. All’inizio del 2005, Schemaventotto era così salita dal 30 al 50,1% della società Autostrade senza sborsare un soldo, con un investimento (residuo) di solo un miliardo; la quota parte della famiglia Benetton era quindi di 600 milioni. Da allora hanno solo incassato dividendi. Sono questi i grandi investimenti privati che i lobbisti minacciano non verranno più investiti in Italia se non continuiamo a remunerarli principescamente.

Dal 2005 al 2018, la società Autostrade per l’Italia ha distribuito alla controllante Atlantia 9 miliardi di dividendi. Nel luglio 2017, Atlantia ha ceduto a due fondi il 12% dell’Aspi per circa 1,7 miliardi: dal 2005 quindi Atlantia ha incassato dall’Aspi 10,7 miliardi e ancora ne possiede l’82%. Non un cattivo investimento per chi ora pretende anche 23 di indennizzo (ma cosa si dovrebbe indennizzare?).

Quella di Schemaventotto potrebbe sembrare la storia di un grande successo imprenditoriale, ma in realtà l’Autostrade non ha inventato alcun nuovo prodotto, non ha conquistato nuovi mercati o introdotto nuove tecnologie (il Telepass fu sviluppato ai tempi dell’Iri, si è limitata a effettuare il minimo degli investimenti richiesti per l’adeguamento della rete, assai ben remunerati, e forse nemmeno tutte le manutenzioni necessarie). I ricavi sono solo frutto di una rendita acquistata in saldo.

Il diritto allo stratosferico risarcimento di 23 miliardi in caso di revoca della concessione, anche in presenza di inadempienza o colpa del concessionario, non era previsto nella convenzione del 1997 sulla base della quale è avvenuta la privatizzazione. Non è quindi un diritto che abbia contribuito alla formazione del prezzo pagato all’Iri, non è un diritto che il concessionario possa dire di aver acquistato. Gli è stato donato senza corrispettivo, inserendo il relativo articolo nella convenzione del 2007, per volere del ministro Di Pietro e contro il parere del Nars, il nucleo di consulenti presso la segreteria del Cipe. I motivi che abbiano indotto Di Pietro a elargire una norma tanto palesemente squilibrata a favore del concessionario restano un mistero.

La convenzione del 2007 (assieme ad altre) fu poi approvata per legge, per volere dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi, da parlamentari che non sapevano cosa gli veniva chiesto di votare, perché non avevano il diritto di leggere il testo delle convenzioni. Questo era secretato, perché si diceva essere un contratto tra due società, essendo l’Anas una Spa! Un ben triste esempio di come funziona il nostro Stato.

Certo, oggi la richiesta di un indennizzo di 23 miliardi suona come una beffa a uno Stato che prima svende la maggior rete autostradale, poi per anni consente che tutte le norme siano distorte a favore della concessionaria procurandole utili miliardari pur a fronte di scarsissimi investimenti e da ultimo le regala pure il diritto a un risarcimento stratosferico.

Poiché lo squilibro tra il dato e il ricevuto è davvero enorme, non mi pare si possa invocare la sacralità dei contratti; piuttosto si dovrebbe parlare di un grande scippo avvenuto con la connivenza di funzionari e ministri, a partire dalla privatizzazione in poi. A scapito dei “pedaggiati”, costretti a pagare pedaggi per mancanza di alternative alle autostrade, senza rappresentanza e ignari degli accordi tra concessionari, funzionari e ministri.

Questo è il primo governo che cerca veramente di tutelare l’interesse pubblico a fronte di una potentissima lobby come quella dei concessionari. Vedremo se alle intenzioni seguiranno i fatti.

“Manca il collaudo. Se cade una trave passiamo un guaio”

“Se domani cadesse una trave e morissero dieci persone, chi passa il guaio”? “Lo passeremmo anche noi, lo sappiamo che manca il collaudo statico. Ma chi lo doveva sapere?”. Ecco il pezzo di conversazione tra un dirigente dell’ufficio tecnico di Afragola (Napoli), l’ingegnere Nunzio Boccia e il capo staff dell’ex sindaco Pd Domenico Tuccillo, Claudio Martelli, che forse meglio degli altri spiega come viene affrontata in questo paese la problematica della sicurezza delle infrastrutture. Si trova agli atti dell’inchiesta della Procura di Napoli Nord sulla faraonica stazione Tav di Afragola e sul perché fu inaugurata in fretta e furia nel giugno 2017 priva di un collaudo valido e con i cantieri ancora aperti. Tra i nove indagati ci sono l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), Maurizio Gentile e l’ex sindaco Tuccillo. Il 14 gennaio il Riesame discuterà un appello della Procura guidata da Francesco Greco per chiedere il sequestro della stazione progettata dall’archistar Zara Hadid. Un’istanza già rigettata due volte dal Gip Maria Gabriella Iagulli, che non ritiene sussistenti i pericoli paventati dall’accusa.

Il brano è estratto da un’intercettazione ambientale. Il pm Giovanni Corona ha fatto collocare le cimici negli uffici del Comune e così gli inquirenti hanno potuto trascrivere quel che si sono detti il sindaco e i suoi collaboratori – il capo staff Martelli, l’ingegnere Boccia, capo edilizia pubblica e l’ingegnere Maurizio Attanasio, capo settore territorio – durante una riunione del 28 luglio 2017.

È un incontro teso, verranno registrati urla e litigi. È trascorso poco più di un mese dall’apertura dello snodo ferroviario e i problemi sono tanti. La riunione verte sui documenti inviati da Rfi all’ufficio tecnico. Il 19 luglio il parcheggio della stazione è stato parzialmente sequestrato perché ci sono dubbi sulla presenza di rifiuti nell’area sottostante. Si parla del parcheggio. Si finisce, inevitabilmente, col parlare di tutta la stazione. E dell’assenza di un collaudo regolare. “Boccia dice che per lui il problema sta sul collaudo della stazione”, riassumono gli investigatori.

Si affrontano questioni tecniche e amministrative. A un certo punto “Martelli chiede agli addetti dell’Ufficio Tecnico chi è il soggetto istituzionalmente deputato a vigilare sul fatto che la stazione sia staticamente idonea a essere aperta. Attanasio risponde che è Rfi stesso, loro non vanno al Genio civile a differenza delle strutture private, ma si auto autorizzano dal punto di vista strutturale”.

Ecco: quando si realizza una nuova stazione, il controllore e il controllato sono la stessa cosa. “Prassi illegittime – scrive il pm all’inizio della richiesta di sequestro – cristallizzatesi nel corso degli anni, allorquando normative ormai superate attribuivano poteri illimitati all’Ente Fs”.

Ed eccoci alla questione del collaudo. I partecipanti alla riunione sono consapevoli che manca quello statico. E che forse è troppo tardi per convocare una conferenza dei servizi visto che la stazione è stata inaugurata. “Boccia – si legge nel riassunto – continua dicendo che secondo lui si deve fare un procedimento dove non si dice che si deve chiudere la stazione, ma dove con una formula più leggera si dice che mancano ancora le carte (…) Martelli dice che non è d’accordo e che se eventualmente non ci fosse tutta la documentazione con quale potere loro (del Comune) chiuderebbero la stazione (…) Cosa scriverebbe nell’eventuale avvio del procedimento di chiusura della Stazione?”

Sul punto Boccia è netto. “A oggi manca il collaudo statico della stazione”. “E se lo vanno a dire a qualcuno gli viene la pelle d’oca e rabbrividisce – prosegue la ricostruzione – perché paradossalmente se domani cadesse una trave e morissero dieci persone chi passa il guaio”. Si palesa il terrore. “Martelli dice che sicuramente a oggi il guaio lo passerebbero anche loro (quelli del Comune, ndr) perché lo sanno che manca il collaudo statico, ma chiede: ‘Chi lo doveva sapere? Perché i primi da chiamare in causa è chi lo doveva sapere, doveva vigilare perché lui per primo si attivi (Boccia dice Rfi) e Martelli dice che dovrebbe essere Rfi eventualmente a chiuderlo, e il (Comune) deve rendere impossibile a Rfi di ignorare il problema”.

Conclusioni di Martelli: “Bisogna evitare che il Comune assuma un provvedimento che deve assumere un altro, se si deve chiudere la stazione, la deve chiudere chi l’ha aperta e cioè Rfi, dopodiché il Comune deve fare in modo di mettersi a posto e cominci a strillare a chiunque che Rfi deve verificare ed eventualmente chiuderla”. Un gioco al rimpallo. Con in mezzo i passeggeri dei treni. E la loro incolumità.