Di Maio ci riprova: “Subito la revoca delle concessioni”

Avanti sulla revoca della concessione di Autostrade per l’Italia. Il leader M5S Luigi Di Maio non molla e, dopo la tregua natalizia, torna a bombardare Aspi, controllata da Atlantia, chiedendo la revoca della concessione per la società che gestiva il Ponte Morandi, venuto giù il 14 agosto 2018 uccidendo 43 persone. “Nel 2020, una delle prime cose da inserire nella nuova agenda di governo dovrà essere la revoca, con l’affidamento ad Anas”, scrive Di Maio su Facebook.

L’affondo è alla timeline dettata da Palazzo Chigi che, inserendo nel Milleproroghe approvato “salvo-intese” la norma anti-Benetton, ne ha dilatato i tempi. Per il premier Conte – ha spiegato in un’intervista al Messaggero – “non è stata disposta nessuna revoca o decadenza di nessuna concessione, semmai verrà introdotto un regime più uniforme e trasparente”. Una conferma dei tempi lunghi arrivata anche dalla ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli, la quale in un’intervista al Corriere ha spiegato che “la revoca è una procedura separata, a gennaio saremo in grado di prendere una decisione, ma fino a quando non avremo esaminato tutti gli aspetti non mi sbilancio”.

Di Maio, ora, si fa però forte della relazione della Corte dei Conti, anticipata dal Fatto a settembre, in cui viene smontata la minaccia di Autostrade che vorrebbe indennizzi miliardari in caso di rescissione della concessione. La cifra di 23 miliardi, secondo i giudici contabili, non avrebbe base nella normale prassi commerciali. Di Maio parla di “un’enorme sciocchezza, una montatura alimentata anche da tv e giornali”.

Il rapporto della Corte potrebbe aiutare nella revoca della concessione. La norma inserita nel Milleproroghe prevede, infatti, che il concessionario a cui sia stata tolta la gestione per inadempienza debba risarcire i “danni derivati dal suo inadempimento” e che tale cifra venga scalata dal rimborso che gli spetta. Se l’articolo restasse in questa versione e venisse applicato per il Morandi, la gestione passerebbe temporaneamente ad Anas. E Aspi sarebbe chiamata a pagare il risarcimento dei danni provocati dal crollo. I Benetton hanno già annunciato battaglia.

Caro amico, ti prescrivo

Approfittando delle vacanze di fine anno, il Pd ha fondato una nuova corrente del pensiero giuridico: il dadaismo penale. Il merito va al responsabile giustizia Walter Verini, che ha presentato alla stampa una proposta di legge per riesumare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, con qualche stop qua e là, e abrogare la norma della Spazzacorrotti che la cancella per i reati commessi dal 1° gennaio 2020. Voi direte: altro che dadaismo, questo è berlusconismo. Certo, lo sarebbe se il Pd facesse come tutti i partiti del mondo quando presentano una proposta di legge: la mettesse ai voti in Parlamento per farla approvare. Invece Verini avverte: “Non vorremmo che fosse utilizzata”. Che teneri. È il primo caso di legge retrattile della storia del parlamentarismo mondiale. Forse è stata scritta con l’inchiostro simpatico, oppure su carta esplosiva che si autodistrugge dopo qualche giorno. O magari, anziché depositarla alle Camere, Verini la tiene in tasca, per poter rispondere a chi gli chiede della prescrizione: “Ce l’ho nella giacca, cosa credi, prima o poi quelli mi sentono!”.

Cosa induca questi buontemponi a coprirsi di vergogna e di ridicolo, contestando a parole una delle leggi più popolari della storia, che piace a tutti gli elettori della maggioranza e persino alla maggior parte di quelli d’opposizione (incluso il lombrosario di FI), non è dato sapere. Infatti Salvini non ne parla mai, almeno in pubblico, ben sapendo che la parola “prescrizione” è la più impopolare e detestata d’Italia, più ancora di “Renzi”. Probabilmente il Pd deve fare per forza ammuina, per dimostrare qualcosa alle lobby retrostanti: tipo quella degli avvocati scarsi che, non riuscendo a vincere i processi, sperano almeno di pareggiarli. Quindi ostende la leggina a favore di telecamere, ma poi si guarda bene dal presentarla in Parlamento. Anche perché lì troverebbe subito i voti per approvarla: FI e Lega. Così il governo cadrebbe addosso al Pd, che poi dovrebbe spiegare agli eventuali elettori, nell’ordine: perché la prescrizione, da bandiera dei berlusconiani, è diventata la sua; perché, sulla giustizia, va d’amore e d’accordo con B.&Salvini; e perché vuol cancellare una norma più blanda di quella da esso stesso proposta fino a quattro anni fa, cioè il blocco della prescrizione al rinvio a giudizio. Dopodiché la legge verrebbe dichiarata incostituzionale, visto che prevede trattamenti diversi per i condannati e gli assolti in primo grado: la Consulta ha già detto che non si può, poiché l’art. 27 della Costituzione considera presunti non colpevoli sia i condannati sia gli assolti fino a sentenza definitiva.

La legge retrattile, già comica di suo, diventa irresistibile quando i giureconsulti pidini tentano di spiegarla: farfugliano di “equilibrio tra esigenza di giustizia e giusta durata dei processi” (e quanto dovrebbe durare esattamente un processo per essere “giusto”?). E raccontano la favoletta, pure questa copiata da B. e dagli avvocati scarsi, che senza prescrizione il processo dura in eterno. Ora, le cause della lunghezza dei processi italiani sono numerose e stranote, e fra queste c’è proprio l’aspettativa di prescrizione, che induce tutti gli imputati colpevoli a impugnare le condanne in appello e in Cassazione solo per allungare il brodo e farla franca. Come ha sempre fatto B., in compagnia degli imputati dei 120 mila processi che ogni anno si estinguono grazie al nostro sistema unico al mondo (eccetto la Grecia). Senza quell’aspettativa, i processi dureranno molto meno, anche perché se ne celebreranno molti meno (senza prescrizione, a molti colpevoli converrà patteggiare con lo sconto, specie se la condanna non supera la soglia-carcere di 4 anni). Se davvero il Pd volesse processi più rapidi, anziché contestare la blocca-prescrizione, proporrebbe nuove misure che eliminino le altre cause della giustizia lenta: depenalizzare i reati minori, per ridurre il numero dei processi; abolire il grado d’appello, in linea col sistema accusatorio vigente dal 1990, che in tutto il mondo prevede un giudizio di merito e uno di legittimità (salvo revisione in presenza di nuove prove); introdurre la reformatio in peius, che consente ai giudici d’appello di infliggere pene più alte di quelle appellate, scoraggiando le impugnazioni pretestuose; anticipare l’esecutività delle pene dopo il primo grado, onde evitare le impugnazioni per rinviarla fino al terzo; e votare subito la riforma del processo penale proposta da Bonafede a Salvini e poi al Pd, che fissa tempi certi per ogni grado di giudizio e comporta sanzioni disciplinari per i giudici che non li rispettano per colpa loro.

Ma l’allarme dei dadaisti dem per i processi lunghi è pura finzione. Altrimenti non avrebbero varato per vent’anni una raffica di leggi per allungarli vieppiù: da quella che, tra la fine delle indagini e l’udienza preliminare, ha infilato il ridicolo “deposito degli atti”, un quarto grado di giudizio che fa perdere mesi, a quella che ha sdoppiato il gip e il gup, costringendo due giudici al posto di uno a studiare le stesse carte. E avrebbero abolito almeno qualcuna delle leggi-vergogna di B., senza aspettare i 5Stelle. L’unico obiettivo è resuscitare la prescrizione, per i loro 219 inquisiti. Infatti, dopo aver mantenuto la Cirielli, la Cirami, il colpo di spugna su rogatorie e falsi in bilancio e completato il bavaglio sulle intercettazioni e il salva-evasori lasciati a metà da B., il Pd vuole smantellare l’unica legge in 25 anni che deberlusconizza la giustizia: la Spazzacorrotti. Ma non ha neppure il coraggio di gettare la maschera e mettere ai voti la sua porcatina. Spera che Bonafede o Conte o tutti e due s’inteneriscano e gliela regalino, gratis. Mai avremmo pensato di rimpiangere B. Ma questi gaglioffi riusciranno anche in quest’impresa.

“Ernest e Celestine”, l’amicizia diventa pop-up

Una storiad’amicizia, quasi d’amore, per bambini di tutte le età scritta sotto forma di racconto epistolare e impreziosita da pagine che si trasformano in piccoli teatrini. Parliamo di Ernest e Celestine il grande libro pop-up, pubblicato da Gallucci, casa editrice specializzata in letteratura per bambini, e scritto e illustrato da Gabrielle Vincent. La talentuosa narratrice e disegnatrice belga, scomparsa vent’anni or sono, creò i personaggi di Ernest e Celestine negli anni 80: un orso musicista di strada e una topolina aspirante pittrice, provenienti da due mondi diversi e inconciliabili – quello di sopra appartenente agli orsi, quello di sotto ai topi – diventano amici per la pelle. Contro ogni pregiudizio, la forza del loro sentimento, di shakespeariana memoria, sovverte ogni regola e stravolge l’ordine costituito. La serie di albi illustrati che ne nacque fu tanto amata da Daniel Pennac che volle scriverne un romanzo per bambini e successivamente sceneggiare l’omonimo film uscito nel 2012.

In Ernest e Celestine il grande libro pop-up l’orso dal cuore d’oro dedica dolcissime lettere alla sua cara topolina ricordando ad adulti e piccini che l’amicizia quando è forte si confonde con l’amore. Consigliato dai 3 ai 99 anni.

 

Gipi è talmente Gipi che per l’ultimo lavoro gli applausi finti si possono evitare

Intendiamoci, Gipi è sempre Gipi, uno dei più grandi fumettisti italiani e i suoi libri restano una spanna sopra tutto il resto. Però Momenti straordinari con applausi finti non è il suo lavoro più riuscito. Per due ragioni: è un po’ tutto già visto nei suoi libri precedenti, il doppio livello narrativo con il personaggio-narratore nel mondo reale e le sue divagazioni nell’immaginario (qui fantascienza cosmica e uomini delle caverne), una comicità sofferta, i grandi temi della poetica del Gipi maturo, il tempo che passa, la sterilità e la conseguente impossibilità di smettere di essere figlio, la ricerca del consenso degli sconosciuti per compensare insicurezze. In S., uno dei suoi libri migliori, Gipi si confrontava con la scomparsa del padre. Qui deve affrontare l’agonia della madre. Il suo alter ego narrativo non è un fumettista, ma uno stand up comedian che intrattiene platee poco esigenti cercando di trasformare il suo dramma privato nella cornice narrativa di trivialità di dubbio gusto. I lavori precedenti di Gipi sembravano il prodotto di un tormento profondo, distillati di sofferenza trasformati in arte, tendenti a quella autenticità che tutti i romanzieri contemporanei inseguono. Momenti straordinari con applausi finti, invece, finisce per risultare quasi un esercizio di stile, Gipi che ci conferma di saper fare un fumetto da Gipi, con anche una evocazione di Matteo Salvini (in una radio, in sottofondo). Forse Gipi ci aveva abituato troppo bene, forse ci ha dato l’illusione di conoscerlo così intimamente dal diffidare dai compromessi, o forse l’agonia della madre era un tema che ha imposto all’autore qualche filtro, perché troppo doloroso. Ma proprio per l’affetto che i suoi lettori nutrono per Gianni Pacinotti in arte Gipi, è meglio ammettere che questo libro non è il migliore invece che tributargli gli applausi finti evocati nel titolo.

 

 

L’ornamento non è mai un accessorio

Il rivoluzionario saggio di Marshall McLuhan The medium is the Message avrebbe provocato lo stesso impatto nella cultura moderna senza la sua copertina: una donna che indossa per abito la scritta in verticale “love”? Probabilmente no. E non perché i libri si giudichino dalla copertina, ma perché essa non è un accessorio del testo, un mero ornamento del suo contenuto. E di tutte le anfore greche dipinte (a figure rosse su sfondo nero o viceversa), dei sarcofaghi antropomorfi etruschi come pure delle piramidi stesse, una volta esautorati della loro funzione pratica (custodire liquidi o cadaveri) cosa resta? Solo l’orpello della decorazione?

Per comprendere quanto l’ornamento sia il centro d’attrazione della bellezza, e di come possa persino divenire uno degli strumenti della sua decrittazione, dobbiamo approfittare di questi giorni di vacanza per visitare a Reggio Emilia la mostra più originale della stagione: What a wonderful World, che ricostruisce ab origine la storia dell’ornamento, risollevandolo dal ruolo di second’ordine in cui un equivoco culturale lo ha precipitato. Del resto, già Francesco Petrarca nel Decamerone, ad apertura della Decima novella del primo giorno, scriveva: “Come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo […] così de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti piacevoli sono i leggiadri motti.” (Mutuando quel bell’esercizio della parafrasi in voga alle scuole dell’obbligo: le belle parole sono l’ornamento dei comportamenti degni e dei ragionamenti che si ha piacere ad ascoltare, proprio come le stelle lo sono del cielo.)

Nel percorso espositivo (fino all’8 marzo, a Palazzo Magnani e Chiostri di San Pietro, a cura di Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni), l’accesa serie Flowers di Andy Warhol, le lavorazioni di Cesare Tacchi su stoffe fiorate quale il dipinto Sul divano a fiori o il pattern paisley delle passerelle di Etro dimostrano allora lo stesso fascino per la vegetazione che ispirò i capitelli con le foglie di acanto dei templi greci, le ceramiche dipinte cinesi o i miniaturisti medievali.

Scopriamo anche che la moda odierna dei tatuaggi affonda le proprie radici nel culto religioso, come nella serie fotografica Women of Allah di Shirin Neshat, o nell’appartenenza a un rango sociale per le tribù della Nuova Papa Guinea immortalate dal fotografo Malcolm Kirk; che il culto per la figura astratta in Matisse, per l’intreccio delle linee in Balla, o per la stilizzazione geometrica in Haring li ebbero prima Albrecht Dürer, Giovambattista Piranesi e lo stesso Leonardo da Vinci.

 

Stragi, serial killer e “Canzonissima”: è il 1969 di Bordelli, poliziotto di Firenze

L’originalità dei romanzi di Marco Vichi – non solo gialli tout court – consiste in questo: la soluzione della maggior parte dei casi del commissario Franco Bordelli non si sottrae alla disfida atavica tra scelta morale e giustizia dello Stato. Ché ci sono colpevoli che si possono perdonare per la loro sete di pace e giustizia, aggirando le regole di una comunità. E perché può essere giusto che la vicenda di un serial killer scoperto e poi suicidatosi in carcere venga sepolta per sempre con lui, senza informare stampa e telegiornali, per non caricare di altro dolore la causa scatenante di ben sei omicidi. Sono riflessioni che il lettore continua a fare anche dopo essere giunto all’ultima pagina, alla parola fine dell’ultimo libro di Vichi, L’anno dei misteri.

In fondo, è sempre stato questo il tratto peculiare del commissario Bordelli: la sua morale. Appunto. Un poliziotto sessantenne con la faccia alla Lino Ventura buonanima e che ama la bella Eleonora, di trentacinque anni più giovane. Poi c’è che il commissario indaga a Firenze in un’Italia che non c’è più, quella del televisore in bianco e nero e del boom economico dei Sessanta. Stavolta siamo nel 1969, l’anno dei misteri, compresi quelli della strage di piazza Fontana e del successivo tentativo, nel dicembre ’70, del golpe Borghese. E Bordelli mette le mani anche su documenti segreti che confermano la guerra sporca dell’anticomunismo americano nel cortile di casa italiano, passata per le “fogne” di Servizi e neofascisti, con depistaggi e stragi di Stato. Ma a dominare sono le storie della giovane Diletta, uccisa in casa la sera della Befana mentre tutti guardano Canzonissima in tv, e di un “mostro” che ha già seviziato e ammazzato sei prostitute.

 

 

Qualcuno sa davvero chi è Ronaldo?

Quanto è antipatico Cristiano Ronaldo. Com’è difficile amarlo. Una brutale macchina da calcio. Straordinaria, perfetta, costruita per il primato, per la performance assoluta. Ronaldo è nell’Olimpo dei più grandi calciatori di sempre senza avere la follia tragica e poetica di Maradona, l’eleganza dei gesti di Crujiff, la creatività assoluta della sua nemesi Messi. Ronaldo è l’ossessione per il successo, l’affermazione di sé. È un atto di selvaggia volontà. E allo stesso tempo una star globale, un esperimento tecnologico, la forma immaginata 20 anni fa per costruire il calcio del futuro. Adesso che è il presente (e quasi il passato) di questo meraviglioso gioco, si può provare a tracciarne il profilo: chi è Cristiano Ronaldo? Un uomo o un androide? Un calciatore sublime, un capitano eroico oppure un brand, un’azienda vivente, una fabbrica di denaro che incidentalmente si è impossessata del corpo di un ragazzo di 34 anni? Come ha fatto un bambino di Madeira secco come un’acciuga a trasformarsi in Cr7? Fabrizio Gabrielli, vicedirettore dell’eccellente sito sportivo L’Ultimo Uomo, ha cercato le risposte e ha provato a descrivere cosa c’è dietro la maschera del campione portoghese. Un’aspirazione non banale: Ronaldo non si è mai fatto conoscere davvero. Cristiano non ha raccontato se stesso, se non attraverso documentari e interviste per lo più apologetiche, patinate, finte; la sua personalità non è cosa pubblica, tutto quello che si sa di lui è poco più che packaging, un’identità confezionata per il mercato globale.

Gabrielli racconta Ronaldo – il suo “fascino inquietante” – per contraddizioni e controsensi. Un bambino cresciuto dalla mamma, con un padre alcolista e gelido, diventato un uomo che vuole mettere al mondo “l’imitazione di se stesso”, che ha concepito i suoi primi tre figli senza che si sappia chi sia la loro madre. Un ragazzo cresciuto in un’isola segregata economicamente e geograficamente – Madeira, uno scoglio vulcanico nascosto al mondo, a nord-ovest delle coste africane – che attraversa il mare per diventare un mito universale. Un uomo nato povero e diventato ricchissimo, cresciuto nell’indifferenza e destinato all’immortalità calcistica. Chiuso e fragile, ma ossessionato dall’emancipazione a dell’affermazione di sé, fino all’esplosione del suo successo e della sua arroganza. Amato e odiato da masse immense di persone in tutto il mondo. Un uomo continuamente esposto agli occhi di tutti che rimane ignoto, imperscrutabile. Gabrielli segue le sue tracce partendo da Madeira, dall’aeroporto di Funchal che porta già il nome (e la statua) di Cristiano Ronaldo. Dall’albergo dispoticamente dedicato al suo culto (il Pestana Cr7 Hotel), meta di un pellegrinaggio internazionale. Dal quartiere dell’infanzia e dai primi campi di calcio su cui ha fatto brillare il suo talento. Lo insegue passo per passo nella carriera tra Lisbona, Manchester, Madrid e Torino, nel trionfo con la Nazionale portoghese agli Europei del 2016. Ne racconta la biografia, ricostruisce con sensibilità le sue radici e i suoi legami familiari, la complessità del suo vissuto. La domanda però non esce dalle pagine, rimane lì. Nessuno è in grado di rispondere. Chi è davvero Cristiano Ronaldo?

 

Fabrizio Gifuni, da salvatore della patria a nemico pubblico

Dopo il trionfo planetario di Joker, di cui è stato già annunciato un imminente sequel, Joaquin Phoenix è tornato sul set come protagonista di una vicenda drammatica ancora senza titolo diretta da Mike Mills, il 53enne regista americano già apprezzato autore di Beginners e Le donne della mia vita e di video musicali per Yoko Ono, Moby e gli Air. Interpretato anche da Gaby Hoffmann e girato tra New York, Los Angeles, Detroit e New Orleans, il film sarà distribuito da A24 a fine 2020.

Fabrizio Gifuni sta ultimando a Roma le riprese di La belva, opera seconda del 27enne Ludovico Di Martino (dopo Il nostro ultimo) sceneggiata dal regista con Claudia De Angelis e Nicola Ravera e prodotta da Warner Bros. Entertainment Italia e Groenlandia. Recitato anche da prestigiosi interpreti della scena teatrale contemporanea come Lino Musella, Daria Deflorian, Silvia Gallerano e Monica Piseddu, il film racconta la storia ad alta tensione emotiva di Leonida Riva (Gifuni), un reduce di guerra cupo e solitario, con un passato da Primo Capitano nelle Forze Speciali dell’Esercito. La vita e il lavoro lo hanno portato sempre più lontano dalla famiglia: suo figlio maggiore, Mattia, non lo ha mai perdonato, mentre la secondogenita Teresa lo adora incondizionatamente. Un tragico evento costringerà Leonida a trasformarsi di nuovo per amore in qualcosa che credeva sepolto nel passato e a diventare un vero nemico pubblico.

S’intitola Minimata, come l’omonima cittadina giapponese, il nuovo biopic con Johnny Depp incentrato sul grande fotografo americano William Eugene Smith e diretto tra Giappone e Montenegro da Andrew Levitas. La storia prende il nome da un celebre reportage realizzato dal fotografo e da sua moglie Aileen nei primi anni 70 per denunciare i devastanti effetti dell’inquinamento da mercurio.

“His Dark Materials”: lontano dai libri la chiarezza rischia di svanire

Il problema delle serie tv tratte dai romanzi è che devono stare nel mezzo. Non possono rivolgersi solo ai lettori, quelli che la storia la conoscono già, ma non possono nemmeno dimenticarseli. His Dark Materials, dal primo gennaio su Sky Atlantic, sceglie di mostrare più che spiegare: sin dalla prima scena lo spettatore è catapultato nel mondo alternativo creato da Philip Pullman nella sua trilogia Queste Oscure Materie, un mondo dominato dall’autorità della chiesa, il Magisterium, in cui ogni persona è accompagnata da un daimon, la sua anima in forma di animale. La protagonista è Lyra, una ragazzina di 12 anni cresciuta nel Jordan College di Oxford, dov’è stata abbandonata dal padre quando era una neonata. È la nipote di Lord Asriel, un famoso esploratore che un giorno si presenta a Oxford con una scoperta sensazionale: le sue fotografie scattate al nord non solo documentano l’esistenza della Polvere, una misteriosa sostanza cosmica, ma provano che tramite essa si possono osservare altri mondi. Le ricerche di Lord Asriel sono osteggiate dal Magisterium, che considera la Polvere una manifestazione del peccato originale e attraverso gli Ingoiatori sta conducendo degli esperimenti sui bambini per eliminarla.

Lyra lascia il Jordan College con la signora Coulter. Porta con sé un aletiometro, un congegno simile a una bussola che utilizza la Polvere per mostrare la verità. Quando scopre che la signora Coulter altri non è che il capo degli Ingoiatori, la ragazzina scappa verso nord in compagnia dei gyziani, nomadi che si sono messi alla ricerca dei bambini scomparsi. Nel frattempo Lord Boreal, che lavora per il Magisterium, fa avanti e indietro dal mondo alternativo al nostro attraverso un passaggio segreto.

Non ci avete capito nulla? Già: le materie sono oscure anche per noi, che senza aver letto la trilogia di Pullman abbiamo faticato a orientarci fra aletiometri e gyziani. D’altra parte, diranno i fan, la serie ha dovuto semplificare troppo, condensando in otto episodi le oltre 350 pagine del romanzo. Il rischio di stare nel mezzo è scontentare tutti…

 

Molto rumore per Marvuglia

“L’illusionista in teatro non va più” (di moda): ovviamente è un’illusione, una menzogna bella e buona; in palcoscenico i trucchi infantili – fiori che sbocciano, uccellini che spariscono – incantano sempre, anche il pubblico smartphone-dipendente che risponde alle videochiamate in platea a recita in corso (episodio accaduto realmente domenica scorsa all’Argentina di Roma).

L’illusionista è il protagonista de La grande magia di Eduardo De Filippo, pièce del 1948, allestita ora dal catalano Lluís Pasqual, che ne firma anche le scenografie e i costumi. Più che un mago, in verità, il “professor” Otto Marvuglia è un ciarlatano, un truffatore, un sofista: durante uno dei suoi numeri triviali, fa sparire – sotto lauto compenso – la moglie di Calogero Di Spelta, Marta, che prontamente fugge con l’amante a Venezia. Il marito resta così solo e cornuto, ma non disperato perché il professore gli fa credere che la moglie sia nascosta dentro una scatola: è tutta una grande magia, appunto, basta avere fede…

“La vita è un giuoco, che ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede… Un gran giuoco del quale non ci è dato di scorgere se non particolari irrilevanti”, così dichiarò De Filippo all’indomani del debutto della pièce, nel dicembre del 1949, esattamente 70 anni fa. “E se volessimo vivere in un mondo di illusioni? – si chiede invece il regista –. Se fosse meglio che vivere in una presunta realtà? Ilarità ed emozione si fondono nelle mani di questo genio del teatro napoletano”. Pasqual decide di immergerlo in un’atmosfera da Grande Gatsby, in un allestimento rutilante, grottesco e colorato, se non eccessivo e chiassoso, sin nelle inflessioni dialettali dei personaggi, nelle luci sparate, amplificate dai riflessi dei tanti specchi, negli intermezzi musicali dal vivo tra un atto e l’altro, eseguiti dai pur bravi Dolores Melodia e Raffaele Giglio. Molto rumore per Marvuglia, dunque, benché gli attori – a cominciare dal “professore” di Nando Paone e dal Di Spelta di Claudio Di Palma – siano tutti in parte e affiatati (Alessandra Borgia, Gino De Luca, Angela De Matteo, Gennaro Di Colandrea, Luca Iervolino, Ivana Maione, Francesco Procopio, Antonella Romano, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano).

“Oggi la gente vive nel mondo dell’illusione”: al cuore del “giuoco” di corna e gelosia pulsa la riflessione squisitamente metafisica sulla vita come sogno, come ombra e simulacro, un po’ Platone e un po’ Pirandello (con meno psicologismo e più onirismo). Tuttavia, nella farsa luccicante di Pasqual il pensoso scolora in noioso: spente le luci, tirati i sipari e cadute le illusioni, il signor Di Spelta è perduto, lasciato solo dopo il gran baccano della grande magia. E così questo “giuoco” tradisce il finale cinico e baro di Eduardo: ridateci i trucchi infantili, i fiori finti che sbocciano, i volatili che si volatizzano.