L’amore è amore anche se è gay (e senza figli)

Faber est suae quisque fortunae, e Ferzan Özpetek non si sottrae: il suo tredicesimo lungometraggio di finzione, La Dea Fortuna, ci riconsegna quel che il regista turco trapiantato in Italia è stato, quel che è e quel che sarà, anzi, potrebbe essere.

C’è la sua solita corte LGBTQ-friendly, con l’immancabile Serra Yilmaz, Filippo Nigro con l’Alzheimer e la transgender Cristina Bugatty, di cui invero ci importa assai poco, e dal film al regista stesso siamo in buona compagnia; c’è la malattia e il malato, stavolta Jasmine Trinca, di cui invero non siamo aiutati a interessarci, e anche qui siamo in buona compagnia; c’è una storia d’amore, anzi, una relazione di coppia, di cui invero ci importa e non poco, complici gli attori Stefano Accorsi e, sopra tutto, Edoardo Leo.

Il primo traduttore, Arturo, il secondo idraulico, Alessandro, stanno insieme da tanto, stanno insieme anche con altri e, insomma, resta loro poco più che la tenerezza, coniugata all’imperfetto dei rapporti di lungo corso ma fortunatamente non declinata: non è amore gay, bensì amore, ovvero com’è, come dovrebbe essere eppure come raramente accade nel cinema, almeno il nostro.

È questo il guadagno principale de La Dea Fortuna, che ad altre latitudini andrebbe derubricato a stato dell’arte socio-culturale e qui invece è ancora traguardo, perfino insperato, dunque lodevole. Non sono macchiette, Leo e Accorsi, non sono simboli, né manifesti, e tocca plaudire: forse è questo il segreto, il trucco magico della Dea Fortuna, la normalità dei rapporti e la normalità, che purtroppo è lungi dall’essere, della loro contemplazione artistica.

Quel che sta intorno ad Arturo e Alessandro, viceversa, è meno buono: l’improvviso arrivo nelle loro vite di due bambini, interpretati da Sara Ciocca e Edoardo Brandi, è alla prova dei fatti mero tornaconto poetico ossia espediente relazionale; ancor più d’occasione, ovvero meramente strumentale, è l’apporto della madre dei bimbi, Annamaria (Trinca), già migliore amica di Alessandro. Ci sono critici che hanno stigmatizzato l’impiego funzionale dei fanciulli e, addirittura, si sono dimenticati di contemplarne la mamma: giudizio severo ma giusto, e va a detrimento di Özpetek e dei suoi co-sceneggiatori, l’abituale Gianni Romoli e l’inedita Silvia Ranfagni.

In realtà, Ferzan si può capire: il nucleo di senso, e di amorosi sensi, del film sta nella coppia Leo-Accorsi sicché, pare dirci, più non domandate. Se stiamo sugli sguardi, i gesti, i frammenti del loro dialogo amoroso e scazzoso insieme, ci siamo anche noi, spettatori e complici, ma dei balli di gruppo sotto la pioggia, dell’eros e thanatos d’acchiappo se non d’accatto, dei bambini saputi e della – una pur immaginifica Barbara Alberti – strega cattiva a Bagheria non sappiamo che farcene. E il primo a disfarsene dovrebbe essere Özpetek stesso: ha di più e di meglio da filmare, che non usi e costumi.

 

Isaac Asimov. Il futuro immaginato e scritto ha 100 anni

“Una macchina da scrivere con fattezze umane”. La definizione fu coniata per qualificare Simenon e la sua prolificità, ma si potrebbe riscattare anche per Isaac Asimov. Nato in Russia il 2 gennaio 1920 da famiglia ebraica che si trasferisce poco dopo negli Usa, è grazie all’edicola del padre se Asimov si appassiona a storie di alieni e robot in virtù delle tante riviste specializzate dell’epoca. La vocazione è precoce se è vero che scrive il primo racconto a undici anni e che il primo gli viene pubblicato mentre frequenta le scuole superiori. Poco più che ventenne, nel 1941, pubblica Notturno, celebrato dai cultori del genere come il migliore racconto di fantascienza mai scritto (è la storia di un gruppo di scienziati alle prese con un resoconto sulle eclissi di sole sterminati da un’intossicazione e che si conclude con orde di fanatici religiosi che danno fuoco a tutte le biblioteche del mondo).

Autore di fantascienza per antonomasia, Asimov ha licenziato tra narrativa e divulgazione scientifica un numero di volumi che ammonta fino a 500. Una cattedrale di carta che pare essere stata presa in considerazione a suo tempo dai giurati svedesi ma senza mai risolversi in un Nobel. La verità è che la narrativa di genere resta, per certa critica accademica, un tabù duro a morire. Sull’opera di Asimov si sono appuntati rilievi severi, tutti centrati a ridimensionare una supposta qualità dello stile. Il punto è che l’intrattenimento per essere tale deve pagare pedaggio all’accessibilità. Il valore, perché di valore si tratta, è piuttosto ciò che l’autore è riuscito a seminare nell’immaginario del ‘900. I suoi testi di fantascienza (“narrativa di pensiero e di sogno” per dirla con Lethem) hanno prefigurato e raccontato la spinta tecnocratica che stava trasformando il mondo e di cui oggi sperimentiamo l’intuizione profetica. Quando nel 1950 pubblica il suo primo romanzo, Paria dei cieli, già si snodano diversi temi ricorrenti nella sua narrativa: i viaggi nel tempo, l’incubo radioattivo, la telepatia. Nell’inventare futuri diversi i suoi testi hanno poi creato e con il crisma della primogenitura il deposito inconscio di tanta cultura popolare (oltre lo steccato del genere-ghetto come non pensare che non c’è nulla di più intramontabile dei mondi fantastici di Star Trek, Star Wars, Il Signore degli anelli…).

Una delle saghe più avvincenti da lui create è il Ciclo della fondazione. La serie di romanzi iniziata nel 1951 copre migliaia di anni e segue i vari rovesci di un vastissimo impero galattico. Non sorprende che in un periodo come il nostro nel quale il pubblico ha fame di storie epiche, da questa saga sia in lavorazione una serie tv di prossima produzione.

Asimov è un’icona della fantascienza soprattutto perché fu tra i primi a puntare sulla plausibilità scientifica delle sue storie. Dotato di un quoziente intellettivo da primato, la sua abilità di divulgatore ha ispirato per esempio il nostro Piero Angela che dal suo lavoro ha tratto materiale per le sue trasmissioni tv. La centralità di Asimov è stata peraltro eternata con un asteroide e un cratere di Marte battezzati col suo nome.

Dalla fine degli anni 50 sarà preponderante l’attività divulgativa. Pubblica svariati testi sulla chimica, fisica e astronomia. Nel 1976 esce la raccolta Antologia del bicentenario, dal cui racconto principale L’uomo bicentenario verrà tratto l’omonimo film, interpretato da Robin Williams. La vita di Asimov è stata assai più breve, muore a 72 anni nella primavera del 1992 e solo in seguito si scoprirà la vera causa del decesso: l’Aids, provocato da una trasfusione di sangue infetta. Una delle sue fobie, oltre a quella nota per l’aereo, era per amaro paradosso proprio quella del sangue.

Forse la sua opera più celebre resta Io, Robot. Nove racconti dove sono protagonisti robot umanoidi che convivono nella società degli umani grazie alle cosiddette tre leggi della robotica. L’Intelligenza artificiale è parte integrante della quotidianità e gli uomini non sono più gli unici esseri pensanti sulla terra.

In uno dei suoi libri più belli, La fine dell’eternità, si racconta di un futuro remoto dove l’umanità è in grado di spostarsi lungo il corso del tempo, rimuovendo dal passato tutti gli elementi di intralcio che impediscono un controllo sociale e politico totale. Ennesima profezia? Forse il nostro avvenire è davvero nascosto in qualche pagina di Asimov e celebrarne il centenario ha a che fare più con la realtà che viviamo che con la fantasia letteraria.

L’Italia usa la diplomazia, la Turchia i soldati

Gli incessanti attacchi dei miliziani di Haftar e dei circa duemila mercenari russi che sostengono militarmente l’uomo forte della Cirenaica, pur continuando ad avere come obiettivo principale Tripoli stanno colpendo pesantemente anche le altre città libiche dell’ovest alleate del governo di alleanza nazionale riconosciuto dall’Onu e presieduto da Fayez al-Sarraj. Ieri alcuni jet militari dati alle truppe di Haftar dagli Emirati Arabi e dall’Egitto hanno preso di mira una farmacia e alcuni negozi nella città di Zawiya. “Molte vittime e feriti sono donne e bambini” , ha confermato il centro di emergenza e supporto medico della città a circa 50 km a ovest della capitale. Un altro raid ha colpito anche il porto della città lealista nei pressi della raffineria, la più importante di tutta la Libia occidentale. Che la situazione in Libia stia precipitando lo dimostra anche il viaggio lampo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Tunisi. Il giorno di Natale , il Sultano è voltato nella capitale della Tunisia per incontrare il neo presidente della Repubblica Kais Saied, risultato vincitore al ballottaggio grazie ai voti provenienti da Ennhada. È il partito espressione della Fratellanza Musulmana in Tunisia e, per questo, omologo del partito turco di Erdogan, oggi il rappresentante più potente dell’islam politico nel mondo. Il Sultano ha detto in conferenza stampa che “gli sviluppi in Libia non riguardano solo la Libia, ma hanno gravi conseguenze negative per i Paesi vicini, principalmente la Tunisia”. Ecco perché, per il presidente turco, la Tunisia ha un ruolo importante nella ricerca di soluzioni alla crisi. “Abbiamo discusso dei passi da compiere per un cessate il fuoco e un ritorno a un processo politico in Libia”, ha concluso . Dietro le quinte, i due presidenti hanno invece parlato dell’imminente arrivo di migliaia di soldati turchi nell’ovest della Libia.

Affinché il loro dispiegamento avvenga nel modo più sicuro ed efficace, Ankara ha bisogno della complicità di Tunisi. Ma, tuttavia, sarà il parlamento turco a decidere se la richiesta di Sarraj di avere al proprio fianco 5.000 militari di Ankara, si tradurrà in realtà . “Sulla base del nostro protocollo d’intesa – ha detto Erdogan – sulla sicurezza e la cooperazione militare, presenteremo una proposta di dispiegamento delle truppe in parlamento come primo punto dopo la sua riapertura. Saremo quindi in grado di fornire un supporto più efficiente al legittimo governo in Libia dopo l’approvazione del nostro Parlamento”, ha affermato Erdogan il 26 dicembre. La Turchia e la Libia hanno firmato due protocolli d’intesa il 27 novembre, uno sulla cooperazione in materia di difesa e sicurezza e l’altro sulla delimitazione delle zone di giurisdizione marittima. L’Egitto nel frattempo continua a puntare l’indice contro il coinvolgimento della Turchia nel teatro libico . Il presidente al Sisi (strenuo sostenitore di Haftar assieme alla Russia) accusa Ankara di voler destabilizzare il Mediterraneo. Erdogan invece oltre a deplorare i cecchini russi della società privata di sicurezza Wagner, legata al Cremlino, ha accusato anche il Sudan di aver inviato 2.000 mercenari per sostenere “il terroristi Haftar”. L’Italia crede ancora nella soluzione diplomatica: il presidente russo Putin e il primo ministro Giuseppe Conte, nel corso di una conversazione telefonica avuta ieri, “hanno sottolineato la necessità di una soluzione pacifica” della crisi libica. I due leader hanno espresso “il loro sostegno agli sforzi della comunità internazionale per promuovere un accordo intra-libico con la mediazione delle Nazioni Unite”.

Gideon Sa’ar il “sovversivo”: l’uomo che ha sfidato Bibi

Gli oltre 100 mila iscritti del Likud hanno finito di votare ieri notte nei 106 seggi elettorali sparsi in tutto Israele per preparare il terreno per una resa dei conti che rappresenta la sfida più seria per la leadership di Benjamin Netanyahu negli ultimi dodici anni. È sceso in campo come aveva annunciato Gideon Sa’ar, 53 anni ex aiutante e ex ministro di Netanyahu (Istruzione e Interni), da tempo considerato una stella nascente di Likud e un potenziale erede futuro. Altri “pezzi da novanta” del Partito – come il presidente della Knesset, Yuli Eldstein o l’attuale ministro Ysrael Katz – stanno invece aspettando pazientemente che Netanyahu si dimetta da solo. Si prevede nello scrutinio notturno che Netanyahu spazzerà via la sfida di Sa’ar.

Per i media israeliani sono scarse le possibilità dell’ex ministro di battere il navigato Bibi. Ma gli alleati di Sa’ar considereranno il risultato del 30% dei voti già come una vittoria, mettendo in pole position il loro candidato per guidare il partito quando Netanyahu si dimetterà. Tuttavia, dopo aver fallito la costituzione di una coalizione in due voti consecutivi, la capacità di Netanyahu di guidare il partito alla vittoria elettorale e poi al governo dopo le elezioni del 2 marzo non può essere data per scontata. Netanyahu è accusato di corruzione, frode e violazione della fiducia in tre diversi casi, in cui andrà a presto a processo. Bibi nega qualsiasi illecito e ha condotto una campagna arrabbiata contro i media e gli ufficiali delle forze dell’ordine che hanno indagato (per tre anni) su di lui. Persino il capo dello Stato Reuven Rivlin (uno dei padri del Likud) non è stato risparmiato dagli strali di Netanyahu nel denunciare il “colpo di stato” delle élite liberali.

Anche in mezzo a questo scompiglio interno, la sfida di Sa’ar è una manovra rischiosa in un partito che valorizza fortemente la lealtà e che ha avuto solo quattro leader nei suoi 70 anni di storia. Lo stesso Netanyahu ha denunciato Sa’ar come “sovversivo” per la sfida.

Le posizioni di Sa’ar non divergono molto da quelle di Bibi – sull’annessione della Valle Giordano (annunciata dal premier) e quella degli insediamenti, i rapporti con la Giordania, il “problema” Gaza –, ma il fatto che l’ex ministro sia tra gli artefici dell’elezione di Reuven Rivlin alla guida di Israele nel 2015 aiuta Netanyahu a farlo percepire come uno di sinistra, quando certamente non lo è. Per quanto riguarda l’intenzione di chiedere l’immunità alla Knesset, finora il premier uscente è rimasto a bocca chiusa, con il termine per la presentazione della richiesta che scade la prossima settimana. Bibi può schivare i tre processi soltanto se resta premier – unica carica per cui è prevista l’immunità – o se ottiene in Parlamento un voto ad personam con una maggioranza qualificata, che però al momento non ha.

I sondaggi, poi, sono come il tempo in questi giorni in Israele, cioè tempestosi. Le ultime rilevazioni indicano che Kahol Lavan (‘Blu e bianco’, il partito dell’ex chief of staff Benny Gantz e degli altri generali) sopravanza il Likud di tre-quattro seggi, non sufficienti a ottenere una maggioranza alla Knesset con i suoi alleati di centro e sinistra. E Netanyahu potrebbe vincere la leadership nel partito, andare al voto e non avere poi in mano i numeri per formare un governo mantenendo il Paese nello stallo politico in cui si trova da un anno.

Un’intesa fra Likud e Kahol Lavan sembrerebbe la via più naturale, ma il problema si chiama Benjamin Netanyahu. Con Sa’ar alla guida del partito l’accordo si chiuderebbe in un pomeriggio.

Non più Siberia, i dissidenti ora vanno a finire nell’Artico

Arrestato, stavolta solo per qualche ora a Mosca il dissidente Aleksey Novalny (nella foto); diversa la sorte del suo collaboratore più fidato, spedito in una base nell’Artico. Baffetti neri, sguardo franco, all’appello delle proteste contro il governo di Putin sempre presente, Ruslan Shaveddinov, 23 anni responsabile di Fbk, fondo anticorruzione del blogger, ora trema al freddo, deportato nel siderale Artico russo. Le ultime immagini di Shaveddinov sono quelle registrate da Leonid Volkov, capo di Fbk: si vedono gli uomini in divisa trascinare via l’attivista dall’edificio verso un furgone bianco. “Hanno trasformato il servizio militare in una forma di prigionia”. Secondo Navalny l’appartamento di Shaveddinov, considerato disertore dall’esercito della Federazione, è stato perquisito dall’Fsb, servizi di sicurezza, due notti fa, nelle stesse ore in cui è stato rifiutato il suo appello per evitare il servizio militare per ragioni di salute: “Hanno buttato giù la sua porta, lo hanno rapito e messo su un aereo scortato da un enorme convoglio di polizia”. Prima sarebbe stato interrogato, ma il Comitato investigativo del Cremlino nega. Negli uffici del blogger anticorruzione il raid della polizia è avvenuto quando stava per andare in onda il suo live su Youtube, da un milione e mezzo di visualizzazioni. Nell’estremo nord russo. Shaveddinov, inizialmente scomparso, è ora ufficialmente assegnato all’unità 23662, base militare strettamente sorvegliata di Rogachovo, mare di Barents, arcipelago artico di Novaya Zemlya, remoto e segretissimo sito per test nucleari. Intanto a Mosca ieri è stata una notte di perquisizioni, anche nell’appartamento della giornalista Yulia Polukhina della Novaya Gazeta, madre di due bambini, deportata verso “destinazione sconosciuta”, hanno detto i suoi colleghi. Il motivo: un’inchiesta che aveva svolto sui gruppi armati illegali di Kiev che combattono contro i filo-russi in Donbass.

Professione troll, il lavoro più remunerato in Ucraina

“Il mio lavoro è manipolare emozioni e ci sono centinaia di persone come me”. Comincia così I, bot, l’indagine dei giornalisti di Slidstvo che sono riusciti a documentare l’esistenza della prima fabbrica di troll ucraini. L’infiltrazione, durata oltre un mese, è stata compiuta dal reporter Vasyl Bidun a Pod’il, centro di Kiev, nella sede di una agenzia non registrata.

Professione troll: pagato per essere qualcun altro, che però non esiste, nell’epoca della politica sul web. La fabbrica dei troll di Kiev è uno stanzone bianco dove dietro agli schermi siedono decine di giovani ucraini che hanno risposto a un annuncio di lavoro per copywriter. Poiché dell’agenzia ufficialmente non c’è traccia, mancano an che le buste paga: è un mondo che funziona in contanti: 60 centesimi è il prezzo pagato per ogni commento, ovvero poche grivne. Nella fabbrica c’è chi si occupa della parte tecnologica, esperti informatici, e chi di quella emotiva: si chiamano “scimmie”. I commentatori-troll ricevono dall’agenzia circa sette account falsi, alcuni attivi da anni, di cui studiano e replicano toni, idee, sembianze digitali, per inveire e deformare quello di cui stanno parlando i politici del giorno.

Primo compito del troll è non dover sembrare un troll. Missioni: soffiare sul fuoco dei sostenitori o spegnere quello degli oppositori del politico pagante, alimentare il vociare del web con frasi aggressive o più silenziose, che rimangono ferme come mine in attesa che l’utente di turno la trovi e inneschi l’esplosione; semplificare le cose difficili, complicare quelle facili. Per il resto lacerare certezze, convincere con paradossi, confondere argomenti sulle tematiche che ogni giorno fornisce il supervisore delle “scimmie”. Fare cioè quello per cui l’agenzia è stata pagata dai politici, ovvero “creare dibattito: un profilo reale comincia a interagire solo quando la conversazione è già in corso”. Due account finti litigano sullo stesso argomento finché non coinvolgono utenti reali nella conversazione.

Esempi. “Non è esperto di politica, ma è umano”. “Dovremmo votarlo perché non ha dimenticato il Donbass”. “Nella nuova Rada c’è bisogno di lui”. Troll e persone reali stanno parlando su Facebook di Serhiy Sivokho, deputato occhialuto e verde legato al neo presidente Zelensky. Sivokho, spalla artistica dell’attore-leader alla “Lega del riso”, senza alcuna esperienza militare, è diventato dopo le ultime elezioni consigliere della Sicurezza nazionale della Difesa ucraina.

Nei meandri di Facebook, unica fonte di informazione per un quarto degli ucraini, si sono immersi anche gli investigatori di Vox Ukraine, come sottomarini silenziosi nella marea della campagna elettorale lo scorso aprile. Hanno reso però noti i risultati dell’investigazione solo ora. I giornalisti hanno analizzato dodici milioni di commenti sulle principali pagine utilizzate dai politici in corsa alle urne per scoprire che 4 milioni erano prodotto dei troll, il 30% dei post era frutto di account fasulli. In sei settimane hanno scoperto che mezzo milione di commenti sull’allora candidato Zelensky arrivava da troll o account falsi che facevano piovere sul suo profilo elogi o frasi neutrali. L’altro candidato che ha registrato la più vigorosa attività di troll è lo sconfitto ex presidente Petro Poroshenko con 200 mila interazioni la cui origine non è rintracciabile tra nomi di reali cittadini. Segue poi il famoso cantante Sviatoslav Vakarcuk, a capo del partito Golos, in una lista chiusa da Yulia Timoshenko e poi Volodymyr Groisman.

Dopo qualche settimana in fabbrica, Vasyl è diventato un velocissimo, esperto troll professionista. Postando 300 commenti al giorno riguardanti le cinque tematiche fornite, finiva in fretta il turno del mattino e lasciava i profili a chi li avrebbe tenuti attivi nel pomeriggio. Come gli diceva il suo capo Yura: “È un lavoro in cui non bisogna pensare troppo, le persone non sono istruite, se fai errori grammaticali è un vantaggio”. Yura è uno dei trafficanti di troll per campagne virali che assoldano giovani in tutta Kiev per circa 300 dollari al mese, uno dei lavori più remunerativi in giro nell’Ucraina di guerra.

Galera o multa: a cosa servono i dl Sicurezza spiegato coi fatti

Quelle che seguono sono due storie diverse, ma forse è la stessa. La prima comincia a febbraio in Sardegna, quando i pastori iniziano a rovesciare latte per strada per protestare contro il prezzo troppo basso a cui sono costretti a vendere. La seconda storia parte a metà ottobre a Prato, quando gli operai di una tintoria industriale con un’antica abitudine all’utilizzo di lavoro nero, all’organizzazione extralegale della manodopera e a scordarsi di pagare gli stipendi fanno una manifestazione davanti all’azienda. La prima storia prosegue a novembre, quando a 150 pastori viene notificato un avviso di garanzia per blocco stradale; la seconda a Natale quando a 21 operai arrivano multe da mille a 4 mila euro sempre per blocco stradale. Cos’hanno in comune? Una cosa: Matteo Salvini o, meglio, il suo decreto Sicurezza del 2018 che ha reintrodotto il reato di blocco stradale (da uno a sei anni) e inventato le multe per quello realizzato “con il proprio corpo” (è il caso di Prato). Da questo punto di vista peraltro – e s’intende quello dell’agibilità del conflitto sindacale e sociale – il decreto Sicurezza del 2019 è persino peggio del suo predecessore: che l’operaio sia sardo, pratese, pachistano o cinese (non sono nazionalità a caso), le leggi di Salvini stanno lì a garantire che la sua protesta possa essere stroncata dall’intervento repressivo dello Stato. Come direbbe lui, la pacchia è finita. Se invece pensate che ora i decreti Sicurezza li cancella il governo dei buoni allora quel tizio con la barba che avete visto martedì sera è davvero Babbo Natale.

Fioramonti, si parla solo delle dimissioni e non della sostanza

Le dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti sono una buona e una cattiva notizia al tempo stesso. È un fatto positivo che in un Paese in cui i politici sono da sempre abbarbicati alla poltrona ci sia finalmente qualcuno disposto ad andarsene pur di mantenere la parola data.

Il 5 settembre, non appena nominato responsabile dell’Istruzione, Fioramonti aveva annunciato: “Ci vogliono investimenti subito, nella legge di Bilancio: 2 miliardi per la scuola e 1 almeno per l’università. Lo dico da ora: se non ci saranno, mi dimetto”.

Per trovarli il ministro aveva fatto il diavolo a quattro. Visto che in cassa non c’era un euro, aveva proposto di introdurre delle micro-tasse di scopo sul modello di quanto accade in molti Paesi del mondo: pochi centesimi sulle merendine e le bibite gasate, un euro e mezzo sui biglietti aerei. Ma il risultato erano stati solo sberleffi, e in qualche caso insulti, non solo da parte delle opposizioni, ma anche da parte di chi in Parlamento, in tv e sui giornali continua a ripetere che l’Italia per risalire la china deve investire in istruzione e ricerca. Così alla fine dalla legge di Bilancio erano spuntati fuori meno di 2 miliardi. Una cifra ridicola che lascia il nostro Paese agli ultimi posti, assieme alla Grecia, in fatto di fondi destinati alla scuola. Bene allora che il ministro si sia dimesso tentando di ricordarlo a tutti. Male invece (e qui siamo alla cattiva notizia) che intorno alle sue dimissioni si sia scatenato solo un dibattito sulla sua presunta codardia – “chi ha coraggio non fugge” hanno detto quasi all’unisono esponenti dei 5 Stelle e Italia Viva – e non sulla follia di una classe dirigente che continua rinviare di anno in anno i finanziamenti destinati a docenti e studenti. Perché a Fioramonti può certamente essere rimproverato di tutto – a partire dall’ingenuità dimostrata quando si era impegnato alle dimissioni nella speranza di ottenere dei veri stanziamenti per il mondo dell’istruzione – ma non il fatto di aver mantenuto una promessa.

Certo, i risultati di un governo non si giudicano nel giro di quattro mesi. È possibile che se l’esecutivo reggerà i finanziamenti per l’istruzione arriveranno in futuro, grazie ai risparmi sugli interessi sul debito o le maggiori entrate fiscali. Resta però chiara l’ipocrisia di fondo che non riguarda solo la nostra classe politica, ma pure noi cittadini. Mentre tutti si lamentano perché in Italia non si fa abbastanza per la ricerca, per la formazione dei giovani, per l’innovazione, solo in pochi sono disposti a fare sacrifici anche piccolissimi per dare il via alla svolta. Lo dimostra il dibattito surreale innescato da Fioramonti sulle micro-tasse di scopo. Imposte che, calcolatrice alla mano, avrebbero impattato solo per una manciata di euro sulla vita degli italiani garantendo però in cambio un’istruzione migliore ai meno abbienti (i ricchi, in Italia, gli studi se li pagano da soli) e un’alimentazione più sana. Un strategia che si è già dimostrata vincente in 35 tra città, Stati e regioni del mondo. In Europa si fa già così in Norvegia, Ungheria, Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Belgio, Estonia, Portogallo, Finlandia e Catalogna. In Italia, no.

Nella sedicente patria del buon cibo e del saper vivere, il junk food viene premiato. Anzi osannato. Così in Parlamento ci si straccia le vesti per il diritto all’obesità e alla merendina. Mentre il diritto allo studio e al futuro viene, come sempre, di anno in anno rinviato.

“Il Foglio” e quei liberisti con i soldi altrui

“Senza competizione, non c’è efficienza. Senza efficienza, non c’è risparmio. Senza risparmio, non c’è investimento. Senza investimento, non c’è futuro. E senza concorrenza, purtroppo, non c’è alcuna speranza di non ritrovarsi presto con un paese fottuto”.

Era questo l’efficace attacco di un articolo del Foglio del 23 giugno 2017 in cui il direttore, Claudio Cerasa, se la prendeva con il “partito dell’AC” cioè dell’AntiConcorrenza che affligge il sistema italiano. In questi giorni, soprattutto nel dibattito molecolare dei social network, questa fede liberale e neoliberista del quotidiano fondato da Giuliano Ferrara sta tenendo banco. Perché Il Foglio, per effetto di un contenzioso fiscale su cui indaga la Guardia di Finanza (ne parliamo a pagina 4), potrebbe vedersi bloccare i contributi pubblici che garantiscono circa un terzo del suo bilancio e, sostiene la sua direzione, potrebbe addirittura essere costretto a chiudere. Non ce lo auguriamo proprio. Anche se come la pensa questo giornale sul finanziamento pubblico lo si ricava già dalla citazione sotto la testata. E anche se come la pensa il Foglio lo rivelò il suo fondatore Giuliano Ferrara alla trasmissione Report: “Con il trucco della famosa Convenzione per la giustizia, un trucco nel senso che non era un vero partito”.

Il punto che ci interessa, invece, è discutere se si possa invocare il libero mercato, la concorrenza, la libertà dei capitali privati quando in gioco ci sono le vite degli altri e chiedere il sostegno pubblico se a ballare è la propria, di vita. Solo il 22 dicembre scorso, il quotidiano dedicava un’intera delle sue voluminose pagine a un pezzo contro “La Repubblica dei salvataggi” criticando il modo in cui il governo affronta i casi di Alitalia, Ilva o Whirlpool. “Il mercato non si può sfidare in eterno” recitava il sommario e nel suo articolo Stefano Cingolani scriveva dei “soldi dei contribuenti e dei risparmiatori nelle aziende fallite”. Per aggiungere che “se di sostegno pubblico c’è bisogno, allora deve servire ad aumentare il capitale, razionalizzare, chiudere gli istituti incapaci di risanare”.

Volendo essere impietosi, basterebbe rivolgere questa frase contro lo stesso Foglio o contro quelle strutture che, con il finanziamento pubblico, reggono in piedi il conto economico e non certo la propria ricapitalizzazione (ci asteniamo dai giudizi sulla proprietà del quotidiano, perché abbiamo già dato).

A sostegno del Foglio, in questi giorni, quello che più ha fatto discutere è Mattia Feltri: “Bisognerebbe capire (non è difficile) che per un liberale lo Stato finanzia partiti, giornali, musei, teatri e tanto altro, per il bene della democrazia. Potete non essere d’accordo, ma chi ci vede contraddizione è un po’ somaro”, ha scritto il giornalista della Stampa su Twitter.

Guia Soncini, che del Foglio è collaboratrice, gli ha risposto sempre sullo stesso social: “Si vede che quello su cui scrivevamo, e che prendeva sfrenatamente per il culo tutte le lagne del scìnema itagliàno che voleva finanziamenti, era un giornale illiberale”.

Fare i liberisti con i soldi degli altri garantendo la propria roccaforte e mandando al macero il resto, è facile. Ma sulla lunga distanza non regge. E senza eccessive filippiche sullo Stato-interventista sarebbe però il caso di riflettere sui tempi in cui viviamo, in cui il libero mercato non ce la fa, annaspa e crea voragini ovunque. Mentre è proprio lo Stato a essere chiamato a intervenire, sostenere, lenire, ripulire, rimpiazzare, aiutare: i giornali e la cultura, ma anche aziende maciullate da “capitani coraggiosi”. Magari è il momento di rifletterci: non perché si rischia la chiusura, ma perché è giusto.

Calabria, le mafie si possono eliminare

L’attacco giudiziario di qualche giorno fa contro un blocco politico-mafioso tra i più pericolosi della Calabria sta suscitando molte aspettative. Anche se non bisogna esagerarne le dimensioni, questa operazione può essere l’inizio di una svolta. Se portata fino in fondo, può colmare il ritardo ventennale dell’antimafia in Calabria rispetto alla Sicilia, liberando 2 milioni di cittadini dalla tirannia malavitosa che ne ha distrutto benessere, speranze e diritti lungo gli ultimi 40 anni. La svolta, ripetiamolo, è solo potenziale, e non è detto che prosegua, dati i due grandi ostacoli che si trova di fronte. Il primo è la mancata assunzione di responsabilità da parte dei partiti nella composizione delle liste per le imminenti elezioni regionali in Calabria. Solo il Pd sembra disposto a candidare qualche credibile faccia nuova.

Il declino dell’opzione violenta che è avvenuto negli affari criminali ha fatto sì che il comando di varie cosche sia tornato in Calabria nelle mani di politici, avvocati, commercialisti, amministratori di enti locali, imprenditori formalmente leciti. E il più alto livello di istruzione delle nuove generazioni mafiose ha moltiplicato i casi di ibridazione tra politici e boss. Ci sono in giro nella politica calabrese molte facce che sembrano pulite, pur essendo espressione diretta di poteri criminali. In realtà, nessun partito si è preoccupato di mettere in campo anticorpi e strategie contro il malaffare dilagante in una regione dove è la politica che guida la ’ndrangheta, e ne garantisce l’impunità tramite i suoi rapporti con pezzi degradati dello Stato.

Il procuratore Gratteri e una certa parte della Calabria onesta sanno di cosa sto parlando. Perché il secondo, più cruciale ostacolo alla liberazione della regione dalla corruttela e dalla violenza è la debilitazione etica e professionale che affligge un pezzo dei suoi apparati inquirenti. Sono 15 i magistrati calabresi – alcuni dei quali in posizioni apicali – sotto inchiesta per gravi reati da parte della Procura di Salerno, competente per legge su Cosenza e Catanzaro. Una vasta costruzione accusatoria come quella messa in piedi da Gratteri dovrà fare i conti con le malefatte di un gruzzolo di suoi colleghi, e con le loro ramificazioni nella macchina della giustizia penale e nei collegi giudicanti. Personaggi e ramificazioni su cui Gratteri non ha giurisdizione diretta, e i cui destini dipendono da Salerno e dal Csm, dove è stata appena smantellata una cricca politico-giudiziaria che trafficava sulle nomine di vertice a livello nazionale. Sono impedimenti certo considerevoli, ma non insuperabili. Anche se il blitz appena effettuato ha colpito solo il 20% dell’élite del potere illecito della regione, il restante 80% non è invincibile e non è imperscrutabile. Tutti i pilastri del fortilizio politico-mafioso calabrese sono ben individuati, e possono essere abbattuti in tempi ragionevoli da un’azione investigativa risoluta. Non c’è più bisogno di eroi né di speciali sforzi normativi. La sfida calabrese è difficile, ma può essere affrontata e vinta usando l’ordinaria cassetta degli attrezzi del sistema penale. Sono da evitare perciò i paragoni con la stagione antimafia siciliana degli anni 80. È eccessivo comparare gli esordi calabresi, per quanto promettenti, con il percorso che ha portato alle condanne del maxiprocesso di Palermo del 1986-87. Diverse e più modeste sono le proporzioni del tutto. La ’ndrangheta e la politica calabrese di oggi non fanno parte, per fortuna, di un patto scellerato protetto ai massimi livelli dello Stato centrale come quello contro cui si sono scontrati Falcone, Borsellino e altri. Il successo o il fallimento delle indagini contro il malaffare calabrese si trovano nelle mani dell’autorità giudiziaria locale. La quale, sulla carta, è perfettamente in grado di farcela. Grandi sono stati i progressi dell’azione antimafia post-Falcone, e molto più incisivi e a largo spettro sono gli strumenti a disposizione dell’antimafia. La Guardia di Finanza è in grado oggi di compiere un’indagine patrimoniale in una frazione del tempo che occorreva negli anni 80. Le banche non sono più i santuari impenetrabili di una volta e le tecniche di raccolta delle informazioni sugli indagati sono di un’efficienza senza precedenti. Ci sono Dia, Dna, uffici e competenze specialistiche che non esistevano un trentennio addietro. Le leggi sullo scambio politico-mafioso sono di una severità esemplare.

Ci sono oggi in Calabria le condizioni di un percorso che può portare a una débâcle storica della politica corrotta e della sua inseparabile, nefasta, compagna di viaggio. Le insidie sono numerose. Depistaggi, fughe di notizie, schizzi di fango, baraonde e polveroni giudiziari sono da mettere in conto.

Gratteri e i suoi vanno perciò sostenuti senza tentennamenti. Se riescono a proseguire così per altri 5 anni con il sangue freddo, la determinazione e le credenziali immacolate indispensabili, vedremo la luce alla fine del tunnel.