Faber est suae quisque fortunae, e Ferzan Özpetek non si sottrae: il suo tredicesimo lungometraggio di finzione, La Dea Fortuna, ci riconsegna quel che il regista turco trapiantato in Italia è stato, quel che è e quel che sarà, anzi, potrebbe essere.
C’è la sua solita corte LGBTQ-friendly, con l’immancabile Serra Yilmaz, Filippo Nigro con l’Alzheimer e la transgender Cristina Bugatty, di cui invero ci importa assai poco, e dal film al regista stesso siamo in buona compagnia; c’è la malattia e il malato, stavolta Jasmine Trinca, di cui invero non siamo aiutati a interessarci, e anche qui siamo in buona compagnia; c’è una storia d’amore, anzi, una relazione di coppia, di cui invero ci importa e non poco, complici gli attori Stefano Accorsi e, sopra tutto, Edoardo Leo.
Il primo traduttore, Arturo, il secondo idraulico, Alessandro, stanno insieme da tanto, stanno insieme anche con altri e, insomma, resta loro poco più che la tenerezza, coniugata all’imperfetto dei rapporti di lungo corso ma fortunatamente non declinata: non è amore gay, bensì amore, ovvero com’è, come dovrebbe essere eppure come raramente accade nel cinema, almeno il nostro.
È questo il guadagno principale de La Dea Fortuna, che ad altre latitudini andrebbe derubricato a stato dell’arte socio-culturale e qui invece è ancora traguardo, perfino insperato, dunque lodevole. Non sono macchiette, Leo e Accorsi, non sono simboli, né manifesti, e tocca plaudire: forse è questo il segreto, il trucco magico della Dea Fortuna, la normalità dei rapporti e la normalità, che purtroppo è lungi dall’essere, della loro contemplazione artistica.
Quel che sta intorno ad Arturo e Alessandro, viceversa, è meno buono: l’improvviso arrivo nelle loro vite di due bambini, interpretati da Sara Ciocca e Edoardo Brandi, è alla prova dei fatti mero tornaconto poetico ossia espediente relazionale; ancor più d’occasione, ovvero meramente strumentale, è l’apporto della madre dei bimbi, Annamaria (Trinca), già migliore amica di Alessandro. Ci sono critici che hanno stigmatizzato l’impiego funzionale dei fanciulli e, addirittura, si sono dimenticati di contemplarne la mamma: giudizio severo ma giusto, e va a detrimento di Özpetek e dei suoi co-sceneggiatori, l’abituale Gianni Romoli e l’inedita Silvia Ranfagni.
In realtà, Ferzan si può capire: il nucleo di senso, e di amorosi sensi, del film sta nella coppia Leo-Accorsi sicché, pare dirci, più non domandate. Se stiamo sugli sguardi, i gesti, i frammenti del loro dialogo amoroso e scazzoso insieme, ci siamo anche noi, spettatori e complici, ma dei balli di gruppo sotto la pioggia, dell’eros e thanatos d’acchiappo se non d’accatto, dei bambini saputi e della – una pur immaginifica Barbara Alberti – strega cattiva a Bagheria non sappiamo che farcene. E il primo a disfarsene dovrebbe essere Özpetek stesso: ha di più e di meglio da filmare, che non usi e costumi.