Giuseppe Conte
Categoria: Rivelazioni
Voto: 8
Nel 2019 in cui si è ribaltato il governo e anche il mondo, con un’alleanza tra Pd e Cinque Stelle benedetta da Matteo Renzi, l’avvocato è rimasto dov’era: a Palazzo Chigi, con il suo ciuffo da narciso non redento e il suo eloquio professorale, ottimo per anestetizzare i giallorossi come per perforare di accuse Matteo Salvini. Giuseppe Conte esce primo della fila da un anno infinito. Tecnico che invece era molto politico; più duro del Salvini a cui in agosto dette addio dandogli dell’”irresponsabile” in diretta tv, più abile del Luigi Di Maio che non voleva allearsi con il Pd, più tenace dei dem che volevano sostituirlo. E invece no. A mediare in un esecutivo che spesso pare una nave ubriaca è rimasto Conte, contento di rivendicare quell’anima di sinistra che teneva riposta durante il governo con la Lega. Quando la sua nomina ballava nei tavoli estivi tutti finte e paure, si è preso anche l’endorsement di Donald Trump, con un tweet in cui lo ha ribattezzato “Giuseppi”. Ma è andata benissimo anche così a Conte. Pure se in seguito è deflagrato il caso della visita in Italia del procuratore americano Barr, a Roma proprio in quei giorni a cercare prove sul Russiagate. Il premier però ha giurato di non aver sbagliato nulla: “Non ho mai interloquito con Barr, e la nostra intelligence è estranea al Russiagate”. Così da qui a pochi giorni sarà tempo di cronoprogramma, che Conte ha preteso per mettere a regime la maggioranza: quella che ormai deve aggrapparsi all’avvocato che non voleva.
Il caso Diciotti
Categoria: Tafazzi a 5S
Voto: 2
Il 19 febbraio 2019 è il giorno più lungo per il Movimento 5 Stelle, forse addirittura il punto di non ritorno nei rapporti di forza con la Lega. I pentastellati decidono di salvare Matteo Salvini dal processo per sequestro di persona che gli viene contestato per la gestione dei migranti a bordo della Nave Diciotti: insieme a Forza Italia e Fratelli d’Italia negano infatti l’autorizzazione a procedere richiesta dai magistrati di Catania nei confronti del capo del Carroccio, allora alleato del M5S nel di governo gialloverde. All’uscita della Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama i pentastellati sono costretti a transitare attraverso il picchetto organizzato dai senatori del Pd (compresi quelli oggi passati con il nuovo partito di Matteo Renzi, Italia Viva) che invece hanno appena votato per dare il via libera alla richiesta dei magistrati. Al grido “o-ne-stà, o-ne-stà”, i dem mettono alla gogna i parlamentari del Movimento 5 Stelle accusandoli di aver rinnegato i loro principi con il solo scopo di mettere al riparo il governo Conte I da eventuali ritorsioni di Salvini. La difficoltà del di Luigi Di Maio e dei suoi è tutto nel volto e soprattutto nella reazione stizzita del senatore Mario Giarrusso. Che all’uscita dalla Giunta che ha appena scudato Salvini, fa il gesto delle manette all’indirizzo dei dem per la notizia dell’arresto, in quella stessa giornata, dei genitori di Matteo Renzi. Una reazione che dice tutto del cortocircuito in casa 5 Stelle.
Giorgia Meloni
Categoria: Cristiane
Voto: 7
Nell’era in cui la politica diventa tweet, può capitare pure di essere “meme”. Nel gergo di chi usa la rete, significa un contenuto comico immediato – una vignetta, una animazione – condiviso da milioni di persone sui social e adattato a mille parodie diverse. Ne sa qualcosa Giorgia Meloni, la cui fotografia web da qualche mese è inconfondibile: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana! Non me lo toglierete!”. Come dire: vade retro genitore 1, vade retro immigrazione, vade retro tutta questa laicità dello Stato e così via. Era ottobre e la leader di FdI protestava così in Piazza del Popolo contro il governo Conte 2. Al suo fianco, gli alleati di centrodestra. Ovvero quel Salvini cui spesso ha dato di gomito ammiccando a un’alleanza sovranista che facesse fuori l’altro compare di piazza, Berlusconi, ormai ridotto con Forza Italia a percentuali più vicine alla soglia di sbarramento che alla doppia cifra. Fratelli d’Italia, invece, vola: ha raggiunto il 10% e toglie pure qualche voto alla Lega pigliatutto. Risultati che meriterebbero, per così dire, un po’ di selezione all’ingresso, se si pensa che nel giro di 6 mesi cinque esponenti del partito sono finiti in manette in inchieste sulla ‘ndrangheta: il primo è stato Giuseppe Caruso, presidente del Consiglio comunale di Piacenza, l’ultimo – settimana scorsa – Roberto Rosso, assessore in Piemonte. Non male per un partito che da Statuto rifiuta condannati in primo grado.
Paolo Gentiloni
Categoria: Risorti
Voto: 7
Nella notte elettorale che doveva sconvolgere l’Europa, il 25 maggio, un dato appare chiaro: i sovranisti – divisi alla meta – non sfondano. La Lega conquista il 34,3%, ma all’interno della dinamica complessiva conterà più il secondo posto del Pd (con il 22,7% supera M5S, al 17,1%). E soprattutto conterà di più la tenuta delle famiglie politiche tradizionali: il Ppe e i Socialisti, insieme ai liberali di Renew Europe, sono in grado di guidare la Ue e di mantenere ai margini gli euroscettici, che pure in molte nazioni sfondano. Le conseguenze si vedranno nei mesi con l’Italia che, complice il cambio di governo, conquista un posto al sole per Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici. Nel pacchetto che porta Ursula von der Leyen a essere indicata come presidente della Commissione (frutto di un accordo tra Francia e Germania che prevede l’”affondamento” del socialista Frans Timmermanns, ottenuto anche grazie a Giuseppe Conte), c’è uno del Pse alla guida del Parlamento europeo. Tocca a David Sassoli. Ma è nella partita dei Commissari, che l’Italia ottiene un posto centrale. Il governo gialloverde – visto come un incubo dalle Cancellerie europee – viene sostituito dal Conte 2. Fuori la Lega, dentro il Pd, l’Italia rientra nell’alveo europeista. Per l’elezione di Ursula a Strasburgo sono fondamentali i voti di M5S (mentre la Lega, allora alleata di governo, dice no). È il primo atto che porterà al nuovo esecutivo. E in Europa, l’Italia ha un ruolo centrale da argine al caos: e così arriva Gentiloni.
Sardine in piazza
Categoria: Anti-Salvini
Voto: 8
È il 12 novembre quando in redazione al “Fatto” si decide di fare un articolo sulle Sardine di Bologna. Due giorni dopo c’è Salvini che apre al Paladozza la campagna elettorale per l’Emilia-Romagna e tra le manifestazioni di protesta in programma ce n’è appunto una che s’intitola “Stretti come le Sardine”. È prevista in piazza Maggiore e l’obiettivo è di raggiungere seimila partecipanti, di più del Paladozza, tutti stretti come sardine. Il nostro quotidiano è il primo che ne parla a livello nazionale, beccandosi anche qualche sfottò nelle rassegne stampa radiofoniche. Due giorni dopo c’è il boom in piazza Maggiore. Le Sardine sono 12 mila e il movimento prende piede in tutta Italia, non solo dove Salvini va a parlare. I promotori sono quattro. In ordine alfabetico: Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni. Ma a irrompere in talk e quotidiani è il trentenne Santori, che in breve diventa il volto del nuovo movimento. La loro spinta propulsiva è l’antisalvinismo su cui si innesta un manifesto contro populismo e sovranismo e un appello a non buttare via i partiti esistenti. In piazza ci sono astenuti di sinistra, delusi di Pd e M5S. Un mese dopo, le Sardine riconquistano la storica piazza “rossa” di Roma, quella di San Giovanni. Sono 50 mila persone. È sabato 14 dicembre. Il giorno successivo le Sardine tengono la loro prima riunione. Per il momento l’obiettivo più concreto è spingere il dem Bonaccini alla vittoria contro Borgonzoni in Emilia-Romagna.
Beppe Grillo
Categoria: Fondatori
Voto: 8
Sembrava un padre autoesiliatosi per sempre, stanco dei suoi figli ora troppo diversi, della politica, forse di tutto il resto. Ma era solo un’impressione sbagliata quella che avevano tutti. Perché è stato proprio Beppe Grillo a rendere carne ciò che pareva eresia, l’alleanza di governo tra Pd e Cinque Stelle, cioè a indicare la via ai Cinque Stelle nel nome del “no ai nuovi barbari”. Così in un sabato di agosto si espresse il fondatore e Garante, con la G maiuscola da Statuto. E così è andata. Anche se Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista (e diversi altri) avevano un’altra idea. Ma Grillo è Grillo, ossia l’alfa e l’omega del Movimento. E allora sempre di agosto, ma di domenica, nella sua villa a Marina di Bibbona a pochi passi dal mare della Toscana, ha riunito tutti i big e ribadito che la direzione era quella, accordo di governo con il Pd, perfino con Matteo Renzi (ma questo meglio non dirlo, cioè confessarlo). Con Giuseppe Conte premier, certo, e su quello il fondatore non ha mai avuto dubbi. Recentemente si è manifestato a Roma, Grillo, dapprima per interrogare Di Maio, di cui tanti maggiorenti chiedevano la testa. Ma il Garante lo ha risparmiato, più per pragmatismo che per entusiasmo. E pochi giorni fa è tornato nella Capitale, per arringare i gruppi parlamentari. “Bisogna andare avanti con il Pd e con Di Maio” ha ripetuto in buona sostanza: quella dell’uomo che il M5S se lo è inventato. Ed è ancora quasi tutto.
Matteo Salvini
Categoria: Spiaggiati
Voto: 2
L’estate salviniana del Papeete di Milano Marittima ha il suo fantozziano apogeo il 7 agosto su un’altra spiaggia, forse più bella e famosa: le dune di Sabaudia, in provincia di Latina. È qui che nella serata di quel mercoledì 7 agosto, il leader leghista – ancora per poco vicepremier e ministro invisibile dell’Interno, nel senso che al Viminale non l’hanno mai visto o quasi – arriva e dichiara di fatto la fine dell’esecutivo a forti tinte gialloverdi. “Qualcosa si è rotto”, grida. Nello stesso giorno la maggioranza si è spaccata sulle mozioni del Tav.
Il M5S contro. La Lega a favore. In realtà, Salvini vuole capitalizzare il trionfo alle Europee, il doppio dei consensi rispetto alle Politiche del 2018, e andare al voto anticipato. Per essere sicuro delle urne ha finanche telefonato a Nicola Zingaretti e Matteo Renzi (da sempre vicino a Denis Verdini, suocero del leghista) e mandato lo sherpa Giancarlo Giorgetti al Quirinale. Risultato: dopo i gialloverdi tocca ai giallorossi o giallorosa, a seconda della gradazione da dare ai tanti vituperati democratici del Nazareno. E così in un agosto surreale nonché grottesco, Salvini e suoi gerarchetti padani perdono le poltrone di governo per guadagnare un magro ruolo di opposizione.
Sul terreno di questo “blitzkrieg” tragicomico restano le cannucce dei litri di mojito ingurgitati al Papeete dell’amico Casanova, talmente amico che è diventato eurodeputato, e le veline salviniane in bikini che ballano sulle note dell’inno d’Italia. Tutto fantozziano, appunto.
La foto di Narni
Categoria: Troppo tardi
Voto: 5
Oggi la chiamano photo opportunity, ovvero un’occasione d’oro per uno scatto da consegnare a giornali e social. Doveva servire a dare una immagine compatta della coalizione prima del voto, è rimasta invece come emblema di una alleanza ancora immatura, sbaragliata dal centrodestra e messa in crisi dopo la prima sconfitta. Il 25 ottobre Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti e Roberto Speranza si ritrovano a Narni, provincia di Terni, per tirare la volata a Vincenzo Bianconi nella corsa per le Regionali umbre e lì vengono fotografati insieme. L’impresa elettorale è ai limiti dell’impossibile: qui la precedente giunta della dem Catiuscia Marini è caduta per uno scandalo sulla Sanità e i giallorosa hanno appena deciso di replicare a livello locale l’alleanza di governo. Renzi però se n’è già andato per conto suo e in Umbria non presenta liste, mentre la destra ha scelto da mesi Donatella Tesei e punta a far filotto (nel 2019 ha già conquistato Piemonte, Abruzzo, Molise, Sardegna e Basilicata). Pd e 5 Stelle litigano sul candidato, vengono rimbalzati da Brunello Cucinelli e alla fine si accontentano del civico Bianconi. Non basterà: il 26 ottobre il primo test del Conte 2 consegna una vittoria netta alla Tesei (57%, con Bianconi al 37) e manda nel panico i 5 Stelle, che bocciano l’alleanza per le future regionali in Emilia-Romagna e in Calabria e arrivano persino a ipotizzare di non presentare propri candidati, prima della secca strigliata degli iscritti a Rousseau.
Matteo Renzi
Categoria: Illusions
Voto: 4
“Non scappo con il pallone”. Già dalle primarie perse con Pier Luigi Bersani nel 2012, era stato questo il mantra di Matteo Renzi. L’idea di fare un partito suo era un progetto accarezzato per anni dall’epoca della Rottamazione fino alla sconfitta alle Politiche del 2017. Ha sempre prevalso l’idea che conquistare il Pd e farlo governare il più possibile da fedelissimi (un partito nel partito) fosse più conveniente. Dunque, l’ex premier si è deciso solo nello scorso settembre a dare il via alla scissione. Prima ha dato il via a gruppi parlamentari di fedelissimi (oggi conta su 29 deputati e 17 senatori), poi, alla Leopolda, con una cerimonia all’americana (simbolo calato dall’alto incluso), è ufficialmente nata Italia Viva. Obiettivo: svuotare Forza Italia, provare a chiamare a sé i moderati del Pd, conquistare il 10% e funzionare come ago della bilancia del sistema politico. Nel frattempo, terremotare il governo Conte, dopo essere stato determinante per farlo nascere, con un’operazione che per un attimo l’aveva riportato al centro della scena. Operazione fuori tempo massimo: i sondaggi sono fermi al 3-4%, i componenti sono presi da crisi di nervi sul loro futuro e l’indagine giudiziaria su Open (la Fondazione cassaforte del renzismo) ha tagliato le ali a ogni ambizione. Senza trascurare dati umani, come la rottura con l’amico-sodale, Luca Lotti, che resta nel Pd. Per Matteo meglio essere il leader di un progetto fallimentare, che un big tra gli altri. Per lui nessun incarico ufficiale dentro Iv: gira il mondo e fa soldi, gli altri eseguono ordini.
Nicola Zingaretti
Categoria: Responsabili
Voto: 7
“Non so perché è toccato a me, ma è toccato a me”. Il 4 marzo, il Pd archivia l’era Renzi: il popolo delle primarie (un milione e 800 mila votanti) elegge Nicola Zingaretti segretario del Pd, che con il 70% batte Maurizio Martina e Roberto Giachetti. Ma l’esordio definisce un carattere, un destino, uno stile. Zingaretti è l’eterna promessa dei dem, il funzionario di partito più bravo degli altri, quello cresciuto saldamente nella Fgci, la garanzia che i binari saranno (ancora) quelli di sempre. L’effetto ottico al comitato elettorale del Circo Massimo, tra vasi cinesi e lampadari di cristallo, è straniante. “Voltiamo pagina” è lo slogan preferito della serata, mentre nel discorso d’esordio tornano a essere citati “poveri” e “disoccupati”. Si rivede un Pd scomparso, con la parola “sinistra” che pare avere nuova cittadinanza. “Non mi considero un capo, ma leader di una comunità”, dice Zinga. La sua forza e la sua debolezza. È l’espressione di un gruppo di potere, da Goffredo Bettini a Dario Franceschini per arrivare a Paolo Gentiloni. Ogni scelta successiva sarà frutto di una mediazione: a partire dal governo con i 5S. Non lo voleva, ma non ha la forza di opporsi alla chiamata della “responsabilità”. Ogni giorno che passa perde terreno: è l’anti-leader rimasto (per sua scelta) lontano da Palazzo Chigi, il segretario di un partito che ha subito una scissione e non riesce a imporre l’agenda all’esecutivo, il capo ombra di gruppi parlamentari che rispondono ad altri. D’altra parte, è toccato a lui traghettare il Pd senza una direzione precisa.