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Il “mio” giornale è l’unico a difendere la Costituzione

Quando è uscito il primo numero del Fatto, ricordo di aver letto e riletto alcuni articoli più volte. Trovai la pace della mia cultura, nata da una educazione severa per il rispetto del bene pubblico. Lo proposi ad alcuni amici, portandolo a casa. Uno di questi, quando mi incontra, scherzando mi rinfaccia di averlo drogato. Non ne può più fare a meno. Vi seguo e posto in Rete gli articoli più significativi.

Il Fatto, oggi, è un punto di riferimento della coscienza critica della cultura che non ha ceduto ai rimpasti e ai compromessi. La carta costituzionale innanzitutto. Qui sono i principi vitali della libertà degli italiani. Il plauso va a tutti, a qualcuno, che preferisco non citare, va il mio particolare ringraziamento per il garbato, ma deciso e convinto tono che riesce a dare nei confronti televisivi. Sono importanti. Aiutano i cittadini a capire e a crescere. Grazie.

Avv. Gerardo Spira, già segretario comunale con il Sindaco pescatore, Angelo Vassallo

 

Gli interessi dei due Matteo ai danni del Paese

Se Salvini verrà salvato dal processo dai voti determinanti di Italia Viva, si avrà la conferma di quanto si vocifera ormai da un po’ di tempo: i “due Matteo”, anche se si dichiarano avversari, seguono una strategia comune e condivisa.

Entrambi hanno interessi compatibili, ma assolutamente deleteri per il Paese: se si arrivasse, a breve, a una crisi politica che sfociasse in nuove elezioni, i contraccolpi che subirebbe la già disastrata situazione economica sarebbero mortiferi, un’ennesima campagna elettorale farebbe degenerare tutti i dossier attualmente sul tavolo del governo, lo spread schizzerebbe alle stelle e il debito pubblico sarebbe senza controllo.

Ma tutto questo ai “due Matteo” non interessa, loro guardano solo ed esclusivamente al loro tornaconto personale.

Mauro Chiostri

 

L’inferno professionale delle vittime di mobbing

Da sempre i dirigenti hanno il potere di svalutare un lavoratore, senza violare la legge. Le conseguenze possono essere sopportabili per chi ha autostima e resistenza, ma deleterie per chi invece è più esposto e sensibile. I vertici di Telcom France erano così micidiali nel “mobbing morale” da aver indotto molti dipendenti alle dimissioni e al suicidio. Caso solo francese? No, più diffuso di quanto emerga. E si è ampliato con il Jobs Act, che ha facilitato il demansionamento. “Improvvisamente – mi ha raccontato un’amica che ha vissuto questo trauma – senti che sei ‘caduta’. Nelle riunioni t’invitano, ma il capo non ti guarda più. Quando si ripartisce il lavoro, il tuo incarico è sempre generico, di supporto, a richiesta. Così ti senti inutile, tra colleghi oberati. L’errore più grave e frequente è dubitare della propria professionalità”.

Le chiedo come ne sia uscita. “Reagendo con un avvocato. Lì per lì la situazione si aggrava, perché l’isolamento diventa totale; anche da parte dei colleghi, timorosi del contagio. Poi la lotta dà un senso a sofferenza e solitudine. Fino a quando scopri di valere più di quanto pensassi, anche se piena di cicatrici”.

Massimo Marnetto

 

Libertà di stampa non equivale ad assenza di doveri etici

A ogni livello sento enunciare troppe volte il diritto basilare alla libertà di stampa come fosse un privilegio privo di doveri, quando ciò non è vero. Sebbene i giornali non debbano nella maniera più assoluta venire soggetti ad autorizzazioni o censure di sorta, ogni giornalista non deve mai dimenticare che il suo lavoro è guidato da ben determinati e ineludibili criteri etici. Questi principi, come altri, non sono soggettivi ma oggettivi, perciò non possono essere influenzati dalle opinioni personali, né sono stati inventati da me adesso: essi determinano le regole d’ingaggio tra una stampa veramente libera e il potere, e sono un dato di fatto in quei Paesi dove viene persino sottoscritta dagli editori un’assicurazione ai propri giornalisti a copertura delle cause di diffamazione.

L’unica vera autocensura che i giornalisti devono imporsi è quella di minimizzare il danno che una notizia può arrecare.

G.C.

 

Un Paese avanzato merita leader con idee e cultura

La “politica secondo Matteo il laico” (dal greco “del popolo”), può non aderire a nessun tipo di cultura compiuta che possa impedire di fomentare il popolo agitando istinti basici con promesse di basse e varie utopie addominali. Al contrario, la civiltà di un paese avanzato (quale teoricamente dovremmo essere), dovrebbe avvalersi di una leadership politica con senso civico e culturale e prospettive ideologiche virtuose. Ci ritroviamo invece (e forse ci meritiamo pure), dei personaggi non meglio definibili che gettano in pasto alle folle solo modelli a presa rapida e derive speculative degne di una società decadente.

Giovanni Marini

Suicidio di Ari Behn. Nobili, politica, libri e accuse a Spacey: una vita sotto i riflettori

Gentile Redazione, ho letto la notizia del suicidio di Ari Behn, ex marito della principessa di Norvegia Martha Louise; mi ha colpito il fatto che il suo nome fosse legato allo scandalo delle molestie sessuali, da parte – sosteneva lo scrittore – dell’attore Kevin Spacey. La ‘maledizione’ di #MeToo colpisce anche gli accusatori, oltre che gli accusati?, oppure il suicidio di Behn è un capitolo delle monarchie tristi del Nord Europa?
Orazio Vinciguerra

 

Suicidatosi a Lommedalen il giorno di Natale, Ari Mikael Behn, 47 anni, non viveva di luce riflessa della principessa Martha Louise, sposata nel 2002 e da cui aveva divorziato due anni fa, dopo averne avuto tre figlie: era uno scrittore di fama, spesso al centro dell’attenzione dei media. Behn fu anche tra gli accusatori di Kevin Spacey: disse che nel 2007 l’attore l’aveva molestato, stringendogli i genitali sotto il tavolo di un locale, a un ricevimento dopo un concerto per la consegna del Nobel per la Pace. Non ci sono dettagli sulle circostanze del suicidio: si sa che la polizia è stata chiamata a casa sua alle 16:47. La famiglia s’è limitata a riferire che lo scrittore “s’è tolto la vita”: s’ignora se fosse malato o depresso. Nella storia di Behn, c’è un’eco della presenza, silenziosa e depressa, accanto alla regina Beatrice d’Olanda, di Claus van Amsberg, diplomatico tedesco, vittima della depressione. O delle ansie dell’erede al trono di Svezia, la principessa Vittoria, passata attraverso una anoressia nervosa: oggi, pienamente ripresasi, è in prima linea come testimonial contro i disordini alimentari. E poi c’è la figura di Filippo d’Edimburgo, una vita un passo indietro alla Regina Elisabetta e oggi, a 98 anni, escluso da compiti ufficiali, mentre lei, 93 anni, continua a tenere lontano dal trono il figlio Carlo. Behn, nato Bjoershol, era autore di tre romanzi e di due collezioni di novelle; scrisse pure un libro sul suo matrimonio. Nel 2011, esordì come commediografo con Treningstimen. Il matrimonio con la principessa, quarta in linea di successione al trono norvegese, durò 15 anni: con il divorzio i due coniugi concordarono l’affidamento congiunto delle tre figlie, nessuna delle quali ha titolo nobiliare – Behn stesso non ebbe mai né titoli né privilegi –. Martha Luisa non è un carattere semplice più del suo: autrice anch’essa di libri per i bambini, sostiene di potere comunicare con gli animali e con gli angeli e ha aperto una scuola alternativa di terapia chiamata Astarte. Il che le ha attirato numerose critiche della cultura e della scienza tradizionale. Behn era abituato a fare notizia. Nel 2006, destò scalpore in Norvegia dicendo che votava laburista. E nel 2009 una polemica tra il genero del re e un personaggio di corte suscitò imbarazzo a palazzo e l’attenzione dei media. L’ultima fiammata a fine 2017, quando, già divorziato, accusò Spacey, finito nel tritatutto di #MeToo.
Giampiero Gramaglia

La centrale geotermica e le nocciole anti-turchi: il “lago da bere”rischia

Una rete di depurazione non funzionante che da tre anni filtra poco o nulla delle acque reflue di ben otto Comuni, riempiendo di liquami il lago e il vicino fiume Marta. E poi, il progetto per una stazione geotermica diffusa che può di compromettere l’ecosistema. Ancora: la conversione intensiva di nocciole che rischia di rendere “invasiva” un’agricoltura fin qui sostenibile. Il Lago di Bolsena è sotto attacco. Il più grande bacino vulcanico d’Europa, nell’alto Lazio, è minacciato dalla cattiva amministrazione e da grandi multinazionali.

Lo spauracchio si chiama geotermia. Da almeno otto anni esiste un progetto pilota per una centrale da 5 megawatt a Castel Giorgio, al confine fra Umbria e Lazio. Un impianto dal costo iniziale di 30 milioni di euro ideato dalla italo-austriaca Itw&Lkw Geotermia Italia Spa, che conta poi su 9 milioni l’anno per 25 anni (incentivi con fondi Ue). La differenza essenziale fra l’impianto “sperimentale” e quelli tradizionali è che in questo caso l’anidride carbonica prodotta verrebbe reimmessa nel sottosuolo. E questo spaventa i comitati del territorio. Secondo una pubblicazione del geologo Gianluca Vignaroli sulla rivista scientifica Tectonophysics, “è legittimo presumere che travasando in modo permanente grandi quantità di fluidi da un compartimento ad un altro senza che fra essi vi sia continuità idraulica, si crei depressione in uno e pressione nell’altro”. Così “si favoriscono i movimenti delle faglie innescando terremoti” e “il travaso permanente facilita inoltre la risalita di fluidi geotermici (cancerogeni) verso l’acquifero superficiale”. “Il che non significa che tutta la geotermia sia da condannare”, specifica Georg Wallner professore di Fisica all’Università di Monaco di Baviera, da anni residente a Montefiascone (Viterbo): “È in questo specifico territorio, per la sua conformazione, che tale pratica si presenta dannosa”.

Eppure il progetto ha ottenuto la valutazione d’impatto ambientale dal governo nel 2014, sulla base di una relazione affidata a una commissione composta da un astrofisico (relatore), un avvocato, e un geologo specializzato in ghiacciai alpini. Dopo un primo stop dall’esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni, il governo Conte a trazione gialloverde ha dato il suo ok, anche pressato da possibili azioni legali dei privati interessati. Contro il provvedimento pendono ora ben 4 ricorsi al Tar del Lazio.

In attesa di capire come finirà con la geotermia, da almeno tre anni ogni giorno nel lago di Bolsena finiscono ettolitri di acque fognarie non filtrate. Un pericolo concreto per un bacino idrico prezioso rispetto alle falde ricche di arsenico. Il collettore che unisce gli otto Comuni lacuali, infatti, è formato da 20 stazioni di sollevamento che, non funzionando correttamente, sversano quasi costantemente nel lago. Quel poco che giunge a destinazione, poi, finisce nel depuratore di Marta, anch’esso rotto, per poi confluire nell’omonimo fiume che sfocia nel Tirreno, all’altezza di Tarquinia. In tre anni la Regione Lazio ha stanziato ben 2,8 milioni (727 mila euro già liquidati) a una ditta specializzata in pittura e lavori edili, che non ha mai risolto il problema. Intanto il Cobalb, il consorzio fra Comuni che gestisce il collettore, è fallito, con i tre operai manutentori da 5 mesi senza stipendio che si barcamenano per rattoppare i guasti quando la situazione sfugge di mano. Massimo Pierangeli, direttore generale Cobalb, in una recente commissione regionale ha definito “inidonea” la ditta. “Sono in corso indagini dell’Ue che potrebbero comportare multe che superano di molto gli investimenti necessari per risanare il sistema fognario”, spiegano dall’Osservatorio ambientale del Lago di Bolsena.

Insomma, il “lago da bere”, come lo chiamano nella Tuscia, potrebbe perdere le caratteristiche che gli hanno permesso di entrare fra le zone protette della Rete Natura 2000. Un territorio che esporta il celebre vino “Est! Est!! Est!!!” in tutto il mondo, così come famosi sono i suoi noccioleti. Paradossalmente, proprio la coltivazione di nocciole potrebbe rappresentare il terzo grande rischio.

Di fronte alla crisi turca, alcune importanti multinazionali dolciarie stanno investendo milioni di euro sull’Alto Lazio. Sarebbe una manna dal cielo, ma le coltivazioni intensive, senza paletti normativi, possono portare al sovrautilizzo di sostanze quali il glifosato, velenoso per le falde e per il lago. Su pressione della consigliera comunale M5S, Rosita Cicoria, il sindaco di Montefiascone, Massimo Paolini, ha vietato queste sostanze negli oltre 500 ettari già convertiti a coltivazione intensiva. Ma i ricorsi al Tar delle aziende agricole stanno ribaltando i provvedimenti dei sindaci.

Falsa partenza per il Mose: “Così non funzionerebbe”

“Qui sta passando l’idea che un’opera senza impianti funzionanti possa funzionare”. L’ingegnere Alberto Scotti di Technital, direttore di progetto del Mose, le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta, lo aveva già detto dopo l’acqua altissima (187 centimetri) del 12 novembre, di fronte all’ondata di richieste di attivare il sistema. “Il Mose non è ultimato, manca buona parte dell’impiantistica”. E lo ha ripetuto alla vigilia di Natale quando, per ovviare all’ennesima marea in arrivo, era stata valutata l’eventualità di alzare le paratoie a una delle bocche di porto, a Treporti. Ma si è trattato di una falsa partenza. Ad avviare la procedura erano state Elisabetta Spitz, il commissario straordinario di recente nomina governativa, e Cinzia Zincone, provveditore interregionale in pectore alle opere pubbliche. Una squadra di 30 tecnici era pronta ad entrare in attività a Punta Sabbioni. “Di fronte alla richiesta, ci eravamo messi a disposizione” ha spiegato l’ingegner Scotti. Sembrava arrivato il gran momento, l’entrata in funzione del Mose, seppure parziale. Invece, alle 23.45 del 23 dicembre, il contrordine. Le paratoie non sarebbero state alzate.

“Ho ricevuto un rapporto dal Consorzio da cui emergeva che oltre a benefici molto ridotti, si prospettava un rischio legato ai venti. La prudenza ci ha indotti a fermare tutto”. Così ha spiegato il provveditore Zincone. “In un primo tempo si era ritenuto che fosse utile una sperimentazione in situazione di emergenza. Ma potendo innalzare solo la barriera di Treporti, l’abbassamento del livello d’acqua sarebbe stato di circa 5 centimetri. Considerando altri fattori si arrivava a uno-due centimetri, perchè con la marea prolungata l’acqua avrebbe avuto il tempo di entrare in laguna dalle altre bocche”. Tra i rischi c’era poi quello di un eventuale calo o assenza di corrente elettrica, con ingestibilità del Mose. E questo per il problema degli impianti mancanti, appunto: sistemi elettrici e di controllo, condizionatori, apparati antincendio, sono al 75 per cento.

Fino a luglio erano stati spesi 328 milioni di euro, ma da qui al dicembre 2021 devono essere impiegati altri 110 milioni di euro, per un totale di 438 milioni. Il “servizio informativo” (banche dati, strumenti per la gestione del servizio) è al 64% di opere realizzate: a fronte di una spesa già sostenuta di 87 milioni e mezzo di euro, ne mancano ancora 49, per un totale di 136 milioni di euro. Per esempio, i compressori che immettono aria al posto dell’acqua e fanno alzare le paratoie, non sono tutti installati. E i tempi richiesti per l’operazione sono più lenti, con il rischio che le dighe vengano sommerse dall’acqua mentre si aprono.

 

Modì 100 anni dopo: soldi, veleni e opere (false?) come funghi

Il 24 gennaio 1920 moriva a Parigi Amedeo Modigliani. Cento anni dopo, i tormenti della sua vita e della sua produzione artistica non sono ancora terminati e il suo ricordo si regge, oltre che sulla straordinaria bellezza delle opere autentiche, sul labile confine tra la burla e la truffa, tra il vero e il falso, tra la malinconia del cimitero parigino di Père Lachaise in cui Modigliani è sepolto e la goliardia insita nell’essenza di Livorno, città natale del grande artista, scenario perfetto per il raggiro più celebre, quello delle finte teste di Modì del luglio 1984. L’ultimo oggetto del contendere è il francobollo commemorativo di Poste italiane per la celebrazione del centenario della morte.

A montare il caso sono Dania Mondini, giornalista Rai del Tg1, e Claudio Loiodice, per trent’anni ispettore di polizia, “esperto in crimini finanziari, riciclaggio e frodi internazionali”, come si legge nella quarta di copertina de L’affare Modigliani, libro pubblicato da Chiarelettere che racconta un secolo di “trame, crimini e misteri all’ombra del pittore italiano più amato di sempre”. Mondini e Loiodice hanno preso carta e penna per scrivere fra gli altri al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, al ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, all’amministratore delegato di Poste italiane Matteo Del Fante, all’Autorità anti-corruzione e al sindaco di Livorno Luca Salvetti.

“Siamo stati informati – scrivono i due autori – che le Poste italiane avrebbero assegnato direttamente l’incarico di realizzare un francobollo commemorativo alla cosiddetta Fondazione Modigliani di Vietri sul Mare (Salerno), nata nel marzo del 2018, nonché di organizzare e partecipare alla cerimonia di annullo filatelico il 24 gennaio 2020”. E, a proposito, così gli stessi Mondini e Loiodice scrivevano ne L’affare Modigliani: “Alla vigilia del centenario della morte di Modigliani è un moltiplicarsi di associazioni e fondazioni che si contendono autorevolezza in merito all’opera del maestro livornese, e spesso anche finanziamenti. Tra queste la Fondazione Amedeo Modigliani Ricerca Scientifica di Vietri sul Mare (…). Presidente del comitato scientifico è Greta García Hernàndez, presentata da un giornale locale come principale esperta delle opere di Modigliani, che avrebbe brevettato l’ennesimo metodo, a suo dire tecnologicamente avanzato, per autenticare i quadri del pittore e rilevare anche eventuali contraffazioni ”. Ma uno specialista delle opere di Modigliani, come Marc Restellini, direttore e fondatore della Pinacothèque de Paris, la pensa diversamente. Per Restellini Greta Hernàndez “sarebbe apparsa – scrivono nella lettera Mondini e Loiodice – all’orizzonte solo dopo aver pubblicato la tesi di dottorato su Modigliani all’Istituto Valenciano di arte moderna”. “La dottoranda – continuano – avrebbe preso in esame due dipinti e dopo aver eseguito analisi scientifiche ne decretava l’autenticità. Ma secondo Restellini almeno uno dei due dipinti sarebbe falso. Su nostra richiesta il professor Restellini sta elaborando uno specifico report che sarà nostra cura allegare all’esposto che presenteremo” alle Procure di Roma e Livorno. Uno dei dipinti sospettati di essere falsi da Restellini è “La Patronne” (che pubblichiamo in pagina), attualmente sotto sequestro da parte delle autorità a Ginevra proprio in seguito a una denuncia del professore.

Loiodice spiega: “Secondo la nostra esperienza diretta, riteniamo che, in assenza di una chiara attribuzione del diritto morale dell’artista, l’unico ente al momento titolato a garantire l’immagine e l’opera di Amedeo Modigliani, sia il Comune di Livorno”. Come scongiurare un nuovo caso “teste false”? “Solo un maggior controllo pubblico – risponde l’ex poliziotto – può evitare i raggiri”. Oggi nel difficilmente accessibile mercato dell’arte un Modì può oscillare dal valore di 100 mila euro per un bozzetto ad almeno 9 milioni per un dipinto, non proprio una burla.

Natale più sobrio nel nome di Greta (e del Black Friday)

Fra i luoghi comuni più diffusi sul Natale c’è quello per cui, quest’anno più che mai, la festa ha perso i suoi antichi e originari significati. Come il tempo, in senso atmosferico, viste le temperature primaverili; i sapori a tavola: a prescindere da gusti e tradizioni, ora quello che importa è fare una spesa sostenibile scegliendo solo prodotti che rispettano il pianeta (pena la ramanzina in sonno da parte dell’attivista Greta Thunberg); o i regali: nessuno provi più a dare del taccagno al cugino o all’amico che riciclano la confezione del bagnoschiuma, perché il regifting è praticato sempre di più dagli italiani che non solo – secondo Confcooperative – sono riusciti a risparmiare 3,3 miliardi di euro sui regali, ma alcuni avventori sono pure riusciti a raggranellare qualcosa rivendendo sul web i regali non graditi. Con Confocooperative che si è spinta a fornire anche i numeri sulla platea interessata: più di un italiano su tre, da qui fino alla Befena, riciclerà i regali scartati sotto l’albero, vale a dire 23 milioni di persone, in aumento di 2 milioni sul 2018.

Insomma, pare proprio che le festività di questo ultimo decennio abbiano scombinato le carte in tavola e, a guardare bene, sono anche riuscite a sovvertire le innumerevoli pubblicazioni/statistiche/report di fine anno su spese, tendenze e abitudini.

Tempo al tempo, luoghi comuni su luoghi comuni.

Meno consumista per ‘carenza di risorse’, ma anche per una maggiore attenzione alla sostenibilità e agli sprechi. E con una passione crescente per hi-tech e viaggi. Questo l’identikit dell’italiano medio fotografato da Confesercenti e Swg che hanno analizzato consumi e tradizioni per il Natale negli ultimi dieci anni. Così, rispetto al 2010, la percentuale di famiglie che sostiene di vivere agiatamente o senza problemi con il proprio reddito è scesa dal 52% al 41%. Allo stesso tempo, la percentuale di quanti hanno difficoltà a vivere col proprio reddito è salita dal 31% al 43%. Tanto che la preoccupazione principale per le famiglie (42%) è diventata la situazione economica, seguita da quella per l’ambiente (36%). Allora, forse, sarà per questo che – spiega il Codacons che ha diffuso i dati sull’andamento dei consumi durante le festività – gli italiani hanno ridotto la spesa complessiva relativa al Natale, che si fermerebbe quest’anno a quota 10 miliardi di euro. “E solo per i regali si registra in alcuni comparti un calo fino al -7% rispetto al 2018”, spiegano dall’associazione.

Un allarme sulla contrazione dei consumi che, però, magari non tiene conto di un altro evento che è tutt’altro che di poco conto. Basta, infatti, recuperare un paio di comunicati arretrati di qualsiasi associazione, tornado agli inizi di dicembre, e scoprire che gli italiani si sono già dati allo shopping sfrenato. La prova sono i numeri del Black Friday, che in Italia ha smosso un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro coinvolgendo 14 milioni di consumatori per una spesa media pro-capite di 108 euro, mentre l’Adoc stima addirittura che il budget medio per quattro giorni di acquisti online, fino al Cyber Monday, è arrivato a 250-300 euro a consumatore.

Non bisognerebbe, quindi, limitarsi alla storia del mezzo pollo di Trilussa quando si ha a che fare con le medie statistiche. In questo caso, infatti, più semplicemente, le famiglie si sono portate avanti con i regali natalizi sfruttando la rete e gli sconti del Black Friday per acquistare capi d’abbigliamento (38%), libri (37%), doni gastronomici (32%) e hi-tech (30%), vale a dire i quattro soliti regali che hanno trionfato sotto l’albero di Natale, rigorosamente sintetico. Del resto è “l’effetto Greta” ad aver contagiato queste festività. A tastarne i comportamenti d’acquisto è stato il portale eBay, che ha trovato gli italiani più attenti ai temi green ed eco-friendly con più regali pensati e meno sprechi dell’ultimo minuto e maggiore attenzione a ciò che dice l’etichetta di un prodotto.

Con buona pace dei saldi che, ormai, nessuno sta più ad aspettare.

Toh! Dal Salvimaio ai giallorosa emerge la sorpresa “Giuseppi”

 

Giuseppe Conte
Categoria: Rivelazioni
Voto: 8

Nel 2019 in cui si è ribaltato il governo e anche il mondo, con un’alleanza tra Pd e Cinque Stelle benedetta da Matteo Renzi, l’avvocato è rimasto dov’era: a Palazzo Chigi, con il suo ciuffo da narciso non redento e il suo eloquio professorale, ottimo per anestetizzare i giallorossi come per perforare di accuse Matteo Salvini. Giuseppe Conte esce primo della fila da un anno infinito. Tecnico che invece era molto politico; più duro del Salvini a cui in agosto dette addio dandogli dell’”irresponsabile” in diretta tv, più abile del Luigi Di Maio che non voleva allearsi con il Pd, più tenace dei dem che volevano sostituirlo. E invece no. A mediare in un esecutivo che spesso pare una nave ubriaca è rimasto Conte, contento di rivendicare quell’anima di sinistra che teneva riposta durante il governo con la Lega. Quando la sua nomina ballava nei tavoli estivi tutti finte e paure, si è preso anche l’endorsement di Donald Trump, con un tweet in cui lo ha ribattezzato “Giuseppi”. Ma è andata benissimo anche così a Conte. Pure se in seguito è deflagrato il caso della visita in Italia del procuratore americano Barr, a Roma proprio in quei giorni a cercare prove sul Russiagate. Il premier però ha giurato di non aver sbagliato nulla: “Non ho mai interloquito con Barr, e la nostra intelligence è estranea al Russiagate”. Così da qui a pochi giorni sarà tempo di cronoprogramma, che Conte ha preteso per mettere a regime la maggioranza: quella che ormai deve aggrapparsi all’avvocato che non voleva.

 

Il caso Diciotti
Categoria: Tafazzi a 5S
Voto: 2

Il 19 febbraio 2019 è il giorno più lungo per il Movimento 5 Stelle, forse addirittura il punto di non ritorno nei rapporti di forza con la Lega. I pentastellati decidono di salvare Matteo Salvini dal processo per sequestro di persona che gli viene contestato per la gestione dei migranti a bordo della Nave Diciotti: insieme a Forza Italia e Fratelli d’Italia negano infatti l’autorizzazione a procedere richiesta dai magistrati di Catania nei confronti del capo del Carroccio, allora alleato del M5S nel di governo gialloverde. All’uscita della Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama i pentastellati sono costretti a transitare attraverso il picchetto organizzato dai senatori del Pd (compresi quelli oggi passati con il nuovo partito di Matteo Renzi, Italia Viva) che invece hanno appena votato per dare il via libera alla richiesta dei magistrati. Al grido “o-ne-stà, o-ne-stà”, i dem mettono alla gogna i parlamentari del Movimento 5 Stelle accusandoli di aver rinnegato i loro principi con il solo scopo di mettere al riparo il governo Conte I da eventuali ritorsioni di Salvini. La difficoltà del di Luigi Di Maio e dei suoi è tutto nel volto e soprattutto nella reazione stizzita del senatore Mario Giarrusso. Che all’uscita dalla Giunta che ha appena scudato Salvini, fa il gesto delle manette all’indirizzo dei dem per la notizia dell’arresto, in quella stessa giornata, dei genitori di Matteo Renzi. Una reazione che dice tutto del cortocircuito in casa 5 Stelle.

 

Giorgia Meloni
Categoria: Cristiane
Voto: 7

Nell’era in cui la politica diventa tweet, può capitare pure di essere “meme”. Nel gergo di chi usa la rete, significa un contenuto comico immediato – una vignetta, una animazione – condiviso da milioni di persone sui social e adattato a mille parodie diverse. Ne sa qualcosa Giorgia Meloni, la cui fotografia web da qualche mese è inconfondibile: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana! Non me lo toglierete!”. Come dire: vade retro genitore 1, vade retro immigrazione, vade retro tutta questa laicità dello Stato e così via. Era ottobre e la leader di FdI protestava così in Piazza del Popolo contro il governo Conte 2. Al suo fianco, gli alleati di centrodestra. Ovvero quel Salvini cui spesso ha dato di gomito ammiccando a un’alleanza sovranista che facesse fuori l’altro compare di piazza, Berlusconi, ormai ridotto con Forza Italia a percentuali più vicine alla soglia di sbarramento che alla doppia cifra. Fratelli d’Italia, invece, vola: ha raggiunto il 10% e toglie pure qualche voto alla Lega pigliatutto. Risultati che meriterebbero, per così dire, un po’ di selezione all’ingresso, se si pensa che nel giro di 6 mesi cinque esponenti del partito sono finiti in manette in inchieste sulla ‘ndrangheta: il primo è stato Giuseppe Caruso, presidente del Consiglio comunale di Piacenza, l’ultimo – settimana scorsa – Roberto Rosso, assessore in Piemonte. Non male per un partito che da Statuto rifiuta condannati in primo grado.

 

Paolo Gentiloni
Categoria: Risorti
Voto: 7

Nella notte elettorale che doveva sconvolgere l’Europa, il 25 maggio, un dato appare chiaro: i sovranisti – divisi alla meta – non sfondano. La Lega conquista il 34,3%, ma all’interno della dinamica complessiva conterà più il secondo posto del Pd (con il 22,7% supera M5S, al 17,1%). E soprattutto conterà di più la tenuta delle famiglie politiche tradizionali: il Ppe e i Socialisti, insieme ai liberali di Renew Europe, sono in grado di guidare la Ue e di mantenere ai margini gli euroscettici, che pure in molte nazioni sfondano. Le conseguenze si vedranno nei mesi con l’Italia che, complice il cambio di governo, conquista un posto al sole per Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici. Nel pacchetto che porta Ursula von der Leyen a essere indicata come presidente della Commissione (frutto di un accordo tra Francia e Germania che prevede l’”affondamento” del socialista Frans Timmermanns, ottenuto anche grazie a Giuseppe Conte), c’è uno del Pse alla guida del Parlamento europeo. Tocca a David Sassoli. Ma è nella partita dei Commissari, che l’Italia ottiene un posto centrale. Il governo gialloverde – visto come un incubo dalle Cancellerie europee – viene sostituito dal Conte 2. Fuori la Lega, dentro il Pd, l’Italia rientra nell’alveo europeista. Per l’elezione di Ursula a Strasburgo sono fondamentali i voti di M5S (mentre la Lega, allora alleata di governo, dice no). È il primo atto che porterà al nuovo esecutivo. E in Europa, l’Italia ha un ruolo centrale da argine al caos: e così arriva Gentiloni.

 

Sardine in piazza
Categoria: Anti-Salvini
Voto: 8

È il 12 novembre quando in redazione al “Fatto” si decide di fare  un articolo sulle Sardine di Bologna. Due giorni dopo c’è Salvini che apre al Paladozza la campagna elettorale per l’Emilia-Romagna e tra le manifestazioni di protesta in programma ce n’è appunto una che s’intitola “Stretti come le Sardine”. È prevista in piazza Maggiore e l’obiettivo è di raggiungere seimila partecipanti, di più del Paladozza, tutti stretti come sardine. Il nostro quotidiano è il primo che ne parla a livello nazionale, beccandosi anche qualche sfottò nelle rassegne stampa radiofoniche. Due giorni dopo c’è il boom in piazza Maggiore. Le Sardine sono 12 mila e il movimento prende piede in tutta Italia, non solo dove Salvini va a parlare. I promotori sono quattro. In ordine alfabetico: Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni. Ma a irrompere in talk e quotidiani è il trentenne Santori, che in breve diventa il volto del nuovo movimento. La loro spinta propulsiva è l’antisalvinismo su cui si innesta un manifesto contro populismo e sovranismo e un appello a non buttare via i partiti esistenti. In piazza ci sono astenuti di sinistra, delusi di Pd e M5S. Un mese dopo, le Sardine riconquistano la storica piazza “rossa” di Roma, quella di San Giovanni. Sono 50 mila persone. È sabato 14 dicembre. Il giorno successivo le Sardine tengono la loro prima riunione. Per il momento l’obiettivo più concreto è spingere il dem Bonaccini alla vittoria contro Borgonzoni in Emilia-Romagna.

 

Beppe Grillo
Categoria: Fondatori
Voto: 8

Sembrava un padre autoesiliatosi per sempre, stanco dei suoi figli ora troppo diversi, della politica, forse di tutto il resto. Ma era solo un’impressione sbagliata quella che avevano tutti. Perché è stato proprio Beppe Grillo a rendere carne ciò che pareva eresia, l’alleanza di governo tra Pd e Cinque Stelle, cioè a indicare la via ai Cinque Stelle nel nome del “no ai nuovi barbari”. Così in un sabato di agosto si espresse il fondatore e Garante, con la G maiuscola da Statuto. E così è andata. Anche se Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista (e diversi altri) avevano un’altra idea. Ma Grillo è Grillo, ossia l’alfa e l’omega del Movimento. E allora sempre di agosto, ma di domenica, nella sua villa a Marina di Bibbona a pochi passi dal mare della Toscana, ha riunito tutti i big e ribadito che la direzione era quella, accordo di governo con il Pd, perfino con Matteo Renzi (ma questo meglio non dirlo, cioè confessarlo). Con Giuseppe Conte premier, certo, e su quello il fondatore non ha mai avuto dubbi. Recentemente si è manifestato a Roma, Grillo, dapprima per interrogare Di Maio, di cui tanti maggiorenti chiedevano la testa. Ma il Garante lo ha risparmiato, più per pragmatismo che per entusiasmo. E pochi giorni fa è tornato nella Capitale, per arringare i gruppi parlamentari. “Bisogna andare avanti con il Pd e con Di Maio” ha ripetuto in buona sostanza: quella dell’uomo che il M5S se lo è inventato. Ed è ancora quasi tutto.

 

Matteo Salvini
Categoria: Spiaggiati
Voto: 2

L’estate salviniana del Papeete di Milano Marittima ha il suo fantozziano apogeo il 7 agosto su un’altra spiaggia, forse più bella e famosa: le dune di Sabaudia, in provincia di Latina. È qui che nella serata di quel mercoledì 7 agosto, il leader leghista – ancora per poco vicepremier e ministro invisibile dell’Interno, nel senso che al Viminale non l’hanno mai visto o quasi – arriva e dichiara di fatto la fine dell’esecutivo a forti tinte gialloverdi. “Qualcosa si è rotto”, grida. Nello stesso giorno la maggioranza si è spaccata sulle mozioni del Tav.
Il M5S contro. La Lega a favore. In realtà, Salvini vuole capitalizzare il trionfo alle Europee, il doppio dei consensi rispetto alle Politiche del 2018, e andare al voto anticipato. Per essere sicuro delle urne ha finanche telefonato a Nicola Zingaretti e Matteo Renzi (da sempre vicino a Denis Verdini, suocero del leghista) e mandato lo sherpa Giancarlo Giorgetti al Quirinale. Risultato: dopo i gialloverdi tocca ai giallorossi o giallorosa, a seconda della gradazione da dare ai tanti vituperati democratici del Nazareno. E così in un agosto surreale nonché grottesco, Salvini e suoi gerarchetti padani perdono le poltrone di governo per guadagnare un magro ruolo di opposizione.
Sul terreno di questo “blitzkrieg” tragicomico restano le cannucce dei litri di mojito ingurgitati al Papeete dell’amico Casanova, talmente amico che è diventato eurodeputato, e le veline salviniane in bikini che ballano sulle note dell’inno d’Italia. Tutto fantozziano, appunto.

 

La foto di Narni
Categoria: Troppo tardi
Voto: 5

Oggi la chiamano photo opportunity, ovvero un’occasione d’oro per uno scatto da consegnare a giornali e social. Doveva servire a dare una immagine compatta della coalizione prima del voto, è rimasta invece come emblema di una alleanza ancora immatura, sbaragliata dal centrodestra e messa in crisi dopo la prima sconfitta. Il 25 ottobre Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti e Roberto Speranza si ritrovano a Narni, provincia di Terni, per tirare la volata a Vincenzo Bianconi nella corsa per le Regionali umbre e lì vengono fotografati insieme. L’impresa elettorale è ai limiti dell’impossibile: qui la precedente giunta della dem Catiuscia Marini è caduta per uno scandalo sulla Sanità e i giallorosa hanno appena deciso di replicare a livello locale l’alleanza di governo. Renzi però se n’è già andato per conto suo e in Umbria non presenta liste, mentre la destra ha scelto da mesi Donatella Tesei e punta a far filotto (nel 2019 ha già conquistato Piemonte, Abruzzo, Molise, Sardegna e Basilicata). Pd e 5 Stelle litigano sul candidato, vengono rimbalzati da Brunello Cucinelli e alla fine si accontentano del civico Bianconi. Non basterà: il 26 ottobre il primo test del Conte 2 consegna una vittoria netta alla Tesei (57%, con Bianconi al 37) e manda nel panico i 5 Stelle, che bocciano l’alleanza per le future regionali in Emilia-Romagna e in Calabria e arrivano persino a ipotizzare di non presentare propri candidati, prima della secca strigliata degli iscritti a Rousseau.

 

Matteo Renzi
Categoria: Illusions
Voto: 4

“Non scappo con il pallone”. Già dalle primarie perse con Pier Luigi Bersani nel 2012, era stato questo il mantra di Matteo Renzi. L’idea di fare un partito suo era un progetto accarezzato per anni dall’epoca della Rottamazione fino alla sconfitta alle Politiche del 2017. Ha sempre prevalso l’idea che conquistare il Pd e farlo governare il più possibile da fedelissimi (un partito nel partito) fosse più conveniente. Dunque, l’ex premier si è deciso solo nello scorso settembre a dare il via alla scissione. Prima ha dato il via a gruppi parlamentari di fedelissimi (oggi conta su 29 deputati e 17 senatori), poi, alla Leopolda, con una cerimonia all’americana (simbolo calato dall’alto incluso), è ufficialmente nata Italia Viva. Obiettivo: svuotare Forza Italia, provare a chiamare a sé i moderati del Pd, conquistare il 10% e funzionare come ago della bilancia del sistema politico. Nel frattempo, terremotare il governo Conte, dopo essere stato determinante per farlo nascere, con un’operazione che per un attimo l’aveva riportato al centro della scena. Operazione fuori tempo massimo: i sondaggi sono fermi al 3-4%, i componenti sono presi da crisi di nervi sul loro futuro e l’indagine giudiziaria su Open (la Fondazione cassaforte del renzismo) ha tagliato le ali a ogni ambizione. Senza trascurare dati umani, come la rottura con l’amico-sodale, Luca Lotti, che resta nel Pd. Per Matteo meglio essere il leader di un progetto fallimentare, che un big tra gli altri. Per lui nessun incarico ufficiale dentro Iv: gira il mondo e fa soldi, gli altri eseguono ordini.

 

Nicola Zingaretti
Categoria: Responsabili
Voto: 7

“Non so perché è toccato a me, ma è toccato a me”. Il 4 marzo, il Pd archivia l’era Renzi: il popolo delle primarie (un milione e 800 mila votanti) elegge Nicola Zingaretti segretario del Pd, che con il 70% batte Maurizio Martina e Roberto Giachetti. Ma l’esordio definisce un carattere, un destino, uno stile. Zingaretti è l’eterna promessa dei dem, il funzionario di partito più bravo degli altri, quello cresciuto saldamente nella Fgci, la garanzia che i binari saranno (ancora) quelli di sempre. L’effetto ottico al comitato elettorale del Circo Massimo, tra vasi cinesi e lampadari di cristallo, è straniante. “Voltiamo pagina” è lo slogan preferito della serata, mentre nel discorso d’esordio tornano a essere citati “poveri” e “disoccupati”. Si rivede un Pd scomparso, con la parola “sinistra” che pare avere nuova cittadinanza. “Non mi considero un capo, ma leader di una comunità”, dice Zinga. La sua forza e la sua debolezza. È l’espressione di un gruppo di potere, da Goffredo Bettini a Dario Franceschini per arrivare a Paolo Gentiloni. Ogni scelta successiva sarà frutto di una mediazione: a partire dal governo con i 5S. Non lo voleva, ma non ha la forza di opporsi alla chiamata della “responsabilità”. Ogni giorno che passa perde terreno: è l’anti-leader rimasto (per sua scelta) lontano da Palazzo Chigi, il segretario di un partito che ha subito una scissione e non riesce a imporre l’agenda all’esecutivo, il capo ombra di gruppi parlamentari che rispondono ad altri. D’altra parte, è toccato a lui traghettare il Pd senza una direzione precisa.

Fine dei fondi pubblici al Foglio e a Italia Oggi (ma Libero li ha ancora)

La questione che riguarda il finanziamento pubblico al quotidiano Il Foglio è semplice e, allo stesso, incredibilmente complessa: come sempre, in realtà, quando le (cattive) abitudini e l’arbitrio travestito da legge tentano di darsi una forma razionale. I fatti in breve sono questi: nel corso del 2019 il Dipartimento editoria di Palazzo Chigi – quello che distribuisce i finanziamenti diretti ai giornali (circa 60 milioni l’anno scorso) – ha ritenuto che Il Foglio (il cui editore è l’immobiliarista Walter Mainetti) e Italia Oggi (edito, in sostanza, da Class Editori) non hanno diritto ai soldi dello Stato e per questo ha sospeso l’erogazione della seconda rata del finanziamento 2018.

La decisione definitiva per entrambi andrà presa entro il 20 febbraio: a dicembre, intanto, il giornale fondato da Giuliano Ferrara ha inviato le sue contro-deduzioni a Palazzo Chigi rivendicando il suo buon diritto a ricevere fondi statali; in Senato è stato invece approvato un ordine del giorno alla manovra detto “salva Italia Oggi” proposto dalla senatrice renziana Donatella Conzatti che vorrebbe permettere a un giornale di ottenere fondi pubblici anche se è partecipato da una società quotata come Class editori.

Come nasce questa vicenda? Quella del Foglio, che ha attirato l’attenzione per le proteste di alcuni politici e commentatori, da una vecchia indagine della Guardia di Finanza sul biennio 2009-2010 finita in un cassetto per anni. Il Foglio, di cui non esistono dati ufficiali sulle vendite, ha preso fondi pubblici quasi fin dalla nascita: all’inizio, nel 1997, diventando organo di un “partito” creato ad hoc da Marcello Pera (Forza Italia) e Marco Boato (Verdi), la Convenzione per la Giustizia. Lo stesso Ferrara, parlandone a Report nel 2006, lo definì “un trucco”, “un trucco nel senso che non era un vero partito”, “un escamotage legale” per accedere al finanziamento: “La legge dava questa possibilità e noi l’abbiamo sfruttata”. Dal 2001 viene eliminato il contributo diretto ai giornali di partito, a meno che non diventino cooperative. E Il Foglio si adegua ereditando il vecchio finanziamento: il primo presidente della coop, peraltro, fu Giuseppe Spinelli, il ragioniere di B. diventato “famoso” per altre vicende.

La Finanza contesta (per il 2009-2010) al quotidiano oggi diretto da Claudio Cerasa sia l’inesistenza del partito Convenzione per la Giustizia, sia il fatto di non essere una vera cooperativa (oggi, come detto, l’editore è Mainetti): il giornale nega sia l’una che l’altra contestazione (come pure una terza, più tecnica, sul rapporto tra vendite e tiratura).

Qual è il punto? Una normativa nata male sta morendo peggio. Ovviamente, anche se magari Il Foglio riuscirà a strappare una decisione a suo favore, non c’era alcun partito dietro le firme di Pera e Boato, né i cronisti a un certo punto hanno voluto dar vita a una cooperativa per editare il giornale: si trattava di escamotage per ottenere i soldi di Palazzo Chigi, necessari a tenere in vita un’azienda che in vent’anni ha assorbito circa 55 milioni di euro di fondi pubblici e oggi dichiara, in sostanza, di non poter sopravvivere senza a un singolo bilancio (e questo mentre – lo si dica en passant visto che non è il centro della vicenda – si dedica a criticare ogni forma di assistenza dello Stato, non esclusa quella industriale, specie se rivolta ad aziende decotte…).

Dal punto di vista della ratio della norma né Il Foglio, né Italia Oggi hanno diritto a quei soldi: i fondi di Palazzo Chigi vogliono aiutare, appunto, le cooperative di giornalisti, le testate dedicate alle minoranze linguistiche o ai non vedenti o edite da enti non profit (parrocchie, onlus) e associazioni dei consumatori. Il problema semmai è questo: ha diritto a quei soldi Libero – che pure ha un editore (Angelucci) – e nel 2018 si è portato a casa 5,5 milioni? Ne ha diritto il giornale dei vescovi, Avvenire (5,4 milioni)? Ne ha diritto Il Quotidiano del Sud di cui ha preso il comando l’ex direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano (2,9 milioni)?

È difficile sostenere che la legge che stanzia quei fondi sia stata pensata per aiutare Italia Oggi o Libero, come pure è difficile sostenere che negli attuali problemi del Foglio non c’entri il mutato quadro politico di questi ultimi anni: sono i dispiaceri che si incontrano quando l’unico titolo vero che si può vantare mentre si rivendica un diritto è l’amicizia col potere che benevolmente consente “l’escamotage”, il “trucco”. Va tutto bene, finché non cambiano i potenti.

Regeni, Conte chiama al Sisi. “L’Egitto collabori con noi”

Ora Giuseppe Conte prova ad andare in pressing sul presidente egiziano Al Sisi. Ieri il premier italiano lo ha sentito al telefono per sollecitare, al netto del dossier Libia, il rilancio della collaborazione giudiziaria sull’omicidio di Giulio Regeni. “Al centro della lunga conversazione” proprio il caso del ricercatore italiano ucciso al Cairo il 25 gennaio 2016: una morte ancora senza colpevoli su cui stanno tentando di fare luce i magistrati della Procura di Roma.

Qualche giorno fa, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Erasmo Palazzotto (LeU), i pm hanno confermato che a gennaio vedranno i loro omologhi egiziani: questo è il momento in cui si capirà se la pallida ripresa della collaborazione con Roma, che invece si era interrotta del tutto dopo la notifica dell’informativa con cui la Procura italiana aveva individuato cinque indagati per l’uccisione del ragazzo, sarà davvero gravida di novità.

I precedenti non lasciano ben sperare: per un intero anno i rapporti tra i magistrati italiani e quelli egiziani sono stati inesistenti. Almeno fino a luglio scorso quando il presidente Al Sisi ha nominato il nuovo Procuratore generale ed è cambiata l’intera prima linea del team investigativo sul caso Regeni. E questo forse nel tentativo di cancellare le frizioni con Roma dopo che i magistrati italiani si erano fatti carico di rivelare i maldestri tentativi di depistaggio da parte delle autorità egiziane.

Ora, come hanno riferito i pm romani, Michele Prestipino e Sergio Colaiocco alla Commissione parlamentare d’inchiesta, hanno invece individuato il contesto “per non dire il movente” dell’omicidio, oltre alla ragnatela stretta attorno a Regeni anche prima del suo rapimento, dai servizi egiziani. E ora alla luce dei loro accertamenti si preparano a sondare la reale disponibilità a collaborare delle autorità giudiziarie, che al pari della National security egiziana, dipendono da Al Sisi.

“La telefonata di Conte è un segnale. Come lo è la volontà del Parlamento di istituire una commissione e anche l’incontro tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio con il suo omologo egiziano – spiega il presidente della commissione Regeni, Palazzotto – l’Italia non ha intenzione di accontentarsi di verità di comodo come ha pure dimostrato il grande movimento civile che la famiglia di Giulio è stata capace di animare in questi quattro anni in cui i riflettori non sono mai stati spenti. Questo clima e questi segnali ci consentono di sperare in una maggiore responsabilizzazione delle autorità del Cairo”. Per Palazzotto mai come in questo momento bisogna agevolare le iniziative dei magistrati italiani: “Il lavoro della Procura è in una fase molto avanzata, ma anche molto delicata”.

Tutti i piani per uccidere il magistrato anti-cosche

Era tutto pronto per l’ennesimo attentato contro Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro. “Quattro o cinque anni fa l’hanno fallito, stava andando a Crotone e per lui avevano trovato pure i cosi…”. Il magistrato era finito nel mirino dei clan calabresi di San Lorenzo di Cutro e Siderno, colpiti dalle numerose operazioni coordinate da Gratteri in questi anni: Borderland, Jonny, Malapianta e le ultime in ordine di tempo Infection e Rinascita-Scott. Proprio in una delle conversazioni intercettate contenute nell’inchiesta della scorsa settimana, è emerso il piano omicida contro Gratteri. Nel 2017 Antonio Ribecco, ritenuto il referente a Perugia del boss Cosimo Commisso, e suo fratello Natale (entrambi arrestati) parlano del procuratore: “Questo se non lo fermano li piglia tutti, tutti quelli delle zone di Reggio Calabria li ha fatti prendere lui”. A maggio scorso, uno dei 35 arrestati nel Crotonese, lo paragonò al giudice assassinato da Cosa Nostra, Giovanni Falcone: “Un morto che cammina, come è stato Falcone. Quando ha superato il limite se lo sono cacciato!”. Gratteri, nel 1993, sfuggì a due attentati: un’autobomba non arrivata a destinazione e due sicari a volto scoperto sotto casa. Esplose, forse per sabotaggio, anche la macchina blindata che gli era stata assegnata come magistrato a rischio. Gratteri spaventa le cosche ma spesso non viene apprezzato nemmeno dai politici. Il Partito democratico, con grande imbarazzo, ha dovuto smentire le affermazioni della deputata Enza Bruno Bossio: “Arresta metà Calabria. È giustizia? No è solo uno show”. Bruno Bossio, moglie di Nicola Adamo ritenuto il vero dominus del Pd calabrese e ora indagato per traffico di influenze, è vicinissima a Mario Oliverio, il governatore dem uscente della Calabria che il partito non ha ricandidato.