Fuoco “amico” su Gratteri: “Inchieste evanescenti”

Dopo la maxi-inchiesta “Rinascita-Scott” contro la cosca Mancuso, è guerra tra magistrati ma ad attaccare al momento è uno solo: il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Nel mirino c’è il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, tra i pm più esposti in Calabria e sempre in prima linea contro la “massomafia”.

All’indomani dei 334 arresti e dopo aver inferto un colpo durissimo a quel “sistema” di potere che per decenni ha governato la regione, già Gratteri è stato bersaglio di polemiche feroci da parte della deputata del Pd Enza Bruno Bossio per il cui marito Nicola Adamo, il gip ha disposto il divieto di dimora in Calabria. Polemiche dalle quali ha preso le distanze anche il Pd elogiando il lavoro della Dda di Catanzaro e dei carabinieri di Vibo Valentia che il 24 dicembre hanno visto migliaia di persone partecipare a un corteo per dire “grazie” agli investigatori che hanno liberato un territorio, arrestando i boss della cosca Mancuso e i colletti bianchi al loro servizio.

Durante una trasmissione sul Tgcom, al procuratore generale di Catanzaro è stata chiesta un’opinione sull’inchiesta. E in un momento delicatissimo per la magistratura calabrese, arriva la risposta che non ti aspetti proprio quando la Direzione distrettuali antimafia (Dda) guidata da Gratteri è sotto attacco da una parte della politica oltre che dalla ’ndrangheta. Le parole di Lupacchini diventano pietre lanciate addosso alla squadra di Gratteri: “Per quanto concerne l’operazione – ha affermato il magistrato – sebbene questo possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto vi è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”. In sostanza, Lupacchini lamenta che Gratteri, dopo aver avvertito la Direzione nazionale antimafia, come prevede il regolamento, non ha fatto lo stesso con il suo ufficio.

“Buona abitudine” a parte non c’è una norma che obblighi le Dda a informare le Procure generali prima degli arresti. Lupacchini la pensa diversamente: “I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della Procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della Procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte delle operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro stessa”.

Un attacco frontale che Lupacchini, intervistato dal Fatto Quotidiano, ieri conferma facendo l’esempio dell’inchiesta “Lande desolate” nell’ambito della quale era stato disposto il divieto di dimora per il governatore della Calabria Mario Oliverio poi revocato dalla Cassazione. Per il procuratore generale di Catanzaro si tratta di “esiti che non hanno confortato il trionfalismo della presentazione. Parliamo di ‘Lande desolate’ e di tanti altri processi nei quali la Cassazione è intervenuta censurando il pregiudizio accusatorio e l’inconsistenza indiziaria. Almeno in questo anno i risultati sono stati molto al di sotto delle aspettative. Quando si catturano tante persone che poi vengono rimesse in libertà o si censurano i provvedimenti, non da parte mia ma da parte della Corte di Cassazione, tacciandoli di pregiudizio accusatorio e di evanescenza indiziaria, chiaramente questo è un dato che posso permettermi di esprimere perché fondato sui fatti e non sulle impressioni”.

“Di quella frase – continua il suo attacco Lupacchini – risponderò di fronte a chiunque, perché ci sono gli atti che dimostrano che certe indagini sono evanescenti. Non ha visto come son finite tutte le indagini del signor Gratteri? Il Consiglio superiore della magistratura, il ministro e il procuratore generale (della Cassazione, ndr) sono stati ampiamente informati di quel che ho detto”.

E mentre Gratteri non risponde alle sollecitazioni e decide di non partecipare alla polemica, Lupacchini nega che ci sia una “guerra tra magistrati”: “È un’invenzione di qualcuno – dice – che tende a mettermi sullo stesso piano di una persona con cui obiettivamente non ho nulla a che fare e che apprezzo moltissimo. Guerra col dottore Gratteri non ce n’è. È solo nella mente di qualche testa bacata che non sapendo come passare il tempo e come gonfiare le notizie mette in giro una guerra tra me e Gratteri”.

Eppure sia Lupacchini che il procuratore di Catanzaro, l’estate scorsa sono finiti al Csm. La vicenda è poi rientrata, ma il motivo era lo stesso. Il primo, infatti, lamentava il mancato coordinamento dei due uffici nella trasmissione a Salerno degli atti relativi al procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla comparso nell’inchiesta su un carabiniere, poi arrestato per concorso esterno con la ’ndrangheta. Il secondo non ci stava a passare per disonesto e ha portato Lupacchini davanti al Consiglio superiore della magistratura, che se da una parte ha messo una pezza allo scontro, dall’altra a novembre ha mandato via da Castrovillari Facciolla per il quale la Procura di Salerno ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione. Una decisione che, evidentemente, Lupacchini non condivide al punto che sui social promuove la petizione di change.org affinché il Csm riveda la scelta di trasferire Facciolla al Tribunale civile di Potenza.

“Sozzani va arrestato: refrattario alla legalità”

Se la politica lo ha salvato dall’arresto, i giudici di Milano confermano la necessità dei domiciliari per il novarese Diego Sozzani, alias Paperino, deputato di FI travolto dall’indagine sulle tangenti in Lombardia e accusato dai pm di finanziamento illecito per aver preso 10 mila euro da Daniele D’Alfonso, imprenditore ritenuto vicino alla mafia.

E così, dopo che il 5 novembre il giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di scarcerazione confermando gli arresti domiciliari perché “Sozzani” ha deciso con “scarsa trasparenza” di non fornire ai pm “la propria versione” e ha “preferito” farsi “scudo dell’immunità parlamentare di cui gode”, questa vigilia di Natale il Tribunale del Riesame ha depositato le motivazioni con le quali il 9 dicembre ha rigettato l’istanza d’appello fatta da Sozzani sulla decisione del gip. Il ragionamento del giudice svela come la misura degli arresti domiciliari sia l’unica adottabile perché “il brevissimo tempo passato” non consente “di ritenere prodotto un valido effetto dissuasivo, in considerazione del ruolo svolto” da Sozzani “e degli appoggi che risultano ancora conservati oltre alla fittissima rete di rapporti di cui dispone”. Tutto questo, spiegano i giudici, “induce a ritenere necessario il mantenimento del presidio cautelare”. Insomma se a settembre il Parlamento, sovvertendo il giudizio della Giunta per le autorizzazioni a procedere, aveva negato l’arresto e l’utilizzo di dieci intercettazioni perché effettuate dopo la sua elezione, ancora una volta un giudice conferma la bontà della richiesta fatta dalla Procura a carico di Sozzani che risulta indagato anche per alcuni fatti di corruzione in un secondo filone dell’indagine. Il deputato azzurro, molto vicino al presunto ras delle tangenti Nino Caianiello, attraverso i suoi legali aveva fatto informalmente filtrare la voce che i soldi presi da D’Alfonso erano un vecchio credito vantato. Nei suoi verbali, però, l’imprenditore conferma la versione dell’accusa. Il “pagamento – dirà D’Alfonso ai pm – avvenne attraverso l’emissione della falsa fattura” e le “modalità mi vennero indicate prima” da Caianiello “poi da Sozzani”, che vedeva nella sua elezione a deputato un’ulteriore possibilità di incrementare gli affari del proprio studio di progettazione Greenline. Scrive il gip: “Sozzani spiega che la sua eventuale elezione in Parlamento (…) gli potrà consentire di portare a casa ulteriori clienti per lo studio”. Il politico in presa diretta sul tema: “Come fai a non portarlo a casa!? Hai una serie di interlocutori”. Secondo il tribunale del Riesame gli arresti sono necessari anche a causa della “personalità dell’indagato” che ha dimostrato una “profonda refrattarietà rispetto all’ottemperanza delle prescrizioni pubbliche”.

E ancora: “L’indole di Sozzani” si è mostrata “impermeabile” e “impenetrabile (…) al rispetto di regole e legalità”. Da qui la conferma della bontà del giudizio espresso a novembre dal gip. Anche perché “le conoscenze e le competenze” di Sozzani “sono potenzialmente spendibili in una pluralità di circostanze che non presuppongono necessariamente lo svolgimento della propria attività professionale in senso stretto”. Per questo “altre misure si rivelano inefficaci al contenimento comportamentale dell’indagato”. Conclude il Riesame: “La custodia cautelare domiciliare” è “l’unica idonea” per “impedire la ricaduta di Sozzani in condotte illecite”. Per lui (rispetto al finanziamento illecito), e altri 70 indagati, la Procura ha già chiesto il processo. A gennaio, poi, è attesa una seconda chiusura indagini che comprenderà diverse posizioni, riservando importanti sorprese.

Non è finita, i dem riprovano a fermare la norma Bonafede

Mancano quattro giorni al primo gennaio, data dell’entrata in vigore della norma Bonafede, che blocca la prescrizione, dopo la sentenza di primo grado di giudizio. Ed evita di ammazzare 120 mila processi l’anno. Ma non è ancora finita: oggi il Pd presenta la sua proposta di legge, che di fatto la reintroduce. Al Nazareno si ripartirà da quella che era la riforma Orlando, cambiando però i tempi. In origine, le lancette del processo si fermavano per 18 mesi, ora si passa ai 30, sia in Appello che in Cassazione. Quindi per 5 anni complessivamente.

L’idea dem è stata in realtà già recapitata al Guardasigilli Alfonso Bonafede che dice di essere pronto a “valutare ogni proposta” nel vertice di maggioranza già convocato per il 7 gennaio, ma ribadisce: “L’importante è non far rientrare dalla finestra quel che è uscito dalla porta”. Insomma, le posizioni restano più che distanti, con tanto di incognite.

La prossima data da cerchiare sul calendario, infatti, come momento a rischio per il governo giallorosso, è il 10 gennaio. Perché la Camera vota la proposta di legge del forzista Enrico Costa per eliminare la norma Bonafede che blocca la prescrizione. Un’occasione per chiunque voglia provare a mettere un altro ostacolo sulla strada del governo Conte. Lunedì notte, durante l’esame della manovra a Montecitorio, a favore di un ordine del giorno di Costa contro la norma Bonafede con l’opposizione e contro il parere del Governo, hanno votato i deputati di Italia Viva. L’odg è stato bocciato (con 204 sì, 289 no e 2 astenuti). Ma il segnale è politico: dopo le assicurazioni di Maria Elena Boschi che i renziani si sarebbero astenuti è stata Lucia Annibali ad annunciare il voto favorevole.

Ora la sequenza delle date è centrale: il 7 ci sarà il vertice di maggioranza sulla giustizia, l’8 invece scade la presentazione degli emendamenti alla legge Costa. E se qualcuno (magari di Iv) presentasse come emendamento proprio la proposta del Pd? Che farebbero i dem? Voterebbero compatti contro la loro legge? “Quella di Bonafede è una vittoria di Pirro. Cambieremo la legge, più prima che poi. Spero con M5S, ma altrimenti con una maggioranza alternativa”, diceva un autorevole esponente del Pd che sta lavorando al dossier. I dem, per adesso, assicurano che non hanno intenzione di sovrapporre la loro battaglia a quella di Costa. “Si tratta di un tentativo propagandistico che respingiamo”, ha detto Orlando, intervenendo in aula lunedì notte. Spiega Walter Verini, che fa parte della cabina di regia sul tema: “Noi non siamo per un garantismo peloso, quindi non siamo con Costa. E a chi ha la tentazione di far cadere il governo, ricordiamo che il rischio è che torni chi dichiarava di voler chiudere tutti in galera e buttare la chiave, chi voleva consentire il diritto di sparare a tutti”. Però, la minaccia resta sul tavolo: “Ci auguriamo che il ministro Bonafede prenda in considerazione la nostra proposta già dai prossimi giorni. Perché in maggioranza siamo quattro partiti, e va tenuta in considerazione la posizione di tutti su questa questione”.

In tre per la successione. Di Maio “consulta” i big

Ora non si può sbagliare. E non può sbagliare soprattutto lui, il capo politico del M5S Luigi Di Maio, che dovrà decidere assieme al presidente del Consiglio Conte il nome con cui sostituire Lorenzo Fioramonti. “Sarà una figura proveniente dai 5Stelle” filtra da ambienti di governo. Con tre nomi avanti a tutti: l’attuale sottosegretaria all’Istruzione Lucia Azzolina, la senatrice campana Maria Domenica Castellone e l’ex sottosegretario al Miur Salvatore Giuliano.

Però non è detto che la corsa sia chiusa a questa terna. Non si possono escludere altre soluzioni “coperte” perché la casella dell’Istruzione è di quelle che pesano “e per ora sul tavolo ci sono molte opzioni diverse ma nessuna direzione precisa”, spiega un’alta fonte di governo del M5S. Tradotto, ieri Di Maio ha consultato alcuni big e raccolto suggerimenti. Ma non ha ancora un nome certo in testa. Sa quanto è rischiosa la partita, perché gli alleati del Pd chiedono stabilità e quelli di Italia Viva sono già pronti con i cannoni. E sa che nel Movimento l’uscente Fioramonti ha tanti estimatori. “Nelle chat e sui social molti attivisti lo stanno difendendo per la sua coerenza” notava ieri un ministro del M5S.

Mentre al contrario l’eurodeputato Ignazio Corrao, uno dei sei facilitatori nazionali del Movimento, ieri sera argomentava su Facebook: “Ritengo Fioramonti una persona valida, ma ritengo anche che politicamente parlando sia arrivato in alto troppo in fretta, senza un percorso dal basso: tante, troppe volte l’ho sentito parlare da indipendente”. E qui la critica è al capo, al Di Maio che ha portato in Paradiso gli esperti eletti nei collegi uninominali, e ora se li ritrova quasi tutti contro (basti ricordare il caso di Gregorio De Falco in Senato).

E non basta ora scomunicare Fioramonti, rinfacciargli “i 70mila euro” che non avrebbe restituito al Movimento come ripetevano ieri molti eletti e variegate fonti a 5Stelle. Ora è il tempo di ripartire con un nome forte. E chissà se sarà politico. Chissà se potrà essere Azzolina, siciliana di 37 anni. Insegnante, ex sindacalista dell’Anief (Associazione nazionale insegnanti e formatori), la deputata va spesso in tv ed è in buoni rapporti con Di Maio, che recentemente ha anche rilanciato un suo post sulle “classi pollaio”. In più, è stata dalla prima ora una sostenitrice dell’alleanza con il Pd. Ma rischia di pagare la giovane età, quindi l’inesperienza ad alti livelli. Dovrebbe fare il salto anche Castellone, forte però di un ottimo curriculum, visto è medico e ricercatrice del Cnr. Membro della commissione Sanità del Senato, già in predicato di diventare sottosegretario. E poi c’è il brindisino Giuliano, già sottosegretario, che vanta ancora ottimi rapporti nel Movimento. Ieri più d’uno ha proposto di richiamarlo. “Ma nominare come nuovo ministro chi non abbiamo confermato come sottosegretario è complicato” riflettono fonti qualificate. Poi ci sono altre opzioni, suggestive ma difficili. Per esempio quella del presidente dell’Antimafia Nicola Morra: insegnante, veterano del M5S molto stimato nel Pd. Per anni ha tenuto i rapporti con il mondo della scuola per conto del Movimento, e infatti in estate era stato in corsa proprio per il Miur.

Ma ora richiamarlo saprebbe di risarcimento tardivo, e soprattutto aprirebbe il tema della sua sostituzione in Antimafia. Una porta che ai piani del M5S non vorrebbero aprire. E circolano anche altri nomi, come quello dell’ex capogruppo alla Camera Francesco D’Uva, ora questore a Montecitorio. Ma sanno più che altro di boatos. Mentre non circolano nomi di tecnici. Ambienti di Palazzo Chigi ieri escludevano questa soluzione. Ma non è detto che un nome a sorpresa possa entrare in corsa, anche se il tempo è poco. “Bisogna chiudere questa storia in fretta” è la linea dei 5Stelle come della Presidenza del Consiglio. Perché di fronti aperti ce ne sono già abbastanza.

 

Conte sconfessa i “contiani”, il M5S teme il rimpasto

Hanno perso un altro pezzo, questa volta di primissima fila e ora la consegna è rimpiazzarlo in fretta. Innanzitutto per non far parlare troppo a lungo del ministro che ha detto addio a Natale, quel Lorenzo Fioramonti che ora potrebbe andare a ingrossare il gruppo di possibili esuli dal Movimento alla Camera, nel nome di Giuseppe Conte: pronto però a scomunicarli, a disconoscerli per tenere assieme il M5S e quindi la sua maggioranza. Ma si fa largo anche un altro timore nei 5Stelle, ossia che lasciare scoperta troppo a lungo una casella di governo potrebbe alimentare strani pensieri nel Pd, come il desiderio di un mini-rimpasto. Ecco perché il Movimento ha provato in ogni modo a fermare Fioramonti. Ma non c’è riuscito neppure Conte in un conciliabolo nella notte della manovra, quella a cavallo tra il 23 e il 24 dicembre. “Me ne vado” gli ha ripetuto il deputato. E ora nel M5S si chiedono se espatrierà davvero nel Gruppo misto come profetizzavano alcuni dimaiani ieri.

Una convinzione che Fioramonti non ha smentito, almeno non con il post di ieri su Facebook dove non cita il Movimento. Dettaglio notato dai 5Stelle, dove sanno dei suoi ripetuti contatti con alcuni dei deputati pronti a formare un gruppo contiano. “Ma sono ancora lontani dall’essere 20” giura un big della Camera, uno di quelli che lavorano per recuperare i peones. Ieri la deputata marchigiana Rachele Silvestri ha smentito il suo approdo nel nuovo gruppo: “Ipotesi che non esiste”. Ma un altro paio di eletti marchigiani, Roberto Rossini e Roberto Cataldi, sono tirati regolarmente in ballo, assieme a nomi come il romano Massimiliano De Toma.

E sono attivissimi ex 5Stelle come Andrea Cecconi, anche lui delle Marche, il mastice della possibile formazione. Invece Fioramonti sarebbe il grande nome che serve per caratterizzare un gruppo colmo di soldati semplici. Un evidente, notevole rischio per Luigi Di Maio, che ha chiesto e ottenuto rassicurazioni da Conte. “Il premier ci ha assicurato di essere pronto a sconfessare un gruppo contiano” spiegano fonti vicine al capo politico.

E da Palazzo Chigi ripetono sbrigativamente la linea: “Siamo contrari a un eventuale nuovo gruppo”. Comunque ora, fanno filtrare, il presidente “sta lavorando” alla sostituzione di Fioramonti. Quindi è in contatto con Di Maio, che ieri non ha proferito verbo sulla vicenda “per rispetto nei confronti del premier” spiegavano. Ma i 5Stelle hanno comunque sondato il Pd per capire che aria tirasse dall’altra parte. Calma, pare. “Dai dem ci hanno chiesto soprattutto altro, ossia di eventuali, nuovi addii in Senato” raccontano.

Perché resta quella la prima preoccupazione del Pd, ossia che Matteo Salvini si prenda altri 5Stelle dopo averne reclutati tre in un colpo solo pochi giorni fa a Palazzo Madama, dove la maggioranza non conta sui numeri blindati che vanta a Montecitorio. Almeno finora, perché un gruppo contiano cambierebbe il gioco. E infatti dal M5S avvertono: “Se mai ce la facessero a fare un gruppo non sarebbero ammessi al tavolo di governo, ad alcuni lo abbiamo già detto”. Tradotto, non potrebbero essere una quinta gamba della maggioranza. In questo scenario il Pd rimane sostanzialmente zitto, per non mettere in difficoltà gli alleati. Mentre Federico Fornaro di Leu esorta: “Conte individui quanto prima una personalità autorevole”. Ma poi ci sono i renziani a infierire. “La scenata natalizia di Fioramonti è solo un regolamento di conti tra grillini” twitta Luciano Nobili. A conferma del fatto che Italia Viva si tiene le mani più che libere. Ma c’è qualche 5Stelle che lo difende, come il pugliese Paolo Lattanzio, altro deputato inquieto: “Le dimissioni di Fioramonti pongono un punto politico importante, ho condiviso molte delle sue battaglie”. Quelle di un ex ministro, che ora è un enigma.

“Mancano i soldi”. Fioramonti va via come promesso

Una lettera formale, inviata al presidente del Consiglio la sera del 23 dicembre, il cui contenuto è trapelato mercoledì da Palazzo Chigi e che conteneva la conferma di quanto anticipato da tempo: il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ha presentato le sue dimissioni e la notizia è circolata la sera del giorno di Natale. Dinamica inaspettata per il ministro, che avrebbe voluto darne l’ufficialità un po’ più tardi. Non inaspettata la notizia per il premier e i vertici del Movimento 5 Stelle, che erano già stati informati.

Ieri Fioramonti ha spiegato le sue ragioni con un post su Facebook: al governo – ha scritto – è mancato “il coraggio” che sarebbe servito per garantire all’Istruzione almeno la “linea di galleggiamento finanziaria, soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca. Pare – ha aggiunto – che le risorse non si trovino mai quando si tratta della scuola e della ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore da destinare ad altre finalità quando c’è la volontà politica”.

Il riferimento è all’assenza di fondi in manovra destinati a ricercatori e atenei. Quasi nulla. Dei circa 2 miliardi per l’Istruzione, racimolati e conteggiati anche come fondi provenienti in varie forme da altri ministeri, circa il 90 per cento riguarda il rinnovo del contratto di lavoro dei docenti e del personale amministrativo (con un aumento di 40 e 70 euro nei prossimi due anni, dunque lontano dai due zeri ipotizzati dal ministro a inizio mandato). Manca un intervento strutturale: per sterilizzare l’aumento dell’Iva, all’Istruzione sono stati riservati solo pochi piccoli interventi che non hanno in alcun modo cambiato la rotta, ma solo fatto fronte alle emergenze. Dai 16 milioni per le borse di studio ai 30 milioni per i dirigenti scolastici, dai 16 per l’organico del potenziamento ai 12,5 per le paritarie che accolgono i disabili. E ancora, i 12 milioni per i posti di sostegno, gli 11 per accademie e conservatori (senza una vera riforma), i 2 per il piano scuola digitale e poco più per le borse di studio delle specializzazioni mediche. Completamente assente il miliardo che sarebbe dovuto andare all’università, una lacuna – a fronte dei progressivi tagli alla spesa universitaria – che il governo ha provato a mascherare istituendo una contestata “Agenzia nazionale per la ricerca” con una dotazione di 25 milioni e un indirizzo poco chiaro, il rischio di nomine politiche e la quasi totale estromissione del ministero dell’Istruzione. Una struttura che lo stesso Fioramonti non è riuscito a far scardinare. I miliardi mancanti, è stato poi il ragionamento, sono stati conseguenza di un governo che non ha ascoltato le istanze dell’Istruzione e ha operato senza condivisione pregiudicando la possibilità di trovare risorse. Presidente del Consiglio incluso, lo stesso che nel suo discorso di insediamento aveva messo scuola e istruzione al primo posto.

“Prima di prendere questa decisione ho atteso il voto definitivo sulla legge di Bilancio, in modo da non porre tale carico sulle spalle del Parlamento in un momento così delicato – ha spiegato Fioramonti –. Ho accettato il mio incarico con l’unico fine di invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza”. Ha elencato i risultati raggiunti, dalla rivalutazione degli stipendi “insufficiente ma importante” alla copertura delle borse di studio per tutti gli idonei e “il sostegno ad alcuni enti di ricerca che rischiavano di chiudere” come il Crea.

Poi, la critica: “Non riconoscere il ruolo cruciale della formazione e della ricerca equivale a voltare la testa dall’altra parte. Nessun Paese può più permetterselo”. Risponde anche a chi lo ha criticato per non aver rimesso il mandato prima, visto che le risorse era improbabile che si trovassero. “Ma io ho sempre chiarito che avrei lottato per ogni euro in più fino all’ultimo”. Ora, spiegano fonti vicine al ministro, il programma immediato è rimanere a occuparsi di scuola e università da deputato “con ancora più energia di prima” mentre in questi giorni resterà in famiglia. “Non mi hanno visto per mesi. Questi giorni sono per loro”.

I commenti dei sindacati, ieri, hanno oscillato fra l’apprezzamento per la coerenza della decisione e la preoccupazione per il futuro. “Bisogna dare atto a Fioramonti che è stato coerente con quanto affermato – ha detto il presidente nazionale dell’Anp, l’associazione dei presidi, Antonello Giannelli –, ma le sue dimissioni rendono più evidente che la politica italiana non ha un grande interesse per la scuola, per la quale non si trovano mai le risorse necessarie, mentre lo si fa per altri settori”. Flc-Cgil e Cisl-Scuola temono invece che l’uscita di Fioramonti possa mettere in discussione le intese già siglate. “Non esistono riscontri nella storia della Repubblica, di ministri dimissionari il giorno di Natale – ha detto ieri il segretario della Flc Cgil Nazionale, Francesco Sinopoli –. Nel merito delle ragioni delle dimissioni spetta ora al presidente del Consiglio Conte chiarire la posizione del governo in materia di risorse per l’istruzione e la ricerca. Altrimenti, il rischio è che qualunque ministro che seguirà non potrà fare a meno di seguire le orme di Fioramonti”.

Il coerente incoerente

Immagino che Lorenzo Fioramonti si sentirà molto fico, dopo aver rassegnato le dimissioni da ministro minacciate prim’ancora di giurare da ministro. Vuoi mettere un politico italiano che dice “me ne vado” e poi se ne va per davvero: roba mai vista, da Guinness dei primati. Che fegato, che attributi, che coerenza. Chapeau, applausi, standing ovation. Se poi uscirà pure dai 5Stelle per fare un suo partitino, o un suo gruppettino, e dare un tetto e un pasto caldo agli ultimi Solgenitsin pentastellati, gli faranno la ola in tutte le vie e le piazze d’Italia. Lui sì che voleva salvare la scuola, l’università e la ricerca: infatti chiedeva 3 miliardi subito, prendere o lasciare, e quei bifolchi di Conte e degli altri ministri, in tre mesi, ne hanno trovati solo 2 (più i fondi del decreto Scuola per 50 mila nuovi assunti e altri stanziamenti), promettendo il resto e forse anche di più nel 2020, quando i risparmi da spread e gli extragettiti fiscali da manette agli evasori consentiranno una legge di Bilancio meno tirata di questa. Ma lui niente, non s’è fatto incantare, eh no. Riconosce che “possiamo essere fieri di aver raggiunto risultati importanti: stop ai tagli, rivalutazione degli stipendi degli insegnanti (insufficiente ma importante), copertura delle borse di studio per tutti gli idonei, approccio efficiente e partecipato per l’edilizia scolastica, sostegno ad alcuni enti di ricerca che rischiavano di chiudere e, infine, introduzione dell’educazione allo sviluppo sostenibile in tutte le scuole (la prima nazione al mondo a farlo)”, ergo “il governo può fare ancora molto e bene per il Paese se riuscirà a trovare il coraggio di cui abbiamo bisogno”.

Ma, anziché coltivare le sue buone ragioni e mettere la sua competenza e il suo curriculum (che sono ottimi) al servizio del governo, lavorare in squadra per trovare nuove risorse, fidarsi del premier che gliele ha promesse, insomma fare politica per il bene della cultura e non della sua immagine, scende qui. Aveva detto 3 miliardi non trattabili e subito, ergo prende cappello e se ne va. Che pezzo d’uomo. Ora promette che “il mio impegno per la scuola e per le giovani generazioni non si ferma qui, ma continuerà – ancora più forte – come parlamentare”: sarà difficile, visto il suo tasso di assenteismo da record mondiale (presente all’1,37 delle votazioni, assente o in missione nel 98,63). Medita un gruppo parlamentare di “contiani” all’insaputa di Conte e dopo aver mollato il governo Conte. Critica giustamente il ruolo della Casaleggio Associati e della piattaforma Rousseau, ma non spiega perché li scopra solo ora, e non quando fu candidato nel 2018 col seggio assicurato.

Diamo una notizia a Lorenzo nel paese delle meraviglie: la Casaleggio e Rousseau c’erano e contavano anche prima che arrivasse lui. E gliene diamo pure un’altra: anche lui, due anni fa, firmò l’impegno a devolvere parte dello stipendio a Rousseau e, in caso di uscita dal M5S, a dimettersi da parlamentare e a pagare una multa di 100 mila euro. Invece risulta avere 70 mila euro di versamenti arretrati e non pare affatto intenzionato a lasciare il seggio e a pagare la multa. Il che indebolisce un tantino la sua sbandierata coerenza. E pure le sue meritorie critiche alla linea Di Maio e all’alleanza con Salvini che ha “snaturato” il M5S. Anche perché – terza notizia – nel governo M5S-Lega il viceministro dell’Istruzione, Università e Ricerca era un certo Lorenzo Fioramonti. Che si guardò bene dal dimettersi, anche se l’anno scorso per il suo settore i 3 miliardi non c’erano, e neppure i 2 di quest’anno. Già: l’acerrimo nemico del governo gialloverde s’è dimesso dal governo giallorosa. Forse non ha capito la differenza fra coerenza e ottusità. Un ministro coerente non è quello che lancia ultimatum agli altri fra un viaggio aereo e l’altro, poi atterra a Roma, va al ministero e sbatte la porta: è quello che indica i propri obiettivi e poi fa gioco di squadra per ottenerli, con la necessaria gradualità e gli inevitabili compromessi. A chiedere 3 miliardi sull’unghia per far bella figura son buoni tutti: poi però bisogna spiegare come reperirli e costruire su quel metodo il consenso nella maggioranza. Non potendo stampare moneta nottetempo, come La banda degli onesti di Totò e Peppino, le risorse si trovano tagliando le spese inutili o aumentando le imposte. La spending review era impossibile, per un governo nato a settembre che doveva presentare il bilancio a novembre, salvo ricorrere ai tagli lineari in ogni ministero, che di solito segano le spese utili (per incidere sugli sprechi occorrono anni). Infatti Fioramonti chiedeva le giuste tasse di scopo, Sugar Tax e Plastic Tax, che ha contribuito a sputtanare con le gaffe sulle merendine: purtroppo non c’erano i voti per approvarle tutte e subito, anche per via delle proteste dei produttori emiliano-romagnoli, che non si è voluto regalare a Salvini alla vigilia delle Regionali.

Un ministro serio e responsabile oltreché competente (e Fioramonti purtroppo s’è rivelato solo la terza cosa, non la prima e la seconda) avrebbe atteso qualche altro mese, per mettere alla prova Conte che non fa che elogiare, dandogli il tempo di mantenere (o tradire) le promesse sui nuovi fondi. E solo dopo avrebbe deciso se restare o no. Quattro mesi sono pochi per giudicare un governo: quattro mesi comunque tutt’altro che sprecati, vista la legge di Bilancio che non accresce le imposte, anzi scongiura l’aumento Iva, taglia le tasse ai lavoratori, avvia la lotta all’evasione, trova le prime risorse importanti per la scuola e inizia a prosciugare lo stagno della propaganda salvinista. Purtroppo Lorenzo il Munifico ha confuso il coraggio con la vanità. E ha preferito passare dalla ragione al torto per tutelare se stesso. Ma era lì per salvare l’istruzione, non la faccia.

Stelle e meteore: il Capodanno è ancora in piazza

C’è di tutto ovunque, manca il botto finale. Nel rito del Capodanno in piazza, ad alzare il volume saranno le stelle (spesso cadenti) e le meteore tricolore: di superstar internazionali nemmeno l’ombra. Gli italiani chiuderanno il decennio sgolandosi e zompettando, in preda a uno stordimento etilico che ne ottunderà la capacità critica. La missione primaria sarà inzepparsi davanti ai palchi e dunque chissenefrega della qualità: il concerto del 31 dicembre è sempre, fatalmente, un evento atipico, dove conta più un “su le mani” urlato da dj e conduttori che non un assolo virtuoso del chitarrista o un acuto del frontman. Di certo, molti comuni farebbero volentieri a meno di organizzare una festa che presenta più insidie che benefici, a partire dai costi che potrebbero, anche nei casi più limpidi, ricadere sui cittadini, alla faccia dell’appuntamento “gratuito”. Eppure, alla fin fine, pochi gestori della cosa pubblica rinunceranno al circenses di San Silvestro per non farsi parlare dietro da avversari e da amministrati, tutti insieme appassionatamente protesi verso il party all’addiaccio, fosse pure solo per scaramanzia, buona fine e buon principio e che si fottesse la malasorte. Resta la consapevolezza che questi show en plein air non siano più sontuosi come una volta: c’è la crisi, qualunque cosa significhi. Poco da scialare, molto su cui riflettere.

A scorrere l’elenco degli artisti arruolati nel Capodanno che verrà si trovano poche cose davvero speciali. Big ed emergenti faranno volentieri gli straordinari: sarà notte di buona paga, da ingaggio superfestivo. Potendo scegliere, forse il cartellone più intrigante lo propone Napoli, col doppio set in piazza Plebiscito di Stefano Bollani e Daniele Silvestri. Mentre Milano, davanti al Duomo, punta sull’energia del tris Stato Sociale-Coma_Cose-Myss Keta. L’idea di Roma per il Circo Massimo è di nuovo un filo eccentrica: all’ora del cenone a fungere da richiamo dovrebbe essere il talento attoriale di Ascanio Celestino con una favola dedicata alla Terra, e solo più tardi arriverà la musica; prima quella live di Carmen Consoli, dopo la mezzanotte quella pompata sulla consolle da una dj di grido come Skin (che sarebbe stata meglio utilizzata davanti a un microfono). Non male la scelta di Mantova, dove i Subsonica celebreranno il ventennale di Microchip Emozionale, sperimentando il format che li vedrà, tra qualche mese, in tournée nei teatri. Godibile il pacchetto di Salerno, con Irene Grandi e Negrita; Parma vedrà in azione Morgan con Andy, vecchi sodali nei Bluvertigo, più l’Orchestra di Piazza Vittorio e Ron. A Rimini non sarà una festa per vecchi, visto il programma col rap cantautorale di Coez e la frenesia dei Planet Funk. Stessa musica ad Arezzo, dove si rimboccheranno le maniche Frankie Hi-NRG e Cosmo, mentre Padova ciondolerà seguendo le barre di Fabri Fibra. Non va male alla Sardegna: Cagliari è pronta a farsi tarantolare da Vinicio Capossela, Olbia si lascerà incantare da Elisa, Alghero sarà movimentata da Emis Killa.

Le generazioni mature scaveranno nei sedimenti dei ricordi con le canzoni degli Stadio (a Pescara), dei Tiromancino (a Matera), dei Matia Bazar (Imperia), di Patty Pravo (Pontedera, dove ci sarà gioia anche per i giovani fan di Alessio Bernabei). Brescia proteggerà il suo Omar Pedrini, Bergamo ospiterà il world-folk di Eugenio Bennato, Latina il baloccamento demenziale dei Latte e i suoi derivati di Lillo & Greg. Catania potrà fare casino grazie a Max Gazzè, Palermo strusciarsi con il soul di Mario Biondi e Reggio Emilia con quello di Nina Zilli. Tra le grandi città, Firenze tentenna sugli annunci, Bologna si affida al ballo, Torino non ha tirato fuori l’asso dal mazzo.

Più ricco, ovviamente, il piatto nelle location scelte dai grandi network delle tv e delle radio. Amadeus condurrà da Potenza L’anno che verrà per la diretta su Rai1: nomi degli ospiti ancora blindati, si parla tra gli altri di Arisa e Malgioglio. Federica Panicucci timonerà da Bari Capodanno 5 per la rete ammiraglia di Mediaset con J-Ax, Renga, Moro, Annalisa, Giordana Angi, Raf&Tozzi, Elodie, Rovazzi, Nek e via elencando. Rtl102.5 sarà in piazza Bra a Verona, dove i presentatori Angelo Baiguini e Cheyenne officeranno il battesimo del fuoco per i finalisti di X Factor (Sofia Tornambene, La Sierra, Davide Rossi, Booda, Eugenio Campagna); Radio Deejay risponderà da Riccione coinvolgendo Mahmood ed Emma Marrone. Poi, all’alba del primo gennaio, nelle piazze resteranno solo pochi zombie sordastri.

Diversamente Natale, quelli che non festeggiano

Il giorno di Natale del 1939 il tenente Ernst Jünger si trovava presso Greffern, dove l’esercito tedesco si preparava a invadere la Francia. “Questa mattina giro lungo lo Schwarzbach fra la brina pensando ai Natali passati. Un uccello da preda cala a volo da un pioppo, si posa su un campo e se ne va saltellando con mosse impacciate e araldiche. Quando lo inseguo vuole passare lo Schwarzbach, ma volando va a urtare contro l’acqua e poi risale a riva. Lo raggiungo, vedo che la sua ala sinistra è ferita da una fucilata. Il sangue gocciola rossissimo sulla neve. L’uccello mi fissa immobile con i suoi occhi gialli e uno sguardo dritto, ardito, fermissimo. Lo lascio solo, senza toccarlo, nella siepe, dopo averlo contemplato a lungo. Penso: dato che tu non l’hai toccato forse si salverà. Poi, davanti a un crocefisso. Freddo, dalla corona di spine scendono lunghi fili di ghiaccio. Anche gli occhi sono argentati da ciglia di gelo, che tremolano leggere al vento”.

Così scriveva in Giardini e strade. Jünger avrebbe fatto volentieri a meno di trovarsi lì. Alle guerre aveva già dato molto. Da ragazzo era scappato nella Legione Straniera e durante la Prima Guerra Mondiale aveva subito 14 ferite. Finiti gli impegni militari si era appassionato all’LSD e ad altre droghe. Una vita spericolata, qualsiasi medico gli avrebbe pronosticato un’esistenza breve. Visse fino a 103 anni. Amava la scrittura, ma sua vera passione erano gli insetti. Alcune specie di coleotteri oggi portano il suo nome, il Carabus Saphyrinus Juengeri e la Cicindela Juengeri Juengerorum.

Forse per la sua vicinanza agli animali si era tanto commosso a guardare negli occhi l’uccello ferito il giorno di Natale. E al crocefisso aveva esposto i suoi silenziosi interrogativi. Ma il Cristo era rimasto di ghiaccio. Intanto, dopo le macchie dell’uccello ferito altre macchie di sangue cominciavano a tingere di rosso tutte le nevi d’Europa.

Le prime luci di Natale dell’anno 1900 sorpresero nel porto di Suva la Manapuri, una nave proveniente da Sydney. A bordo si trovava un francese malandatissimo. A soli 37 anni aveva già subito cinque interventi chirurgici. Marcel Schwob si era messo in testa di andare a Samoa per rendere omaggio alla tomba di Robert Louis Stevenson. La sua salute peggiorava, ma lui aveva deciso di partire. Ogni giorno scriveva una lettera a Marguerite Moreno, che aveva sposato l’anno prima a Londra. Lei era considerata la musa dei simbolisti, amica di Verlaine, di Mallarmé, di Colette. Il 25 dicembre le scrisse: “Ieri sera, per onorare il Natale, abbiamo sparato in cielo fuochi d’artificio, candele romane e Bengala. Nel mezzo della grande baia la piccola città di Suva era tutta illuminata. Gli abitanti delle Figi riuniti a riva accoglievano ogni scintilla con ululati di gioia e altre due navi rispondevano ai nostri fuochi. Ma non appena i bagliori si attenuarono, l’acqua nel porto divenne di nuovo triste, deprimente. Oggi vasti vapori coprono le montagne verde scuro e verde vacuo, e una pioggia triste cade, cade desolata. Al largo si estende una barriera di schiuma grigiastra”.

Arrivò ad Apia in preda a febbri altissime. Scrisse a Marguerite “ho la febbre di te”. Lui l’amava alla follia, lei un po’ meno. Era una donna molto libera. Dopo due mesi di viaggio Schwob aveva attraversato 12 fusi orari, gli mancavano poche centinaia di metri per raggiungere la meta, la tomba di Stevenson in cima al Monte Vaea. Ma dovette tornare in Francia senza riuscire a completare il pellegrinaggio. Chi scrive, sul Monte Vaea ci è salito, nella lunga arrampicata dentro la foresta si è visto prosciugare di tutti i liquidi che aveva in corpo, e se non fosse stato per due papaie che pendevano sulla tomba di Stevenson si sarebbe trovato anche lui nelle pietose condizioni di Marcel Schwob.

Chi si fosse trovato in Rue Dupuytren a Parigi la notte di Natale del 1920, avrebbe notato due figure con gli occhi scintillanti di visioni letterarie entrare al numero 8. Lì allora aveva sede la Shakespeare & Company. Sylvia Beach aveva avuto la felice idea di combinare il primo incontro tra James Joyce e Valery Larbaud. In quella notte di Natale la vita editoriale di Ulysses era iniziata.

Il 25 dicembre del 1918 Gadda terminava la sua detenzione a Cellelager. Quel giorno nel Giornale di guerra e di prigionia elevava a modo suo le lodi al bambinello: “Oggi Natale; i cenci, il disordine, il fracasso, mi han fatto bestemmiare più volte.” Poche righe dopo: “Il risotto venne lungo: (bestemmie).”

Erwin Brugger nel Natale del 1956 aveva dodici anni e abitava in una fattoria nei pressi di Herisau. Dopo un pranzo affrettato ottenne dai genitori il permesso di uscire a giocare. Con un suo amico si avviò verso una collina per scendere con lo slittino. I due videro giù in basso un uomo sdraiato nella neve. Si avvicinarono pensando a un malore. Trovarono un vecchio signore immobile, steso sulla schiena, il cappello distante un metro dalla testa. I poliziotti che arrivarono sprofondando nella neve accertarono che si trattava di Robert Walser, un nome noto in una cerchia molto ristretta di persone che però includeva Franz Kafka, Robert Musil, Elias Canetti. Robert Walser, maestro di passeggiate, quel mattino era uscito dal manicomio dove viveva da oltre vent’anni per uno dei suoi giri abituali. O forse aveva voluto varcare in silenzio il confine che lo avrebbe portato fuori da 68 anni di incomprensioni e sofferenze. Senza disturbare, senza nemmeno sporcare la neve con inestetiche macchie di sangue.

Franco Cfa: cambiare perché nulla cambi

Il viaggio di due giorni di Emmanuel Macron in Costa d’Avorio, ha acquisito il suo senso pieno sabato 21 dicembre, la sera in cui ha annunciato, insieme al suo omologo Alassane Outtara, una “riforma” del franco Cfa, prendendo di sorpresa i cittadini dei 14 Paesi che utilizzano questa moneta.

L’argomento non figurava nel programma ufficiale della visita dedicata a un incontro alla basa militare francese di Abidjan, alla firma di contratti e accordi diversi, alla posa della prima pietra del “grande mercato” di Bouaké, etc. Contrariamente a quanto avvenuto con le consorelle africane, le grandi redazioni parigine erano state messe al corrente di quello che il presidente avrebbe detto nel corso della conferenza stampa con Outtara e avevano compreso che il franco Cfa sarebbe stato il principale obiettivo del viaggio in Costa d’Avorio.

I due presidenti hanno così annunciato diversi cambiamenti nel funzionamento del franco Cfa dell’Africa occidentale, cioè gli otto paesi membri dell’Unione economica e monetaria ovest-africana (Uemoa). La prima modifica riguarda le riserve di cambio dell’Uemoa: quest’ultima non sarà più obbligata a depositarne la metà presso il Tesoro francese il che comporterà la chiusura del conto operativo, un conto speciale aperto presso i registri del Tesoro attraverso il quale quelle divise transitavano. Inoltre, non ci sarà più un rappresentante francese nelle istanze dell’Uemoa, a cominciare dal consiglio di amministrazione della sua Banca centrale, la Banca centrale degli stati dell’Africa dell’ovest (Bcsao). Altro cambiamento: il franco Cfa avrà un nome nuovo e si chiamerà “eco”. Tutti questi cambiamenti dovrebbero essere effettivi verso la metà del 2020.

L’economista togolese, Kako Nubukpo, ha immediatamente salutato la riforma definita “storica” dai due capi di Stato: “Il passaggio dal franco Cfa all’Eco è una meravigliosa notizia per l’avvenire dei Paesi che l’utilizzano”, ha scritto sulle reti sociali. Tra gli economisti critici del franco Cfa sembra essere comunque uno dei rari a rallegrarsene.

Secondo Macron i cambiamenti operati rispondono alle critiche, sempre più numerose, formulate spesso a proposito di questa moneta, creata da Parigi nel 1945. “Il franco Cfa attira numerose critiche sulla Francia. Vedo che la vostra gioventù ci rimprovera una relazione di tipo post-coloniale. Allora molliamo gli ormeggi” ha esortato il presidente francese. In realtà, i legami sono lontani dall’essere recisi, poiché la parità fissa con l’euro è mantenuta e questo vincolo nelle fluttuazioni monetarie è considerato come un grande handicap per le economie africane da parte di numerosi economisti.

La Francia, peraltro, continuerà ad apportare la sua “garanzia”, il che dovrebbe obbligarla a prestare euro ai Paesi dell’Uemoa quando avranno bisogno di divise (garanzia che è stata raramente attivata nel passato). Macron e Ouattara, da sempre un fedele alleato della Francia e un fervente sostenitore del franco Cfa, non hanno offerto alcuna indicazione sulle contropartite richieste da Parigi per assicurare questa garanzia. Hanno semplicemente precisato che un nuovo “accordo di cooperazione monetaria” dovrebbe essere siglato dal ministro francese delle Finanze e dal presidente del consiglio dei ministri dell’Uemoa. Di conseguenza, Parigi resta l’interlocutore privilegiato di quest’ultima. Se l’obiettivo puntava realmente a “mollare gli ormeggi”, si sarebbe potuto immaginare piuttosto un accordo siglato tra la Bcsao e la Bce, la Banca centrale europea.

“L’accordo tra Ouattara e Macron perpetuerà lo stesso sistema sotto una forma ‘rinnovata’”, lamenta l’economista senegalese Demba Moussa Dembélé. Una constatazione condivisa da diversi suoi colleghi tra cui Ndongo Samba Sylla: “Il franco Cfa non è morto. Macron e Ouattara si sono soltanto sbarazzati dei suoi aspetti più polemici. Il cuore del sistema è tuttora in vigore (accordo di cooperazione monetaria con la Francia come ‘garante’; parità fissa con l’euro; politica di repressione monetaria; mantenimento di una zona franca composta dai paesi che commerciano poco tra di loro e che logicamente non dovrebbero condividere una stessa moneta”, ha commentato.

Questa riforma, preparata segretamente dalla Francia e da Ouattara, rimette peraltro in discussione il progetto di moneta unica della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’ovest (Cesao) di cui fanno parte gli stati dell’Uemoa. La Cesao, che comprende 15 Paesi, aveva previsto di lanciare la moneta nel 2020 e anch’essa avrebbe dovuto chiamarsi… “eco”. Quel piano sembrava in effetti mal preparato, in particolare perché i Paesi dell’Uemoa non hanno presentato un piano di divorzio con il Tesoro francese come ha richiesto la Nigeria, potente paese della zona, e che è ancora oggetto di discussione. Rinominando il franco Cfa con la denominazione scelta dalla Cesao, e senza fare riferimento a questo progetto di moneta unica, Macron e Ouattara gettano l’intera zona perlomeno in uno stato di confusione.

L’economista e oppositore ivoriano, Mamadou Koulibaly, si spinge oltre: la riforma del franco Cfa “creerà un cortocircuito della moneta della Cesao”, ha osservato in un testo pubblicato sulle reti sociali, aggiungendo: “Il franco Cfa dell’Africa occidentale è morto, ci dicono, e il suo fantasma aleggerà sull’Eco che noi ci attendevamo dalla Cesao”. È quello che pensa anche Ndongo Samba Sylla secondo il quale “Macron e Ouattara hanno firmato l’atto di decesso del progetto di integrazione monetaria” della Cesao. Quanto all’associazione francese Survie, questa ha dichiarato: l’annuncio di cambiamenti da parte dei due presidenti “permette di recuperare e impedire la riforma di integrazione monetaria dei paesi della Cesao e testimonia piuttosto una volontà di mantenere la dominazione della Francia su questa nuova moneta”.

Emmanuel Macron, che ha comunque dichiarato ad Abidjan come il colonialismo sia stato “una colpa della Repubblica”, farà fatica a ridurre la tensione e la pressione dell’opinione pubblica, minacciando il prosieguo dell’impero monetario francese. Nel passato, la Francia era stata già obbligata diverse volte ad apportare alcune piccole modifiche al funzionamento del sistema Cfa, pressata da qualche dirigente africano. E ogni volta era riuscita a far cessare la contestazione. Ma i tempi sono visibilmente cambiati.

Si pone così la questione dell’avvenire del franco Cfa della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac) che comprende sei Paesi. Finora le “riforme” concernenti l’Uemoa sono sempre state trasferite al franco Cfa della Cemac. I capi di Stato della zona, che hanno anch’essi evocato la necessità di operare dei cambiamenti sulla loro moneta, e che in parte sono schierati per la sua abolizione, accetteranno che si applichi a loro uno scenario simile a quello attualmente realizzato nell’Uemoa?