Kievgate, Trump impiegò 90 minuti per punire Zelensky

Il fuoco dell’impeachment continua a covare sotto la brace dei caminetti di Natale, negli Stati Uniti. Le polemiche ripartono quando si apprende che appena 90 minuti dopo la telefonata del 25 luglio con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Donald Trump ordinò al Pentagono di sospendere gli aiuti militari a Kiev contro l’aggressione russa (391 milioni di dollari). Nella telefonata, che fa da perno all’inchiesta sull’impeachment, Trump chiese a Zelensky “il favore” di aprire un’inchiesta su Joe Biden, suo rivale nella corsa alla Casa Bianca. È l’ennesima “pistola quasi fumante” di questa vicenda, che vede il presidente esibire commenti a lui favorevoli – o, almeno, contrari all’impeachment – del presidente russo Vladimir Putin, mentre twitta raffiche di invettive contro la leader democratica alla Camera Nancy Pelosi, che “viola regole e Costituzione” e “vuole dettare le norme del processo” al Senato. Le nuove rivelazioni innescano, però, ulteriori richieste di testi da parte democratica, testi cui Trump impedì di deporre alla Casera. A dare man forte al presidente, c’è sempre il capogruppo al Senato Mitch McConnell, che alla Fox dice: “Lasciamo perdere le farse”, l’impeachment è un “esercizio politico”; e invita a trattare Trump “come noi nel 1998 abbiamo trattato Bill Clinton”. La messa in moto del processo in Senato resta in stallo, perché la Camera non ha ancora trasmesso le carte del rinvio a giudizio. Dai documenti forniti dal Pentagono al Center for Public Integrity, una Ong che ne aveva fatto richiesta, risulta che un dirigente dell’ufficio budget, poco dopo la telefonata tra Trump e Zelensky, ordinò al Pentagono di sospendere gli aiuti militari a Kiev, chiedendo di trasmettere la richiesta solo a quanti dovevano eseguirla. Intanto, Trump si gode il resort di Mar-a-Lago, in Florida: Natale in famiglia e golf con gli amici.

Khashoggi, cinque impiccati per “ripulire” il regime saudita

Il medico forense dei servizi segreti sauditi, Salah al-Tubaigy, è tra i cinque condannati a morte a Ryad per l’omicidio e la sparizione dei resti del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. L’uomo, che le cimici installate dalle autorità turche all’interno del consolato saudita di Istanbul avevano registrato mentre diceva di “essere abituato a sezionare le salme sentendo musica in cuffia per coprire il rumore della sega elettrica”, dovrà – se la sentenza verrà confermata in appello – pagare con la vita l’esecuzione di un ordine arrivato dall’alto, anzi dall’altissimo, ovvero dal principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Secondo i giudici sauditi, invece, non sono responsabili di questo efferato crimine il vice capo dell’intelligence, Ahmed al-Assiri, accusato dai pubblici ministeri di aver supervisionato l’omicidio, e il magnate dei media della corte reale, Saud al-Qahtani, imputato di essere colui che ha architettato tutto con il figlio del Re saudita. L’escamotage usato dai giudici per assolvere questi ultimi è stato quello di prendere per buona la spiegazione della corte reale saudita secondo cui si è trattata di un’operazione non premeditata e finita male perché Khashoggi si era rifiutato di tornare a Ryad, scortato dagli ufficiali sauditi, per rendere conto delle accuse mosse al regno nei suoi articoli per il Washington Post. Una versione di comodo messa a punto dalle autorità saudite per tentare di coprire ciò che ormai era emerso senza ombra di dubbio grazie alle intercettazioni e alle immagini registrate all’esterno del consolato. Le telecamere di sicurezza mostravano infatti una squadra di 15 uomini, molti noti fedelissimi del principe, arrivata a Istanbul da Ryad con un volo diplomatico la mattina stessa dell’omicidio e ripartita la sera. In seguito, la cerchia ristretta del principe ereditario ha addotto un’altra motivazione: Khashoggi è stato ucciso da ufficiali deviati dei servizi sauditi per distruggere la reputazione del giovane reggente allora impegnato in una campagna mediatica internazionale per aprire il paese al turismo. Nonostante ciò, il vice procuratore generale saudita Shalaan al-Shalaan ha dichiarato: “L’omicidio di Khashoggi non è stato premeditato” e “Qahtani e Assiri non sono stati condannati a causa di prove insufficienti”. Qatani è l’unico a non avere mai partecipato alle udienze e non si sa dove sia, né se sia ancora vivo. Anche Maher Mutreb, un agente dell’intelligence che viaggiava sempre con Bin Salman quando era impegnato in visite di Stato all’estero, e Fahad al-Balawi, un membro della guardia reale, erano tra gli undici processati. Non è chiaro se anche loro siano tra i condannati a morte. La maggior parte delle fonti ha riferito che molti degli accusati si sono difesi affermando che stavano eseguendo gli ordini di Assiri. Secondo la dichiarazione del procuratore, a parte i cinque condannati alla pena capitale, tre dovranno scontare 24 anni di reclusione mentre gli altri sono stati assolti. A esultare per la sentenza è stato il figlio di Khashoggi, Salah, in nome anche dei suoi fratelli: “Oggi ci è stata concessa giustizia in quanto figli del defunto Jamal Khashoggi. Affermiamo la nostra fiducia nella magistratura saudita a tutti i livelli. La correttezza della magistratura si basa su due principi: la giustizia e il contenzioso rapido”, ha aggiunto Salah, l’unico che continua a vivere nel Golfo. Non è dello stesso parere invece la compagna del giornalista ucciso, Hatice Cengiz, che ha definito “inaccettabile” le notizie arrivate dall’Arabia Saudita, e che su Twitter ha lanciato un messaggio: “Non dimenticheremo i tuoi assassini e neanche chi sta cercando di insabbiare il tuo omicidio”.

Così il Mossad divenne popstar

Fino agli anni Duemila, la parola Mossad – l’agenzia di spionaggio israeliano esterno – si doveva pronunciare sommessamente, a mezza bocca. Allora si diceva “Istituto”, Ha Mossad leModìn Ale Takfidim Meyuchadim, significa, appunto, Istituto per l’intelligence e i servizi speciali – e tutti comunque capivano. Il nome e il volto del capo del Mossad erano segreti, sui giornali si poteva solo scrivere Mister M. Missioni frequenti, complesse e soprattutto audaci, hanno fatto dell’Istituto il più preparato e letale apparato di intelligence al mondo, il suo mantra è: “Attraverso l’inganno faremo la guerra”.

Un alone di mistero e intrigo avvolgeva il tutto, allora come oggi, anche se ogni israeliano sa perfettamente come entrare in contatto discretamente con il Mossad. A partire dal 2016, sotto la direzione del ramsad (direttore) Tamir Pardo (2011-2016), il Mossad si è aperto ai media e la sua vena di modernità è diventata ancor più solida. Da anni è presente online con sito web e Facebook, quando per esempio l’MI6 – il Servizio Segreto esterno di Sua maestà la Regina Elisabetta – ancora cercava personale con gli annunci su The Economist o su The Observer. Resta comunque sorprendente – anche in un Paese smaliziato come Israele – che in tempi recenti, il ramsad Yossi Cohen e i massimi esponenti del Mossad e diversi loro agenti, siano diventati ospiti d’onore nelle trasmissioni tv, negli spettacoli investigativi e nei documentari. Per non parlare delle fiction – serie e docufilm con il Mossad protagonista – che sono già state vendute a Netflix per essere trasmesse in tutto il mondo, da Mossad 101 (101 è il numero delle emergenze in Israele) a Red Sea diving Resort o Eli, la storia di Eli Cohen che si infiltrò nel regime siriano negli anni Sessanta.

L’Accademia dell’Istituto è a nord di Tel Aviv – per motivi comprensibili non si può scrivere esattamente dove – un complesso di diversi edifici e antenne che da una torre svettano nel cielo, il cuore della comunicazione riservata. Il suo nickname è “il dito di dio”, dove dio in Israele è sinonimo di Mossad.

“Dio ci ha dato una mano”, diceva Meir Dagan (ramsad 2002-2011) quando i tecnici nucleari saltavano in aria sulle loro auto in Iran. Così convinse il premier Benjamin Netanyahu che si poteva rallentare il progresso nucleare degli ayatollah senza scatenare la terza guerra mondiale con un attacco aereo sugli impianti. Nel 2008 agenti del Mossad hanno ucciso a Damasco Imad Mughniyeh, comandante delle operazioni di Hezbollah. Nel 2010 la “cinematografica” eliminazione di Mahmoud al Mahbuh – armiere di Hamas – in un grande hotel di Dubai con 26 agenti sul campo, dissolti poi nel nulla. Per portare avanti questa guerra il Mossad – che risponde solo al primo ministro – ha sempre bisogno di reclutare agenti, spesso cittadini di altri Paesi in grado di viaggiare senza attirare l’attenzione sono preziosi per l’Istituto. Mohammed Alzoalari – ingegnere esperto di droni e uomo di Hamas a Tunisi – nel 2016 è stato ucciso da due killer bosniaci che non sapevano di lavorare per il Mossad. Perché se negli ultimi anni è cresciuto il budget e il numero agenti, è stato allargato anche quello degli “agenti inconsapevoli” e l’uso di mercenari. I dettagli delle operazioni non possono essere svelati in tv ma gli uomini del Mossad che vanno negli studi dimostrano una rara capacità di raccontare senza violare segreti di Stato. Questi includono la lunga intervista con l’ex capo del Mossad Tamir Pardo, il programma sull’agenzia di Channel 13 e una serie di episodi dell’emittente pubblica Kan Zman Emet (Real Time), che ha tentato di dissipare la nebbia che circonda diverse cover operations.

Poi c’è la mini-serie di documentari di Channel 8, Inside the Mossad, venduta a Netflix e incentrata su un agente e i suoi misfatti clandestini, il popolare programma di Channel 12 Kfulim (False Flag), una miscela familiare: false identità, belle donne e un’aura di mistero. L’ultimo arrivato è Le’einav Bilvad (Solo per i suoi occhi: la politica del Mossad), in onda in Israele quest’anno e il prossimo su Netflix. Questa serie di tre episodi accende i riflettori sulla tensione che c’è sempre stata tra i capi del Mossad e i premier.

Il Mossad è il brand più conosciuto di Israele e allora perché non farne un argomento di prima serata, si sono chiesti i produttori israeliani.

È stato subito successo.

Quei romani violenti che investono pedoni e speronano in libertà

Nulla diremo di una tragedia indicibile, ma ci sia consentito riflettere su quel numero che accanto ai ritratti radiosi di Camilla e Gaia i giornali pubblicano come l’iscrizione di una lapide che dovrebbe spiegare ma non spiega: 43 pedoni uccisi a Roma nell’anno che si chiude. Nella gelida contabilità del dato statistico, l’indice di mortalità cittadino si iscrive nel cimitero nazionale degli omicidi stradali, ci dicono in costante crescita: otto morti al giorno. Ma nel registro dell’umana pietà lo Spoon River che ha avuto Corso Francia come ultimo, ma purtroppo non ultimo cippo, ha incisi volti altrettanto radiosi, colti in quell’istante mentre semplicemente vivevano attraversando una strada.

Non mi occuperò di coloro che in quell’attimo correvano troppo, o che pensavano ad altro, o che erano occupati con lo smartphone, o che avevano bevuto o che erano per altre ragioni fuori controllo: non sono il loro giudice. Ma come cittadino di questa città confesso che ho paura. E non sono il solo. Se siete in auto non vi capita di notare l’espressione riconoscente, quasi stupita di chi sta per attraversare le strisce mentre voi vi fermate a distanza come atto di cortesia e di rispetto per un atto dovuto? E la sollecitudine con cui accelerano il passo come per togliere il fastidio? È un loro diritto, ma ne hanno timore. Quasi una legge gentile del contrappasso rispetto all’atteggiamento intimidatorio, prepotente, di sopraffazione che mi (ci) capita di vivere al volante nelle strade della nostra città. Parlatene con i conducenti dei taxi e condivideranno con voi una legge non scritta di elementare cautela. Se vi tagliano la strada o vi superano a destra o sbucano da un senso vietato evitate di protestare con un colpo di clacson o peggio lampeggiando con i fari. Abbozzate se non volete correre il rischio di essere insultati, speronati, aggrediti da energumeni con gli occhi iniettati di sangue. Non protestare, non discutere, lascia perdere è il consiglio che cerco di dare alle persone che amo.

Non so se Roma sia stata sempre così. Violenta intendo. O forse l’immagine di una città troppo avvelenata col prossimo, troppo presa dai propri guai, troppo intossicata, troppo su di giri per valutare le conseguenze delle proprie azioni è soltanto nei miei timori. Però quelle 43 persone che volevano soltanto attraversare una strada qualcuno le ha travolte. Ma avrebbero potuto anche rallentare, farle passare indenni, scambiare uno sguardo gentile. In un’altra città? In un altro mondo? Forse tutto questo non ha niente a che vedere con Camilla e Gaia. Forse sì.

Il giornalismo becero che emette sentenze e distrugge persone

Ci sono due ragazze giovani, morte dopo una pizza con gli amici e una strada buia da attraversare. C’è un ragazzo giovane, vivo, investito da un giornalismo becero che ha lasciato mezzo morto pure lui. La vicenda di Gaia e Camilla ha molte cose da insegnare, a tutti. Agli adolescenti per cui il rischio è spesso un calcolo sbagliato, per i genitori la cui fiducia nei figli è spesso un calcolo altrettanto sbagliato, per chi scrive, perché quando si maneggiano leggerezze che diventano tragedie e l’incoscienza degli anni più spericolati e presuntuosi, bisognerebbe bagnare la penna nella prudenza. E invece no. Si è assistito a uno scempio inclemente, volgare, sensazionalistico da cui Pietro Genovese, figlio del regista Paolo Genovese, non si riprenderà mai più. Non avrà alcun diritto all’oblio: non glielo concederà il dolore, non glielo concederà la memoria di Google.

Si conosceva ancora poco della dinamica della tragedia di Ponte Milvio, fino a ieri. Si sapeva che Pietro Genovese, 20 anni, sabato sera era alla guida del suo Suv quando, su Corso Francia, aveva travolto due sedicenni che attraversavano la strada. Pioveva, Gaia e Camilla avevano cenato con gli amici in pizzeria, stavano tornando a casa. Secondo alcuni testimoni avevano scavalcato il guardrail per attraversare lontano dalle strisce, mentre il semaforo era verde. Pietro non le avrebbe viste, era buio, pioveva, su Corso Francia non ti aspetti pedoni in mezzo alla corsia. C’è chi dice, invece, che le due avevano attraversato sulle strisce, che Pietro andava veloce, che quella strada è troppo buia, che lì si corre come pazzi, che tanti passano col rosso, che Pietro forse non era così lucido. La verità è che della dinamica dell’incidente non ci sono certezze, ma la morbosità e il sospetto – quelli sì – corrono veloci, passano col rosso, se ne infischiano della pioggia e della visibilità ridotta. Quando è venuto fuori che il ragazzo era positivo ai test di droga e alcol si è subito cucito il titolo “Autista drogato” per evocare l’immagine di un tizio strafatto, senza neppure sapere se si fosse fatto mezza canna o si fosse sniffato un grammo di cocaina. Senza sapere se la droga e l’alcol (1,4 il tasso alcolemico rilevato) fossero stati la causa dell’incidente o un fatto serio, certo, ma slegato dall’evento tragico. Perché nessuno lo dice, ma se davvero le due ragazze hanno attraversato col rosso, tutti gli automobilisti che transitavano su Corso Francia in quel momento hanno rischiato di morire. Per schivarle, per un tamponamento, per un palo. Anche Pietro. Oggi potrebbero essere loro due quelle sopravvissute e Pietro o chi passava di lì con la macchina, quelli morti. E oggi la gogna spetterebbe a loro, a due giovani ragazze colpevoli di una catastrofica leggerezza. Comunque sia andata (e non lo sappiamo), non ci sono vivi e morti, in questa storia, ma morti e sopravvissuti. Alla tragedia, alla crudeltà della stampa. Qualcuno ha intitolato “Pietro Genovese ha il morbo di Crohn” o “Morbo di Crohn, cos’è la malattia di cui soffre Pietro Genovese”, come se ci fosse qualche nesso tra un incidente stradale e un’infiammazione cronica dell’apparato digerente. Qualcuno ha titolato “Il terribile dramma del papà di Gaia. Riconosce la figlia sulla sedia a rotelle” e a seguire la foto del papà di Gaia sulla sedia a rotelle con la didascalia “Dal 2011 è ridotto così dopo un incidente”. Qualcuno, come sottolinea Gisella Ruccia del Fatto sui social, ha addirittura fatto “un blobbino” con i video di Gaia su Tik Tok e le immagini su Fb del padre invalido, tanto per rimarcare il concetto di sfiga, di karma ingiusto che si abbatte sugli innocenti, che tanto coinvolge, tanto commuove. E poi un altro titolo con foto del colpevole già processato e condannato da certa stampa: “Ecco chi è Pietro, il ragazzo che HA UCCISO Gaia e Camilla”, dando per scontato, tra l’altro, che le abbia uccise lui e non chi le ha investite successivamente, altra ipotesi riportata più volte sui giornali. E poi le dichiarazioni tagliate, in malafede, da altri giornali ancora, per confezionare il titolo: “Se sono morte è colpa loro”, frase cinica e feroce che avrebbe scritto l’insensibile sorella di Pietro Genovese sui social. Frase che invece, senza cesure a effetto, è: “Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita, ma non accusate se non sapete come sono andate le cose. La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada con le macchine che sfrecciavano”. E poi il marasma di giudizi sui social di chi pensa di avere figli immacolati e responsabili magari dimenticando di essere stato un figlio poco immacolato e poco responsabile, di chi si ritiene un genitore più capace, di chi “a me non succederebbe mai”. Dimenticando che forse Gaia, Camilla e Pietro non erano due irresponsabili e un delinquente. Forse le due ragazze e Pietro, parafrasando il titolo del film più famoso di Genovese padre, erano solo “perfetti sconosciuti” inciampati insieme, in una notte buia, nell’età più imperfetta che c’è.

Investite solo da Genovese, il tasso alcolemico era all’1,4

Gaia e Camilla stavano correndo mano nella mano, spaventate, per evitare di essere investite dalla Renault Koleos di Pietro Genovese. Impatto che le ha uccise sul colpo, sfondando loro il cranio, come ha stabilito l’autopsia eseguita ieri pomeriggio all’istituto di Medicina legale dell’Università Sapienza. Il 20enne deejay resta, dunque, l’unico indagato per il tragico investimento delle due 16enni morte sabato notte in Corso Francia a Roma.

Dagli esami sui corpi delle due adolescenti, infatti, non ci sono segni del passaggio di altre auto, come sostenevano alcuni dei testimoni che hanno assistito alla scena. I primi esami sul sangue dell’automobilista, invece, hanno rilevato la presenza di un tasso alcolemico pari a 1.4, quasi tre volte superiore allo 0.5 consentito solo per chi possiede la patente da tre anni. Soprattutto, il ragazzo è risultato “non negativo a varie sostanze stupefacenti”: se i test di secondo livello, i cui risultati sono attesi più avanti, confermeranno il mix alcol-droga, per Genovese potrebbe scattare l’arresto. “Adesso non ho ragioni per andare avanti, lei era la mia forza dopo l’incidente che avevo subito”, ha detto il papà di Gaia, da tempo costretto sulla sedia a rotelle. “Voglio giustizia, non vendetta”, ha fatto sapere la mamma di Camilla.

Genovese, figlio del regista Paolo, rischia l’incriminazione per omicidio stradale, rischia in teoria fino a 18 anni. Fra le possibili attenuanti, al momento, il fatto che Gaia e Camilla stessero attraversando a circa 35 metri dalle strisce pedonali, con – a quanto pare – il verde a favore degli automobilisti e in una condizione di scarsa visibilità. Resta il tema dell’assunzione di alcol e droga: il ragazzo aveva subito segnalazioni in tre occasioni dal 2017 a oggi e gli era già stata ritirata una volta la patente, solo il 1 ° ottobre scorso. Non è chiaro come abbia fatto a riottenerla così in fretta, considerando che normativa prevede la sospensione di almeno tre mesi.

Al Goa Club, la discoteca dell’Ostiense dove ogni giovedì Pietro era fra gli animatori della serata Goaultrabeat, lo descrivono tutti come “un ragazzo con la testa a posto”. “Non mi ha mai dato l’idea di essere uno scapestrato”, spiega al Fatto Giancarlo Battafarano, noto come ‘Giancarlino dj’, titolare del Goa: “Lo ritengo un ragazzo con la testa sulle spalle, mai sopra le righe. Noi ci stiamo attenti su queste cose, ne ho viste tante in vita mia. Vuole fare il deejay e il produttore musicale, si era anche iscritto a scuola di pianoforte. È una tragedia terribile che ha distrutto tre famiglie”.

Fabio Fazio e il miracolo dell’ospite sbucciapatate

Ogni volta in cui incappo in Fabio Fazio impegnato in un tête-à-tête con i suoi tradizionali ospiti, per la maggior parte con l’obbligo del Caschetto, oltreché con quanti presentano un film, un disco o un programma stupendo a Che tempo che fa (altrimenti non sarebbero stati invitati a Che tempo che fa), ogni volta che questo accade penso di avere sbagliato canale. E invece no, è lui ad aver cambiato rete, a conferma di un fenomeno socio-mediatico degno di attenzione. Nel romanzo Il narratore ambulante Mario Vargas Llosa celebra il popolo amazzonico dei machiguenga, condannato a camminare per evitare che il sole sprofondi, un po’ come Fazio (solo che al posto del sole c’è il suo contratto). Ma il ricordo più profondo corre alla fiera di Santa Croce della mia città, quando in piazza arrivavano i venditori ambulanti. “Non uno, non due, non dieci, ma 24 piatti di porcellana, servito completo, in omaggio c’è anche lo sbucciapatate. E buon Natale a tutte”. Le massaie facevano capannello, stregate, e anche se in casa c’erano già due serviti di 24 piatti di porcellana, compravano il terzo. Quei venditori ambulanti sono quasi spariti, ma resiste in video il conduttore ambulante Fazio, costretto di anno in anno a traslocare su una rete diversa, ora comandato su Rai2 per editto salviniano, costretto a portarsi dietro la Littizzetto, la vasca coi pesci rossi e i suoi serviti completi di invitati fissi. “Non uno non due, non dieci, ma 24 stupendi ospiti. E buon Natale a tutti”.

I berluscorenziani e la barzelletta del finto garantismo

Come molti sanno, l’unica funzione nell’ecosistema del partito ossimoro Italia Viva è quella di mettere i bastoni tra le ruote al governo Mazinga, “voluto” peraltro proprio da Renzi (e Grillo), aprendo così le porte al peggiore destra-destra-centro d’Europa. Le fibrillazioni in seno al governo sono quasi tutte firmate Renzi. Le ultime riguardano la revoca delle concessioni autostradali, in nome di quella cosa serissima (il garantismo) trasformata dai berluscorenziani in barzelletta. Non male anche Lucianone Nobili, che quando c’è da urlare a caso è sempre in prima fila. Ascoltiamolo: “Un’azienda dà 60 mila euro a Open: perquisizioni, accuse, aperture dei Tg. La stessa azienda ne dà poi 600 mila a Casaleggio e 240 mila al blog di Grillo. Tutti zitti: media proni, giudici silenti”. Allude alle notizie (Corriere della Sera) sui finanziamenti della società Moby a Casaleggio e al blog di Beppe Grillo. La società Moby di Onorato avrebbe cercato sponde non solo appoggiando Renzi e finanziando la fondazione Open, ma versando pure denaro per sostenere il blog dell’ex comico e la Casaleggio Associati.

È ovvio che questa strategia è stata finemente pensata dalla Diversamente Lince di Rignano. Cosa ha fatto, dalla nascita del Conte II a oggi, Matteo Renzi? E cosa ha ottenuto? Breve riassunto.

Renzi si è sempre messo di traverso quando il governo poteva fare qualcosa di buono (revoca concessioni, lotta all’evasione, no al bavaglio, sì al processo a Salvini sulla Gregoretti, stop alla prescrizione); è stato travolto dal caso Fondazione Open; secondo l’ultimo numero dell’Espresso, Renzi ha potuto restituire il prestito di 700 mila euro (per la nuova casa) grazie al manager Lucio Presta, che gli avrebbe dato 500 mila euro come compenso per il documentario su Firenze andato in onda su Discovery nel 2018. Solo che Discovery, a Presta, per quel programma avrebbe dato 20 mila euro. Perché allora quei 480 mila euro di disavanzo? Renzi ha poi ritardato la Sugar Tax, tassa sacrosanta e giustissima, spacciando peraltro una lieve dilazione nel tempo per vittoria politica campale; in questi mesi è diventato definitivamente il clone di Johnny Pappagorgia; ha deciso di emulare Salvini nella comunicazione “guastatrice” sui social, creandosi pure lui una Bestia; si è ridotto, pur di inseguire il Cazzaro Verde, a fare gli stessi post sulla Nutella; ha detto a Conte che deve trasformarsi in Super Pippo (sic); ha vomitato un discorso al Senato in cui è riuscito a ricordare il peggior Craxi, infarcendo il delirante monologo di errori storici marchiani (per esempio su Moro e Leone); secondo Minzolini e non solo lui, sta pensando a un governo Salvirenzi che costituirebbe per distacco l’Armageddon della politica mondiale; ha usato il caso Banca Popolare di Bari per prendersi rivincite puerili e patetiche, dimostrando con ciò di essere ancora fermo a quel giorno meraviglioso che fu il 4 dicembre 2016, quando l’Italia si salvò e lui perse il treno della vita; ha usato ricorrenze importanti, tipo i 70 anni di Springsteen, per parlare di se stesso (mitologico il tweet in cui ha sostenuto che il Boss, quando venne a Firenze, salutò lui e non viceversa. Come se il famoso tra i due fosse Renzi); ha deciso di querelare tutti e bastonare mediaticamente tutta quella parte di magistratura e giornalismo che non gli va a genio, ribadendo la sua natura politica di figlio ripetente di Berlusconi.

Grazie a tutto questo, Renzi è diventato il politico più detestato dagli italiani. E nei sondaggi fatica a stare sopra il 4 per cento. Insomma, il solito trionfo. Daje Matte’.

Il folle volo del “Colibrì” sul “Corsera”

“Il suo destino è il volo”: così dice l’incipit di un articolo del Corriere della Sera dedicato al libro di Sandro Veronesi Il Colibrì (La Nave di Teseo), Colibrì vincitore del premio “Libro dell’anno” assegnato dalla giuria di qualità dell’inserto la Lettura, la Lettura che in estate ha ospitato in anteprima le prime pagine del Colibrì. In effetti ci era sembrato che fosse uscito un libro a firma di Sandro Veronesi intitolato Il Colibrì.

Il 21 ottobre, tre giorni prima dell’uscita, sul Corriere c’era La forza eroica di un colibrì contro il destino; due giorni dopo, Veronesi spiega il colibrì; sulle pagine di Milano, c’è Veronesi e il volo del colibrì; indi segue l’articolo L’equilibrista di Veronesi; il 25 Antonio D’Orrico riferisce della videointervista web a Veronesi: Il mio Colibrì non mi assomiglia; il 30 veniamo informati che c’è Il Colibrì di Veronesi oggi a Firenze; il 2 novembre Alessandro Piperno spiega: Ecco cosa ho imparato leggendo il Colibrì (con foto di Veronesi e didascalia “Intenso”); il 7, Il “colibrì” di Veronesi apre il Fla Festival (e sabato vola a Pisa); il 10 su Corsera Roma c’è l’eterodosso titolo Sandro Veronesi e il suo “Colibrì”; il 13 si dà una notizia: Veronesi firma il Colibrì; il 14, Haber, Smutniak e Virzì per il nuovo libro di Veronesi; il 16, Nesi dialoga sull’ombra, ma c’è anche Il Colibrì; il 18 novembre, nell’articolo La poesia può guarire molte ferite, si ricorda che “lo scrittore è da poco di nuovo in libreria con Il colibrì”; il 22, si dà conto che Sandro Veronesi è a Nuoro e Sassari; il 24, Pierluigi Battista firma il pezzo La legge del Colibrì: sono ciò che vedo; seguono citazioni sparse e notizie di eventi trochilidi (la famiglia del colibrì) fino al 14 dicembre, quando il Corriere esulta: Il Colibrì di Veronesi è il libro del 2019, concetto ribadito il giorno dopo nel pezzo Le tre rivoluzioni de “la Lettura” e i campioni della sua Classifica; mentre un articolo della medesima “la Lettura” titola Vola più alto il colibrì, seguito dal leggermente ridondante La poetica del colibrì. Gli antieroi di Veronesi; nella stessa pagina, D’Orrico assegna la sua pagella: Il Pallone d’oro della letteratura, a chi?, a Veronesi, per Il Colibrì (“Il colibrì è un romanzo fuoriclasse. E non c’è altro da aggiungere”, anche perché mi sa che è stato detto tutto); ma il 16, il bravo Giuseppe Antonelli firma il pezzo Piccole Ali e grandi alibi. Così ci parla “Il colibrì”. A costo di sembrare intempestivi, dopo qualcosa come 43 articoli, ci sentiamo di affermare che Veronesi ha pubblicato un romanzo che si chiama Il colibrì.

Finora solo Urbano Cairo poteva contare tante occorrenze sui giornali di Urbano Cairo. Persino i libri di Vespa sono sponsorizzati con più parsimonia, per di più a reti unificate e non su un canale solo, così con un po’ di fortuna c’è probabilità che si riesca a schivare qualche lancio, o addirittura tutti i lanci. Ovvio che questo non è il libro di Vespa ma un capolavoro (lo dice D’Orrico, secondo il quale Luciano Ligabue è “il Raymond Carver italiano”), capace di mangiarsi in un sol boccone tutti i competitor della fauna ornitologica mondiale, dal gabbiano di Cechov al piccione di Suskind al cardellino di Donna Tartt, per non parlare dei futuri passeracei che visto il successo editoriale ne discenderanno per li rami, intesi non in senso metaforico. Il suo destino sarà pure il volo, ma per ora è inchiodato alle pagine del Corriere e limitrofi, praticamente ormai numeri monografici, una campagna più martellante di quella per il “Dantedì” a cui si aggiunge la stalkeristica via mail, sms, WhatsApp, Facebook, Instagram e Twitter, così pressante che a malincuore decidiamo per l’uccellino di Veronesi, già lanciatissimo verso il cinema, il destino ornitologico previsto da Giorgio Manganelli per i libri troppo (ben) recensiti: finire impallinati dalle recensioni e dalla massima di Scheiwiller: “Non l’ho letto e non m’è piaciuto”.

Che Natale è con la Denatalità?

Nell’omelia di domenica, papa Francesco ha ricordato che il Natale “è la festa della famiglia”. Peccato che la famiglia non esista più.

Dagli anni Cinquanta in Occidente e nei Paesi che hanno adottato il suo modello di sviluppo siamo sotto il cosiddetto “livello di sostituzione”, quel 2,1 di fertilità per donna che consente che la popolazione rimanga stabile. In Portogallo il tasso di fertilità per donna è dell’1,2, in Germania 1,5, in Canada 1,6, a Singapore 1,2, a Hong Kong 1,3, in Giappone 1,5, in Corea del Sud 0,89, a Taiwan 1,2 e in Italia, che occupa il terzultimo posto in questa classifica sinistra, è dell’1,3.

Le ragioni di questa infertilità sono così numerose che non è possibile metterle tutte a fuoco in questa sede.

Ne citiamo alcune: economiche, psicologiche, sociali. Più è alto il livello di istruzione più è bassa la fertilità. Le donne, avendo raggiunto, in linea di massima, la sacrosanta parità dei diritti, riluttano a far figli abbandonando la funzione antropologica di madri. Convinte dalla scienza medica che tutto è possibile, rimandano l’età del concepimento verso i quarant’anni. Ma avere il primo figlio a quell’età non è facile, ancora più difficile è seguirlo a meno che non si sia così ricchi da avere un esercito di “tate”.

Più in generale in Occidente non siamo più capaci di soffrire e quindi di affrontare quelli che i filosofi chiamano “i nuclei tragici dell’esistenza”: il dolore, la vecchiaia, la morte.

Premesso che in una società individualista qual è la nostra ognuno è libero di fare della propria vita ciò che più gli aggrada, tutto ciò che abbiamo fin qui cercato di descrivere ha delle pesanti conseguenze sociali ed economiche.

Sociali. Nei Paesi che abbiamo citato c’è, se non la maggioranza, un numero molto consistente di vecchi. Cesare Musatti, lo psicologo, a più di novant’anni e quindi al di sopra di ogni sospetto, diceva: “Vivere in un mondo di vecchi mi sembrerebbe spaventoso”.

Economiche. Non è lontano il tempo in cui il numero dei giovani non sarà più in grado di sostenere le pensioni dei vecchi e questo è un problema che, come noto, assilla anche l’Italia. La vita si è allungata troppo. È uno degli effetti “paradossi” della Ragione o, se si vuole, della Scienza, come quelle medicine che intendendo curare una malattia la aggravano. A titolo di consolazione, sui media, si fa gran parlare di vecchiaie estreme in buona salute come quella di Gillo Dorfles in piena lucidità fino ai suoi centosette anni. Ma questi sono casi eccezionali. Nella norma i vecchi non sono autosufficienti e ricadono sulla testa dei figli stretti nella morsa fra l’affetto per i genitori e un accudimento che gli rende la vita impossibile o quasi.

Scriveva Max Weber ne Il lavoro intellettuale come professione che è del 1919: “Il presupposto generale della medicina moderna è – in parole povere – che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita e della riduzione al minimo del dolore. E ciò è problematico… La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”.

A petto della situazione dei Paesi occidentali od occidentalizzati quella dei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” è la seguente: Nigeria, tasso di fertilità 5,4 per donna, Mali 5,9, Ciad 5,8, Burkina Faso 5,2, Niger 7,2. In Medio Oriente il tasso di fertilità è mediamente del 2,5.

La popolazione di quella che era, prima che la distruggessimo, l’Africa Nera è di 720 milioni di abitanti, escludendo il Sudafrica che ha una storia a sé. Basta che un numero non dico rilevante, ma consistente, di queste persone che abbiamo ridotto alla fame si sposti verso l’Europa e non basteranno i cannoni di Salvini, o di tutti i Salvini, per respingerla. Nonostante tutta la nostra sofisticata tecnologia saremo sommersi. Per una questione che più che con la fisica ha a che fare con la matematica.

Quindi il mio augurio per gli anni a venire è che il Natale, già ridotto da tempo a un fenomeno di consumo nevrotico privo di alcuna spiritualità, torni perlomeno a essere veramente “una festa della famiglia”. Numerosa.