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Politica e criminalità unite vogliono cittadini ricattabili

È finalmente chiaro, a fronte di una certificazione giudiziaria (ammesso ce ne fosse bisogno), cosa intendono certi politici quando affermano che la politica “costa”.

È vero, per comprare voti serve tantissimo denaro. A questo punto bisognerebbe ammettere che il nostro Paese, fra i più industrializzati al mondo, è anche tra i più arretrati civicamente, perché se è vero che qualcuno compra voti, è altrettanto vero che qualcun altro li vende. E un popolo che dà il proprio voto al miglior offerente non avrà mai un futuro.

Ma l’aspetto più triste di questa constatazione riguarda la politica, che dovrebbe costituire un esempio di estraneità a ogni speculazione. Al contrario, dal dopoguerra fino ai giorni nostri, le classi dirigenti hanno strategicamente e meschinamente puntato ad accaparrarsi voti in forma clientelare, fino a scendere a scellerati patti Stato-mafia. Lo hanno fatto sfruttando parte del Paese, mantenendovi ad arte condizioni di perenne bisogno e povertà, ottenendo così un costante ed enorme trasferimento di denaro – teoricamente destinato a crescita e infrastrutture del Mezzogiorno – che è finito a foraggiare losche organizzazioni, le quali a loro volta possono mettere a disposizione molti voti resi “comprabili” proprio da infrastrutture incompiute e sviluppo carente. Un circolo vizioso perfettamente funzionale agli interessi di pochi e criminalmente inferto al Paese tutto. Ma, forse, supini e colpevoli di questa decadenza civile, lo siamo un po’ tutti.

Giovanni Marini

 

Su Gratteri la conferma: non tutti i giornali sono uguali

Mi domando se il silenzio della stampa di oggi verso Nicola Gratteri è lo stesso “silenzio” che fu riservato a Falcone e Borsellino. Onore al Fatto Quotidiano, devo riconoscere, anche se a volte non condivido delle posizioni, che è l’unico giornale libero davvero e onesto intellettualmente! La stampa non è tutta uguale, non è tutto un copia e incolla. Bisogna saper distinguere.

Ancora esiste la libertà di stampa, seppur limitata, ma esiste.

Grazie Marco Travaglio, grazie al Fatto.

Francesco Bellusci

 

La connivenza dei partiti con le mafie è palese

Non c’è niente da fare. Ci riprovano sempre. Qualcuno viene preso con le mani nel sacco, a tentare una porcata a vantaggio di interessi più o meno loschi, ed ecco che altri provano a piazzare un altro colpo.

Nemmeno la drammaticità della situazione ferma i complici dei gruppi d’affari più disparati e gli intrallazzi di sempre. Chi tifa per il Mose e il Tav (con i gruppi criminali calabresi che si fregano le mani), chi ha a cuore le sorti dei produttori di plastiche monouso, chi capisce le ragioni delle multinazionali del petrolio o del glifosato. Il clima può impazzire, l’Italia può essere in agonia, i disoccupati e disperati possono moltiplicarsi, ma gli sciacalli che usano le istituzioni per sgraffignare denaro pubblico, o distribuirlo a sodali e amici, non demordono, senza vergogna o pietà.

Gli arresti si susseguono dalla Sicilia alla Val d’Aosta, come l’indegnità di questa classe politica senza speranza. La connivenza dei partiti in queste azioni banditesche è palese, perché, se è un singolo a proporre, gli altri appoggiano. Parlano di recupero della loro credibilità ma continuano ad infierire, imperterriti e impuniti, sulla pelle della gente. Costretti a ingoiare le proposte di Bonafede, continuano a minacciare sfracelli per la riforma della prescrizione, il salvagente che ha garantito spesso la loro l’impunità. Si può pensarla come si vuole, ma i fatti dicono che senza quei “rompiscatole” dei 5 Stelle, tutto filerebbe liscio e il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica sarebbe solo nei nomi dei protagonisti, non nella sostanza delle azioni.

Mario Frattarelli

 

Sistemare la Salaria serve a far vivere ancora Amatrice

Buongiorno, sono un lettore del fine settimana del Fatto, quando ho tempo di leggerlo e quindi lo compro volentieri.

Ho letto l’articolo del 21 dicembre riguardo la posa della prima pietra del “Polifunzionale”, un “fatto” concreto frutto della solidarietà e del fare squadra, che in questi territori martoriati dal terremoto è eccezione che conferma la regola del “soli contro tutti”. Un centro di aggregazione con cinema, teatro, caffè letterario, un foyer e un presidio della Croce Rossa per i cittadini di Amatrice, che possa portare anche persone da fuori – come i cittadini di Rieti e di Ascoli, le più “grandi” città vicine ad Amatrice – a eventi culturali di livello nazionale. È una bella notizia sotto l’albero.

Vorrei proporre alla redazione del Fatto, per quest’occasione, di focalizzare l’attenzione sui collegamenti stradali di Amatrice e lo stato della Salaria, che aspetta da oltre 50 anni interventi seri per passare da mulattiera a superstrada, per collegare il Tirreno all’Adriatico nel tratto più stretto del Centro Italia e con l’altimetria più dolce e coerente per il transito di perone e cose. Lo segnalo perché senza efficienti infrastrutture non c’è una buona circolazione, base per la rinascita economica e di vita di relazione in questi territori.

Stefano Marozzi

Sarri. La Grande Bruttezza della Juve, figlia di un allenatore sopravvalutato

Gentile redazione, non sono una esperta di calcio, ma ho proprio la sensazione, ascoltando i miei amici, che la Juventus di Sarri sia un po’ un flop: non solo ha perso la Supercoppa contro la Lazio e non riesce a staccare l’Inter in campionato, ma è una squadra noiosa e anonima. Di lei si parla solo per gli atletismi, i gol e le sceneggiate di Ronaldo, nient’altro. Ma tutti gli altri, allenatore in testa, che fanno?

Gentile Anna, io comincerei dicendo che la Juve di Sarri è proprio brutta. Il problema, a mio giudizio, è che qui ci troviamo di fronte a uno degli allenatori più sopravvalutati dell’ultimo lustro e che ha sempre goduto di una stampa benevola e mai critica, completamente cieca sulle sue lacune. In realtà, bastava seguire il famoso Napoli della Grande Bellezza sarrita, e che non ha mai vinto nulla detto per inciso, per comprendere i tanti difetti del tecnico toscano, che a Torino è arrivato finanche a mettere in discussione Cristiano. Del resto, la stessa Juve quest’estate aveva come prima scelta per il post-Allegri lo spagnolo Guardiola e quando questa ipotesi è sfumata, dopo un tormentone di settimane, l’alternativa a Sarri era Simone Inzaghi, l’allenatore cioè che ha battuto la Juve in Arabia per la Supercoppa italiana. Come a Napoli – dove il dogma degli undici titolarissimi si è dimostrato alla fine il più grosso limite per vincere lo scudetto – il problema principale di Sarri è quello di non sapere gestire la rosa dei giocatori a disposizione. Non solo, trovo addirittura paradossale una frase del tecnico di qualche tempo fa: “La Juve non giocherà mai come il mio Napoli”. Che vuol dire, che Higuain, Dybala, CR7, Bonucci, De Ligt, Matuidi, Pjanic, cioè fior di top player, non sono in grado di applicare gli schemi sarriti come i vari Callejon, Mertens, Insigne, eccetera eccetera? Ecco il punto, gentile Anna: il sarrismo non è di facile esecuzione, ha bisogno di interpreti fedeli e diligenti e forse a Torino alcuni giocatori non hanno preso sul serio l’allenatore. Senza dimenticare che il tecnico toscano era stato ingaggiato proprio per questo: fare dei bianconeri una squadra bella ancorché vincente dopo la brusca chiusura dell’era di Allegri, grandissimo allenatore giudicato però “risultatista”. Poi, tutto può ancora accadere, e la Juve è certamente in corsa per scudetto e Champions. Ma per il momento, nel club più blasonato d’Italia, Sarri è solo l’artefice della Grande Bruttezza.

La spaghettata rossoazzurra

La spaghettataè bipartisan, le forchette sono quelle del governatore Pd Vincenzo De Luca e del capogruppo di Forza Italia Armando Cesaro: l’ultima finanziaria della Regione Campania prima delle elezioni sancisce il mini accordo nel nome di un’eccellenza alimentare campana e mondiale, la pasta di Gragnano. Il ‘patto della dieta mediterranea’ rossoazzurro è contenuto all’articolo 16 del maxi-emendamento alla legge di stabilità regionale sul quale De Luca e la maggioranza di centrosinistra hanno posto la fiducia: l’istituzione del premio ‘Gragnano Città della Pasta Igp’, per il quale si stanziano 150.000 euro all’anno dal 2020 al 2022, affidandone la realizzazione al Comune di Gragnano. La fiducia blinda il testo di tutte le 11 pagine dell’emendamento, che salvo sorprese oggi verrà approvato in blocco. E che il premio Pasta di Gragnano stia a cuore non solo a De Luca, ma anche a Cesaro, lo disvela un comunicato del presidente del consiglio comunale di Gragnano, Aniello D’Auria: “Siamo grati all’amico Cesaro, la proposta è sua, un intervento di marketing territoriale che ci farà conoscere ancora di più a livello internazionale per consacrarci capitale enogastronomica mondiale. Ci stiamo lavorando da un paio d’anni”.

L’Italia criminale nei dati della Finanza: sequestrati 18 miliardi, specie al Nord

Vale più dell’un per cento del Pil nazionale la somma dei sequestri eseguiti dalla Guardia di Finanza negli ultimi cinque anni: 18 miliardi di euro tra beni mobili e immobili, di cui sette confiscati in maniera definitiva, sottratti alla criminalità organizzata. Oltre 10.000 accertamenti dal 2015 a oggi, in tutta Italia, e investigazioni patrimoniali nei confronti di 55 mila soggetti: un numero pari agli abitanti di Sanremo o Anzio.

Nel report delle Fiamme Gialle viene evidenziato come la ‘ndrangheta primeggi per sequestri e confische, quasi 4 miliardi spalmati nel quinquennio. Segue la Camorra con 2 miliardi e 300mila euro e Cosa Nostra con poco meno. Tra i principali fattori di diffusione della criminalità economico-finanziaria, spiegano i finanzieri, “la globalizzazione, l’integrazione e la de-materializzazione dei mercati. La crescente interdipendenza tra mondo degli affari, sistemi finanziari, bancari e assicurativi, unitamente alla loro dimensione digitalizzata, hanno offerto nuove e più ampie opportunità alle organizzazioni criminali per diversificare i propri interessi illeciti”.

Al centro degli interessi non c’è più (solo) il Sud, la maggior parte delle attività dei militari si è svolta tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Ennesimo segnale dello spostamento delle mafie laddove il tessuto socio economico è più forte e ricco. Spicca il Piemonte, dove le proposte di sequestro avanzate dal Corpo sono quasi quadruplicate tra il 2017 ed il 2019: “Nessun territorio può considerarsi immune da potenziali infiltrazioni criminali, in ragione di una crescente presenza pervasiva dei clan e di trame relazionali sempre più fitte soprattutto con gli apparati pubblici ed imprenditoriali. Riprova ne sono gli scioglimenti dei consigli comunali nel nord avvenuti negli ultimi anni e i preoccupanti episodi di corruzione riscontrati in seno alla pubblica amministrazione, che hanno consentito di contribuire in maniera determinante al successo delle organizzazioni criminali, soprattutto al di fuori dei propri contesti tradizionali”.

Secondo i dati raccolti da Open Polis nel corso del triennio 2017-2019 sono stati sciolti, al 25 novembre, 463 Comuni di cui 58 per infiltrazioni della criminalità organizzata. Sono invece 109 gli scioglimenti in corso già deliberati dal governo o dagli organi competenti delle regioni a statuto speciale.

Lavoro, contratto per 28 mila dopo l’avvio del Reddito

Ancora pochi posti creati e molto precari. Ma c’è un primo segnale incoraggiante che riguarda il Reddito di cittadinanza e viene dal versante lavoro. Il numero di beneficiari che hanno trovato un impiego è aumentato a un ritmo più elevato negli ultimi due mesi, da quando si sono messi in moto i centri per l’impiego. Mentre i contratti attivati tra fine aprile e il 21 ottobre erano stati meno di 18 mila, al 10 dicembre hanno raggiunto quota 28.763 (più 63,6%). Le Regioni con più posti creati sono, in ordine, Sicilia, Campania, Puglia, Lombardia e Lazio. Cifre ancora irrisorie, ma sembrano aver dato una piccola accelerata ora che i navigator sono operativi ovunque. In gran parte sono rapporti precari: il 67% è a tempo determinato e il 3,4% sono tirocini, mentre il 18% è a tempo indeterminato e il 3,8% apprendistato. Proporzioni grossomodo simili a quelle che vediamo per la totalità della popolazione: in pratica, non sembra che i percettori del reddito di cittadinanza siano, rispetto alla media, più esposti al rischio di trovare contratti di bassa qualità.

Il report diffuso ieri dall’Anpal conferma quanto anticipato dal Fatto il 20 dicembre, cioè che le Regioni non sono riuscite a centrare l’obiettivo fissato a luglio: prendere in carico, entro il 15 dicembre, tutti i primi 710 mila beneficiari “avviabili” al lavoro (nel frattempo diventati 791 mila). Sono a circa metà dell’opera, perché ne hanno convocati 423 mila e quelli presenti al colloquio sono stati poco meno di 332 mila. I patti per il lavoro firmati sono 220.430. Nel Lazio sono stati convocati tutti. In Toscana, Emilia Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte e Abruzzo ne mancano una manciata. Sono però Regioni con un basso numero di beneficiari da prendere in carico. Tra quelle più piene, la Sicilia ne ha chiamati 111 mila su 182 mila, la Campania (dove i navigator sono arrivati pochi giorni fa) 69 mila su 210 mila, la Puglia 51 mila su 71 mila. Appena 10 mila su 70 mila in Calabria. La Lombardia ha convocato 10 mila persone su 61 mila ma, avendo aderito ad altre politiche attive regionali, i beneficiari di reddito di cittadinanza con un patto di servizio attivo sono 13 mila.

Gonfiato il valore delle fusioni: così si falsavano i bilanci

Nel dicembre del 2018, quando l’accusa di falso in bilancio è già stata notificata ai vertici della Banca Popolare di Bari, è proprio il bilancio a cambiare radicalmente in alcuni aspetti. E non si tratta di aspetti secondari. Si scopre che non c’è solo Tercas, la malandata banca abruzzese ingoiata dalla Popolare di Bari, peraltro su indicazione di Bankitalia, a essere stata valutata in maniera scorretta. È noto sin dal 2017 che Marco e Luigi Jacobini, i patron della Popolare di Bari, insieme con Vincenzo De Bustis Figarola, sono indagati dalla Procura di Bari – inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e condotta dalla Guardia di finanza – con l’accusa di false comunicazioni sociali. E così, analizzando i bilanci si scopre che proprio nel 2018, quando la Procura ha già scoperto alcune carte e acceso i fari sulla banca, avvengono delle variazioni interessanti. La parola chiave di questa storia è “avviamento”.

L’avviamento non è un “bene” del patrimonio aziendale. Non è qualcosa di materiale. È una qualità dell’azienda: è la sua propensione a generare, in futuro, dei redditi superiori. Ed è, proprio in quanto immateriale, una qualità soggetta a valutazione. L’avviamento della Cassa di Risparmio di Orvieto, quindi la sua capacità di produrre redditi futuri, nel 2014 era stimata in almeno 69 milioni di euro. Poi improvvisamente, nel 2018, la Cassa di Risparmio di Orvieto si rivela ben altro: il suo “avviamento” viene svalutato integralmente. Va sottolineato: “Integralmente”. “L’analisi condotta – si legge nel bilancio – ha evidenziato un valore d’uso dell’avviamento allocato alla Cgu “Cr Orvieto” inferiore rispetto al suo valore contabile, determinando, pertanto, la svalutazione integrale dell’avviamento medesimo (euro 30,7 milioni)”. In sostanza, fino all’anno precedente, e almeno a partire dal 2014, la Cassa di Risparmio di Orvieto era presentata agli azionisti come un buon affare, salvo essere integralmente svalutato nel 2018 e parzialmente negli anni precedenti. Ora, che una valutazione, per quanto ancorata a dei parametri matematici, possa essere in parte sovra o sottostimata, è ragionevole. Che sia “integralmente” errata, invece, lo è molto meno. Le rettifiche del 2018 risultano davvero interessanti. Sempre alla voce avviamenti infatti si legge: “La voce accoglie la rettifica dell’avviamento pari a euro 82,5 milioni effettuata sugli avviamenti iscritti nell’attivo di bilancio della Banca. A seguito di tale rettifica, la voce ‘Avviamento’ al 31 dicembre 2018 risulta completamente azzerata”. Nel 2018 gli avviamenti vengono completamente azzerati per un valore di 82 milioni, messi invece a bilancio negli anni precedenti. E allora torniamo alla voce avviamenti messi in bilancio nel 2014. A pagina 148 si legge che la voce avviamenti è riferita alle seguenti acquisizioni: “Fusione ex Nuova banca Mediterranea per 137,9 milioni; Ramo d’azienda gruppo Intesa – San Paolo per 103,5 milioni; fusione ex banca Popolare di Calabria per 11,3 milioni; Ramo d’azienda promozione finanziaria da ex Popolare Bari Servizi Finanziari Sim Spa per 3,2 milioni; Fusione ex Banca Popolare della Penisola Sorrentina per 1,5 milioni; altre minori per 863mila euro”. Il totale ammonta a 258,5 milioni. Nella nota integrativa, con l’aggiunta di 69 milioni per la Cassa di Risparmio di Orvieto e di 32 per la Tercas, gli “avviamenti consolidati” indicati nello stato patrimoniale della banca barese ammontano a una bella cifra: ben 395 milioni. Se fossero stati valutati correttamente le perdite da mettere a bilancio sarebbero risultate maggiori. Ma a giudicare dai bilanci non è andata così, per via degli ammortamenti sovrastimati, e non per qualche spicciolo, ma per qualche centinaio di milioni.

La situazione è figlia della gestione familiare Jacobini, in accoppiata prima con l’amministratore delegato Giorgio Papa, poi con il successore De Bustis Figarola. L’ammontare degli avviamenti, via via scarnificato nel tempo, non ha evidentemente stupito Bankitalia mentre, almeno sulla vicenda Cassa di Risparmio di Grosseto, pare che Consob avesse già rizzato le antenne da tempo. E proprio sul ruolo di Bankitalia, e sui rapporti con l’ex presidente Marco Jacobini, la procura di Bari e la Guardia di Finanza stanno svolgendo ulteriori approfondimenti: Jacobini è indagato per corruzione e gli investigatori stanno verificando se i presunti corrotti si annidino proprio nella vigilanza di Palazzo Koch.

Pop Bari, Visco racconta balle sugli errori della Banca d’Italia

I lettori del Fatto sono stati messi a conoscenza da tempo della curiosa abitudine della Banca d’Italia di reagire ai crac bancari e ai legittimi interrogativi sull’efficacia della vigilanza bancaria con una supercazzola a scelta tra “quei delinquenti ce l’hanno fatta sotto il naso” e “non avevamo poteri sufficienti”. Ma ieri il governatore Ignazio Visco ha battuto ogni record affidando a una solenne intervista al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana una raffica di affermazioni contrarie al vero, quelle che la libera stampa definita “volgare” a Palazzo Koch definisce balle.

La più clamorosa è questa: “La scelta dei componenti degli organi sociali è di esclusiva responsabilità dell’azienda (…) La vigilanza può ricorrere alla moral suasion, e nel caso della Popolare di Bari ha espresso chiaramente al presidente del consiglio di amministrazione le proprie perplessità sull’opportunità del rientro dell’ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato la banca”. Visco omette di ricordare, e l’intervistatore omette di ricordargli, che Bankitalia ha dal 2015 il potere di disporre il removal (volgarmente la cacciata) di amministratori che possono causare pregiudizio alla sana e prudente gestione delle banche (art. 53 Testo Unico Bancario, comma 1, lettera e). Solo che per la Popolare di Bari, come per altre banche, non lo ha usato. Visco vive sempre in attesa di qualcosa: ora delle “norme attuative da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze” che farebbero entrare in vigore la severa direttiva europea sui requisiti di onorabilità e competenza dei banchieri.

La direttiva è stata recepita nel 2015, e da quattro anni e mezzo i vari ministri dell’Economia succedutisi (Pier Carlo Padoan, Giovanni Tria e Roberto Gualtieri) si sono ben guardati dallo scrivere il decreto così scomodo per numerosi potenti banchieri che (essendo sanzionati dalla vigilanza, indagati o addirittura imputati) dovrebbero andare a casa seduta stante. Visco non solo non ha mai protestato pubblicamente contro questo ritardo scandaloso della politica, ma due anni fa fece dire al capo della vigilanza Carmelo Barbagallo, sotto giuramento davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta, che Bankitalia applicava di fatto i nuovi criteri restrittivi e i banchieri esaminati li avevano superati. Colpisce un altro dettaglio. Visco avrebbe detto di non far rientrare De Bustis al presidente della Popolare Marco Jacobini, al quale due anni prima aveva ingiunto di andarsene dopo quasi 40 anni di presidenza. Non ha rimosso Jacobini per le ragioni per le quali gli chiedeva con lettera di dimettersi. E non ha rimosso De Bustis.

Quel che è peggio è che, oggi, cioè a babbo morto, il governatore racconta questa storia: “All’inizio del 2019 emergono forti conflittualità tra presidente dell’organo amministrativo e le componenti a lui riconducibili, da un lato, e l’amministratore delegato, i componenti del Comitato di Controllo Interno e Rischi, il presidente del Collegio sindacale, dall’altro. Si determina un vero e proprio stallo gestionale”. Cioè: appena De Bustis si insedia contro il volere di Visco, inizia a litigare di brutto con Jacobini che per Visco doveva essersene andato da due anni, il governatore sa tutto e che cosa fa? Non li rimuove come sarebbe suo dovere perché, dice, non ne ha il potere.

Che la Popolare di Bari fosse messa male la Banca d’Italia lo sapeva dal 2010, quando l’ispezione si concluse con un giudizio “parzialmente sfavorevole”, espressione che nella filosofia occidentale post-aristotelica ha come unico precedente di assurdità il noto assioma “la ragazza è un po’ incinta”. Anche le ispezioni del 2013 e del 2016 hanno dato esito “parzialmente sfavorevole”, ma sul sito della Banca d’Italia, in una nota beffardamente intitolata “L’intensità dell’azione di vigilanza sulla Banca Popolare di Bari”, sull’esito del 2013 si sorvola. E certo, perché subito dopo quell’ispezione Bankitalia toglie alla Popolare di Bari il divieto di fare acquisizioni per consentirle di acquisire la Tercas.

Non solo tutti i muri della Popolare di Bari, ma anche le colonne di Palazzo Koch sanno che fu la Banca d’Italia a imporre a Jacobini e De Bustis l’acquisizione di Tercas. Oggi Visco riesce a raccontarci che a fine ottobre 2013 “venne considerata la manifestazione di interesse dei vertici della Popolare di Bari, che poi decisero di realizzare l’operazione in base a una autonoma valutazione”.

Visco argomenta che “decisioni come quella di realizzare un’acquisizione sono di esclusiva competenza e responsabilità del vertice delle banche”. Un’affermazione che ieri ha fatto sobbalzare anche numerosi dirigenti della Banca d’Italia, sempre più insofferenti per lo stile suicida della comunicazione del governatore. Qui c’è un punto di fatto e quindi l’ennesima balla di Visco: le acquisizioni sono costantemente vagliate dalla Banca d’Italia che deve poi concedere o negare l’autorizzazione. Specie nel caso Tercas il ruolo della Banca non è stato neutro. Esisteva un divieto di espansione per la Popolare di Bari, che è stato rimosso proprio per consentire l’acquisizione di Tercas.

D’altra parte il governatore argomenta che “la vigilanza non può intervenire nella conduzione della Banca”, dichiarazione falsa in quanto illogica: se la vigilanza non ha poteri d’intervento, che ci sta a fare? Per fare analisi che restano poi lettera morta? Le risposte alla prossima Commissione parlamentare d’inchiesta

 

Il tesoriere della Lega a luglio va a giudizio per i soldi di Caprotti

Il tesoriere della Lega di Matteo Salvini sarà processato a Milano. L’appuntamento per Giulio Centemero è fissato per il prossimo 10 luglio, data della prima udienza che lo vede imputato per un finanziamento illecito di 40 mila euro ricevuto dall’associazione Più voci di cui è stato legale rappresentante. Denaro elargito da Esselunga e dal suo ex patron, Bernardo Caprotti. Pochi giorni fa, i pm titolari del fascicolo, Stefano Civardi e Gianluca Prisco, hanno firmato una citazione diretta a giudizio senza passare da una richiesta e da un’udienza preliminare davanti a un giudice. Un passaggio processuale legato al fatto che il reato prevede una pena non superiore ai quattro anni e quindi permette di andare subito a giudizio senza un’udienza intermedia.

Con la vicenda Centemero, nata a Roma dalla maxi-inchiesta sul costruttore Luca Parnasi e trasferita poi a Milano per competenza territoriale, trova così una prima casella certa il grande risiko giudiziario che in questo momento ruota attorno alla Lega dell’ex vicepremier Matteo Salvini. Secondo la ricostruzione fatta dalla Procura (e negata da Centemero) il versamento doveva essere di 120 mila euro poi ridotti a 40 mila e risalenti al periodo tra il 2015 e il 2016. L’unico indagato è Centemero, anche perché il finanziatore Caprotti è deceduto nel 2016. Inoltre, secondo gli atti, composti da quelli romani e da alcune segnalazioni dell’unità antiriciclaggio presso la Banca d’Italia poi analizzate dalla Finanza di Bergamo, quel denaro non sarebbe rimasto all’associazione Più voci, ma sarebbe stato triangolato per dare ossigeno alle casse ormai vuote di Radio Padania.

Centemero, deputato e capogruppo della Lega in commissione Finanze, risulta indagato a Roma all’interno del procedimento principale a carico del costruttore Parnasi. Anche qui l’accusa è finanziamento illecito. Secondo i magistrati della Capitale, infatti, l’associazione Più voci sarebbe stata destinataria di un finanziamento per 250 mila euro elargito dallo stesso Parnasi. In questo stesso filone risulta coinvolto anche Francesco Bonifazi, ex tesoriere del Partito democratico e oggi passato tra le file di Italia Viva, il nuovo movimento politico creato dall’ex premier Matteo Renzi. Durante un interrogatorio la Procura aveva chiesto conto a Parnasi di questi finanziamenti. L’imprenditore allora rispose: “Il mio fu un modo per fidelizzare un gruppo di persone che comunque sia mi avrebbero forse potuto creare delle opportunità imprenditoriali”. E che i legami tra Parnasi e i vertici del Carroccio fossero ben stretti, lo dimostrano gli atti dell’indagine romana sull’imprenditore. Da questi emerge, come scritto dall’Espresso, una cena organizzata a casa di Parnasi e dove hanno partecipato oltre a Centemero, anche Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, numero uno e numero due della Lega. La vicenda al momento non ha rilevanza penale.

Oltre alla pratica Centemero, tra Genova e Milano accelera l’inchiesta sui 49 milioni di rimborsi fatti sparire dalla Lega. Nel mirino l’associazione Maroni Presidente. Dopo le perquisizioni di due settimane fa e l’iscrizione nel registro degli indagati dell’assessore regionale lombardo Stefano Bruno Galli (accusa riciclaggio), lo scorso venerdì in procura a Genova è stato sentito Luca Lepore (non indagato), primo tesoriere della Maroni presidente, colui che potrebbe spiegare l’arrivo sui conti dell’associazione dei 450 mila euro che sarebbero parte, secondo i pm, dei 49 milioni. Un filone d’inchiesta potrebbe essere trasferito a Milano per competenza. Resta, infine, alta l’attesa per la proroga d’indagine su Moscopoli e i 65 milioni di dollari destinati alla Lega. L’atto sarà consegnato al gip a metà gennaio e potrà riservare sorprese. Su questo, una fonte inquirente è chiara: “Questa storia potrà prendere strade inaspettate”.

Il Gran Maestro Bisi: “I carabinieri? Si affiliano per esigenze spirituali”

Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare berlusconiano, recentemente arruolato nelle truppe di Giorgia Meloni, era l’anello di congiunzione fra la massoneria e la ’ndrangheta. Un avvocato dalle relazioni eccellenti, nelle Istituzioni, dentro il mondo politico, nella magistratura e tra gli alti gradi dell’Arma dei carabinieri, che poteva contare, scrivono i pm dell’inchiesta di Catanzaro, su “un rapporto privilegiato con i vertici del Grande Oriente d’Italia”. Una piramide al vertice della quale siede il Gran Maestro Stefano Bisi.

Dottor Bisi, lei conosceva l’avvocato Giancarlo Pittelli?

Non ho mai detto che non lo conoscevo.

Quindi sapeva chi era?

Ho detto, e ripeto anche a lei, che noi siamo il Grande Oriente d’Italia, abbiamo 23mila affiliati, 860 logge. Facciamo sempre tutti i controlli possibili sui nomi. Per entrare da noi la selezione è durissima, ma certo non possiamo radiografare la vita di tutti. Se mi dicono che il nostro fratello tizio è indagato, io come faccio a controllare, non sono un pubblico ministero e non ho gli strumenti dell’autorità giudiziaria. Appena l’avvocato Pittelli è stato arrestato lo abbiamo subito sospeso. Queste sono le nostre regole.

Di Pittelli, però, già si sapeva di questa sua propensione a scalare il potere usando la sua qualità di fratello massone. Penso alle inchieste dell’ex pm Luigi de Magistris.

Come è finita quell’inchiesta, me lo dica lei, se non ricordo male con assoluzioni. Quindi perché avrei dovuto dire no all’affiliazione dell’avvocato Pittelli?

Bisi, la storia dell’inchiesta di De Magistris è molto più complessa, ma forse una maggiore prudenza nell’accogliere Pittelli nel Goi sarebbe stata utile, soprattutto alla luce dell’arresto dei giorni scorsi.

Guardi io rispetto la Costituzione, se uno è assolto punto e basta. Può stare nel Goi.

Lei, si legge nelle carte dell’inchiesta, nel 2018 appunta sulla sua agenda un incontro alla sede del Vascello a Roma con l’avvocato Pittelli e il colonnello dei carabinieri Francesco Merone, ai vertici dell’Arma in Calabria. È vero?

Chiariamo, non con Pittelli, ma con il dottor Giuseppe Messina, che è un nostro fratello, e non nella sede del Vascello. Il percorso per affiliarsi al Goi è meno semplice di quanto si pensi, spesso per ottenere l’ok definitivo passano anche anni. Quando Messina mi chiede un appuntamento per presentarmi questo ufficiale, io gli dico che altri esponenti dell’Arma si sono fatti avanti.

Per la verità Messina riferisce, stando alle intercettazioni, una sua frase entusiastica, “gli alti vertici (dell’Arma, ndr) stanno arrivando tutti da noi”.

Guardi, nella mia vita di giornalista ho conosciuto militari dell’Arma meravigliosi, se un carabiniere ha una crisi spirituale e vuole iscriversi al Goi, è il benvenuto. Se poi si iscrivono per infiltrarci, per capire chi siamo e cosa facciamo, li accogliamo a braccia aperte. Non abbiamo nulla da nascondere, tutto è trasparente, tutto è sul nostro sito internet. Perché impedire a un carabiniere di diventare un nostro fratello?

Semplicemente perché è vietato dall’Arma. Ma andiamo avanti. Come Gran Maestro non la colpisce questo fervore massonico in Calabria, e non la allarma il fatto che nelle logge si incontrino boss di mafia, politici malandrini e affaristi?

Io mi pongo un’altra domanda: come si fa ad impedire a un gruppo di persone di mettersi insieme per fondare una loggia?

Certo, ma la Calabria è particolare, ne parlano tante inchieste, dall’operazione Olimpia degli anni Novanta, al lavoro del procuratore Cordova, fino ad arrivare agli arresti di oggi.

La maxi-inchiesta di Cordova è finita in un nulla di fatto. I magistrati fanno il loro lavoro, io li rispetto. Ci sarà un primo grado, un appello e un giudizio in Cassazione. Aspettiamo. Piuttosto la inviterei a leggere il comunicato che lo scorso novembre ha fatto il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Dove chiarisce di non aver mai ‘inteso affermare che la Commissione Antimafia da lui presieduta ha accertato rapporti fra ’ndrangheta e Grande Oriente d’Italia nei periodi attuali’.

Pittelli, a proposito di massoneria, dichiarava che “il rito scozzese ti apre autostrade mondiali”.

È dal ’92-’93 che il Goi non ha rapporti di riconoscimento con i fratelli inglesi e scozzesi.

Adesso Oliverio sta con Callipo e chiede al Pd un seggio a Roma

“A me il presidente ha chiesto di candidarmi insieme a Nicola Adamo… io mi candido solo se mi metto con gli amici miei e mi faccio il conto che vinco, sennò io mi sto a casa, non vale la pena, perché se perdo questa partita è finita”.

Che Pietro Giamborino starà a casa non ci sono dubbi. È finito ai domiciliari nell’inchiesta “Rinascita-Scott” della Dda di Catanzaro. Il 21 settembre 2018, però, l’ex consigliere regionale di centrosinistra fantasticava sulle elezioni calabresi e già si vedeva in lista con gli “amici suoi”. I nomi non sono un mistero: “Nicola Adamo e il presidente”.

In una sola frase, intercettata dai carabinieri del Ros, Giamborino aveva tracciato con un anno di anticipo lo schieramento che il governatore della Calabria Mario Oliverio voleva presentare alle Regionali del 26 gennaio, lo stesso gruppo di dirigenti politici che, in queste settimane, si è scontrato con Nicola Zingaretti. Il segretario del Pd, invece, ha scelto di appoggiare la candidatura dell’imprenditore del tonno Pippo Callipo.

Tra chi è finito ai domiciliari, come Luigi Incarnato e lo stesso Giamborino, e chi al divieto di dimora, come l’ex parlamentare Nicola Adamo (marito della deputata dem Enza Bruno Bossio), tutti o quasi i “grandi elettori” del “Presidente” sono finiti nella rete della Procura di Catanzaro che ieri ha notificato l’ennesima tegola giudiziaria.

Nei confronti di Oliverio, infatti, il procuratore Nicola Gratteri ha chiesto il rinvio a giudizio, il terzo in pochi mesi dopo le indagini “Lande desolate” e “Passepartout”. Questa volta, il governatore è accusato di peculato nell’inchiesta sulla partecipazione della Regione al Festival di Spoleto. In sostanza, secondo i pm, si sarebbe appropriato “di fondi pubblici a meri fini personali”.

Indagini, arresti e richieste di rinvio a giudizio. L’ossessione di Oliverio di candidarsi a tutti i costi, anche contro il suo stesso partito, è sfumata con l’operazione antimafia che ha travolto i suoi fedelissimi “rastrella-voti”. Abbandonato l’atteggiamento del “soldato giapponese” che a metà degli anni Settanta ancora non si era accorto che la guerra era finita, Oliverio ha rimesso i piedi a terra e, con tre processi da sostenere, ha fatto un passo indietro cercando di smarcarsi anche dai coniugi Adamo-Bossio. Ciò avrebbe favorito il dialogo con il Pd che pare gli abbia concesso l’onore delle armi.

A questo punto, per Oliverio, si è aperta un’altra partita. Anzi due: strappare la promessa di una candidatura personale alle prossime Politiche e avere mano libera nella lista (forse due) che sta confezionando per portarla in dote al candidato Callipo.

Al momento, la prima trattativa (più a lungo termine) rimane riservata e ancora in piedi, mentre sulla seconda non ci sono margini di discussione. “Se Oliverio vuole contribuire – fanno sapere fonti interne al centrosinistra – è il benvenuto, ma tutti i nomi dei candidati saranno sottoposti a un rigido esame di Callipo e del Pd. Non c’è spazio per intruppati e riciclati”.

È il minimo dopo l’appello dell’altro giorno dell’imprenditore, vittima delle cosche, Nino De Masi che a Reggio Calabria ha chiesto pubblicamente ai mafiosi e ai corrotti di non votare Pippo Callipo dalle cui parti si è fatto vivo pure Mario Occhiuto.

Scartata ogni ipotesi di accordo con l’imprenditore del tonno, il sindaco di Cosenza correrà da solo e spaccherà il fronte del centrodestra. Dalla sua ha una macchina elettorale su cui sta lavorando da due anni.

Trombato da Forza Italia, infatti, Occhiuto non ha digerito che Berlusconi gli abbia preferito la deputata Jole Santelli, suo vicesindaco e amica di vecchia data oltre che fedelissima di Cesare Previti.

A Lamezia Terme, ieri, la Santelli ha annunciato che sarà sostenuta da cinque liste. Dietro di lei, un manifesto con il suo volto e la scritta “Un’altra storia”. La sensazione, invece, è del “vecchio che ritorna”. Di fronte alla candidata, infatti, non c’erano le folle sperate. Piuttosto Pino Gentile, fratello dell’ex sottosegretario Tonino, e altri capataz della stagione di Giuseppe Scopelliti.

Si è definita “candidata per fato”. In realtà sa che non è così: è stata scelta da Salvini che è riuscito nell’impresa di decidere l’aspirante governatore del centrodestra anche in Calabria dove toccava indicarlo a Forza Italia.

E se Occhiuto non ha esitato ad accusarla di “tradimento”, lei smorza i toni: “Quello che ho visto in questi giorni è un altro Mario e mi lascia onestamente abbastanza interdetta”. Anche per la sala semivuota dove ha presentato la sua candidatura.