Numeri record: 434 morti Oms: “Non è ancora finita”

Se davvero questa quarta ondata, come alcuni analisti sostengono da qualche giorno, ha ormai raggiunto il plateau e si appresta a diminuire di intensità, fa di tutto per nasconderlo macinando record. Ieri si sono registrati 228.179 nuovi contagi in 24 ore, mai così tanti dall’inizio della pandemia (record anche di tamponi, 1.481.349, tasso di positività al 15,4%, 21,1 se riferito ai soli test molecolari). Ma è soprattutto il numero dei morti, 434, a far segnare un triste primato di questa quarta ondata; 70 decessi comunicati dalla Sicilia si riferiscono al periodo 5 dicembre-17 gennaio e dunque il totale in 24 ore scende a 364, tuttavia un dato così alto non si registrava dalla metà di aprile 2021, quando però i contagi oscillavano tra i 10 e i 15 mila al giorno. Numeri che spaventano ma che, purtroppo, come di consueto seguono di due settimane l’impennata dei contagi esplosa nei primi giorni di gennaio.

Il confronto con la settimana precedente mostra comunque qualche timido segnale se non di frenata, quantomeno di minore impetuosità dell’epidemia in Italia. Martedì scorso i nuovi contagi erano stati pressoché gli stessi di ieri, 220.532 (-3,5%, con, circa 100 mila tamponi in meno) e negli ultimi 7 giorni (12-18 gennaio) ci sono stati 1.208.612 casi, in crescita del 1,4% rispetto alla settimana precedente (5-11 gennaio). In lieve calo, invece, il tasso di positività, oggi del 15,4% contro il 16,03% di 7 giorni fa. Negli ultimi 7 giorni (12-18 gennaio) il valore medio è stato del 16%, in diminuzione dell’1,4% rispetto alla settimana precedente.

La situazione degli ospedali si mantiene critica, con un tasso di occupazione dei reparti di area medica che a livello nazionale (secondo i dati Agenas) ha ormai raggiunto il 30% da livello arancione, mentre il tasso di occupazione in terapia intensiva sfiora ormai il 20. Attualmente in rianimazione sono ricoverate 1.715 persone (-2 il saldo nelle ultime 24 ore) con 150 nuovi ingressi, mentre lo stesso giorno di una settimana fa erano stati 185 (+18,9%). Tra il 12 e il 18 gennaio sono entrate in terapia intensiva 989 persone, in diminuzione del -3,4% rispetto alla settimana precedente (5-11 gennaio).

Aumentano, come detto, i morti. Una settimana fa erano stati 294 (+47,6% in 7 giorni). Tra il 12 e il 18 gennaio ci sono state 2.266 vittime, +49,7% rispetto al periodo 5-11 gennaio. La media mobile a 7 giorni del nostro Paese di 304 morti (dato del 17 gennaio) è la più alta tra i grandi Paesi europei: 264 nel Regno Unito, 246 in Germania, 175 in Francia e 122 in Spagna.

Numeri che confermano l’allarme lanciato ieri dall’Organizzazione mondiale della Sanità, secondo cui la pandemia è lontana dal concludersi: “Non è affatto finita – ha detto ieri il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus nel briefing sul Covid da Ginevra – con l’incredibile crescita di Omicron a livello globale, è probabile che emergano nuove varianti. Omicron può essere in media meno grave – ha aggiunto – ma la narrativa che si tratti di una malattia lieve è fuorviante, danneggia la risposta generale alla pandemia e costa più vite”.

Qui da noi, intanto, a poco più di una settimana dalla riapertura dopo le vacanze di Natale, è ancora la scuola a essere terreno di scontro sul fronte Covid. Secondo l’associazione nazionale presidi (e secondo la percezione generale, che certo non ha valore scientifico ma ha comunque a che fare con l’esperienza diretta delle famiglie) le classi già in Dad sarebbero il 50%. Una stima che stride con i messaggi rassicuranti sparsi a piene mani dal ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, che infatti ha replicato stizzito: “Ancora una volta – ha detto – il presidente dell’associazione nazionale presidi dà dei dati. Noi abbiamo i dati, li stiamo elaborando, li daremo quanto prima e saranno dati ufficiali”.

Il “quanto prima” dovrebbe essere oggi alle 14, quando il ministro sarà ascoltato dalla Commissione Cultura della Camera. Qualora davvero fornisse i dati ufficiali della Dad sarebbe una novità: mai, infatti – nonostante le richieste di tutti i sindacati – il ministero le ha comunicate.

Europarlamento, Metsola eletta presidente: amica dell’Italia, conservatrice e anti-aborto

Nel solco di David Sassoli, “mi batterò sempre per l’Europa”. Le prime parole di Roberta Metsola, popolare, maltese, appena eletta nuova presidente del Parlamento europeo, marcano la continuità con il suo predecessore, scomparso l’11 gennaio – la Metsola ne aveva assunto l’interim, in quanto prima vicepresidente –. “Voglio che le persone recuperino fede ed entusiasmo nel nostro progetto. Credo in uno spazio europeo condiviso più giusto, equo e solidale. La disinformazione al tempo della pandemia ha alimentato isolazionismo e nazionalismo e queste sono false illusioni: l’Unione è l’esatto opposto”. La Metsola passa al primo turno, con una maggioranza larghissima: 458 voti su 616 validi e su 751 eurodeputati. Ne bastavano 309. La corsa è tutta al femminile: socialisti e liberali non presentano un loro candidato; i conservatori ritirano Kosma Zlotowski, polacca, all’ultimo momento; solo verdi e sinistra mantengono candidati di bandiera, rispettivamente Alice Bak Kuhnke, svedese, 101 voti, e Sira Rego, spagnola, 57. Il voto, a distanza, come Sassoli aveva voluto fin dalle prime battute della pandemia, conferma che, a Strasburgo, euroscettici e sovranisti non hanno il peso. Pure gli eurodeputati della Lega dicono sì alla Metsola, sentendosi in sintonia su aborto e famiglia e sull’immigrazione, e puntando a ottenere in cambio una vicepresidente del Parlamento, Mara Bizzotto. Eletta nel giorno del suo compleanno, la Metsola, 43 anni, è la più giovane presidente di sempre dell’Assemblea eletta a suffragio universale, la cui prima presidente, nel 1979, fu una donna, Simone Veil, liberale francese. L’unica altra donna presidente fu la francese, Nicole Fontaine, dal 1999 al 2002. Laureata in Legge, funzionaria della rappresentanza di Malta presso l’Ue, deputata europea dal 2013, la Metsola, che viene descritta come “amica dell’Italia”, è la prima Erasmus a divenire presidente del Parlamento, di cui guiderà i lavori per tutta la seconda metà di questa legislatura, fino alle elezioni del 2024. Nel programma di lavoro della Metsola, che vuole “rafforzare la cultura del dibattito” e impegnarsi per garantire “i diritti delle donne”, ci sono la conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe chiudersi il 9 maggio, ma che andrà probabilmente ai supplementari, il coinvolgimento dell’Assemblea nel negoziato sulla riforma del Patto di Stabilità, “la difesa del processo d’integrazione e dei valori comuni di democrazia, dignità, giustizia, solidarietà, uguaglianza, Stato di diritto e diritti”.

Lo zerbino di Bettino, l’esordio tra gli scandali e il 1° decreto salva-B.

Puntuale come a ogni elezione presidenziale dagli anni 80 del secolo scorso, si affaccia la candidatura di Giuliano Amato. Uomo dal cognome-ossimoro e dai molti soprannomi – “Dottor Sottile”, “Tigellino”, “Sir Biss”, “professionista a contratto” e “Giuda” (sugli ultimi due, copyright di Bettino Craxi) – è il Picasso della politica. Solo che il grande Pablo conobbe solo quattro periodi: blu, rosa, cubismo analitico e cubismo sintetico. Il Nostro ben di più. C’è l’Amato socialista unitario, amico di Pci e Cgil. L’Amato giolittiano che nel 1976, dopo la svolta dell’hotel Midas con l’ascesa di Craxi a segretario, lo chiama “cravattaro” e “autocrate”. L’Amato craxiano anticomunista. L’Amato scalfariano (nel senso di Scalfaro) e filocattolico. L’Amato scalfariano (nel senso di Scalfari) e laico. L’Amato filoberlusconiano. L’Amato dalemiano. L’Amato neoulivista. L’Amato equivicino che sta con tutti. L’Amato montiano e anticasta che insegna come tagliare i costi della politica in cui sguazza da mezzo secolo. L’Amato napolitaniano che si parcheggia alla Consulta in attesa di ereditare il trono di Re Giorgio e poi di Mattarella. L’Amato che ogni dieci anni si ritira dalla politica e ogni volta vi rientra senza mai esserne uscito, candidato a tutto e assiso dappertutto, anche se finge sempre di non essere stato da nessuna parte. E riesce a farlo credere perché non lascia mai impronte digitali, essendo notoriamente privo di dita, o almeno di polpastrelli.
Nato a Torino il 13 maggio 1938 da una famiglia di origini siciliane che presto si trasferirà in Toscana, Amato fa il liceo classico a Lucca, si laurea in Giurisprudenza alla Normale di Pisa e prende il master alla Law School della Columbia University. Dal 1975 insegna Diritto costituzionale comparato alla Sapienza. Politicamente nasce nel Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria), poi trasloca nel Psi come testa d’uovo della corrente di sinistra di Antonio Giolitti. Nel 1978 fonda con Giorgio Ruffolo “Progetto Socialista”. E nel 1979, sempre da sinistra, tuona contro le “forme degradanti” del dibattito interno dopo lo scandalo delle tangenti arabe Eni-Petromin. Per la questione morale Franco Bassanini e altri lasciano il partito, nel frattempo agguantato da Craxi. Lui diventa il consigliori di Bettino, che solo pochi anni prima chiamava “il cravattaro” e “l’autocrate”. Il 7 luglio 1981 è in partenza per un viaggio di studi a Washington e teme che qualche altro rampicante garofanato lo scavalchi a corte. Così scrive a Bettino una lettera untuosa per mettersi al suo completo servizio, anche dall’altra sponda dell’oceano, piatendo un incarico purchessia, anche di “portavoce”, per “farmi usare, se serve”

E già che c’è vellica le fregole ducesche del capo col suo progetto di Repubblica presidenziale lanciato un anno prima su Repubblica: “Ormai si avvicina il tempo della mia partenza per Washington (25 agosto). Starò lì diversi mesi: per rendermi utile al partito, non potrei avere una qualche investitura, che mi permetta di avere rapporti per conto del Psi, di farmi usare – se serve – come tramite, portavoce etc? … Da tempo arrivano da varie parti sollecitazioni a riprendere il discorso presidenziale. Se Craxi ci sta – sento dire – il polo laico lo aggregherà con questa carta. Riflettici con calma. Ma definiamo una linea. A presto. Giuliano”.

Coda e Zampini. Nel marzo 1983 esplode a Torino la prima Tangentopoli d’Italia: il sindaco comunista Diego Novelli riceve la denuncia di un imprenditore costretto a pagare tangenti e lo accompagna in Procura. Finiscono in carcere il faccendiere Adriano Zampini, il vicesindaco socialista Enzo Biffi Gentili col fratello Nanni, il capogruppo comunista in Regione Franco Revelli, mentre il capogruppo del Pci in Comune, Giancarlo Quagliotti è indagato. Craxi tuona subito contro “la deliberata ferocia e l’inumana spettacolarità” dell’inchiesta. E nomina commissario del partito prima Giusy La Ganga (che finisce presto indagato) e poi il professor Amato. Che fa subito un cazziatone a Novelli per non avere “risolto politicamente la questione anziché andare dai giudici”. Cioè per non aver insabbiato tutto.

Il 27 giugno 1983, candidato per la prima volta alla Camera, Amato è il socialista più votato in Piemonte: quasi 33 mila preferenze. Di quella campagna elettorale si parlerà a lungo. Perché l’irrompere di Amato, con la diretta investitura di Craxi, semina lo scompiglio tra le correnti del Psi torinese. Amato, in seguito a forti pressioni del vicesegretario Claudio Martelli, viene “adottato” da uno dei signori delle tessere: Francesco Coda-Zabet, esponente della sinistra con solidi agganci nelle autostrade, nella sanità e nelle banche. “Per la prima campagna di Amato – ci racconterà un alto esponente del Psi dell’epoca, chiedendo l’anonimato – fu preventivata una spesa di 1 miliardo di lire. E non fu facile trovarlo. Ma chi lo fece si svenò volentieri, sperando che Giuliano si rivelasse un buon ‘investimento’. Gli amici di Coda riuscirono a racimolare 700 milioni. Gli altri 300 li procurò l’entourage di Giuseppe Rolando, assessore socialista ai Trasporti, che però di suo non aveva soldi e usava ricorrere a sistemi di approvvigionamento ‘alternativi’…”. Le indagini del giudice istruttore Sebastiano Sorbello dimostreranno che Rolando prendeva tangenti sugli appalti comunali dei trasporti e si faceva pure finanziare dai cambisti di Saint-Vincent rilasciando in garanzia assegni a vuoto o postdatati.

Amato dichiarerà di aver speso, per quella campagna, 50 milioni di lire. Ma il nostro interlocutore aggiungerà un racconto di seconda mano che, se fosse vero, sarebbe davvero avvincente: “Appena eletto, Amato volò a Roma per diventare sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Craxi. E quasi subito si dimenticò degli amici che l’avevano aiutato, lasciandoli pieni di debiti. Coda-Zabet e Rolando, infuriati, decisero di chiedergli indietro i soldi. E gli diedero appuntamento in un ristorante di Roma. Quando Amato arrivò a mani vuote, Coda perse la pazienza, impugnò una sedia e cominciò a rotearla per aria, minacciando di colpirlo, mentre Rolando tentava di calmarlo e Amato guadagnava rapidamente l’uscita. I due se ne tornarono a Torino con un pugno di mosche”. Poi finiscono entrambi in carcere.

Il primo Salva-Silvio. Ottobre 1984. Tre pretori – Giuseppe Casalbore di Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi di Pescara – decidono di far rispettare la legge che vieta alle tre reti Fininvest di trasmettere in contemporanea (“interconnessione”) su tutto il territorio nazionale, come può fare solo la Rai. E sequestrano gli impianti fuorilegge. Silvio Berlusconi potrebbe seguitare a trasmettere i programmi (tutti registrati) a orari scaglionati sulle sue tv locali con i loghi di Canale5, Rete4 e Italia1. Invece decide di oscurarle per dare la colpa ai giudici “comunisti” e chiamare il popolo dei Puffi e delle telenovelas alla rivolta contro l’illiberale tentativo di applicare una sentenza della Corte costituzionale. Il premier Craxi, in visita ufficiale a Londra, annulla l’appuntamento con Margaret Thatcher e torna precipitosamente a Roma per varare in tutta fretta il “decreto Berlusconi” che cancella le ordinanze dei giudici e legalizza l’illegalità, anticipando di tre giorni il Consiglio dei ministri in seduta straordinaria: mai vista tanta urgenza, nemmeno per l’alluvione del Polesine e i terremoti in Belice, Friuli e Irpinia. L’estensore della legge ad personam – la prima di una lunga serie – è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato. Ma Palazzo Chigi assicura che il provvedimento è solo temporaneo, per dare tempo alle Camere di varare un’organica legge sulle tv. Balle. Persino il Parlamento italiano si ribella e vota a sorpresa per l’incostituzionalità del decreto. Così i pretori tornano a imporre la legge e il Cavaliere a “oscurare” i suoi network, con annessa campagna di spot e programmi-piagnisteo. E Craxi minaccia gli alleati: elezioni anticipate se non salveranno il compare Silvio.

Orgasmo da Rotterdam. Il tempo stringe, il decreto sta per decadere, la sinistra annuncia l’ostruzionismo. Ma Craxi e Amato ottengono dal presidente del Senato Francesco Cossiga il contingentamento dei tempi per gli interventi delle opposizioni. Poi, per far decadere gli emendamenti, impongono la fiducia. Tanto, si dice, gli effetti del decreto scadono il 6 maggio 1985, dopodiché Berlusconi non potrà più trasmettere senza una nuova legge Antitrust. Che però non arriva. Scaduti i sei mesi, Palazzo Chigi concede un’altra proroga fino al 31 dicembre ‘85. Data peraltro fittizia pure quella: il governo stabilisce che il decreto non è “provvisorio”, ma “transitorio”. Cioè eterno. Il 3 gennaio ‘86, scaduta la proroga, basta una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la norma non necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che dice “comunque non oltre sei mesi…”. Silvio è salvo. Nel 2009, intervistato da Report su quel trucchetto da magliari, Amato anziché arrossire s’illuminerà d’immenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista… Quando discuto a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Non per nulla ora è giudice costituzionale.

(1 – continua)

Gli Usa: “L’Italia di Silvio comica e disgraziata…”

Sui suoi giornali, Silvio Berlusconi viene celebrato come uno statista di esperienza internazionale rispettato dagli Stati Uniti, tanto da essere stato invitato a parlare al Congresso Usa nel 2006, ma i documenti segreti del governo americano raccontano tutta un’altra storia. A far emergere cosa davvero Washington pensasse di lui sono i 251.287 cablo della diplomazia statunitense rivelati da WikiLeaks nel 2010. Scrivendo questi rapporti con grande franchezza, nella convinzione che non sarebbero mai diventati pubblici – se non dopo 30-40 anni, quando ormai non interessavano più a nessuno, se non agli storici – i diplomatici americani, nel segreto delle loro corrispondenze, non erano affatto diplomatici.

E infatti il loro giudizio su Silvio Berlusconi è impietoso: “Le sue frequenti gaffe e la sua mediocre scelta delle parole hanno offeso tutti in Italia e anche molti leader europei. La sua disponibilità percepita [all’esterno] di mettere i suoi interessi al di sopra di quelli dello Stato, la sua preferenza per le soluzioni a breve termine piuttosto che per gli investimenti sul lungo termine, il suo frequente uso delle istituzioni e risorse pubbliche per ottenere un vantaggio elettorale sui suoi avversari politici hanno danneggiato la reputazione dell’Italia in Europa e hanno dato un tono disgraziatamente comico alla reputazione dell’Italia in molti settori del governo americano”. Si tratta di un giudizio devastante perché non proviene dai nemici politici di Berlusconi, ma è stato scritto, nero su bianco, dai suoi amici più potenti. I cablo, infatti, non lasciano dubbi che la diplomazia statunitense lo considerasse un prezioso strumento. Nonostante quel giudizio spietato, l’ambasciatore a Roma inviato dall’amministrazione di George W. Bush, Ronald Spogli, scriveva: “Non dobbiamo denigrare i contributi di Berlusconi e dell’Italia”, perché “ci daranno importanti dividendi strategici ora e nel futuro”. Che cosa si intendesse con “dividendi strategici” è chiarissimo. Con Silvio Berlusconi, gli Stati Uniti avevano vita facile. Come quando nel 2002 l’Amministrazione Bush puntò a minare la Corte Penale Internazionale – creata per punire crimini di guerra e contro l’umanità – firmando una serie di accordi bilaterali che impegnassero Paesi come l’Italia a non consegnare ai giudici della Corte i militari statunitensi, in modo da sottrarli alla giustizia internazionale. Secondo i cablo, il governo Berlusconi fece sapere di essere disponibile: “Ancora una volta, quando il presidente Bush chiede aiuto a Berlusconi, l’aiuto arriva immediatamente”, scriveva soddisfatta la diplomazia Usa. E anche nel 2003, quando l’Amministrazione Bush decise di invadere l’Iraq, scatenando una guerra che si stima sia costata 600mila vittime civili, abbia costretto 9,2 milioni di iracheni – il 37 per cento della popolazione prima dell’invasione – a fuggire all’estero o a finire sfollati e abbia contribuito a generare la barbarie dell’Isis, emerso proprio nei territori dell’Iraq sprofondati nel caos.

“Abbiamo ottenuto quello che abbiamo chiesto – scriveva l’ambasciatore americano a Roma – aeroporti italiani, porti e infrastrutture dei trasporti sono stati messi a nostra disposizione”. E ancora: “Il governo Berlusconi ha portato un Paese completamente contrario alla guerra il più vicino possibile, politicamente, allo stato di belligeranza”. Soddisfatto, il diplomatico tirava le sue conclusioni: “Pur riconoscendo che l’Italia può apparire un posto arcano e bizantino fino alla frustrazione, siamo convinti che è un posto eccellente per fare i nostri affari politici e militari”.

De Benedetti & C: quelli che hanno redento B.

Il più grande inganno del Diavolo – viene da dire ricordando un passaggio de I soliti sospetti – è far credere al mondo che non sia mai esistito. E così per un pezzo a Silvio Berlusconi è riuscita la magia: lui che fu “diavolo” per quasi vent’anni, negli ultimi tempi era stato riabilitato in lungo e in largo dai suoi storici nemici (persino dall’attuale segretario dem Enrico Letta), che all’improvviso si sono spellati le mani applaudendo al Silvio statista, moderato, responsabile, istituzionale. Tutti ignari che fosse soltanto l’ennesimo camuffamento del Caimano, impegnato a pelo d’acqua a rifarsi l’immagine prima della corsa al Quirinale.

Adesso, con la candidatura diventata realtà, costoro si svegliano stupiti e scandalizzati e si affrettano a togliere la polvere dagli aggettivi peggiori per commentare l’ultima discesa in campo dell’ex Cavaliere.

Ma è anche grazie a quelle riabilitazioni stonate che Silvio oggi può credere al sogno del Colle, convintosi lui per primo di poter essere il presidente della “pacificazione nazionale”, viste le frequenti nobilitazioni su cui ha potuto contare.

I complimenti, anche solo restando agli ultimi due o tre anni, sono arrivati anche da nomi e giornali insospettabili, almeno in teoria. Basti pensare a Carlo De Benedetti, l’imprenditore che per una vita è stato rivale – anche in tribunale – di Berlusconi. È il 14 luglio 2020 quando l’Ingegnere si sfoga sul Foglio: “Se si tratta di isolare Salvini e Meloni, trangugio anche Berlusconi al governo, ma accompagnato dal benservito a Conte che rappresenta il vuoto pneumatico”. Via Conte, dentro Silvio e si stappa la bottiglia buona.

D’altra parte B. è visto come l’argine ideale per fermare i sovranisti di destra e di sinistra. Un’interpretazione che trova d’accordo pure Eugenio Scalfari, altro miglior nemico del vecchio Cavaliere: “Sempre meglio Berlusconi di Di Maio”, sancisce l’ex direttore di Repubblica con la voce coperta dall’ovazione dello studio di Di Martedì, ai tempi del primo governo Conte.

In quei mesi in tanti, disgustati dalle cattive maniere dei barbari grillo-leghisti, invocano il ritorno di un personaggio così austero e competente come Berlusconi. Lo scrittore Sandro Veronesi va ospite in radio da Massimo Giannini: “Io sono scappato dalla Mondadori quando Berlusconi è diventato premier, però se mi chiedete di firmare per riavere domani Berlusconi e il suo governo io firmo e firmo col sangue”. Certo, “Berlusconi era arrogante, strafottente, in conflitto di interessi”, ma aveva anche dei difetti, per così dire: “Sapeva qualcosa del mondo. Questi invece (Salvini e Di Maio, ndr) non sanno quello che fanno”.

Anche al Corriere fanno a gara per elogiare B. I tempi cambiano soprattutto durante la prima ondata del Covid, quando Silvio ha il merito di non seguire gli alleati in una opposizione forcaiola e dalle mille giravolte. Tanto basta per elevare l’ex Cavaliere a grande uomo di Stato. Luciano Fontana, che del Corriere della Sera è direttore, ne parla al Foglio, diventato nel frattempo una specie di confessionale dei folgorati sulla via di Berlusconi: “Sta interpretando la parte del buon padre di famiglia. Serve un governo di responsabilità nazionale. Serve anche lui”. Si torna al concetto di Berlusconi grande argine contro i mali dell’umanità: “Ha la funzione di moderare i sovranisti. E può servire al Pd per spegnere gli spasmi del Movimento 5 Stelle”.

A nessuno passa per la mente l’idea che sia Silvio ad aver bisogno di un argine. Persino Romano Prodi, negli stessi giorni, appare inebriato dall’opposizione così responsabile di Berlusconi: “La vecchiaia porta saggezza, per me Forza Italia in maggioranza non è un tabù”.

La Stampa diretta da Massimo Giannini, altro arci-nemico di Silvio, ospita un editoriale del politologo Giovanni Orsina, il quale si interroga proprio sul perché molti di quelli che fino al giorno prima demonizzavano B. adesso lo riempiono di complimenti. Il problema è che Orsina sembra dar ragione a chi ha cambiato idea: “Scoprire oggi che il berlusconismo ha una componente responsabile e istituzionale è un po’ scoprire l’acqua calda”. Lo snodo dell’oggi è vedere “se una vasta alleanza europeista che comprende anche gli azzurri taglierà i populisti fuori dai giochi”. È il miraggio sempreverde della “maggioranza Ursula”, oppure – come la chiama a un certo punto Prodi sul Messaggero – la “coalizione Orsola”, una “necessaria coalizione filoeuropea” senza la quale la legislatura sembra non poter andare avanti. Anche l’ascoltatissimo stratega dem Goffredo Bettini si accoda, con la fregola di allargare il secondo governo Conte a Berlusconi: “C’è stata un’apertura da parte di Forza Italia. La si raccolga senza indugi”. Nulla di nuovo per il Pd, se si pensa che Enrico Letta già dieci anni fa scandiva: “Preferisco che i voti vadano a Berlusconi che a Grillo”.

Intanto Il Foglio, di cui in parte abbiamo già narrato le imprese, getta la maschera: “Il buon esempio di Berlusconi: opposizione non demagogica, europeismo, donazioni, gran mese del Cav”. E allora: “Maggioranza Ursula, perché no?”.

A un certo punto Silvio telefona al “dottor Fazio” intervenendo in diretta a Che tempo che fa. Racconta le settimane da positivo al Covid, si mostra crucciato per “lo spettacolo del dolore, dei lutti e della crisi” intorno a lui e si offre a Conte: “Non ci sono limiti alla nostra disponibilità”, ovviamente “per il bene del Paese” e non “per convenienza di qualcuno”. Il giorno dopo, sul Corriere, Aldo Grasso va in estasi: “L’intervento più sorprendente della domenica, l’ex premier ha parlato da statista”. Repubblica racconta “la svolta moderata nel bunker in Provenza”, motivo per cui di lì a qualche mese Angelo Panebianco, ancora sul Corriere, torna a celebrare “il nemico diventato amico”, prendendo per buoni tutti i cliché della ormai quasi trentennale propaganda berlusconiana: “Non era così spaventoso come i suoi nemici sostenevano. La sinistra preferisce rimuovere il problema piuttosto che chiedersi perché non sia stata in grado di dare un giudizio meno viziato da isterismo ed esagerazioni”.

Il colpo di grazia arriva infine dalle colonne della Stampa, dove Mattia Feltri sfotte tutti noi per non esserci arrivati prima: “Solo Berlusconi può aiutare a contenere le balordaggini dei populisti e l’offensiva dei sovranisti. Ci fossero arrivati prima, ci saremmo risparmiati Grillo e Salvini”. Vuoi mettere?

B. e Salvini: la gara per non perdere la faccia sul Colle

L’uno, il capo della coalizione che con i consigli di Denis Verdini smania per fare il kingmaker, vorrebbe dirglielo chiaramente domani, a casa sua: “Caro Silvio, i numeri non li hai. Ora fatti da parte”. L’altro, che del centrodestra è stato il fondatore e che si sente il “padre” dei due “giovanotti immaturi”, però ancora resiste. È vero che in queste ore sta valutando l’idea di fare un passo indietro, ma di lasciare la palla ai due alleati non ha nessuna intenzione. Vorrebbe fare il beau geste e intestarsi lui il nome del prossimo inquilino del Colle. A 24 ore dal vertice di Villa Grande dove si riunirà il centrodestra, quella tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi è una partita a scacchi dal cui risultato passerà l’elezione del prossimo Capo dello Stato.

Perché dopo le parole di lunedì di Salvini (“Berlusconi ha tempo fino al 24, poi presenteremo un nome che andrà bene a tutti”) un solco è stato tracciato tra i due. Nella candidatura di Berlusconi, ormai, gli alleati non ci credono quasi più. Oltre allo scetticismo dei centristi di Coraggio Italia, nelle ultime ore anche nella Lega si dà quasi per certo il passo indietro del leader di FI. “Si sta per ritirare” dicono da via Bellerio. Giovedì Salvini e Meloni gli chiederanno quali sono i “numeri” (i “dati oggettivi” li definisce Ignazio La Russa) e se Berlusconi non sarà in grado di fornirglieli, gli chiederanno di mollare. E ieri proprio Salvini ha aggiunto un pezzo alla sua strategia: “Da lunedì il centrodestra avrà un nome e lo sosterrà compattamente”. Un altro colpo alla candidatura di Berlusconi che avrebbe voluto scendere in campo alla vigilia della quarta votazione. Tanto più che pochi minuti prima era stato Vittorio Sgarbi, telefonista nel Misto per conto del leader azzurro, a pronunciare il de profundis della sua candidatura: “Berlusconi ieri era triste – ha detto dopo averlo sentito – l’operazione scoiattolo si è fermata. Adesso sta pensando a un’uscita onorevole come il Mattarella bis”. Frase che non è piaciuta per niente al cerchio magico di Arcore. Sentire Antonio Tajani e Licia Ronzulli: “Berlusconi non ha sciolto la riserva, Sgarbi non è il suo portavoce ma parla a titolo personale”. Da Arcore, infatti, si fa sapere che ieri Berlusconi ha continuato a telefonare ai grandi elettori e ai governatori di FI ed è “determinato” nella sua corsa. “Non deluderò chi mi ha dato fiducia” ha detto ai fedelissimi.

Resta però la guerra sotterranea tra Salvini e Berlusconi su chi farà il kingmaker. Il leader della Lega vorrebbe far ritirare Berlusconi e poi chiudere con Matteo Renzi un accordo su un nome da offrire a Pd e M5S: nella testa del leghista ci sono soprattutto Letizia Moratti (che ha sponsor molto forti anche in Vaticano) e Marcello Pera (spinto da Verdini). Più staccati Maria Elisabetta Alberti Casellati e Pier Ferdinando Casini. Strategia condivisa da Giorgia Meloni che vuole essere anche lei della partita: “Se Silvio farà un passo indietro, dovremo fare un altro nome”. Ma l’incognita, a quel punto, riguarda Berlusconi che avrebbe difficoltà ad appoggiare un altro candidato di centrodestra. Per questo ieri i suoi parlavano più di un passo indietro per un Mattarella bis che di Mario Draghi, che ora Berlusconi vede come un nemico. Un’ipotesi, quella del premier, su cui Salvini è scettico: “Complicato rimuoverlo di lì, ma non deciderò io il suo destino” dice. Qualche giorno fa il leader leghista ha incontrato Draghi segretamente e gli ha posto una condizione per essere eletto al Colle: un governo dei leader e lui al Viminale. Un modo per non subire la sua elezione ma, nel caso, intestarsela.

La carica dei 58 delegati (coi soliti impresentabili)

Ora manca l’ultimo passaggio prima di poter adempiere all’alto compito sfilando sotto i catafalchi per eleggere il prossimo presidente della Repubblica: da ieri è definito il plenum dei 1009 grandi elettori quirinalizi e non resta che verificarne i titoli, oltre che le condizioni di salute. Accanto ai 321 senatori e 630 deputati ci saranno anche i 58 delegati regionali, destinati a incidere rimpolpando le fila del centrodestra che conta già su 451 parlamentari e del centrosinistra a quota 407. Chi sono? 20 del Pd, 14 della Lega, 8 di Forza Italia, 5 di Fratelli d’Italia, 4 del M5S, dell’Udc 2 e un delegato ciascuno per Coraggio Italia, Diventerà Bellissima, Partito sardo d’Azione, Sudtiroler Volkspartei e Union Valdotaine. Pochissime le donne (5), nessun rappresentante dei Comuni. Insomma prassi confermata: le Regioni hanno scelto di mandare a Roma i governatori e i presidenti dei consigli regionali e nella maggior parte dei casi il capogruppo del principale partito di opposizione. E come da prassi non mancano neppure indagati e inquisiti. L’Abruzzo per dire, verrà rappresentato anche dal presidente del consiglio regionale Lorenzo Sospiri (FI) nel mirino della Procura di Pescara per corruzione e associazione a delinquere nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti nella sanità. En plein in Campania: il presidente dem del Consiglio regionale Gennaro Oliviero è accusato di traffico di influenze illecite nell’inchiesta sugli appalti truccati all’Asl di Caserta, il governatore Vincenzo De Luca è indagato per corruzione e la capogruppo di Forza Italia Annarita Patriarca è stata salvata dalla prescrizione in un’indagine per un peculato. Per la Lombardia ci sarà Attilio Fontana per il quale la Procura di Milano ha chiesto il processo per l’affidamento della fornitura da circa mezzo milione di euro di camici a Dama, società del cognato. Marche: il presidente del Consiglio regionale Dino Latini (Udc) è stato condannato dalla Corte dei conti a restituire le somme assegnate ai gruppi consiliari nell’ambito dell’indagine “Spese facili”. Il governatore pugliese Michele Emiliano è invece a processo per finanziamento illecito ai partiti nell’ambito di una inchiesta legata alle primarie Pd, anno 2017. Il governatore sardo Christian Solinas è nei guai per via della nomina di due direttori generali ed è pure sotto la lente di ingrandimento dei magistrati cagliaritani per alcune operazioni immobiliari sospette. Quota grandi elettori Calabria: sul presidente del Consiglio regionale leghista Filippo Mancuso pende una richiesta del rinvio a giudizio per la “Gettonopoli” catanzarese. Il presidente dell’Ars siciliana Gianfranco Miccichè è sotto indagine ad Agrigento per un finanziamento illecito che avrebbe ricevuto per le elezioni del 2017. E il Friuli? Il presidente del Consiglio regionale Piero Mauro Zanin (FI) assunse se stesso come direttore generale in una società a partecipazione comunale di cui era amministratore unico e gli han chiesto indietro oltre 350 mila euro. Applausi.

Le consultazioni di Draghi per trovarsi il sostituto

Si sono incontrati ieri mattina Mario Draghi e Sergio Mattarella. Un incontro che non passa certo inosservato in una giornata di calma apparente, con le trattative sul Quirinale che vanno avanti convulse, pure se coperte – e in parte congelate – dal fatto che il nome di Silvio Berlusconi non è ancora stato tolto ufficialmente dal tavolo. “Ovvio che hanno parlato

di Colle”, si spingono a dire fonti vicine sia al premier sia al presidente. Dal Quirinale, ufficialmente, raccontano che si è parlato solo di attività di governo e di Pnnr. Ma la scaletta degli incontri del premier di ieri è di per sé già una traccia. Draghi vede il presidente della Repubblica in mattinata;si intrattiene per un’ora con il presidente della Camera, Roberto Fico nel pomeriggio; riceve a Palazzo Chigi Marta Cartabia e Lorenzo Guerini. Ognuno di questi colloqui richiama un aspetto della vicenda del voto sul Colle. Con Fico, il premier parla per circa un’ora. Il tema principale sono le modalità di voto per l’elezione del capo dello Stato. C’è uno scontro tra i partiti, sulle possibilità che votino anche i positivi. Con due opzioni: una che possano farlo in presenza (ma serve un decreto), una che invece sia possibile solo per i malati il voto a distanza (basterebbe la decisione della camera, ma Fico fino ad ora si è opposto).

A Palazzo Chigi sulla questione si interrogano da giorni. Tanto che della possibilità di un decreto il premier avrebbe parlato anche con Mattarella. Prendersi in carico il tema è anche un modo di Draghi di andare incontro alle richieste soprattutto di Giorgia Meloni, che ha chiesto a gran voce il voto ai positivi.

La politica, però, nell’incontro con Fico, non è rimasta fuori. L’ipotesi del premier al Colle resta maggioritaria. Nonostante le voci che ieri per tutto il giorno si rincorrono su una carta “coperta” che sarebbe pronto a tirare fuori Matteo Salvini, un nome di centrodestra che metta d’accordo tutti. E nonostante il fatto che si parli insistentemente di Pier Ferdinando Casini. Tra gli ostacoli maggiori all’elezione del premier ci sono proprio le perplessità del Movimento sul suo nome, la contrarietà di Giuseppe Conte, in primis. E allora raccontano che ieri Draghi avrebbe sondato Fico anche sulle intenzioni del Movimento. Perché sono proprio i Cinque Stelle il principale ostacolo alla salita del premier al Colle. Per quel che riguarda le altre forze politiche la trattativa è in corso. E riguarda soprattutto l’accordo sul governo.

La carta su cui si sta lavorando è un premier donna. Il nome cerchiato è quello di Marta Cartabia, il ministro della Giustizia. Draghi ieri ha incontrato anche lei. L’idea sarebbe quella di far entrare i leader politici. O comunque, favorire un rimpasto con dentro più ministri politici e fuori i tecnici. Va detto che la Cartabia come premier non piace a tutti. I centristi, in primo luogo, con Italia viva, preferirebbero un premier politico. In una giornata in cui i voti di Renzi e del centro appaiono davvero fondamentali, il nome di Casini viene messo in mezzo anche per alzare il prezzo. In questa cornice, anche il colloquio con Guerini aggiunge un tassello: il ministro della Difesa è il più vicino al premier nel Pd, ma anche quello che fa da ponte con i renziani. Per tornare all’incontro con Mattarella, infine, le fonti ufficiali si soffermano sul fatto che i due hanno parlato di attività di governo, in un momento in cui l’attività dell’esecutivo forzatamente si ferma.

Niente sulle prospettive, niente sul dopo voto. La stima di Mattarella per Draghi, raccontano, è immutata. Ma non sta certo a lui incaricarsi di promuoverlo per il Colle.

Oggi intanto si vedono Enrico Letta, Conte e Roberto Speranza. Tra i dettagli lasciati cadere in ore complesse, anche quello che il segretario potrebbe contare sull’appoggio di Conte per convergere verso il premier. Vista e sondata l’indisponibilità di Mattarella al bis.

Amato, l’uomo senza dita

Puntuale come a ogni elezione presidenziale dagli anni 80 del secolo scorso, si affaccia la candidatura di Giuliano Amato. Uomo dal cognome-ossimoro e dai molti soprannomi – “Dottor Sottile”, “Tigellino”, “Sir Biss”, “professionista a contratto” e “Giuda” (sugli ultimi due, copyright di Bettino Craxi) – è il Picasso della politica. Solo che il grande Pablo conobbe solo quattro periodi: blu, rosa, cubismo analitico e cubismo sintetico. Il Nostro ben di più. C’è l’Amato socialista unitario, amico di Pci e Cgil. L’Amato giolittiano che nel 1976, dopo la svolta dell’hotel Midas con l’ascesa di Craxi a segretario, lo chiama “cravattaro” e “autocrate”. L’Amato craxiano anticomunista. L’Amato scalfariano (nel senso di Scalfaro) e filocattolico. L’Amato scalfariano (nel senso di Scalfari) e laico. L’Amato filoberlusconiano. L’Amato dalemiano. L’Amato neoulivista. L’Amato equivicino che sta con tutti. L’Amato montiano e anticasta che insegna come tagliare i costi della politica in cui sguazza da mezzo secolo. L’Amato napolitaniano che si parcheggia alla Consulta in attesa di ereditare il trono di Re Giorgio e poi di Mattarella. L’Amato che ogni dieci anni si ritira dalla politica e ogni volta vi rientra senza mai esserne uscito, candidato a tutto e assiso dappertutto, anche se finge sempre di non essere stato da nessuna parte. E riesce a farlo credere perché non lascia mai impronte digitali, essendo notoriamente privo di dita, o almeno di polpastrelli.

Nato a Torino il 13 maggio 1938 da una famiglia di origini siciliane che presto si trasferirà in Toscana, Amato fa il liceo classico a Lucca, si laurea in Giurisprudenza alla Normale di Pisa e prende il master alla Law School della Columbia University. Dal 1975 insegna Diritto costituzionale comparato alla Sapienza. Politicamente nasce nel Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria), poi trasloca nel Psi come testa d’uovo della corrente di sinistra di Antonio Giolitti. Nel 1978 fonda con Giorgio Ruffolo “Progetto Socialista”. E nel 1979, sempre da sinistra, tuona contro le “forme degradanti” del dibattito interno dopo lo scandalo delle tangenti arabe Eni-Petromin. Per la questione morale Franco Bassanini e altri lasciano il partito, nel frattempo agguantato da Craxi. Lui diventa il consigliori di Bettino, che solo pochi anni prima chiamava “il cravattaro” e “l’autocrate”. Il 7 luglio 1981 è in partenza per un viaggio di studi a Washington e teme che qualche altro rampicante garofanato lo scavalchi a corte. Così scrive a Bettino una lettera untuosa per mettersi al suo completo servizio, anche dall’altra sponda dell’oceano, piatendo un incarico purchessia, anche di “portavoce”, per “farmi usare, se serve”.

E già che c’è vellica le fregole ducesche del capo col suo progetto di Repubblica presidenziale lanciato un anno prima su Repubblica: “Ormai si avvicina il tempo della mia partenza per Washington (25 agosto). Starò lì diversi mesi: per rendermi utile al partito, non potrei avere una qualche investitura, che mi permetta di avere rapporti per conto del Psi, di farmi usare – se serve – come tramite, portavoce etc? … Da tempo arrivano da varie parti sollecitazioni a riprendere il discorso presidenziale. Se Craxi ci sta – sento dire – il polo laico lo aggregherà con questa carta. Riflettici con calma. Ma definiamo una linea. A presto. Giuliano”.
Coda e Zampini. Nel marzo 1983 esplode a Torino la prima Tangentopoli d’Italia: il sindaco comunista Diego Novelli riceve la denuncia di un imprenditore costretto a pagare tangenti e lo accompagna in Procura. Finiscono in carcere il faccendiere Adriano Zampini, il vicesindaco socialista Enzo Biffi Gentili col fratello Nanni, il capogruppo comunista in Regione Franco Revelli, mentre il capogruppo del Pci in Comune, Giancarlo Quagliotti è indagato. Craxi tuona subito contro “la deliberata ferocia e l’inumana spettacolarità” dell’inchiesta. E nomina commissario del partito prima Giusy La Ganga (che finisce presto indagato) e poi il professor Amato. Che fa subito un cazziatone a Novelli per non avere “risolto politicamente la questione anziché andare dai giudici”. Cioè per non aver insabbiato tutto.
Il 27 giugno 1983, candidato per la prima volta alla Camera, Amato è il socialista più votato in Piemonte: quasi 33 mila preferenze. Di quella campagna elettorale si parlerà a lungo. Perché l’irrompere di Amato, con la diretta investitura di Craxi, semina lo scompiglio tra le correnti del Psi torinese. Amato, in seguito a forti pressioni del vicesegretario Claudio Martelli, viene “adottato” da uno dei signori delle tessere: Francesco Coda-Zabet, esponente della sinistra con solidi agganci nelle autostrade, nella sanità e nelle banche. “Per la prima campagna di Amato – ci racconterà un alto esponente del Psi dell’epoca, chiedendo l’anonimato – fu preventivata una spesa di 1 miliardo di lire. E non fu facile trovarlo. Ma chi lo fece si svenò volentieri, sperando che Giuliano si rivelasse un buon ‘investimento’. Gli amici di Coda riuscirono a racimolare 700 milioni. Gli altri 300 li procurò l’entourage di Giuseppe Rolando, assessore socialista ai Trasporti, che però di suo non aveva soldi e usava ricorrere a sistemi di approvvigionamento ‘alternativi’…”. Le indagini del giudice istruttore Sebastiano Sorbello dimostreranno che Rolando prendeva tangenti sugli appalti comunali dei trasporti e si faceva pure finanziare dai cambisti di Saint-Vincent rilasciando in garanzia assegni a vuoto o postdatati.
Amato dichiarerà di aver speso, per quella campagna, 50 milioni di lire. Ma il nostro interlocutore aggiungerà un racconto di seconda mano che, se fosse vero, sarebbe davvero avvincente: “Appena eletto, Amato volò a Roma per diventare sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Craxi. E quasi subito si dimenticò degli amici che l’avevano aiutato, lasciandoli pieni di debiti. Coda-Zabet e Rolando, infuriati, decisero di chiedergli indietro i soldi. E gli diedero appuntamento in un ristorante di Roma. Quando Amato arrivò a mani vuote, Coda perse la pazienza, impugnò una sedia e cominciò a rotearla per aria, minacciando di colpirlo, mentre Rolando tentava di calmarlo e Amato guadagnava rapidamente l’uscita. I due se ne tornarono a Torino con un pugno di mosche”. Poi finiscono entrambi in carcere.
Il primo Salva-Silvio. Ottobre 1984. Tre pretori – Giuseppe Casalbore di Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi di Pescara – decidono di far rispettare la legge che vieta alle tre reti Fininvest di trasmettere in contemporanea (“interconnessione”) su tutto il territorio nazionale, come può fare solo la Rai. E sequestrano gli impianti fuorilegge. Silvio Berlusconi potrebbe seguitare a trasmettere i programmi (tutti registrati) a orari scaglionati sulle sue tv locali con i loghi di Canale5, Rete4 e Italia1. Invece decide di oscurarle per dare la colpa ai giudici “comunisti” e chiamare il popolo dei Puffi e delle telenovelas alla rivolta contro l’illiberale tentativo di applicare una sentenza della Corte costituzionale. Il premier Craxi, in visita ufficiale a Londra, annulla l’appuntamento con Margaret Thatcher e torna precipitosamente a Roma per varare in tutta fretta il “decreto Berlusconi” che cancella le ordinanze dei giudici e legalizza l’illegalità, anticipando di tre giorni il Consiglio dei ministri in seduta straordinaria: mai vista tanta urgenza, nemmeno per l’alluvione del Polesine e i terremoti in Belice, Friuli e Irpinia. L’estensore della legge ad personam – la prima di una lunga serie – è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato. Ma Palazzo Chigi assicura che il provvedimento è solo temporaneo, per dare tempo alle Camere di varare un’organica legge sulle tv. Balle. Persino il Parlamento italiano si ribella e vota a sorpresa per l’incostituzionalità del decreto. Così i pretori tornano a imporre la legge e il Cavaliere a “oscurare” i suoi network, con annessa campagna di spot e programmi-piagnisteo. E Craxi minaccia gli alleati: elezioni anticipate se non salveranno il compare Silvio.
Orgasmo da Rotterdam. Il tempo stringe, il decreto sta per decadere, la sinistra annuncia l’ostruzionismo. Ma Craxi e Amato ottengono dal presidente del Senato Francesco Cossiga il contingentamento dei tempi per gli interventi delle opposizioni. Poi, per far decadere gli emendamenti, impongono la fiducia. Tanto, si dice, gli effetti del decreto scadono il 6 maggio 1985, dopodiché Berlusconi non potrà più trasmettere senza una nuova legge Antitrust. Che però non arriva. Scaduti i sei mesi, Palazzo Chigi concede un’altra proroga fino al 31 dicembre ‘85. Data peraltro fittizia pure quella: il governo stabilisce che il decreto non è “provvisorio”, ma “transitorio”. Cioè eterno. Il 3 gennaio ‘86, scaduta la proroga, basta una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la norma non necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che dice “comunque non oltre sei mesi…”. Silvio è salvo. Nel 2009, intervistato da Report su quel trucchetto da magliari, Amato anziché arrossire s’illuminerà d’immenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista… Quando discuto a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Non per nulla ora è giudice costituzionale.
(1 – continua)

L’agenda rossa di Beckett il revisore: “Aspettando Godot” in tedesco è tutta un’altra storia

È quella pettegola della moglie a riferirgli che, durante la prova generale, i pantaloni dell’attore non sono “caduti nel modo giusto”. Piccato, Samuel Beckett (1906-1989) scrive al regista Roger Blin, chiedendogli che “quel gesto” venga eseguito correttamente perché fondamentale a suscitare “il riso e il pianto” nello spettatore. Accade a Parigi, nel 1953, al Théâtre de Babylone: sta per debuttare Aspettando Godot.

Che lo scrittore irlandese pretenda – dei suoi testi – regie pedisseque e precise è risaputo, ma ora arriva, coup de théâtre, la smentita, firmata dallo stesso Beckett in una già mitologica “agenda rossa”: Quaderni di regia e testi riveduti – Aspettando Godot è un poderoso volume curato da James Knowlson e Dougald McMillan (e, per l’edizione italiana, Luca Scarlini), appena pubblicato da Cue Press del vulcanico Mattia Visani.

Primo di una serie dedicata al Premio Nobel – presto arriveranno gli appunti di Finale di partita et al. –, il libro rende conto di Warten auf Godot, la versione tedesca di Aspettando Godot, riveduta e corretta nel 1975, a ventidue anni dalla prima, per lo Schiller Theater di Berlino, dove l’autore firma anche la regia. “Dando forma alla confusione”, Beckett rimaneggia il canovaccio sin nel sottotitolo, aggiungendo lo spiegone Una tragicommedia in due atti, ma anche vivacizzando i dialoghi con intercalari secchi e ripetitivi – “Ah sì”, sic – dall’indubbio effettaccio comico. Forse ha poca fede nell’umorismo teutonico, e “forse” – a detta dei i curatori – è proprio “la parola chiave del suo teatro e della radicale incertezza della pièce… Per Beckett chiunque si scopre ‘un non-sapiente, un im-potente’”.

Sotto il bisturi dello spietato doc Samuel, Aspettando Godot in tedesco sembra tutta un’altra storia, ma solo se ci si concentra sulle minuzie (il sasso, non la roccia, su cui si siede Estragone, ad esempio): ottime per i filologi, perniciose per i teatranti. Dopotutto, sono gli stessi curatori ad ammetterlo, quest’opera “non è (nonostante gli sforzi da parte di alcuni critici di farla sembrare tale) un pamphlet filosofico con una spruzzata di teatro”. Semmai il contrario; un copione per palcoscenico con sbuffi di esistenzialismo e vaghe ambizioni suicidarie: “Ci impiccheremo domani. A meno che non venga Godot”. Seee.