Morte di dj Fabo, arriva l’assoluzione per Cappato

La sentenza di assoluzione è giunta in contemporanea alla notizia della morte della madre. Un giorno che non dimenticherà Marco Cappato che ieri è stato assolto dalla Corte d’assise di Milano dall’accusa di aiuto al suicidio per la morte di Fabiano Antonioni in arte Dj Fabo avvenuta in Svizzera nel febbraio 2017.

Per l’esponente dei radicali la pm Tiziana Siciliano ha usato la formula: “Perché il fatto non sussiste”. Gli applausi hanno salutato la lettura del verdetto dopo il precedente pronunciamento della Corte costituzionale – richiamato dalla pm Siciliano nella sua requisitoria – che chiariva già come nel caso di dj Fabo ricorressero i quattro requisiti indicati dalla Consulta che ha tracciato la via sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio. Tiziana Siciliano procuratore aggiunto ha sottolineato come: “Fabo è stato libero di scegliere di morire con dignità”.

I giudici togati e popolari della Corte d’assise di Milano hanno dunque accolto la richiesta di assoluzione avanzata dalla magistrata proprio sulla base della sentenza della Corte costituzionale che aveva sancito la “non punibilità del reato di aiuto al suicidio in presenza di determinate condizioni”. In aula era presente anche Valeria Imbrogno, fidanzata di Antonioni che dopo la lettura non ha esistano a commentare: “Fabiano oggi insieme a me avrebbe festeggiato perché è una battaglia in cui credeva fin dall’inizio. Adesso la battaglia continua per tutti i futuri casi che avranno bisogno di aiuto. Fabiano ha fatto tutto questo per dare la possibilità alle persone di poter essere libere di scegliere e oggi c’è riuscito”. Per Filomena Gallo legale e segretario dell’associazione Luca Coscioni: “La strada intrapresa era giusta fin dall’inizio”.

Tra le reazioni della giornata gli esponenti di Pro Vita commentano:“E’ una grave crepa nella diga che tutela il diritto alla vita. L’Italia farà la fine dell’Olanda”. Matteo Salvini: “Il suicidio di stato così come la droga di stato secondo me sono l’ultima delle ultime opzioni”, mentre i parlamentari 5 Stelle delle commissioni Giustizia e affari sociali promettono che dopo la pausa natalizia, in Commissione si tornerà a discutere della legge sul fine vita in Commissione. Cappato era a processo per aver accompagnato Fabiano Antoniani in una clinica svizzera per mettere fine alla sua vita. L’uomo, vittima di un grave incidente stradale, era tetraplegico e il radicale lo aveva aiutato sul piano legale e logistico. Durante l’udienza di ieri Cappato ha confermato come la sua scelta fosse stata dettata da “una motivazione di libertà, di diritto all’autodeterminazione individuale”. Aggiungendo: “ Fino alla mattina della morte gli ho prospettato la possibilità di scegliere una via alternativa”. L’udienza di ieri è stata sospesa per dieci minuti in segno di rispetto per il lutto di Marco Cappato, la madre era malata da tempo.

I deliri di Bibbiano: “Sette e cannibali minacciano i bimbi”

Una rete di pedofili che nasce nella Bassa modenese e arriva a Bibbiano, con la complicità di magistrati e clan ’ndranghetisti. Anche il piccolo Tommaso Onofri, rapito e ucciso a Parma nel 2006 da un muratore per chiedere un riscatto, sarebbe stato tra le vittime di questo gruppo. Una tesi finora senza alcun riscontro, raccontata da Federica Anghinolfi, ex dirigente dei servizi sociali reggiani, alla comandante della polizia municipale della Val d’Enza per convincerla che i bambini andavano strappati alle loro famiglie.

L’inchiesta “Angeli e Demoni” sulle presunte irregolarità nella gestione degli affidi di minorenni nella Val d’Enza sta arrivando alle sue ultime battute: tra pochi giorni arriverà l’avviso conclusivo. Per l’accusa, nella provincia di Reggio Emilia esisteva un vero e proprio sistema deviato: gli indagati avrebbero forzato i minorenni a raccontare di violenze mai avvenute per darli in affidamento e guadagnarci sopra. “Un programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”, scrive il gip Luca Ramponi nell’ordinanza in cui, togliendo gli arresti domiciliari ad Anghinolfi e al suo collega e braccio destro Francesco Monopoli, li sostituisce con un anno di interdizione dall’esercizio della professione di assistente sociale. Per Ramponi sussistono i gravi indizi di colpevolezza, ma non più il pericolo che i due – accusati, tra l’altro, di falsità ideologica, frode processuale, peculato – “compromettano la genuinità delle fonti di prova e delle testimonianze”.

Anghinolfi e Monopoli sarebbero tornati liberi comunque il 27 dicembre, scadenza naturale della “misura custodiale”. Anche un altro protagonista dell’inchiesta ha di recente subito l’interdizione per sei mesi dall’attività professionale coi minori: si tratta di Claudio Foti, psicoterapeuta e ideologo del gruppo che operava a Bibbiano. L’accusa per il fondatore del centro “Hansel & Gretel”, che operava nella struttura “La Cura” in Val d’Enza, è frode processuale: avrebbe convinto una minore di essere stata abusata sessualmente dal padre e dal suo socio. Una testimonianza indotta che ha portato la minorenne a non voler più incontrare il familiare, decaduto poi dalla potestà genitoriale. Foti avrebbe alterato lo stato psicologico e emotivo della ragazza per ingannare i giudici.

Circostanza, quest’ultima, che torna anche nelle parole che il gip Ramponi ha dedicato a Anghinolfi e Monopoli: “Con la convinzione della setta dei pedofili condizionavano anche l’operato dei periti e dei consulenti tecnici d’ufficio dei tribunali, a cui veniva riferito di non parlare con nessuno perché la setta era composta da magistrati e forze dell’ordine”.

Anghinolfi viene descritta come una professionista priva “di autocontrollo e di equilibrio, al punto da aver illegittimamente ordinato con toni militari a un agente della polizia municipale di arrestare un uomo che stava solo chiedendo notizie sull’affidamento dei figli”. Per il gip ci sono “numerose conferme probatorie” anche “sulle ipotesi di abuso d’ufficio e falsificazione delle relazioni”. Il gruppo di Bibbiano non si chiedeva mai se stesse sbagliando: il gip parla di “assoluta incapacità di controllo” sulle proprie convinzioni e di alto “tasso potenziale di criminalità”.

Pedofilia, cannibalismo, rituali pseudo-religiosi satanici: per la “zarina” reggiana tutto era connesso, tutti “complottavano” per trovare nuove vittime di cui abusare. Persino il clan ’ndranghetista Grande Aracri, decimato dall’inchiesta Aemilia, era coinvolto. Dalle pagine emerge un altro aspetto, segnalato dalla pm Salvi e accolto da Ramponi: “In ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità, il pericolo di reiterazione del reato, esistente nei mesi scorsi, è andato via via scemando al pari con l’allontanamento dalla vita pubblica”. L’alta attenzione mediatica, in sintesi, ha fatto calare la possibilità che Anghinolfi e Monopoli potessero “compromettere la genuinità delle fonti di prova e delle testimonianze”.

Su Facebook l’avvocato di Monopoli, Nicola Canestrini, ha annunciato ricorso alla Corte europea: “La caccia alle streghe che qualcuno ha alimentato e alla quale qualcun altro si è inchinato ha distrutto l’immagine pubblica degli indagati e ne ha messo in pericolo l’incolumità. Ho fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo perché credo fermamente che il giusto processo debba rispettare anche la presunzione di innocenza. Cosa che mi pare di poter affermare sia stata omessa salvo rarissime eccezioni”.

Alitalia, il fisco chiede il conto ai piloti della furbata dei “Capitani coraggiosi”

Natale amarissimo per i circa 5 mila piloti e assistenti di volo Alitalia. Non solo perché molti di loro tremano per il futuro critico dell’azienda, soprattutto dopo che il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli (5 Stelle), con la decisione di creare una holding ha di fatto aperto la port allo smembramento della società. Ma anche perché piloti e assistenti stanno finendo loro malgrado nella poco piacevole categoria degli evasori fiscali. Proprio in questi giorni stanno ricevendo dall’Agenzia delle entrate avvisi di accertamento sulle dichiarazioni dei redditi degli anni 2014 e 2015. L’Agenzia contesta loro un imponibile superiore a quello dichiarato, da un minimo di 5-6 mila euro per gli assistenti a un massimo di 15 mila euro per i piloti.

Detto in soldoni: per sanare ciò che secondo l’Agenzia delle entrate sarebbe stato evaso, piloti e assistenti dovranno versare all’erario cifre variabili da caso a caso, ma dell’ordine di alcune migliaia di euro. In più dovranno pagare anche le sanzioni previste dalla legge. Per piloti e assistenti di volo oltre al danno c’è la beffa. Perché essendo tutti dipendenti, ricevono a fine mese una busta paga che ovviamente non è preparata da loro, ma dall’azienda. E se irregolarità ci sono state nel calcolo delle retribuzioni, è all’azienda che lo Stato, cioè l’Agenzia delle entrate, dovrebbe addebitare la responsabilità.

È una storia che rasenta l’assurdo, i cui presupposti risalgono ai tempi in cui Alitalia fu privatizzata e affidata da Silvio Berlusconi ai Capitani coraggiosi. Già allora la ricetta per rilanciare Alitalia fu quella spiccia di risparmiare sul costo del lavoro.

Nel caso specifico Alitalia decise di garantire a fine mese agli assistenti e ai piloti uno stipendio con un piccolo taglio del 7 per cento, ma di cui veniva cambiata la composizione. La parte di salario in senso stretto veniva compressa e al suo posto veniva gonfiata la quota delle indennità. All’apparenza cambiava poco, ma nella sostanza il cambiamento c’era. Per i lavoratori le quote di retribuzione pagate come indennità non incidono sul calcolo del Tfr (trattamento di fine lavoro) né sulla tredicesima e quattordicesima mensilità. Erogando le indennità al posto del salario l’azienda avrebbe però risparmiato perché le indennità godono di un trattamento fiscale più favorevole: su di esse l’azienda paga una quantità minore di contributi previdenziali. I lavoratori in base alla stessa norma avrebbero pagato meno tasse nella misura della metà, ma in futuro avrebbero riscosso pensioni più basse. È proprio la metà di tasse non pagate che oggi l’Agenzia delle entrate chiede agli assistenti di volo e ai piloti.

L’innesco di tutta la vicenda è un’inchiesta sui criteri di erogazione della cassa integrazione all’Alitalia sollecitata da Cub trasporti e AirCrew Committee, condotta dall’Ispettorato del lavoro e che poi ha coinvolto anche Easyjet e Ryanair. Gli ispettori hanno ascoltato con scrupolo oltre 500 dipendenti Alitalia e si sono fatti pure consegnare le buste paga. È da lì che hanno scoperto l’abuso delle indennità erogate al posto del salario. Le richieste dell’Agenzia prendono spunto dai risultati dell’indagine dell’Ispettorato del lavoro.

La norma anti-Benetton resta Serve per rivedere i contratti

La battaglia sulle concessioni autostradali continuerà sui giornali, ma nella sostanza è finita: il testo del Milleproroghe è definito e al suo interno ci saranno anche le norme contro i signori delle corsie. Questo non toglie che i renziani e ovviamente le aziende del settore (che così generosamente finanziarono Open negli anni d’oro) considerino inaccettabile l’idea di introdurre per legge clausole non punitive per lo Stato all’interno dei contratti in essere.

L’unica cosa su cui sono tutti d’accordo riguardo all’articolo 38 della bozza del decreto è nel dare il via libera al regalino da 40 milioni all’ex deputato andreottiano e oggi imprenditore “autostradale” Vito Bonsignore: Anas, aggirando gli ostacoli incontrati finora al Cipe, potrà comprare a quella cifra il progetto della Catania-Ragusa benedetta da una legge dello Stato.

Quanto al resto la situazione è questa. Nell’ultima formulazione del Milleproroghe si stabilisce che se una concessione è revocata “per inadempimento” (tipo il crollo di un ponte con 43 persone sopra) allora le uniche clausole valevoli sono quelle previste dal Codice degli appalti (dlgs 50/2016): andrà cioè risarcito solo “A) il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti” (poca roba per le autostrade italiane); “B) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza della risoluzione”, ivi compresi quelli finanziari (non moltissimo); “C) il 10% del valore attuale dei ricavi risultanti dal piano economico finanziario per gli anni residui di gestione” (una discreta cifretta che però oscilla molto a seconda di cosa includere nel calcolo).

Verrebbero così aggirate le “clausole capestro” – peraltro nulle secondo il codice civile – introdotte per legge dal governo Berlusconi in alcune concessioni e che, all’indomani della tragedia del Morandi, portarono certi esegeti, forse preoccupati da eventuali problemi economici della famiglia Benetton, a stimare in 20 miliardi il conto della revoca (ma così saremmo lontani anche dai circa 10 miliardi calcolati da un esperto indipendente come Giorgio Ragazzi).

Curioso, peraltro, che questo dibattito all’interno del governo si svolga proprio mentre la Corte dei Conti deposita la sua relazione, anticipata dal Fatto a settembre, sulle concessioni autostradali, “una zona grigia caratterizzata da incertezza giuridica ed economica, con sacrificio dell’interesse generale a favore di quello privato”. Dibattito che si fa surreale alla luce del capitolo “Le clausole di favore per le concessionarie” – ovvero quelle “limitative della responsabilità (…) in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione” – in cui le toghe contabili scrivono di “una disciplina per più aspetti speciale ed eccentrica rispetto a quella legale (in particolare rispetto a quella prevista da codice civile e codice dei contratti pubblici) all’apparenza molto ‘sbilanciata’ in favore della concessionaria”, tanto da potersi parlare di “nullità manifesta”. Chissà se Renzi vorrà rivolgere anche alla Corte dei Conti l’insulto “azzeccagarbugli di provincia” riservato domenica ai colleghi di maggioranza.

Resta una domanda: qual è il fine di questa legge? Nel merito rende più facile la revoca di una concessione per inadempimento. Una fattispecie che potrebbe valere per Autostrade per l’Italia dei Benetton per via del viadotto di Genova, ma anche per il gruppo Gavio (crollo del viadotto sulla Torino-Savona) e il gruppo Toto (stato dei viadotti in Abruzzo): sono i tre conglomerati che controllano l’80% della rete autostradale, rete da cui hanno ricavato utili favolosi grazie a percentuali di redditività superiori al 60%, inesistenti in natura.

Il fine però – hanno spiegato nelle riunioni di questi giorni i ministri che hanno in mano il dossier, quelli di Infrastrutture ed Economia, De Micheli e Gualtieri, entrambi del Pd – non è tanto la revoca, quanto rendere più facile la “revisione” delle concessioni in essere (come da accordo di governo): in sostanza i gestori dovranno accettare il nuovo Regolamento dell’Autorità dei Trasporti (cioè incassare meno pedaggi e fare gli investimenti promessi, cosa che finora si sono guardati dal fare). Per i Benetton, poi, sarebbe prevista la revoca solo di una parte della rete.

La Borsa, in ogni caso, si sta portando avanti: Atlantia ieri ha perso quasi il 5%, un bagno da 880 milioni di capitalizzazione. La holding dei Benetton ha comunque già fatto partire la contraerea: ai lamenti dei renziani e della Confindustria del settore, si sono aggiunti alcuni media che hanno iniziato a diffondere analisi ispirate da Aspi che minacciano sfracelli per l’occupazione e sui mercati. La ministra De Micheli, invece, ha definito “inaccettabile” la lettera di Autostrade in cui si preannuncia una causa legale contro il governo.

Il futuro dell’alleanza giallorosa

Il voto finale alla Camera sulla manovra ha chiuso la cosiddetta Fase 1 del governo giallorosa, quella avviata in tutta fretta dopo la crisi d’agosto con l’obiettivo di evitare le elezioni anticipate e disinnescare l’aumento dell’Iva.  L’equilibrio tra gli alleati di governo è però messo in crisi da liti quotidiane e da un paio di ostacoli politici: il 26 gennaio si voterà in Emilia-Romagna e in Calabria, mentre incombe il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari già approvato alle Camere. Abbiamo allora chiesto a sei tra nostre firme ed esperti quale possa essere il destino del governo Conte 2, analizzando i motivi per cui l’esecutivo potrebbe cadere e spiegando su quali priorità, in caso contrario, la maggioranza dovrebbe avviare la Fase 2 della propria azione.

 

Antonio Padellaro
Le sorti del governo sono appese ai dispetti e agli interessi di parte

Un ospedale da campo dopo una battaglia: adattare all’attuale governo l’immagine di Papa Francesco a proposito della Chiesa non è blasfemia, ma senso della realtà. Infatti, è inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti mentre stanno per amputargli una gamba. Dopo la crisi di agosto, le elezioni subito, come preteso dall’uomo del mojito, significavano una nuova guerra campale che gli italiani avrebbero pagato con la stangata dell’Iva e i conti pubblici fuori controllo. Una volta approvata una legge di Bilancio di pura sopravvivenza già da gennaio l’ambulanza del Conte bis potrebbe ritirarsi, se 5 Stelle, Pd e Italia Viva ricominciassero a massacrarsi. Dipende non dall’interesse del Paese (figuriamoci!) ma semplicemente dall’interesse di parte. Dipende da quei grillini a cui ‘o presepe in casa Di Maio non piace. Dipende dall’ego Open di Renzi o dagli storcimenti Pd. Nelle guerre vere c’erano quelli che si sparavano sulle parti basse per non andare in trincea. Non per fare un dispetto alla moglie.

 

Peter Gomez
La logica dice che andranno avanti, ma occhio alle Regionali

Se la politica seguisse la logica diremmo che il governo durerà perché tutti i parlamentari, tranne quelli di Lega e Fratelli d’Italia, sanno che in caso di elezioni anticipate la loro poltrona è a rischio; perché la loro pensione matura dopo quattro anni e 6 mesi; perché c’è da eleggere il presidente della Repubblica nel 2022 e se Matteo Salvini vince lo farà quasi da solo; perché, se non si guarda a destra, di altri possibili premier più popolari di Giuseppe Conte non ce ne sono; perché votare con il Rosatellum significa dare alla Lega una maggioranza in grado di cambiare la Costituzione in senso presidenziale (cosa che non piace a sinistra e M5S); perché chi stacca la spina verrà punito dagli elettori. Ma visto che logica non alberga più nella nostra politica, come dimostra la decisione del leader leghista di far saltare il governo giallo-verde, diciamo che ogni previsione è impossibile. Anche se molto dipende dalle prossime elezioni regionali e dalla capacità dei giallorosa di stilare un vero programma in grado di far star meglio i cittadini.

 

Salvatore Cannavò
Basta litigi: l’alternativa a Salvini esiste sull’idea di “solidarietà”

L’approvazione della legge di Bilancio segna un giro di boa per il governo Conte. La manovra ha rappresentato il collante che ha consentito all’esecutivo di nascere, ma nel momento in cui viene approvata toglie un appiglio. Conte e i suoi partner di governo, d’ora in poi, dovranno dire essi stessi perché stanno insieme e cosa vogliono offrire al Paese. Innanzitutto dovranno decidere se vogliono stare insieme: il continuo gioco delle liti incrociate, infatti, rappresenta solo un suicidio assistito. Meglio finirla subito che andare avanti anche solo un altro mese con i rimpalli a cui Di Maio, Renzi e a volte il Pd ci hanno abituato. Se decideranno di stare insieme non serve chissà quale trucco contabile – contratto o cronoprogramma – per muoversi, ma un’idea di Paese e due-tre proposte da offrire a un’Italia stanca di austerity e privilegi. Se vogliono rappresentare un’alternativa a Salvini e alle destre, l’idea di fondo si chiama “solidarietà”. Le proposte sono conseguenti: politiche per i salari, lotta all’evasione, ecologia.

 

Valentina Petrini
Dopo troppe promesse a vuoto si deve ripartire dal “green”

Rispetto alle promesse fatte in autunno, la manovra non contiene sufficienti misure sul contrasto all’emergenza climatica. Da qui mi auguro che si riparta l’anno prossimo, perché su questo tema si sono esposti sia il presidente Conte sia la maggioranza. I piccoli aggiustamenti inseriti quest’anno sono troppo poco, se si pensa che gli investimenti green previsti sono di circa 450 milioni quando in Germania sono stati stanziati 50 miliardi. Il taglio dei sussidi alle fonti fossili uscito dal decreto Clima, per dirne un’altra, vale 19 miliardi, ma pare dovremo accontentarci di una commissione istituita presso il ministero dell’Ambiente. Il problema è che dentro la maggioranza hanno litigato anche solo sull’introduzione della plastic tax, su cui Italia Viva ha fatto le barricate perché riteneva danneggiasse un settore industriale. Se il governo Conte 2 avrà un futuro, allora dovrà essere improntato a una vera rivoluzione in questo campo. Purtroppo non è semplice, perché parliamo di un esecutivo nato su un accordo e non su una visione politica condivisa tra gli alleati.

 

Gianfranco Pasquino
Ambiente, frodi fiscali e giustizia: solo il Conte 2 può occuparsene

Le aspettative su questo governo non erano certo esagerate, viste le condizioni di emergenza su cui è nato. Nei limiti del possibile credo abbia fatto bene, una manovra senza squilli di tromba, ma adeguata perlomeno a rispondere alle esigenze più impellenti. Il punto ora sono le elezioni regionali, perché in caso di vittoria del centrodestra Salvini le cavalcherà come una vittoria nazionale. I numeri in Parlamento resteranno però gli stessi e io credo che il governo andrà avanti, tenendo sempre presente l’obiettivo del 2022 per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Le battaglie ancora da condurre sono tante, a partire dall’evasione, dalla giustizia e dall’ambiente, su cui qualcosa si è iniziato a fare. Tutti temi validi ma a volte difficili da comunicare, per cui alla fine la cifra della Fase 2 degli alleati dovrebbe semplicemente essere quella di una maggiore tranquillità per gli italiani. Cercando di far capire che si può fare di più, certo, ma che nessun altro governo può farlo.

 

Nadia Urbinati
Vedo il bicchiere mezzo pieno, ma ora serve la lotta all’evasione

Nel giudizio sulla prima fase del governo non bisogna dimenticare che la maggioranza è partita da una situazione di difficilissima interazione tra Pd e Movimento 5 Stelle. Lasciamo perdere tutti i discorsi sul “governo senz’anima”, perché non significa nulla. Io guardo il bicchiere mezzo pieno, considerando pure che i giallorosa sono riusciti a contenere l’avanzata della Lega con l’aiuto del movimento delle Sardine. C’è però un’emergenza ancora da risolvere che resta la più grande sfida per l’anno prossimo, ovvero la lotta all’evasione fiscale. Altro che l’invasione dei clandestini dall’Africa, questi sono i veri “clandestini” di cui dovremmo occuparci, perché ci consegnano tasse più alte e servizi peggiori. Finora ho visto tante divisioni interne alla maggioranza, forse perché gli evasori sono milioni di votanti. Ma su questo mi auguro che il governo possa lavorare in maniera più distesa.

Il gennaio di Zinga: Emilia e verifica di governo

Al solo accostamento della parola “sconfitta” con quella “Emilia-Romagna”, Dario Franceschini, capo delegazione dem al governo, accenna il gesto delle corna. Se Stefano Bonaccini perde le Regionali, il destino dell’esecutivo e di Nicola Zingaretti, pare segnato. E se vince? “Prima della verifica di governo, riuniremo il Pd per stabilire le nostre priorità”, dice Franceschini al Fatto. L’idea è un seminario in un’Abbazia il 13 e 14 gennaio. Lui resta governista. Ma anche il segretario pare ora convinto della necessità di provare ad andare avanti. “Nicola cercherà di durare”. raccontano nella sua cerchia più stretta. Se sarà possibile, è tutto da vedere.

La prescrizione è uno scoglio annunciato: i dem hanno mandato giù l’entrata in vigore del blocco il primo gennaio, ma hanno già presentato una proposta di legge. Una sorta di riproposizione della riforma Orlando, che, in caso di condanna, sospendeva la prescrizione per un anno e mezzo sia tra il primo e il secondo grado che tra il secondo grado e la Cassazione. L’idea è portare la sospensione a due anni tra il primo e il secondo grado e a un anno tra il secondo e il terzo. Mentre Forza Italia ha annunciato (con Annamaria Bernini) un referendum contro l’entrata in vigore del blocco, il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, ha confermato il vertice sulla giustizia del 7 gennaio. Nel Pd, chi sta seguendo il dossier assicura che “la legge verrà cambiata. Speriamo con i 5s. Altrimenti con chi ci sta”.

Il Pd nel Cdm di sabato ha bloccato l’entrata in vigore del Piano di Innovazione presentato dalla ministra Paola Pisano. Mentre sulle concessioni autostradali approvate nel milleproroghe, lo scontro potrebbe deflagrare in Parlamento. Ancora. Sul 5G le posizioni divergono. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, invita a valutare “con attenzione” la relazione del Copasir che ha messo in guardia sui rischi che potrebbero derivare dall’ingresso delle aziende cinesi Huawei e Zte nella tecnologia per reti mobili di quinta generazione. Il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, aveva invece spiegato che la normativa varata “garantisce la sicurezza nazionale”. La scelta riguarda il posizionamento nel conflitto geopolitico del futuro, con i dem che guardano più agli States (sono mesi che Trump fa pressione sul governo italiano, esortando gli alleati a non fare entrare i cinesi nel 5G) e il M5s più incline ad ascoltare la Cina.

Nel frattempo, Zingaretti è sempre più debole. Il partito si divide tra una parte più di “sinistra” che fa capo a Andrea Orlando e una parte più moderata, che vede la saldatura tra Franceschini e gli ex renziani di Base Riformista. Questi ultimi stanno boicottando l’idea di un congresso prima dell’autunno 2020: il tempo per trovare uno sfidante. Paradossalmente, la fine del governo potrebbe allungare la vita alla leadership di Zingaretti.

Manovra, il via libera finale: 334 Sì, 7 defezioni giallorosa

La Camera – nella notte di ieri – dovrebbe aver approvato in via definitiva la legge di Bilancio (usiamo il condizionale perché, mentre andiamo in stampa è in corso l’ostruzionismo del centrodestra sui voti residui). Nel pomeriggio, comunque, Montecitorio aveva concesso la fiducia al governo proprio sul Bilancio con 334 voti a favore (232 i contrari, 4 gli astenuti): non hanno partecipato al voto 4 deputati del M5S (Trizzino, Gubitosa, Ermellino, Mammì), 3 di Italia Viva (Portas, Bendinelli, Mor), ma anche Palazzotto di LeU e la dem La Marca.

Ora la maggioranza si prepara a verificare se esistono le condizioni per una fase 2 dell’esecutivo. Il ministro Gualtieri intanto ha messo le mani avanti: a gennaio sarà convocato un tavolo per il taglio del cuneo fiscale. E ha annunciato che la prossima manovra abolirà per sempre le clausole Iva. Temi caldi nel dibattito alla Camera, venato dalle sfumature dei distinguo tra i banchi della maggioranza. Sia sul blocco dell’Iva (che da solo è costato 23 miliardi di euro), ma pure sul cuneo per cui sono stati stanziati “solo” 3 miliardi.

Per Federico Fornaro (LeU), la legge di Bilancio è stata il primo banco di prova superato dal governo: “L’impegno fondamentale è stato rispettato: non far scattare le clausole di salvaguardia, anche se si poteva fare di più. Poi c’è l’abolizione della tassa più odiosa, da settembre, quella del superticket sanitario: una battaglia vinta”. E rivendicata da LeU, che esprime proprio il ministro della Salute, Roberto Speranza.

Per l’ex ministro dell’Economia, il dem Pier Carlo Padoan “è una manovra che guarda avanti. Ma si può fare di più. Andare avanti nella lotta alla evasione. Servono riforme strutturali senza scorciatoie”. Perché una soluzione definitiva e credibile sulle clausole di salvaguardia, ad esempio, è possibile, ma “richiede una visione strategica in un contesto di riforma fiscale a partire dall’Irpef, che sia basata sulla semplificazione e la progressività”.

E poi ci sono i 5 Stelle. Parla da Beirut Luigi Di Maio per annunciare che a gennaio va fatto un programma dei prossimi tre anni di governo e i 5 Stelle si presenteranno con le loro proposte, tra tutte il salario minimo e una legge sul conflitto di interessi. E la manovra? “Questa non è la manovra delle tasse”, dice il capogruppo pentastellato Davide Crippa rivolto all’opposizione, ma pure a Italia Viva che ha strapazzato gli alleati di governo su plastic tax e sugar tax, ma anche sui livelli del taglio del cuneo fiscale minacciando l’irreparabile fino all’ultimo istante.

E per gennaio il confronto va riaperto. “Finché non ci libereremo del macigno delle clausole di salvaguardia non torneremo mai ad avere una politica economica che possa aggredire il futuro di questo Paese: noi un paio di idee su come iniziare il 2020, e dal punto di vista dello choc agli investimenti e dal punto di vista di mettere mano finalmente al sistema fiscale, ce l’abbiamo e vogliamo sottoporle al dibattito pubblico”, ha detto Luigi Marattin di Italia Viva rilanciando l’invito che Renzi ha rivolto a tutti, a partire da Matteo Salvini, di appoggiare le misure di Iv. Insomma un puzzle difficile da incastrare. Mentre le opposizioni annunciano battaglia. Perché la svolta, almeno a sentire Giorgia Meloni, è vicina: “Si vota a marzo” per spazzare via un governo nato grazie a “capriole a cospetto delle quali gli artisti del circo di Moira Orfei sarebbero impalliditi” dice nel corso del flashmob organizzato da Fratelli d’Italia di fronte a Montecitorio.

In aula proprio FdI pratica l’antica arte dell’ostruzionismo contro la manovra (“che è una dichiarazione di guerra verso chi lavora e chi produce”) e pure contro lo svilimento del ruolo del Parlamento. Che ha spinto Alessandro Morelli (Lega) a scrivere a Sergio Mattarella perché si faccia sentire: “La Camera è stata esautorata dei suoi compiti sulla legge più importante”. Il nemico numero uno per Mariastella Gelmini di FI invece si chiama Matteo Renzi: “Continui pure a corteggiare i nostri parlamentari, ma se per caso implodesse questa casa di carta, non venga a cercarci: non ci sarà un vero forzista disposto a soccorrervi”.

“Serve un congresso Il Pd? Sì a intese locali, non imposte dall’alto”

La giacca l’ha lasciata su una sedia, ma il pensiero fisso non lo abbandona mai in un’ora di colloquio. “Serve verità” ripete il presidente della Camera Roberto Fico, ed è un’urgenza necessaria per i prossimi Stati generali del Movimento come per il governo giallorosso, piuttosto che per l’Italia, un Paese dove le piazze si sono riempite di Sardine. E Fico non può dolersene: “Pongono temi che sono richieste per la politica”.

Mentre parliamo, la Camera sta approvando la legge di Bilancio senza averla potuto modificare, quindi senza averne potuto davvero discutere. Uno spettacolo desolante per il Parlamento.

Tutto questo rappresenta un problema che si era verificato già l’anno scorso e che si ripresenta. La compressione dei tempi, con la legge di Bilancio presentata in ritardo, non è tollerabile. Per questo a gennaio proporrò a tutti i gruppi parlamentari una riforma per anticipare i tempi entro cui la legge va presentata in Parlamento. E bisogna interloquire con le istituzioni europee per anticipare la data in cui consegnare il progetto di bilancio.

Questo modo di procedere riflette le difficoltà del governo. Come si può cambiare passo da gennaio?

Per andare avanti tutti i governi devono avere una visione chiara delle cose da fare, degli obiettivi. E si può fissare con un cronoprogramma.

Quindi l’idea lanciata da Giuseppe Conte sul Fatto la convince?

Chiamiamolo cronoprogramma, ma possono anche essere cinque punti programmatici condivisi.

Ne dica alcuni.

Non voglio delineare il programma del governo. Però di certo bisogna portare a compimento quanto deciso dai cittadini con il referendum sull’acqua pubblica, con una legge apposita.

Ma cosa deve fare in prospettiva il M5S, lavorare a un nuovo centrosinistra come ripete Beppe Grillo o restare ago della bilancia, equidistante da destra e sinistra, come ha spesso detto Luigi Di Maio?

Prima di scegliere la strada il M5S deve fare una profonda riflessione interna, con dibattiti politici. Dopo dieci anni, deve riuscire a riconoscere se stesso. È fondamentale per dialogare meglio.

Perché il M5S si è smarrito? Per il potere, per i Palazzi?

Non parlerei di smarrimento. Piuttosto, c’è stata una crescita velocissima che nel giro di pochi anni ha portato i 5Stelle al governo. Il M5S ha dovuto fare i conti con le trattative con le altre forze politiche, con la gestione delle dinamiche parlamentari e con la complessità del lavoro quotidiano. Abbiamo subito dei contraccolpi. Dobbiamo capire dove abbiamo sbagliato e cosa ha funzionato, e fare una sintesi.

Tutto questo va fatto negli Stati generali di marzo?

Io ho sempre chiesto un momento e un luogo di riflessione. Dovranno essere consistenti, un momento di autentica partecipazione. Bisogna uscire fuori dal verticismo e arrivare a una maggiore collegialità. E arrivare a risultati politici.

Se li definisco come un congresso lei si impressiona?

Non mi impressiono affatto. Ma preferisco sempre cercare nuovi modelli. Di certo non dovranno essere un evento patinato: servirà verità, sul Movimento.

Perché si è creata questa distanza tra il capo politico Di Maio, i big e i gruppi parlamentari? Come vanno ripartite le responsabilità?

Per superare questa distanza serve un luogo dove dirsi le cose fuori dai denti. Ma serve anche un’organizzazione più complessa per un Movimento che di fatto è più complesso.

I facilitatori voluti da Di Maio bastano? O serve anche una segreteria politica?

Abbiamo bisogno di varie tipologie di organi. I facilitatori possono essere una fase. Dobbiamo valutare se sono sufficienti o se vanno seguite anche altre strade.

Molti eletti si sono lamentati per la nomina di troppe persone vicine a Casaleggio tra i facilitatori. E in generale, il patron di Rousseau sembra diventato un grande problema per il M5S.

Alcuni dei facilitatori sono stati nominati da Di Maio. Oneri e onori su queste scelte sono suoi.

Invece l’onere dei deputati 5Stelle che si sono candidati per il concorso della Camera è solo loro? È un fatto che restituisce una brutta immagine del M5S.

I concorsi saranno meritocratici, e li supereranno solo coloro che avranno studiato bene, con le proprie forze. Dopodiché i parlamentari che hanno i titoli possono partecipare. Ma è altamente inopportuno che lo facciano. E noi consigliamo loro di ritirarsi.

Diversi 5Stelle si ritirano, ma dal Movimento. Tre senatori hanno appena traslocato nella Lega, altri sono sulla porta, e qui alla Camera si parla di un nuovo gruppo di sostegno a Conte. Il M5S si sta sfaldando?

Penso che passare a un’altra forza politica non sia il modo di affrontare i problemi. Invece affermare anche in modo forte che certe cose vanno modificate all’interno del M5S è un diritto e un dovere. Però ricordo che c’è una parte consistente dei gruppi che lavora e ottiene risultati.

Le Regionali si avvicinano. Lei discuterebbe con il Pd e il centrosinistra di accordi a livello locale?

Sono convinto che non si può non dialogare. Quindi bene il confronto, anche con il Pd e a livello nazionale come a livello regionale, ma fatto in un certo modo.

Cioè?

A dialogare devono essere i gruppi sui territori, e devono farlo sui temi. E non ci devono essere scelte calate dall’alto. Bisogna lavorare per favorire la massima partecipazione dal basso, tenendo conto delle specificità di ciascun territorio.

È un processo che vede possibile?

È un processo a cui bisogna lavorare, perché l’obiettivo del Movimento è sempre stato quello di migliorare tutta la politica. Anche in linea teorica e astratta non sarebbe utile un M5S perfetto in uno scenario politico per il resto totalmente negativo.

In Campania lei lo candidirebbe il ministro Sergio Costa? Lui pare aperto all’idea…

Il punto non sono i nomi, ma i temi e i progetti.

Cosa sono le Sardine?

Io ho visto delle belle piazze con delle giuste richieste per la politica. Pongono temi che condivido.

In quelle piazze forse c’erano anche diversi 5stelle delusi, no?

Sì, direi di sì.

Se Stefano Bonaccini perderà in Emilia Romagna, il governo rischia di cadere?

No, i governi non devono rischiare su questioni regionali.

@lucadecarolis

The Slurpman

Siccome a Natale siamo tutti più buoni, vorremmo spezzare una lancia per Matteo Renzi. È vero, ogni giorno ci arriva una sua causa civile per danni (l’ultima, la settima in un mese, riguarda un articolo del Fatto del 1° luglio 2018, da cui solo ora si è sentito offeso, a scoppio ritardato). Ma, attratti come siamo dai perdenti, non riusciamo a liberarci di un’istintiva tenerezza per lui, almeno in questa fase terminale della sua parabola politica, mentre rilascia interviste su tutto a tutti dappertutto, pure ai videocitofoni, nel tentativo disperato di dimostrare che ancora respira, e mentre gli italovivi morenti bussano al Pd tentando la fuga dal suo partitucolo già fallito. Presto quelli che per cinque anni abbiamo conosciuto come renziani di chiara fama (e fame) fingeranno di non conoscerlo, anzi di non averlo mai conosciuto, cancellando post dai social, sbianchettando parole, opere e genuflessioni e confidando nella smemoratezza generale. Il più lesto, al solito, è Gianni Riotta detto Johnny perché, essendo nato a Palermo, si crede americano. L’altro giorno abbiamo citato alcune sue leccate d’antan a Renzi&Boschi, tratte da una sua memorabile lezione in inglese del 9 settembre 2014, in piena Era Matteiana, all’Institute of International and European Affairs di Dublino, dal titolo From Berlusconi to Renzi: Old Troubles, New Challenges.

Le avevamo già riportate in altre occasioni, anche nel libro Slurp, ma sempre sotto il governo Renzi. Dunque Johnny si era sempre guardato dallo smentirle: anzi, ne andava fiero e teneva a farle conoscere a chi di dovere. Ora invece che il renzismo è in disgrazia elettorale e giudiziaria, nega pietosamente di aver detto ciò che ha detto. E cinguetta su Twitter: “Marco Travaglio deve inventarsi sul suo giornale false citazioni di miei articoli pur di provare a far ridere qualcuno dei suoi, stremati, lettori. Purtroppo, negli articoli di Travaglio sono invece le vere citazioni a farci ridere”. Tweet subito seguito da una profluvie di lodi dei suoi fan, intervallati da alcuni dissenzienti che lui zittisce stizzito. Tipo quelli che chiedono quali sarebbero precisamente le “false citazioni” che gli avrei attribuito per far ridere i miei “stremati lettori”, come se non bastassero quelle vere. Purtroppo, nella fretta, il Cortigiano Johnny si è scordato di far rimuovere da Youtube il video integrale della sua lezione all’IIEA: il link è www.youtube.com/watch?v=WsG–yHJgCk, utilissimo sia per combattere la stitichezza sia per verificare se sono io che invento false citazioni di Riotta o è lui che slurpava Renzi&Boschi e ora comprensibilmente se ne vergogna.

Da Dante a Matteo, il cow boy scout. Minuto 7 e 35 secondi: “Come sapete, Matteo Renzi era il sindaco di Firenze. È facilissimo governare Firenze. Dopo l’esilio di Dante e dopo il Rinascimento, a Firenze, non è più successo niente (Firenze divenne fra l’altro la capitale del Regno d’Italia, ma sono cazzate, ndr

). Governare Firenze è facilissimo perché è una città ricca, solida, che si governa da sola. Fare il sindaco di Firenze è un po’ come fare il direttore del Louvre a Parigi: è un lavoro comodo e redditizio. Poi Renzi ha deciso di partecipare alle primarie: dal museo al Far West”.

La congiura de’ Renzi. 9’ 15’’: “Con un colpo da maestro fiorentino (a very florentinian coup), è riuscito a conquistare il posto di primo ministro dal suo predecessore, Enrico Letta e, per questo motivo, nel suo partito molti l’hanno criticato. Io penso che sia stata una mossa del tutto naturale: c’è un giovane politico ambizioso che vince le primarie e vuole il posto, non vuole restare in panchina a cuocere a fuoco lento: prende il posto e affronta la sfida”.

La Star Molto Bionda. 9’ 52’’: “Il suo governo è un governo molto fotogenico ma, allo stesso tempo, è pieno di star”. 10’ 25’’: “Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi subisce molte, molte malignità da parte della stampa italiana perché è bella e bionda, molto bella e molto bionda, ed è, allo stesso tempo, una giovane avvocato capace di mettere in soggezione e che sa molto bene il fatto suo e io non vorrei mai essere dalla parte opposta alla sua a un tavolo di confronto”.

Un po’ Prometeo, un po’ Alessandro Magno. 12’ 06’’: “Non voglio dire che Renzi quest’energia l’abbia creata. L’energia era già lì, ma Renzi è riuscito a inserire la spina per sprigionarla. Renzi è riuscito a dire a una generazione che voleva cambiare il Paese: ‘Seguitemi e andremo!’”.

Johnny is happy. 13’ 47’’: “Gli italiani avranno tutti i peggiori difetti di questo mondo, ma sono persone di buon senso. L’Italia reale, non quella che vedete alla televisione, ma quella delle persone riunite a tavola il giorno di Natale, ha votato per Grillo per dare un segnale di cambiamento, ma quando ha visto che con Renzi poteva incanalare la sua protesta in un modo razionale e non irrazionale, alle elezioni europee ha dato il 40% dei voti a Renzi e il 20% a Grillo… E io sono contento (happy)

che Renzi sia riuscito a ottenere questo”.

Meravigliosa creatura (e pure sexy). 15’ 03’’: “Abbiamo un giovane primo ministro fotogenico, forte, intelligente, sexy, digitalmente esperto, con il suo meraviglioso governo”. In lingua originale, suona ancora meglio: “We have a photogenic, strong, smart, sexy, digitally oriented, young prime minister with his great cabinet”.

Cari, stremati lettori, vi ho inflitto questa raccapricciante cascata di bava proprio a Natale non per cattiveria, ma per spirito di servizio. Se è vero, come diceva Indro Montanelli, che “in Italia non è il padrone che fa i servi: sono i servi che fanno il padrone”, Riotta è più utile dell’oroscopo di Branko: per sapere chi sarà il prossimo padrone, seguite la lingua di Johnny Lecchino. Non sbaglia mai.

L’azzurra del Pentathlon: “Io vinco con la testa”

Come le migliori soirée di gran galà, il pentathlon moderno prevede che l’atleta indossi una toletta diversa per ciascuna disciplina (scherma, nuoto, equitazione e laser–run, una combinata di corsa e tiro a segno). Difatti, tenendo da parte soltanto per un attimo le ovvie difficoltà fisiche e mentali connaturate al passare in breve tempo da uno sport all’altro – che la rendono una delle competizioni più difficili e imprevedibili insieme –, è la sua etichetta ad affascinare un occhio più lieve e attento (si fa per dire) a quelle che Marcel Proust definiva mondanamente causeries (chiacchiere).

Ma non facciamo in tempo a fantasticare di interminabili sessioni di posa da parte dei pentatleti davanti allo specchio alla ricerca dell’abbinamento perfetto prima di esibirsi, che subito Elena Micheli smonta ogni glamour salottiero a riguardo, con un sorriso: “La maggior parte delle volte, purtroppo, i tempi sono talmente serrati che non è possibile nemmeno farsi una doccia tra una disciplina e l’altra”. Niente vezzi, allora, e nessun cappello a falda larga od ombrellini che svolazzano al vento come nei dipinti L’altalena di J.–H. Fragognard o Il volano di Giuseppe Zocchi, ma solo molta fatica e altrettanta concentrazione.

Romana, classe 1999, Elena è la stella italiana del pentathlon moderno: “Ho iniziato da piccola. I miei genitori lavoravano e così lasciavano me e i miei fratelli, anche loro pentatleti, in un centro dove ho praticato tantissimi sport”. Elena dimostra subito attitudini spiccate per la corsa e il nuoto e a 14 anni viene convocata per le qualificazioni europee delle Olimpiadi Giovanili. L’anno scorso, nel 2018, è medaglia d’oro ai Campionati del mondo giovanili e quest’anno ha debuttato al Mondiale senior, aggiudicandosi la medaglia d’argento, qualificandosi di diritto alle venture Olimpiadi di Tokyo 2020. “Sono scoppiata a piangere dalla gioia, un’emozione unica. Era un podio che mancava da 15 anni all’Italia”.

A differenza dell’antica disciplina greca (da cui deriva e che prevedeva salto in lungo, lancio del giavellotto, corsa, lancio del disco e lotta), una gara del pentathlon moderno ha la durata di un giorno e mezzo ed è così strutturata: il primo giorno si svolge il torneo di scherma; il mattino seguente si procede con 200 m di nuoto in stile libero; poi gli assalti diretti di scherma (in base al piazzamento del torneo della vigilia); nel pomeriggio si passa alla gara di equitazione (salto ad ostacoli); infine si giunge alla combinata laser-run (pistola al laser con bersaglio posto a 10 m da cui centrare 5 obiettivi dopo aver compiuto un giro di 800 m di corsa: il tutto per 4 volte). “È uno sport con molte variabili: può succedere di tutto nell’arco di una giornata, quindi devi sbagliare meno delle altre”, commenta Elena in una pausa dei suoi serrati allenamenti durante i quali, spiega ligia: “Alterno una disciplina atletica (nuoto o corsa) e una tecnica al mattino, e le restanti al pomeriggio”.

Di questa ragazza alta 177 cm e dal fisico slanciato, non colpiscono soltanto i lunghi capelli neri che incorniciano un volto suggestivo alla Modigliani, o gli occhi grandi e mobilissimi che condiscono la sua eloquenza. Avendo a che fare con Elena, si nota subito la sua intelligenza vivissima: appassionata di poesia e grande lettrice, resta sempre molto presente a se stessa durante le gare e gli allenamenti.

Al di là infatti della preparazione atletica, il pentathlon è una disciplina complessa, intrigante e soprattutto mentale: “Devi stare nella tua bolla di concentrazione e non pensare alle altre da un lato, ma dall’altro devi avere sempre tutto sotto controllo”. E ragione e volontà indomite – proprio come il suo mito Federica Pellegrini che definisce “intramontabile” –, Elena le ha dimostrate a questi ultimi Mondiali: nell’ultima gara, è seconda davanti alla britannica Katie French; durante lo sprint finale, quando mancano poco più di 100 m, French la supera tentando di beffarla. Ed è lì che, con saggezza da veterana – mentre di anni ne ha solo 20 –, si è lasciata dapprima superare per dare all’avversaria l’illusione di riuscire e poi è passata al contrattacco con un allungo finale agli ultimi 50 m. “Un argento di testa!”, chiosa Elena mentre rammemora con gli occhi fieri la sua avventura iridata (che tuttavia, impegnati come siamo a trasmettere calcio a tutte le ore, nessuna emittente televisiva italiana ha mandato in onda) e con il pensiero alle Olimpiadi, da aggredire con la fermezza della pentatleta geniale.