Dalle creme antismog ai solari: bufale che fanno male alla pelle

Almeno un italiano su tre cerca sulla rete informazioni sulla salute. E di questi, oltre il 90% effettua ricerche su specifiche patologie. Ma sempre più spesso i contenuti che consultano sono contaminati da bufale. Tanto che, secondo un rapporto Agi-Censis, durante il 2019 quasi 9 milioni di italiani hanno ritenuto di essere stati vittima di fake news in materia sanitaria come la dermatologia e, di conseguenza, la cosmetologia e il make-up. Sono, infatti, tra i campi più sfruttati per dire e fare falsa informazione, vendere intrugli e convincere che quello che viene proposto come miracoloso al limite è un prodotto che contiene solo ingredienti di comprovata efficacia. Con il rischio di far passare il fattore prezzo come unica garanzia certificata, anche se nella maggio parte dei casi si tratta solo di marketing. Il prestigio di una marca e la fama dei suoi testimonial vanno di pari passo al costo dei prodotti.

E, intanto, gli esempi di una “cattiva informazione” abbondano. Persistono gli allarmi sui cosmetici sperimentati su conigli e topi anche se dal 2013 è vietata in Europa la vendita di prodotti testati sugli animali. Trionfano, poi, la bava di lumaca che rigenera la pelle: risultato, però, impossibile da verificare. Ma i vasetti che la contengono sono venduti a peso d’oro. Poi ci sono le sponsorizzatissime creme al botox. Peccato, però, che la tossina botulinica sia vietata in forma di cosmetico. Non esistono, dunque, vere creme al botulino, ma prodotti che millantano la presenza della tossina solo a scopi pubblicitari. Del resto si contano fino a 31 ingredienti in un balsamo per capelli, 45 sostanze in una crema da giorno, 28 tipologie in un bagnoschiuma, 40 composti chimici in una lacca per capelli. Ingredienti che, messi insieme, vanno sempre d’accordo con la nostra pelle? Come ci si può orientare nella scelta dei prodotti che ci mettiamo sulla cute (non provate a chiamarla pelle, i dermatologi sono assai suscettibili sull’argomento)?

“Il sicuro per legge non esiste. Dobbiamo affidarci al principio di precauzione, così come accade per l’alimentazione e le etichette. Molte sostanze, considerate sicure, poi sono state vietate. Questo a conferma che mancano i dati di sicurezza sulla lunga distanza di utilizzo”, spiega la dermatologa Pucci Romano, presidente dell’associazione scientifica di ecodermatologia Skineco. “Per essere efficace – spiega la specialista – un cosmetico deve rispondere alle normative che già lo regolamentano, rispettare la pelle (dermo-compatibilità) e l’ecologia. Anche perché non esiste ancora una legge che preveda di “misurare” cosa e quanto finisce nell’ambiente, in fiumi e mari. In questo settore dovrebbe valere il principio di precauzione, secondo cui non vanno usate quelle sostanze che non si conoscono. Basta pensare che solo tra i perturbatori endocrini, agenti sulle funzionalità ormonali, esistono 197 sostanze non indagate che però vengono ugualmente utilizzate nei cosmetici”. Insomma, è tanto facile spalmarsi un prodotto sul corpo quanto rischiare grosso. Ecco delle accortezze elaborate dalla dottoressa Romano per capirci qualcosa di più, ricordando che “la crema dovrebbe mettere la pelle nella condizione di fare il suo lavoro: non sostituirla, ma solo di accudirla”.

Inci. è la lista degli ingredienti contenuti nel prodotto, elencati in ordine di percentuale dalla più elevata alla più limitata. Bisogna controllare che tra i primi componenti non figurino sostanze come siliconi e petrolati che, tra le altre cose, se usati in modo continuativo provocano un’azione disidratante che può portare a una reazione paradossa come la comparsa di pori dilatati e pelle grassa. Alcuni di essi sono stati catalogati come cancerogeni. Occhi aperti sugli emulsionanti che corrispondono ai suffissi Peg (6, 20, 75), Eth e Oxynol, come ad esempio il Polyethyleneglycole. Altre sostanze come l’ethylene glycol sono dannose per salute e ambiente. Inoltre, in attesa che si faccia chiarezza, dobbiamo prestare attenzione anche alle eventuali percentuali presenti di parabeni, benzofenone, cinnamati.

Creme antismog. Sono tra gli ultimi ritrovati presenti su scaffali di farmacie e supermercati, ma sono veramente pochissime le industrie che hanno eseguito delle indagini per certificare il reale valore del particolato atmosferico sulla nostra pelle.

Filtri solari. Se nei resort del Pacifico, come le Hawaii, sono state messe al bando le creme solari, considerati disturbatori endocrini visto che inquinano dal punto di vista ormonale, alterano i coralli e li rendono ermafroditi, sarebbe meglio anche se l’uomo ne limitasse l’uso. Le creme solari trapassano la pelle, arrivando nel sangue, come un lavoro scientifico recente ha dimostrato. Vanno usate solo lo stretto necessario, l’invecchiamento della pelle è legato al modo sbagliato di esporsi al sole.

Vendite in calo nel 2020, saliranno i noleggi

Il computo finale relativo al mercato auto 2019 – che dovrebbe veleggiare attorno quota 1,9 milioni di unità – non arriverà prima di una decina di giorni. Ma gli analisti di Dataforce hanno già fatto le loro previsioni: nel 2020 saranno 1,84 milioni le autovetture immatricolate, in lieve flessione rispetto al 2019. A rimanere stabile sarà il mix di vendita, che vedrà oltre il 58% delle targhe intestate ai privati.

E se pure le immatricolazioni alle flotte aziendali, acquistate in proprietà e leasing, potrebbero attestarsi su livelli più bassi – 90 mila nuove targhe contro le 96 mila di quest’anno, con una market share che diminuirebbe dal 5,1% al 4,9% – continuerà, invece, l’aumento del gradimento per la formula del noleggio a lungo termine: dal 14,5% al 15,2%, raggiungendo quota 315 mila auto nel 2022.

“In ulteriore flessione, come già avvenuto quest’anno, le auto–immatricolazioni dei concessionari e delle case automobilistiche: circa 238.000 a fronte delle 252.000 del 2019. Occorre considerare che nel 2018 le auto–immatricolazioni raggiunsero un livello record di 300.000 unità”, spiega Dataforce.

Tuttavia, la contrazione degli acquisti automobilistici degli italiani porterà, affermano gli analisti, a “un ritorno alla crescita delle auto–immatricolazioni nel 2021, e poi a una discesa l’anno seguente, quando le immatricolazioni ai privati torneranno a salire”.

In salute il mercato delle importazioni parallele, ovvero delle auto nuove che provengono da altri Paesi: quest’anno supereranno le 190 mila unità, con una crescita vicina al 30% e, nel 2020, infrangeranno la barriera delle 200 mila unità. Quindi, se quest’anno le auto parallele sfioreranno il 10% del mercato, nel prossimo biennio raggiungeranno il 12%.

Ora Fca è di Tavares. C’è un solo uomo al comando

Si stimavano, Marchionne e Tavares. Nonostante concezioni agli antipodi sul lavoro e sulla vita. Workaholic senza soste e non certo un car guy il primo, pilota provetto (collauda di persona i nuovi modelli) e family man il secondo. Parlavano spesso, e il numero uno del gruppo francese non mancava mai di esprimere la sua stima per l’amico Sergio.

Su una cosa, però, non erano d’accordo: la fusione Psa–Fca. Ipotesi che entusiasmava Tavares, il quale non a caso aveva tentato approcci già nel 2016 e nel 2017, cordialmente respinti da Marchionne; secondo cui non si trattava del “partner giusto”. Salvo poi non spiegare mai il perché. Anche se qualcuno è convinto che nella sua testa, soprattutto perché la stragrande maggioranza dei profitti Fca veniva e viene tuttora dal Nord America, avesse solo la Gm di Mary Barra.

Nonostante i ripetuti e fermi, al limite dello stizzito, dinieghi di lei. Non è un caso, dunque, che “l’accordo destinato ad entrare nella storia”, per dirla alla John Elkann, si faccia proprio quando Marchionne non c’è più. E dopo che lo stesso Tavares ha aspettato pazientemente che saltasse il banco con Renault, cosa di cui evidentemente era abbastanza sicuro. Così come del fatto che Fca, per la quale ha da tempo nel cassetto un piano di rilancio, da sola non potesse più andare avanti.

Carlos Tavares era già pronto a subentrare, dunque, e lo ha fatto in tempi record. Del resto, è uomo d’azione. Lo dimostra la sua storia. Troppo stretti i panni del vice Ghosn in Renault–Nissan, meglio andare in Psa (era il 2014) e salvarla dalla bancarotta, come pure riportare agli utili (+700 milioni di euro, nel primo semestre 2019) in soli 18 mesi un marchio come Opel, che perdeva qualcosa come due miliardi di euro all’anno e ormai non ricordava più cosa significasse avere scritte in blu sui propri conti.

La parola d’ordine, insomma, è pragmatismo. Quello di un uomo, destinato a salire sul ponte di comando della futura Psa-Fca, che poco bada ai fronzoli e molto alla sostanza. Prima di tutto, bisogna fare i soldi: per farli, si deve essere efficienti e trattare quelli dell’azienda come se fossero i propri, senza sprechi.

Un mantra che Tavares ha sempre ripetuto negli anni, ovunque lo portasse la sua carriera. Un po’ come Marchionne, rispetto al quale tuttavia il portoghese predilige gli utili che vengono dal prodotto auto, piuttosto che dalle strategie finanziarie.

Il rigore è la bussola di un manager che, se lo riterrà necessario, non esiterà a “razionalizzare”. Ovvero, nonostante i proclami sul mantenimento dei livelli occupazionali, sacrificare posti di lavoro. Sebbene la sua storia insegni che non è una priorità, quanto invece l’efficienza complessiva del sistema azienda. Non è un patito dei volumi, quanto della profittabilità. I sacrifici è abituato a farli in prima persona, con uno stile di vita frugale e viaggi in treno o in aereo rigorosamente in seconda classe. Dai suoi top manager esige contraddittorio e apporto di idee diverse, anche se alla fine è sempre lui a scegliere. Insomma, basso profilo, meritocrazia e niente yes man. In Italia dovremo abituarci.

Corsica in mano ai clan mafiosi: La mangiatoia di fondi europei

Un impressionante dispositivo antifrode è stato dispiegato il 6 dicembre scorso in cinque aziende agricole di Moltifao e Asco, due paesini di montagna del centro della Corsica: decine di gendarmi, funzionari della Direzione dipartimentale del territorio e del mare e ispettori della previdenza sociale agricola. Le aziende cadute nel mirino del Comitato dipartimentale antifrode (Codaf) hanno ricevuto un totale di 850 mila euro di finanziamenti pubblici tra il 2015 e il 2019. Ma la giustizia sospetta che l’allevamento sia solo una copertura. Al centro dell’inchiesta c’è Patrick Costa, 47 anni, la cui famiglia appartiene “storicamente” alla Brise de mer, clan mafioso che per decenni ha dominato il crimine organizzato in Alta–Corsica, fino alla morte di diversi boss, e soprattutto di Maurice Costa, lo zio di Patrick Costa, assassinato il 7 agosto 2012 in una macelleria a Ponte–Leccia. Il controllo antifrode riguarda anche Pierre–Dominique Costa, figlio di Patrick, agricoltore dal 2017.

La famiglia Costa, che conta diversi fratelli, sorelle, nipoti e cugini, tra cui notabili e criminali, ispira rispetto e timore in tutta l’isola. Nelle regione centrali, Jacques Costa, un altro zio di Patrick Costa, è il capo assoluto. Sindaco di Moltifao, oltre che ex vicepresidente del Consiglio generale d’Alta–Corsica, Jacques Costa ha sostituito Jean–Luc Chiappini, assassinato nell’aprile 2013 ad Ajaccio, come presidente del Parco naturale regionale della Corsica, che copre il 40% della superficie dell’isola e comprende 145 comuni. Un posto di potere che gli permette di distribuire lavori e appalti pubblici in un mondo rurale sempre più spopolato. Dominique Costa, detto “Mimì”, un altro zio, è tornato al paese di recente dopo un lungo soggiorno in prigione. Anche lui ufficialmente fa l’allevatore, cosa che gli ha permesso di ottenere 38 mila euro di sovvenzioni europee nel 2017–2018 e 40 mila euro l’anno prima. Negli ultimi anni però ha trascorso più tempo in fuga o in prigione che a prendersi cura dei suoi animali. Dal 1997 è stato condannato quattro volte a un totale di 16 anni di carcere. Nel marzo 2015, diversi membri della famiglia Costa sono stati giudicati dal tribunale di Marsiglia per reati finanziari (riciclaggio di denaro, abuso d’ufficio, estorsione in associazione criminale, ecc.). Jacques Costa in particolare è stato condannato a 18 mesi di prigione (con la condizionale) e suo fratello Dominique a 4 anni. Nella richiesta di rinvio a giudizio, il giudice aveva scritto: “L’attività d’allevatore di alcune decine di capi di bestiame avanzata da molti membri della famiglia Costa pare insufficiente a spiegare la loro ricchezza ostentata”.

Dal 2015 la situazione è cambiata. L’allevamento di vitelli da carne continua a rapportare poco, ma i redditi derivanti dai contributi della PAC, la politica agricola comune, sono aumentati, e di molto. I fondi versati a Patrick Costa sono raddoppiati tra il 2013 e il 2016, passando da 38 mila a 87 mila euro all’anno. Nuove regole hanno inoltre permesso agli allevatori di dichiarare enormi parcelle di terreno come pascolo per gli animali, che si incrociano sempre più spesso anche nelle strade e dentro i paesini. I Costa hanno approfittato della generosità dell’Europa?

La procura di Bastia sta cercando di stabilirlo. Fedele alla tradizione di famiglia, Patrick Costa si presenta come allevatore e dice di possedere 87 bovini. Nel 2018 ha dichiarato 570 ettari di terreni agricoli, 282 dei quali hanno i requisiti per ottenere i sostegni dalla Pac. I terreni che occupa a Moltifao li ha presi in affitto dalla città, il cui sindaco è lo zio Jacques. Anche la sua compagna, il figlio e due amici hanno dichiarato vasti terreni per piccole mandrie. In tutto, le cinque aziende su cui si stanno concentrando gli inquirenti hanno dichiarato più di 1.500 ettari (di cui 642 eleggibili per i contributi europei) nel 2018, per 174 bovini. Due mesi fa, il 9 ottobre, Patrick Costa e la compagna, Lucille Guidoni, sono già comparsi in tribunale, a Bastia, per truffa ai fondi per l’agricoltura, assegnati dall’Ufficio per lo sviluppo agricolo della Corsica (ODARC), tra il 2013 e 2015. È stato condannato a 18 mesi (con la condizionale) e 10 mila euro di multa. La compagna a 10 mesi (con la condizionale) e 5 mila euro di multa.

Meno noto degli zii, Patrick Costa è comunque conosciuto dalla giustizia per i suoi legami con la criminalità organizzata. Nel 2015, è comparso davanti al tribunale di Marsiglia, insieme ad altre 30 persone, per traffico di droga e armi, che venivano imbarcate sulle navi della ex compagnia di navigazione SNCM. Un traffico gestito dal clan del Master Café, nato negli anni 2000. Patrick Costa era stato arrestato nel settembre 2013 in place Saint-Nicolas de Bastia, insieme a Christophe Catta, uno dei cinque allevatori finiti nel mirino degli inquirenti, con un Audi A3 a noleggio carica di armi. Ai giudici Costa aveva dichiarato tre attività: allevatore, gestore di un bar, Le Pont Génois, a Asco, e dipendente del Parco naturale regionale della Corsica, attività quest’ultima che svolgeva solo su carta. Lo stesso è emerso riguardo al presunto mestiere di allevatore. In questo fascicolo, Costa è stato condannato a due anni di prigione (di cui uno con la condizionale), per porto d’armi illegale, ma è stato rilasciato per l’accusa di traffico di droga.

Il suo legale Damien Benedetti, contattato al telefono, nega che ci sia frode ai danni dell’Unione: “È un giovane ben inserito nella società – dice del suo cliente – che non ha più avuto problemi con la giustizia da quella condanna per un errore di gioventù. Aveva fornito agli inquirenti i documenti relativi ai 12 bovini. Ora vuole solo vivere tranquillo”.

La nuova inchiesta sulla famiglia Costa mostra che i giudici hanno preso a cuore la questione delle frodi agricole. La prima inchiesta, aperta il 13 novembre 2018, è già chiusa: Jean-Dominique Rossi, ex direttore della Camera dell’agricoltura di Corsica del sud, dovrà comparire davanti al tribunale di Ajaccio, il 7 aprile 2020, per truffa e riciclaggio in associazione criminale. Negli ultimi tre anni, si sarebbe appropriato indebitamente di 1,4 milioni di euro di fondi europei a vantaggio di diversi membri della sua famiglia, approfittando della sua posizione e delle sue conoscenze negli organismi del settore agricolo. Rischia fino a 10 anni di prigione. Nega tutti i reati di cui è accusato. La seconda inchiesta, aperta l’8 aprile 2019 in Alta–Corsica, è ancora in corso. Essa riguarda la famiglia di Jean–Sauveur Vallesi, allevatore anche lui e anche lui ben inserito nelle istanze di settore in quanto impiegato alla Federazione dipartimentale dei sindacati degli agricoltori (FDSEA) d’Alta-Corsica. Il sistema che Vallesi ha creato è simile ai precedenti: la sua azienda è stata suddivisa in parcelle fittizie tra più gestori (lui, la moglie e i due figli) e la famiglia avrebbe quindi dichiarato vasti terreni (1.200 ettari per 180 bovini), senza che l’attività venisse realmente svolta.

Altre tre inchieste giudiziarie sono state aperte in Corsica del Sud per fatti analoghi. La scelta di ricorrere a indagini preliminari, che producono risultati rapidi, presenta però degli inconvenienti. Il metodo è criticato soprattutto dagli avvocati degli indagati, che scoprono il fascicolo dei loro clienti solo una volta che questi vengono convocati. “Di solito, in questo genere di casi complessi, viene privilegiata l’apertura di un’informazione giudiziaria, con il giudice che esamina gli elementi a carico e a discolpa, in modo tale da garantire i diritti della difesa”, osserva Camille Romani, avvocato di Jean–Dominique Rossi, sentito al telefono. Il legale ha chiesto la revoca del controllo giudiziario del suo cliente e ha fatto appello per le confische realizzate su dei terreni e appartamenti.

La scelta procedurale non soddisfatta neanche Anticor, l’associazione di lotta contro la corruzione, che dubita dell’indipendenza dei procuratori di Ajaccio e di Bastia rispetto al potere esecutivo. “Chiediamo che venga nominato un giudice istruttore che possa intervenire, più in generale, su tutto il sistema di frode, comprese eventuali complicità all’interno dell’apparato dello Stato. Bisogna indagare tanto su chi riceve le sovvenzioni che sulle autorità che verificano le assegnazioni. Le inchieste devono poter essere portate avanti senza che ci siano pressioni né geografiche né istituzionali”, ha dichiarato Jérôme Karsenti, avvocato dell’associazione. Anticor ha dunque sporto denuncia, constituendosi parte civile, il 15 maggio 2019, per “appropriazione indebita su larga scala di finanziamenti europei in Corsica”, presso il polo finanziario del tribunale di Parigi. Da allora nessuna notizia. Eppure la situazione è urgente. La Francia è in effetti bersaglio di aspre critiche da parte dell’Unione poiché i contributi erogati rientrano nel bilancio europeo. All’Agence France Presse, il prefetto della regione, Josiane Chevalier, ha detto di aver registrato il 40% di dichiarazioni anomale sui terreni effettuate dagli agricoltori in Corsica, contro il 10% di quelle in Francia continentale.

Ciò ha portato Bruxelles a imporre alla Francia 650 ispezioni di aziende agricole sull’isola oltre alle 200 previste quest’anno. L’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), il primo ad aver sollevato la questione in un rapporto confidenziale del 2018, ha anche di recente inviato un team di ispettori in Corsica, con la missione di verificare i sistemi di gestione e controllo implementati dalla Francia. La saga delle frodi ai fondi per l’agricoltura non finisce qui.

Jean–André Albertini, l’vvocato di Patrick Costa, non ha voluto rispondere alle nostre domande. “Il mio cliente non ha mai rifiutato un controllo, non essendo mai stato informato di controlli. La sua professione di allevatore – ci ha risposto via email – non può essere messa in discussione. Il mio cliente può presentare tutti i documenti che lo attestano. Aggiungo inoltre che ad oggi non è stato informato di eventuali capi di accusa in procedimenti penali o amministrativi e non mancherò di avviare una procedura in diffamazione se dovesse essere necessario”.

(traduzione Luana De Micco)

Bob Iger, l’amministratore delegato che vuole 007

Sulla sua scrivania tiene una foto con Steve Jobs, il momento della stretta di mano, quando gli disse: “Vogliamo comprare la Pixar”, cioe’ la compagnia di cartoni animati digitali che Jobs aveva rilanciato nelle pause del suo impegno alla Apple. Bob Iger, 68 anni, non e’ e non pretende di essere Steve Jobs, l’amministratore delegato della Disney ha un’ambizione maggiore: Jobs voleva essere rispettato, anche se odiato e temuto. Iger vuole essere amato e ci sta riuscendo: e’ la personalita’ economica dell’anno secondo Time, rivista da tempo bollita ma che continua a essere influente nello stilare liste di personaggi da ammirare (la vincitrice assoluta del 2019 e’ l’ambientalista Greta Thunberg).

Iger piace e vuole piacere, da monopolista dell’immaginario (vedi articolo qui accanto) sa che la sua immagine pubblica deve essere coerente con quella del gruppo che dirige: molto americana ma anche globale, ambizioso ma sempre etico, spietato negli affari ma sempre col sorriso, custode delle fantasie e dei sogni di intere generazioni.

Time gli ha assegnato il premio proprio per questa sua capacita’ seduttiva: nell’anno in cui l’atmosfera negli Stati Uniti e’ diventata improvvisamente ostile verso il big business, le grandi aziende, Iger e’ riuscito a registrare profitti record “mentre i prodotti Disney rimanevano amati da tutti”. Iger guida la Disney dal 2005, ha appena pubblicato un libro di memorie e annunciato di volersi ritirare nel 2021 dopo aver trasformato un’azienda florida ma senza slanci in un colosso planetario che ha conquistato prede che parevano impossibili, come la Lucasfilms di George Lucas (che controlla Star Wars). E ha gia’ annunciato il prossimo obiettivo: “Sono sempre stato un fan di James Bond”, i cui diritti ora sono della britannica Eon productions.

Iger rispetta tutti i cliche’ dell’amministratore delegato di successo negli Usa: sostiene di iniziare la giornata con un po’ di palestra alle 4 di mattina, ha un’etica maturata in una lunga gavetta (ha iniziato come producer televisivo), nelle sue masterclass via web, 90 euro per guardarle, predica un’etica inflessibile: lui non ha esitato a cacciare il creativo della Pixar, John Lassiter, per una storia di molestie sessuali. Lo stesso Iger ha raccontato di aver subito avance indesiderate a inizio carriera e di essere quindi molto sensibile al tema. Da campione del politicamente corretto considera il suo maggiore successo Black Panther, film Marvel con protagonisti neri (“e’ in questi momenti che pensi di cambiare il mondo”, ha detto).

Dietro quei sorrisi, gli smoking perfetti, le battute sempre educative, Iger e’ pero’ un perfetto prodotto del suo tempo anche nel suo lato oscuro, come direbbe Darth Vader. Persegue i profitti per acquisizioni, invece che con l’innovazione e le nuove idee, non esita a esercitare tutto il potere di lobbying di cui un grande gruppo come Disney dispone, e incassa stipendi che lo collocano di diritto nell’1 per cento piu’ ricco del pianeta. Nel 2018 ha raggiunto il suo record personale, con 65,4 milioni di dollari, l’equivalente di 1424 dipendenti Disney, secondo i calcoli di Forbes. La sua fortuna personale ammonta ad almeno 690 milioni di dollari. Ma di fronte alle critiche, Iger ha sempre la risposta pronta: “Paghiamo benetutti i nostri dipendenti”.

La fantasia unificata: non ci resta che Disney

Avengers: Endgame è il film che ha incassato di più nel 2019 e nell’intera storia del cinema, 2,79 miliardi di dollari, anche se è impossibile da seguire per chi non ha visto il precedente episodio (Avengers: Infinity War) e un’altra dozzina di cinefumetti negli ultimi dieci anni. Ma Avengers: Endgame non è’ l’eccezione, ormai è la regola, nel senso che la classifica dei film più redditizi è ormai monopolio di una sola azienda, la Disney, i cui kolossal sono pensati per piacere a tutti. Nel 2019 sei tra i dieci film più visti dell’anno sono Disney, oltre agli Avengers, Il Re Leone (1,6 miliardi, remake di un celebre cartoon sempre disneyano), Captain Marvel (1,2 miliardi), Toy Story 4 (1,07 miliardi), Alladin (1,05 miliardi, altro remake) e Frozen 2 (920 milioni, ma è ancora in sala). Da poco e’ in sala anche il nuovo film di Star Wars, L’ascesa di Skywalker, altra garanzia di incassi miliardari. Tutta produzione Disney, visto che l’azienda fondata su Mickey Mouse negli anni ha acquisito potenziali concorrenti come Pixar (Toy Story), Marvel Comics (fumetti e personaggi da sfruttare al cinema) e Lucasfilm (Star Wars). Più di recente, a marzo scorso, Disney ha comprato pure la 21st Century Fox (Alien, Avatar ecc.), dopo aver battuto la concorrenza di Comcast. Il risultato è stato quello di estendere ancora di più il proprio dominio su ogni forma di intrattenimento, dallo sport alle serie tv al cinema.

Così il gruppo impone le sue pellicole

La rivista American Prospect ha sollevato per prima la questione, qualche settimana fa: la Disney sta diventando un problema, è troppo grande e potente. Nessuno può considerare sano appaltare a una singola azienda l’immaginario collettivo globale. E se i monopoli possono essere giustificabili in alcuni contesti – tipo le infrastrutture, visto che nessuno vuole due acquedotti nella stessa città o due reti elettriche – non si vede quale beneficio possa portare l’assenza di concorrenza in un settore, quello dell’intrattenimento, che muove miliardi. Secondo i calcoli dell’American Prospect, poco più di dieci anni fa, nel 2008, la Disney raggiungeva soltanto il 10 per cento degli incassi al botteghino americano. Ora sta intorno al 40.

Le conseguenze si vedono, e non sono positive. I giornali americani si riempiono di storie sulla capacità della Disney di imporre le proprie condizioni alle poche catene di cinema superstiti: non è un caso se in tutte le sale o quasi si trova Frozen 2, lo ordina la Disney, che riesce a ottenere una percentuale senza precedenti sui biglietti (65 per cento per il nuovo Star Wars). Con un simile potere di mercato, la Disney può produrre meno film e incassare molto di più, senza rischi: concentra le sue risorse su prodotti a più alto budget, poi li impone a forza agli spettatori. Negli anni Novanta produceva in media 24 film all’anno, ora è scesa a 12.

Sono tutti i sintomi del monopolio: quantità più basse di quelle che la libera concorrenza prevederebbe, prezzi più alti e anche qualità più bassa. Con la parziale eccezione di Captain Marvel, nessuno dei film di successo della Disney nel 2019 è basato su un’idea originale: sono tutti remake o ennesimi episodi di saghe pluridecennali come Avengers o Star Wars. Non solo: la Disney applica ai propri prodotti e a quelli delle società che acquisisce la stessa politica. I classici devono sparire dal mercato ed essere centellinati sulla base di precise strategie di marketing. I cineclub non potranno proiettare per alcuna ragione i classici Alien (21 Century Fox) o vecchi cartoon Disney come Aladdin o Biancaneve, che infatti viene ora riproposto in versione live action. È l’azienda a preservare il proprio patrimonio creativo e a decidere come valorizzarlo.

Senza concorrenza, non c’è bisogno di fare sforzi. Eppure il successo del Joker diretto da Todd Phillips per Warner – budget di produzione di 55 milioni di dollari e incassi da 1,055 miliardi – dimostra che con qualche idea originale, un grande attore (Joaquin Phoenix) e un po’ di fortuna si possono ottenere risultati sorprendenti. Ma il Joker è l’eccezione, non la regola. Anzi, è proprio quello che la Disney vuole evitare: che ci sia qualcuno in grado di sottrarre quote di mercato.

“Ungere” chi conta per cambiare le regole

Quella per l’egemonia non è una battaglia che si combatte soltanto nel campo delle idee e del marketing. Il colosso guidato da Bob Iger usa gli strumenti tradizionali: lobbying e denaro alla politica. È ormai celebre la capacità della Disney di far cambiare l’intera legislazione americana per proteggere il proprio controllo sul personaggio di Mickey Mouse (il nostro Topolino) ed evitare che diventi di pubblico dominio dopo 70 anni, come accade per tutti gli altri prodotti creativi. La Disney ha già fatto cambiare la legge sul copyright due volte, nel 1976 e nel 1998, la prossima scadenza è nel 2024 ed è facile prevedere che ci riuscirà ancora. Il sito Lobbyview.org ha contato investimenti in lobbying per 77 milioni di dollari nel solo 2018, ma è una stima parziale, perché Disney – come molte altre società – si oppone a una piena trasparenza su questo genere di spese (gran parte passa attraverso l’equivalente delle nostre associazioni di categoria). E per le elezioni presidenziali del 2020 ha già investito oltre 2,3 milioni di dollari in contributi diretti e 3,5 di lobbying, secondo i conti di Opensecrets.org. In teoria le aziende non possono pagare direttamente le campagne elettorali, ma ci sono molti modi di aggirare il problema (le donazioni risultano in capo ai dipendenti o passano tramite i Pac, dei fondi formalmente non connessi ai candidati).

Per condizionare la politica americana e proteggere gli affari bastano i soldi. In Cina, il mercato del futuro anche per l’intrattenimento, servono prove di lealtà. E l’ad di Disney Bob Iger si è attirato una certa dose di polemiche perché il network televisivo del gruppo, Espn, non ha preso alcuna posizione quando il più redditizio dei suoi sport, il basket della Nba, è stato oggetto delle ritorsioni del partito comunista. Il manager degli Houston Rockets, Daryl Morey, ha fatto un tweet sulle proteste di Hong Kong e Pechino – per educare tutte le aziende occidentali – ha minacciato di cancellare l’Nba dalla Cina, distruggendo anni di investimenti milionari per conquistare quel pubblico. Bob Iger, l’ad di Disney che quindi comanda anche su Espn, si è schierato con il partito comunista: “La principale lezione di questa storia è che bisogna essere cauti. Prendere una posizione che può danneggiare l’azienda è un errore”. ha detto. Una dichiarazione sorprendente per chi è ormai il padrone delle narrazioni collettive occidentali e di quella potente forma di soft power che è l’intrattenimento.

Cinema e sport sono soltanto tappe intermedie nella marcia di conquista della Disney sulle nostre vite. A marzo arriverà anche in Italia il servizio di streaming Disney Plus, una risposta a Netflix, con una offerta imponente di serie, film e personaggi che nelle intenzioni dell’amministratore delegato Bob Iger dovrebbe permettere a Disney di arrivare a dominare anche l’intrattenimento domestico come ha fatto nel decennio passato con quello cinematografico: “Il nostro obiettivo è diventare distributori dei nostri contenuti direttamente al consumatore finale, le perdite di breve periodo sono insignificanti per noi”.

Tariffe stracciate contro la concorrenza

Negli Usa Disney ha lanciato il suo servizio streaming a un prezzo inferiore a quello di Netflix, 6,99 euro al mese per il pacchetto base, e ha dovuto anche sopportare dei costi per mancati ricavi dovuti al fatto che con diversi mesi di anticipo ha iniziato togliere i propri contenuti dalla piattaforma che prima li ospitava, sempre Netflix. Ma sono i vantaggi del monopolio: puoi lanciare servizi in perdita sussidiati con i giganteschi profitti che derivano dai settori sotto il pieno dominio, così da conquistare nuovi clienti e spingere i concorrenti a ritirarsi. Una volta diventati egemoni nel nuovo campo, si possono aumentare i prezzi, ridurre la qualità e prepararsi a una nuova campagna di espansione in altri settori. Negli Stati Uniti qualcuno comincia a chiedersi se, come per Google, Amazon e Facebook, non sia ora di fermare a colpi di legge e di provvedimenti Antitrust l’espansione di Disney. Ma meglio parlarne dopo Natale e dopo aver visto il nuovo episodio di Star Wars o, sulla base della limitata scelta che ci è rimasta, Frozen 2.

“Ora è necessario arrestare un’emorragia di umanità”

“Quest’anno il Natale ci richiede un impegno aggiuntivo”. La parola “impegno” è per Luigi Ciotti un riflesso condizionato. E stupisce – anche solo a stargli accanto una mezza domenica mattina – la mole di impegno intellettuale e fisico che accompagna la vita di questo sacerdote 74enne, da oltre mezzo secolo punto di riferimento di un cristianesimo sociale e civile che, al netto del papato francescano, a volte non sembra godere di straordinaria salute. A don Ciotti, uomo di chiesa decisamente imprevedibile per chi non l’abbia mai sentito parlare, abbiamo chiesto una riflessione sul Natale.

Luigi, perché sostiene che questo Natale richieda un impegno aggiuntivo?

Perché a chiederci un maggiore impegno è la speranza, simbolo e senso del Natale. La speranza non è solo attesa di un futuro migliore: è costruzione di quel futuro con un impegno il più possibile corale, costante, quotidiano. E mai come oggi dobbiamo impegnarci di più per arrestare una perdita, anzi un’emorragia di umanità. Di cui sono vittime innanzitutto i deboli e gli esclusi, le persone che non hanno né voce, né diritti: i poveri, gli immigrati, i giovani. E con loro la Terra – la nostra casa comune – continuamente sfregiata, saccheggiata, avvelenata.

Quante volte sentiamo dire “bisogna tornare alla spiritualità, il consumismo ha ucciso il Natale”. Ma è davvero tutto da buttare il “comune” Natale? Non è anche un momento in cui, forse, ci si parla di più del solito?

Certo, quello è un aspetto prezioso del Natale che va preservato dal consumismo: le relazioni, la convivialità, il ritrovarsi nel calore e negli affetti. E, ovviamente, la gioia dei bambini, la trepidante attesa dei pacchi colorati deposti nottetempo da Babbo Natale ai piedi dell’albero. Ma il Natale non è solo un momento di festa e di gioia, è anche un’occasione di riflessione e di pensiero. Il Natale tocca i nostri cuori ma interpella anche le nostre coscienze. Ci domanda non solo di essere genericamente “buoni”, ma anche concretamente giusti, cioè di darci di più da fare per chi è vittima delle ingiustizie, per chi arranca nel deserto degli affetti e dei diritti prodotto dagli egoismi dell’Occidente del profitto e dell’opulenza.

Il Natale può avere un valore spirituale anche per i non credenti, ossia per quelli che non raramente la apprezzano più dei credenti?

La spiritualità del Natale ha un valore universale perché è la celebrazione dell’imprevedibilità di Dio che si fa incontro a noi. Un dio inaspettato che si è fatto bambino nell’umiltà e nella fragilità. Non si è mascherato, si è fatto persona e ha condiviso tutta la nostra condizione umana. Questa è la rivoluzione del Natale, che però porta con sè anche un sapore di tristezza. Quel bambino non è stato accolto, non è stata accolta la vita perché, citando il Vangelo di Luca, per loro non c’era posto. Questa è una storia universale, che si creda oppure no.

Decliniamo il Natale all’italiana. Che presepe farebbe? Chi sarebbe il bue, chi l’asinello, chi troverebbe posto nella Sacra Famiglia?

Farei un presepe multietnico, un presepe che sia simbolo e sintesi d’incontro e di relazione, un presepe di vita, perché la vita è in sé stessa relazione, incontro e inclusione di diversità. L’identità – sia essa personale, religiosa, culturale, politica – è tanto più forte quanto più è capace di includere. Se respinge l’altro mostrando i muscoli ed erigendo muri, è per nascondere la sua paura, la sua debolezza. Avere paura dell’altro vuol dire avere paura della vita. Ma se ciò vale per la politica tanto più vale per la religione, che per prima dovrebbe testimoniare il dialogo e la relazione, al di là dei riferimenti, dei simboli, delle dottrine. È l’orizzonte a cui richiama e verso cui si sta muovendo Papa Francesco. Un orizzonte che altri hanno indicato e auspicato. Penso ad esempio al cardinale Carlo Maria Martini, uomo di profondissima spiritualità e ingegno, che sentì un giorno il bisogno di ricordare che “Dio non è cattolico”. Le religioni non possono concepire Dio come proprietà esclusiva perché Dio per primo ci chiede di essere prossimi, di volerci bene nelle diversità, di riconoscerci nella nostra comune umanità.

Dovesse scrivere una lettera a Gesù Bambino, oggi?

Se oggi fossi un bambino vorrei essere capace di accorgermi dei compagni in difficoltà, e chiederei a Gesù Bambino di pensare anche a loro, anzi prima di tutto a loro. Perché non si può davvero gioire sapendo che qualcuno è escluso dalla tua gioia. Per fortuna molti bambini oggi sentono in questo modo, perché l’infanzia continua a essere un’età pura, incorrotta, palpitante di vita. Poi, certo, contano anche molto le famiglie, gli orientamenti che un bambino riceve e gli esempi che gli vengono offerti, e io ho avuto la fortuna di avere una mamma e un papà meravigliosi, che mi hanno educato a quell’attenzione per gli altri nonostante fossimo una famiglia tutt’altro che agiata, che doveva faticare, a volte arrancare, per vivere.

“Un anno orribile questo 2019. Hanno vinto ipocriti e cattivi”

“Il Natale è sempre un magna magna. Nella classifica delle priorità Gesù si attesta al quarto, quinto posto. Abbiamo altre urgenze in cucina, e non è una novità”.

Panettone, pandoro

Pastiera.

La pastiera al mio paese si mangia a Pasqua.

C’è una Napoli che è avanti e la mangia anche a Natale. Più civile, più attrezzata, più disponibile alla bontà.

L’avvento della pastiera è l’unico sorriso di una conversazione con Maurizio De Giovanni che punta a fare il bilancio di un anno piuttosto amaro.

Abbiamo trasformato l’odio in un’opinione. L’abbiamo legittimato come tale, abbiamo ritenuto che fosse plausibile non solo odiare, ma utilizzare le parole più orribili nel linguaggio quotidiano. L’odio è invece un sentimento dal quale le opinioni dovrebbero tenersi alla larga.

Doveva essere un anno bellissimo.

Invece è stato orribile. Peggio del 2019 cosa c’è?

Esagerato! Ma è certo che i cattivi sono più numerosi dei buoni. E De Giovanni, che è uno scrittore tipicamente buonista.

Altra cazzata, altra parola bugiarda. Che cavolo significa buonista? Cos’è il buonismo?

Fare il buono, usare la bontà come strategia comunicativa.

Allora usiamo la parola giusta per descrivere questa attitudine: ipocrisia. L’ipocrisia è un vizio di tanti. Poi domando: perchè dovremmo innamorarci dei cattivi? Te lo dice uno che scrive romanzi noir, duri.

I cattivi sembrano capaci di dare risposte ferme, assolute, risolutive. Al cattivo presti ascolto, del buono diffidi.

La cattiveria quale porta spalanca?

Affina la lotta.

La cattiveria ha bisogno sempre di congegnare la vita secondo le proprie esigenze. La bontà non ha di questi pensieri.

È certo che nel 2019 siamo divenuti un po’ più razzisti.

Infatti abbiamo creduto alla bugia più grande possibile e trasformato i migranti in invasori, le Ong in potenze criminali, la nostra civiltà assediata e oramai perduta. Messi tutti assieme i migranti che hanno attraversato il mare con i barconi non riuscirebbero a riempire una curva dello stadio San Paolo. Solo il 2 per cento di quel dieci per cento delle persone trattenute in Libia che si è messo in mare è stato raccolto dalle navi delle Ong, che sono organizzazioni umanitarie e hanno come missione quella di salvare vite, non di assistere alla morte. E dunque lo 0,2 per cento del totale ha trasformato i nostri cuori, ci ha fatti divenire così?

Merito di Salvini o merito nostro?

Salvini è il figlio di questa età che ha Donald Trump al centro. È lui che scaraventa parole come pietre, lui che dileggia, che usa la presidenza degli Stati Uniti come una polveriera. Il messaggio che manda al mondo poi è tradotto da epigoni domestici. Ma il capo di questo filo assurdo è lui e, speculare, il russo autocrate, quel Vladimir Putin che domina senza i fuochi d’artificio americani ma con eguale durezza.

Non abbiamo scampo.

Ora è il momento del panettone. Sono giorni questi in cui le famiglie si riuniscono, i figli sparsi nel mondo ritornano a casa. Questo smantellamento del nucleo familiare, la precarizzazione della vita e la brevità dell’orizzonte producono scene piuttosto singolari. I miei due figli, adulti, hanno amici che al massimo pianificano le vacanze. Nessuno crede più a un lavoro duraturo. Figurarsi se pensano a sposarsi, a fare figli. Orizzonte di sei mesi/un anno. Questa è la disgrazia civile più acuta. E noi per mesi dove siamo stati con la testa?

Sui barconi che traghettavano l’invasore.

Abito a Napoli e so che alcuni quartieri (Scampia, una porzione della Sanità, il parco Verde di Caivano) sono entità extraterritoriali. Dove il lavoro non è nemmeno precario, non esiste proprio. Il porto di Gioia Tauro accoglie allegramente la droga che invade l’Europa. E davanti a questa e mille altre condizioni di illegalità il ministro dell’Interno cosa fa? Arma il Paese contro l’invasore immaginario.

Però le piazze un po’ si riempiono.

È questa la novità, un po’ di balsamo. Si scende in piazza con il proprio corpo e già questo è un messaggio definitivo. È una boccata d’aria pura.

Nell’anno orribile qualcosa di buono dunque c’è.

Se è per questo anche le testimonianze di papa Francesco. Anche le prese di posizione di popstar. Anni fa mai avremmo immaginato che attori con un fatturato enorme e dunque la necessità di piacere a tutti, avrebbero alzato un dito.

Nell’età della connessione permanente avremmo potuto aspettarci qualcosa di più.

Se cinquant’anni fa avessimo pensato a come oggi riusciamo a informarci, a essere cittadini del mondo, a sapere ogni cosa in tempo reale, avremmo immaginato che questo fosse il Paradiso.

E invece no.

Che fregatura!

Il senso del Natale: regala una Ong per aiutare gli altri

Borraccia rossa, tazza termica, pallina di Natale decorata: sono alcuni dei prodotti solidali natalizi della ong Save The Children. Calendari, shopper, felpe e biglietti di auguri sono invece le proposte “buone” di Medici senza frontiere, mentre Unicef si sbizzarrisce con peluche, penne, palline da golf, racchette, palloni e portamerende e Emergency, oltre a bavaglini, astucci, candele, vende calze della befana già quasi “sold out”. Il gadget solidale, per fortuna, piace sempre di più, e infatti si regala alle maestre, ai dipendenti delle aziende, ma pure ad amici e parenti. Costa pochi euro, non ci priva di un oggetto da regalare da cui facciamo fatica a separarci, lenisce un po’ dei nostri sensi di colpa verso chi sta peggio, senza entrare troppo nei dettagli. Insomma è una sintesi quasi perfetta: per noi e per loro, le decine e decine di ong che con le entrate del Natale sostengono quei bilanci resi più fragili da attacchi sovranisti e stereotipi infondati. “Invece del solito regalo, dal pigiama alle pantofole, un regalo Save The children si trasforma in cibo terapeutico, un posto a scuola, libri e cambia la vita di bambini in Italia e nel mondo”, dice Giancarla Pancione, direttrice marketing e Fundraising della ong. “Ogni euro raccolto va a sostegno dei nostri progetti, e anche i cinque euro per una pallina di Natale sono fondamentali perché ci permettono, ad esempio, di garantire il vaccino contro il morbillo a cinque bambini”, spiega invece Annalaura Anselmi, direttrice raccolta fondi di Medici senza Frontiere.

Dicembre è un mese cruciale per andare avanti anche per Enrica Arcangeli, coordinatrice Raccolta Fondi individui di Amref Health Italia, organizzazione che quest’anno propone prodotti fatti di vere stoffe africane cuciti a Nairobi e un libro di racconti speciali. “Con Natale facciamo circa il 25% delle entrate di un anno. È davvero un modo per sostenere concretamente importanti progetti”. E infatti: noi compriamo la palla, la tazza o la maglietta, loro fanno, e sono solo pochi esempi, questo: garantire sicurezza alimentare ai bambini del Sudan devastato dalla guerra civile (Amref); curare le persone colpite da Ebola in Congo o le famiglie che fuggono dalla Siria (Medici senza frontiere); gestire in molte città italiane punti luce che aiutino bambini poveri e disagiati, anche italiani (Save The Children), curare gratuitamente, anche in Italia, migranti e persone in stato di bisogno (Emergency). Il passo successivo, magari per il prossimo Natale, sarà fare un regalo “immateriale” ma che salva la vita proprio a casa loro. Sui siti di queste ong c’è solo l’imbarazzo della scelta: alberi, kit insegnanti, uova, taniche di acqua, stoviglie, vaccini, antibiotici, zanzariere, sali reidratanti, quaderni, kit nascita. E sai che bello sotto l’albero fare una buona cena, senza scambiarsi l’ennesimo regalo inutile ma sapendo che quel giorno, invece, un bambino è nato in sicurezza. Non era questo, in fondo, il vero senso del Natale?

Efe Bal: “Le feste sono una galera. Mariti a trans prima del cenone”

Non è detto che a Natale siano tutti più buoni, e non sempre si sta in famiglia. Qualcuno, per dire, preferisce il caldo abbraccio al silicone di una bambola sessuale o l’affetto ambiguo di un’escort transessuale come Efe Bal. Lei non ha dubbi: durante le feste natalizie si lavora di più, come a ferragosto del resto, perché il bravo papà e marito fedele non esiste più. “Quando vanno a lavoro, gli uomini approfittano della pausa pranzo per concedersi sesso a pagamento con una prostituta, poi tornano dietro la scrivania e si vedono un film porno sullo smartphone – racconta la escort -. Invece durante le festività sono obbligati a stare a casa con la famiglia, senza via di fuga”. Peggio del carcere al 41 bis, per i fedifraghi. Così, prima della galera e appena possono, si condedono l’ultimo desiderio e sfogano ogni impulso. Infatti sono più focosi, gli uomini con un debole per i trans: “Vogliono farlo non una ma due volte, durante le feste, per togliersi ogni sfizio e bilanciare la noia casalinga”. Nei giorni delle celebrazioni sono pure più generosi: “Un cliente affezionato mi ha pagato 500 euro invece di 200: ‘Il resto usalo per farti un regalo’, mi ha detto”. L’agenda è fitta, sotto Natale: “Il 27, il 28 e il 29 si lavora sempre di più – dice Efe –, poi il calo a cavallo di Capodanno, ma a gennaio (prima dell’Epifania) la richiesta sale ancora”.

Su escort-advisor.com, il picco di utenti è stato il 27 dicembre, l’anno scorso. Efe Bal è convinta che “lo smartphone serve a scopare, più che a telefonare”. Il vero concorrente delle escort sono le chat o le app di dating (appuntamenti romantici) come Tinder e Badoo, dice lei: “Un cliente di un’amica, dopo l’amplesso, le ha mostrato sul telefono tutte le donne disponibili nello stesso palazzo dove avevano consumato”. Donne stimate e di sana reputazione, nel condominio.

Del bazaar sessuale online, del resto, si può apprezzare la varietà: alcuni preferiscono le escort, altri gli appuntamenti con sconosciuti, taluni invece il noleggio a domicilio di bambole sessuali. È il servizio offerto da Love Game Italia, franchising con base a Roma: “Tu scegli il modello nel catalogo del sito, noi lo spediamo a casa e quando hai finito lo ritiriamo – dice Walter Marini –. Poi igenizziamo la bambola, pronta per un nuovo cliente”. Manco a dirlo, durante le feste per la nascita di Gesù, il business cresce: “Spopoliamo – ammette Marini –. Di solito, contiamo 40 o 50 richieste al mese, ma nei giorni del Natale arriviamo anche a 20 al giorno”. Alcuni restano a bocca asciutta: “Vorremmo espanderci, perché non riusciamo a stare al passo con l’impennata del numero dei clienti”. I più affezionati arrivano da Roma e Milano, poi Torino. Sotto Natale, non chiedono cose diverse, perché la bambola vestita di rosso, col cappellino da Santa Claus, la vogliono tutto l’anno. A cambiare è solo l’euforia: “Sono più felici perché è il loro regalo per se stessi”, dice Walter Marini.

Non è un mistero che i single siano in aumento e la famiglia in declino. Eppure, nel 2018 sono stati celebrati 4 mila 500 matrimoni in più rispetto all’anno prima. Di sicuro, durante le feste i nuovi mariti staranno in famiglia.