Il Museo Ginori: prove tecniche di salvataggio

Giovedì scorso è nata, con un atto sottoscritto dai soci fondatori – ministero per i Beni Culturali, Regione Toscana e Comune di Sesto Fiorentino –, la “Fondazione Archivio Museo Archivio Richard Ginori della Manifattura di Doccia”. È una buona notizia: giunge così a un primo significativo giro di boa una lunghissima e travagliata navigazione. Il museo e l’archivio contengono l’eredità materiale di una delle più straordinarie pagine della storia culturale, artistica ed imprenditoriale dell’età moderna: la manifattura di porcellana fondata a Doccia, a sei miglia da Firenze, dal marchese Carlo Ginori nel 1737. Iniziava allora una vicenda che ha saputo congiungere in modo mirabile la storia della scultura (il museo conserva infiniti modelli in terra e in cera, dall’età barocca in poi), quella dell’industria (i piatti di porcellana, diffusi lentamente presso quasi tutti gli strati sociali) e del design (a far entrare la manifattura nel Novecento sarà il suo direttore Giò Ponti) e infine la storia di una città (Sesto Fiorentino) e dei suoi lavoratori.

Ma tutto giunge a una fine, e sembrava davvero finita quando, nel 2004, la Ginori alienò il terreno su cui sono ubicati sia la fabbrica sia il museo ad una società immobiliare (la Ginori Real Estate, che aveva come soci immobiliaristi poi coinvolti in varie inchieste). Nel 2010 la Ginori Real Estate venne messa in liquidazione, e nel 2013 fu la volta della stessa manifattura Ginori, che fallì (seguirà un processo per bancarotta fraudolenta). La manifattura, dopo lunghe lotte dei lavoratori, è stata ‘salvata’ dalla Gucci, che l’ha rilevata. Ma l’acquisto dello stabilimento da parte di una multinazionale del lusso con sede all’estero (Gucci appartiene infatti alla Kering di François Pinault) ha tagliato l’ultimo filo tra l’attuale produzione Ginori e la storia della manifattura Ginori: e la prima conseguenza è stata la perdita di interesse per il museo, che incredibilmente non fu acquistato dalla holding, e rimase in un asse fallimentare privo dei mezzi necessari al suo stesso mantenimento in vita. Se, dunque, la condanna a morte del museo è stata firmata da speculatori fiorentini, la sua mancata salvezza è invece responsabilità dei nuovi padroni stranieri. Il risultato fu una scissione inconcepibile: visto che ancora oggi una parte rilevante dei fondi del museo sono fisicamente conservati nello stabilimento, e una parte rilevante dei gesti compiuti ogni giorno dai modellatori e dai decoratori affonda le sue radici nella vita delle forme che abita quel museo. Il disfacimento fisico del museo – invaso dalle infiltrazioni d’acqua e dalle muffe – si può leggere come un simbolo delle conseguenze di una globalizzazione finanziaria, mediata dalle banche, sul tessuto industriale e su quello culturale e sociale. Tutto ciò che nel XIX secolo stava a cuore a Leopoldo Carlo Ginori Lisci – il rapporto della sua produzione con la storia dell’arte fiorentina e con la felicità dei suoi operai – è esattamente ciò che non interessa oggi: e proprio per questo la lotta per la salvezza del museo si intreccia con quella per la salvezza del lavoro alla Ginori.

Chi scrive questo articolo si è battuto in ogni modo per questo duplice obiettivo, proponendo l’acquisto pubblico del Museo e il suo conferimento ad una fondazione di partecipazione che portasse ad un Museo Ginori non solo in sicurezza e riaperto, ma in piena attività scientifica e didattica (con una vera comunità di ricercatori residenti), inserito nella vita quotidiana del territorio di Sesto e di una grande Firenze, in continuo rapporto con uno stabilimento Ginori pieno di lavoratori, ancora attivo, legato alla sua terra e alla sua storia. Bisogna dare atto al ministro Dario Franceschini che questo obiettivo è oggi, almeno in parte, colto. È stato lui a decidere l’acquisto pubblico del museo (atto necessario, e dal sapore paradossale: la retorica del salvifico privato stride con l’incapacità dei tanti imprenditori dell’area fiorentina di risolvere questa situazione senza lo Stato), avvenuto il 30 marzo 2017, ed è ancora lui a condurre oggi in porto la creazione della Fondazione. Se si è arrivati a questo risultato lo si deve alla tenacia del sindaco di Sesto Lorenzo Falchi e di Monica Barni, assessore alla cultura e vicepresidente della Regione Toscana; all’impegno politico del presidente Enrico Rossi, all’ottimo lavoro del direttore regionale della Cultura Roberto Ferrari.

Non mancano note amare: il Mibact ha cambiato in peggio lo statuto proposto dal Comitato che l’aveva redatto: marginalizzando il ruolo del comitato scientifico, stravolgendone i criteri di nomina e ridimensionando le funzioni dell’assemblea dei soci (l’organo che avrebbe dovuto render concreto il coinvolgimento dei cittadini). Non si riesce a far comprendere che i musei sono vivi solo se sono luoghi di ricerca, liberi dalla lottizzazione politica e invece aperti ai cittadini comuni. E non mancano le incognite: per salvare lo stabilimento, Unicoop Firenze ha meritoriamente acquistato i terreni che circondano il museo, e ora è vitale che lì non sorga l’ennesimo centro commerciale, ma una struttura, certo in parte anche capace di remunerare l’investimento, ma pensata in armonia alle esigenze del museo e dei cittadini che lo frequenteranno. La morale della storia è che facciamo davvero fatica per essere all’altezza della nostra eredità culturale: la buona notizia è che ci stiamo provando. Ma siamo all’inizio.

Babbo Natale, cosa significa oggi credere alle belle favole

Si discute spesso a casa mia se sia opportuno convincere nostro figlio piccolo dell’esistenza di Babbo Natale. A mia moglie Babbo Natale non è mai piaciuto. Da piccola la terrorizzava a tal punto che suo padre doveva incontrarlo alla fermata della metro. I regali passavano di mano lì e Babbo Natale risaliva sulla slitta e se ne andava, senza mettere piede in casa. Oggi, da adulta, mi porta argomenti più sofisticati, ma con poca convinzione: non è bello ingannare un bambino, confondergli ulteriormente le idee; vogliamo crescerlo razionale – razionalista! – o no? Non mi frega. Al fondo, per mia moglie, il problema è sempre lo stesso: è ancora terrorizzata da Babbo Natale.

Queste posizioni, però, le ritrovo poi sempre più diffuse tra le mamme e i papà di una certa middle-class britannica (vivo a Edimburgo) con cui interagisco. E mi pare, a quanto mi si dice e a quanto vedo io stesso nelle mie calate italiche, che posizioni del genere siano similmente diffuse tra i follower italiani dei Burioni di turno, in quelli che a ogni tre per due tuonano contro l’analfabetismo di ritorno, sempre quello degli altri. Non credere a Babbo Natale – non voler apertamente ingannare i figli – è segno di distinzione: un modo per dire che siamo più furbi degli altri, che ci fidiamo della scienza e basta, sappiamo bene che i vaccini non provocano l’autismo, che la terra non è piatta e che si sta pure scaldando. Il problema sono gli ignoranti che si fanno ingannare dalle favolette, dall’imbonitore di turno. Noi no, noi crediamo nella dea scienza e nella dea ragione, sempre siano lodate.

A me, da piccolo, Babbo Natale piaceva da matti. Ho pianto quando ho scoperto che non esisteva – quando un compagno di scuola (maledetto!), figlio di genitori atei razionalisti, ha deciso di rovinarmi la festa. E vorrei che mio figlio si divertisse quanto me a credere che un panzone vestito di rosso ogni Natale scenda dal camino e gli lasci i regali. Ma non si tratta solo di Babbo Natale. Se io e mio figlio andiamo al museo, le stanze gliele riempio di fantasmi, di porte segrete, di mostri. Se andiamo al lago, c’è sempre un mostro di Loch Ness da vedere di sfuggita. Se andiamo in montagna, c’è un gigante dietro a ogni picco. Non resisto – mi piace prenderlo in giro, fargli credere in cose che non esistono, vederlo stupito e dubbioso, confuso e meravigliato. Non lo faccio in ossequio a una particolare filosofia educativa. Mi diverto così!

Se però mi si portano argomenti pedagogico-filosofici sui benefici dell’incredulità, allora mi viene il prurito di ragionarci un poco e di rispondere a tono. E mi chiedo se il problema della nostra (post-) modernità tardo-capitalistica sia davvero che crediamo troppo, o piuttosto che non crediamo abbastanza. Certo, il mondo è pieno di creduloni che corrono dietro a ogni teoria della cospirazione, a ogni falsa statistica sugli immigrati dei Salvini di turno, a ogni baggianata che leggono sui social. Ma non è vero che credono a tutto – credono solo a determinate cose, radicate in una malintesa esperienza o in un qualche preconcetto su cosa sia possibile, su cosa sia reale e realistico. A tutto il resto, pervicacemente, non credono. Non credono, per esempio, che la terra potrebbe diventare a breve inabitabile per il genere umano. Non credono davvero che esistano idee, abitudini, costumi legittimi eppure diametralmente diversi dai loro. Non credono, soprattutto, che si possa costruire una società migliore, su basi radicalmente differenti – una società giusta in cui c’è posto per tutti, benessere per tutti, rispetto per tutti.

È un difetto dell’immaginazione che Mark Fisher chiamò “realismo capitalista”: “Una diffusa sensazione non soltanto che il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico praticabile, ma che sia ormai impossibile persino immaginarvi un’alternativa coerente”. È il compimento, insomma, del “non c’è alternativa” di Margaret Thatcher. Ed è manifesto non soltanto nell’afasia di ogni iniziativa politica antisistema, in una sinistra incapace di uscire dai binari della retorica neoliberista, ma persino nell’incapacità di immaginare (nella letteratura, nel cinema, nei fumetti) un futuro utopico o distopico che non sia una banale esasperazione del ‘reale’. Non c’è nessuno oggi che scriva News from nowhere (come fece William Morris, il visionario socialista ottocentesco). E, di conseguenza, non stupisce che in Gran Bretagna la reazione della working class di fronte al programma più radicale, più redistributivo degli ultimi 40 anni sia stata quasi invariabilmente incredulità, scetticismo, infine arroccamento nelle proprie “realistiche” certezze che nessuna deviazione è possibile, che “non c’è alternativa”, che questo Corbyn dev’essere un ciarlatano.

Lo scientismo razionalista a tutti costi – il rifiuto dell’immaginazione che buca la finzione del ‘reale’ – non è amico dell’emancipazione dei subalterni, della difesa dell’ambiente, della costruzione di un modello di sviluppo sostenibile e di una società giusta. No, è piuttosto funzionale alla preservazione e alla riproduzione dell’esistente – all’apatia che strozza nella culla i tentativi di far meglio. E allora ben venga, per mio figlio, un mondo ingannevole popolato di ciò che non c’è, della possibilità che potrebbe esserci. Oggi è Babbo Natale, i fantasmi, i lupi mannari e il mostro di Loch Ness. Domani il sol dell’avvenire!

Le Capitali della cultura: tanti soldi, risultati incerti

Dal 1985 sono ormai 60 le città nominate Capitale europea della cultura: le ultime quest’anno sono state Matera e Plovdiv in Bulgaria, l’anno prossimo sarà il turno di Fiume/Rijeka in Croazia e Galway in Irlanda. Lanciato nel 1983 da Melina Mercouri, allora ministra della Cultura greca, il programma prese avvio due anni dopo da Atene. Il successo dell’evento fu tale che nel 1999 il Consiglio della Ue trasformò il progetto in un’azione comunitaria e creò un sistema a rotazione più trasparente per le città vincitrici. La selezione – modificata da ultimo nel 2014 – pone attenzione al controllo delle proposte, alla dimensione europea dei progetti, alla concorrenza tra città candidate e al ruolo del comitato di selezione. Con l’aumento dei concorrenti sono esplosi anche i budget spesi, specie sul fronte delle infrastrutture, che non sempre però hanno portato reali benefici a lungo termine in termini turistici. Inoltre si sono verificati conflitti e tensioni sociali a causa degli obiettivi talvolta contraddittori dell’evento, per l’incapacità di coinvolgere le comunità locali e di ridurre le divisioni sociali. Il bilancio in chiaroscuro di 35 anni del piano comunitario emerge da una ricerca di Ivana Katsarova per l’Ufficio studi del Parlamento Ue.

Il programma Capitale europea della cultura è il maggiore nel settore e il terzo evento per importanza nel Vecchio continente dopo le Olimpiadi e i campionati mondiali ed europei di calcio. Le città lo usano come leva per rigenerarsi urbanisticamente e riposizionarsi in termini economici, grazie alle incalcolabili opportunità di marketing e d’immagine. Il successo è stato tale che i Paesi arabi dell’Unesco ha avviato un evento simile per le capitali arabe e nel 1997 è stata lanciata anche negli Usa. Dal 2009 c’è la “Capitale europea dei giovani” e programmi per le “Capitali nazionali della cultura” esistono in Italia, Lituania e Regno Unito.

La crescente popolarità del programma si misura dall’aumento di domande. Nella prima fase del progetto (anni ‘80 e ‘90), una singola città – di solito la capitale – veniva indicata dai governi. Poi l’introduzione delle gare, a fine anni ‘90 ha scatenato le domande: l’apice nel 2000 quando nove città si contesero il titolo. Per far fronte all’allargamento della Ue da 15 a 27 Stati nel 2004 è stato introdotto un sistema di rotazione tra Paesi, con due capitali nominate ogni anno. Per il titolo 2016 che spettava alla Spagna c’erano 16 candidate, mentre 15 città italiane erano in lizza per quest’anno.

Di pari passo con l’aumento delle città in corsa sono cresciuti anche le somme spese per la candidatura e i budget investiti nella realizzazione dell’evento. Tra il 1985 e il 1994 il budget medio era di circa 25 milioni ma l’importo è arrivato a 60 milioni tra il 2007 e il 2017, esclusi gli investimenti nelle infrastrutture. I costi totali sono andati dai 9 milioni di Pafos a Cipro nel 2017 ai 289 di Istanbul nel 2010, che però lasciò fondi inusati per circa 100 milioni. Liverpool nel 2008 spese 166 milioni, ma su più anni. Mons (2015), Essen (2010), Breslavia (2016) e Marsiglia (2013) spesero tra 70 e 100 milioni. I budget variano tra l’Europa occidentale e orientale e tra le città maggiori e quelle più piccole, come Tallinn (2011) con 14 milioni e Linz (2009) con 69 milioni. Il contributo finanziario della Ue all’evento si limita solo a un milione e mezzo fisso per ogni città, ma viene integrato da risorse pubbliche nazionali e locali e da investimenti privati.

Sul fronte economico, i risultati di uno studio del 2016 affermano che nelle città vincitrici il Pil procapite aumenta del 4,5% rispetto a quelle che non vincono. L’effetto inizia due anni prima dell’evento e dura in media cinque anni dopo. Per il turismo, però, una ricerca sulle 34 capitali tra 1998 e 2014, a confronto con altre 800 città europee, mostra che nell’anno dell’evento c’è un aumento medio dell’8% delle presenze alberghiere che tuttavia sfuma presto. Fino al 2011 solo quattro città ospitanti sono riuscite a rilanciare il turismo a lungo termine: Lisbona, Reykjavík, Tallinn e Bologna nel 2000. Marsiglia ha il record di 11 milioni di visitatori con una riqualificazione urbana costata miliardi e un piano di investimento di 600 milioni per le strutture culturali, come il Museo delle culture europee e mediterranee che nel 2018 ha contato oltre 1,3 milioni di visitatori.

L’altra faccia della medaglia sono però i problemi. L’inclusione e la partecipazione della comunità locali sono criteri di selezione essenziali per il successo dell’evento ma in molti casi si valorizza solo l’immagine turistica all’estero. In alcune Capitali della cultura sono nati movimenti di protesta (come a Weimar nel 1999) per il conflitto tra l’identità culturale locale e la gestione del marketing, come a Cork (2005). A Turku (2011) ci fu il controevento: “Capitale Ue della controcultura”.

Talvolta poi i progetti drenano tutto il budget dedicato anche ad altre iniziative culturali. Sebbene le città candidate si presentino come “inclusive”, questa retorica spesso resta sulla carta: solo Lille (2004) inserì obiettivi sociali nel programma culturale piuttosto che trattarli come temi separati. A Sibiu (2007), ci fu un boom di attese sulla crescita che sfociarono nella delusione dopo la fine dell’evento perché i problemi delle strutture culturali restarono irrisolti. Ci si chiede se le Capitali europee della cultura favoriscano solo “eventi culturali convenzionali collegati a istituzioni affermate e che riflettono i gusti culturali della borghesia”, come avvenuto a Stavanger (2008), in un processo di “gentrificazione culturale” che deprime l’arte alternativa. Per l’Europa e i suoi progetti di coesione il progetto rappresenta però un gigantesco successo. Il prossimo turno per l’Italia sarà nel 2033, insieme all’Olanda: in quell’anno potrà concorrere anche la città di un Paese candidato a entrare nella Ue.

“Leader e partiti instabili: nessuno si fida di nessuno”

Di solito lo interpelliamo quando abbiamo bisogno di riannodare i fili che legano il passato con il presente, nella sua doppia veste di storico e di giornalista (in questi giorni il suo ultimo Le verità nascoste festeggia la sesta ristampa). Questa volta abbiamo chiesto a Paolo Mieli – editorialista del Corriere della Sera, di cui è stato due volte direttore – un vaticinio sull’anno che verrà.

Direttore, sarà un anno di stabilità o di turbolenze?

Gli equilibri politici sono stabili, il problema riguarda le forze politiche che sono al proprio interno parecchio instabili. C’è poi un ulteriore elemento: tutti, salvo Giorgia Meloni, si sono rimangiati a più riprese dichiarazioni e promesse. Questo crea un enorme problema di credibilità. Il mese di agosto ha segnato il record della parola data rimangiata. Matteo Salvini a metà di una crisi innescata da lui propose a Di Maio di diventare premier (e il termometro dei reali rapporti tra gli ex amici, di quanto si fidino uno dell’altro, è il caso Gregoretti). Il segretario del Pd Zingaretti aveva più volte assicurato “mai con i grillini”; se è possibile Matteo Renzi ancor più di lui. Luigi Di Maio era in piena campagna contro il partito di Bibbiano. L’impossibilità di fidarsi è double-face: degli elettori nei confronti dei leader politici, e dei leader tra loro. Giorgia Meloni è l’unica che non ha motivo di abbassare gli occhi se interrogata su ciò che ha detto e fatto. Da un mese, poi, tutti mandano avvertimenti a tutti: o si fa come diciamo noi o andiamo a elezioni. Cosa a cui nessuno crede.

Bella fatica per il premier.

Ecco: su questa confusione regna il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a capo prima di un governo Lega-5 Stelle e oggi Pd-5 Stelle. Un unicum nella storia. Siamo andati tutti in cerca di episodi simili, invano. Io ho trovato solo re Enrico IV di Borbone che alla fine del 1500, calvinista e ugonotto, disse Parigi val bene una messa. Pur di diventare re si convertì al cattolicesimo, dando però tutto un altro spessore alla sua svolta. È un paragone molto generoso, ma rende l’idea della situazione.

Il primo appuntamento di rilievo è il voto in Emilia Romagna a fine gennaio: gli ultimi sondaggi danno un vantaggio di Stefano Bonaccini.

Penso che il governatore uscente vincerà perché si è presentato con la sua gestione dell’Emilia Romagna senza i grillini. Pd e M5S faranno bene a presentarsi insieme solo alle Politiche e solo di fronte a un sistema elettorale con una quota di maggioritario. Nelle realtà locali, dove vengono da anni di tensioni, l’operazione non funzionerebbe. Però se Bonaccini non dovesse farcela in ragione dei voti presi dal candidato grillino questo generebbe la falsa impressione che bastava mettersi insieme. Salvini non rischia l’osso del collo, anche se ultimamente sembra essere in leggera e costante flessione. Ha perso la bussola: un giorno fa il pompiere proponendo il patto di salvezza nazionale, l’altro fa l’incendiario…

Quanto pesa la vicenda dell’inchiesta per il sequestro di persona a bordo della Gregoretti?

I giornali l’hanno impropriamente paragonata all’impeachment di Trump, che però in Senato quasi certamente si salverà. Se viene concessa l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, la storia è tutta un’altra. Magari sarà assolto, ma tra anni.

Si torna a parlare anche di novità nell’inchiesta sui soldi russi.

Quest’inchiesta da febbraio non ha prodotto nemmeno un interrogatorio per Salvini: vedremo se ci saranno mirabolanti sviluppi. Però, come dimostra la vicenda di Berlusconi, è una china pericolosa per un uomo politico. Il rischio di essere visto come imputato, come un perdente, non è da sottovalutare.

Torniamo in Emilia: le sardine mangeranno la colomba pasquale?

In genere una cosa seria divide, qui c’è un coro di applausi. Sulla stampa ho letto lodi sperticate, ed esagerate, per questo movimento che assomiglia a molti che negli ultimi decenni hanno riempito le piazze: i girotondi, il popolo viola, i forconi, le lenzuola. Ogni stagione ha la sua protesta. È un grande esercizio di democrazia, ma non dobbiamo aspettarci una costruzione politica. Se facessero un partito otterrebbero molti meno voti di quelli attribuitigli da alcuni sondaggi e peraltro li sottrarrebbero alla parte che vogliono sostenere. Le sardine hanno dato la piazza a una sinistra che, a differenza della destra, ne era orfana. Se Bonaccini vincerà, le sardine avranno una parte del merito, in caso contrario credo non ne sentiremo più parlare.

La sardina Santori si candiderà in Emilia?

Mi pare sia più intelligente di così. Non è un giovanotto sprovveduto, non dimentichiamo che viene dalla scuola di Alberto Clò… Se le cose andranno bene in Emilia, resterà il detentore di quella golden share di cui parlavamo.

Anche Matteo Renzi è alle prese con guai giudiziari…

L’inchiesta lo ha fiaccato, anche perché riguarda vicende che solleticano la fantasia degli osservatori: finanziamenti da imprenditori, l’acquisto di una villa… Gli elettori leghisti non si scompongono per l’inchiesta sulla Gregoretti, anzi pensano che Salvini abbia fatto bene. Per Renzi è diverso. In più in Senato ha sostenuto che non faceva un discorso su di sé, ma sulla “separazione dei poteri”. Ora vedremo se sarà coerente col voto sulla richiesta nei confronti di Salvini: in passato, sugli intrecci tra politica e magistratura, ha usato due pesi e due misure, quando si trattava di sé e quando si trattava di altri.

Ultima: Giuseppe Conte, che destino avrà?

È molto rafforzato da tutte le debolezze di cui abbiamo parlato. Mi viene da sorridere, però, quando sento parlare di una staffetta con Mario Draghi: non credo che si prenderebbe uno scampolo di legislatura in queste disastrate condizioni. Se Conte è lungimirante, si metterà nelle file delle “riserve della Repubblica”. Farebbe un grosso errore se scegliesse di candidarsi: Mario Monti insegna.

Bankitalia svela: fondi di Onorato al blog di Grillo e alla Casaleggio

Una segnalazione dell’Unità antiriciclaggio (Uif) della Banca d’Italia finita sul tavolo della Guardia di Finanza ha dato il via agli accertamenti sui soldi versati dal presidente di Moby spa Vincenzo Onorato alla società che gestisce il blog di Beppe Grillo e alla Casaleggio associati. L’armatore, che ha ereditato Tirrenia e ha una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno, è finito sotto i riflettori per essere tra gli imprenditori perquisiti dalla Procura di Firenze che indaga sui fondi versati alla fondazione Open, la cassaforte renziana. A cui ora si aggiungono altri fondi elargiti a Grillo e Casaleggio che, è questa l’accusa, dimostrerebbero che l’imprenditore avrebbe provato a cercare altre sponde politiche. I bonifici segnalati come “operazioni sospette” dall’Uif si riferiscono a due accordi economici tra il 2018 e il 2019: il primo è il “contratto di partnership” da 120mila euro l’anno siglato con la Beppe Grillo srl; il secondo con la Casaleggio Associati da 600mila euro. Sul blog di Grillo ci sono ancora i post a favore di Onorato e lo scorso 9 agosto il fondatore del M5s ha pubblicato un post per rilanciare la petizione promossa da Onorato per “salvare i 50.000 marittimi italiani disoccupati”. Nel settembre del 2018, però, il M5s in Sardegna si è schierato contro la conversione siglata con la Moby.

Ieri pomeriggio è arrivata la replica di Onorato, che ha precisato di essersi rivolto alla Casaleggio Associati in quanto “leader in quel settore”. Inoltre ha affermato che “quelle pagate alla Casaleggio sono cifre di mercato e non mi aspettavo favoritismi”. L’armatore ha fatto luce anche sulla fondazione Open: è stato un “finanziamento trasparente, credo nelle idee sociali di Renzi. Non agisco in regime di monopolio, ma in regime di mercato. Difenderò sempre la gente per mare. A partire dai miei 5.800 dipendenti”.

La Terra dei Fuochi brucia sempre di più

“L’esercito sta là, 250 uomini senza poteri di polizia giudiziaria, stanno a fare gli spaventapasseri e davanti ci sono le carcasse di auto rubate e poi bruciate, i frigoriferi, il rame, gli scarti tessili e quelli di pellame, tutto bruciato”. Si intitola La terra dei ciechi la puntata di Report, in onda stasera, dedicata all’area tra Napoli e Caserta dove vivono circa 3 milioni di persone. Novanta paesi che abitualmente respirano i fumi degli incendi di rifiuti: un veleno continuo. Nell’ultimo anno i roghi sono aumentati del 30%, un’emergenza che non si ferma: durante i mesi estivi la redazione di Report ha ricevuto decine e decine di nuove segnalazioni. Nel servizio, Bernardo Iovene mostra come nulla sia cambiato nonostante “il commissario, i droni, l’esercito, la cabina di regia e il patto d’azione”. Nel 2013 il Ministero dell’Interno, la regione Campania, prefetture e altri enti siglano il “patto per la terra dei fuochi”.

Una task force inutile, al punto che cinque anni dopo viene varato il “piano di azione per il contrasto dei roghi dei rifiuti” a cui aderiscono sette diversi Ministeri coordinati da due cabine di regia. “Per le forze in campo sembra un piano di guerra e ci siamo chiesti allora chi la stia vincendo questa guerra” sottolinea il conduttore Sigfrido Ranucci. La risposta è poco consolante come testimoniano i diversi attivisti del territorio intervistati: Angelo Ferrillo, la “sentinella integerrima”, Giovanni Papadimitri del comitato Basta roghi o Biagio D’Alessandro che documenta ogni incendio. Decine e decine di video pubblicati, decine di segnalazioni con ora e luogo. Iovene prosegue: “La corruzione nella pubblica amministrazione è l’altra causa della devastazione di questi territori. La polizia municipale è quella più esposta, ad Arzano in provincia di Napoli ci sono 9 vigili urbani sospesi tra ufficiali e sottoufficiali”. Arzano è un comune sciolto per mafia due volte in tre anni: in pieno centro i rifiuti bruciano ovunque, vengono sequestrate strade intere ma non basta. In questo territorio dimenticato se piove è una fortuna, perché l’alternativa è respirare fumi tossici.

Una legge regionale del 2013 ha stanziato 7 milioni di euro per i comuni che presentavano progetti per la video sorveglianza e riqualificazione ma dopo sei anni sono stati spesi in tutto 3 milioni, solo 34 comuni dei 90 della terra dei fuochi si sono presentati. “Per i sindaci sono inutili? O preferiscono gli occhi chiusi? È la fotografia di una patologia, quei rifiuti sono in gran parte di un’economia illegale, piccoli artigiani, tessili, carrozzieri, meccanici che lavorano in nero. E che in nero pagano la filiera attrezzata a smaltire le loro scorie. Se non contrasti l’economia a monte fa i rifiuti illegali a valle” chiosa Ranucci. Esistono oltre 3500 siti di rifiuti abbandonati e bruciati, a nord di Napoli segnalati per la maggior parte da cittadini. Tutti segnalano ma nessuno rimuove. “Festeggiamo dieci anni da quando è stata decretata per legge la fine dell’emergenza, ve ne siete accorti?” domanda sarcasticamente Domenico Airoma, procuratore aggiunto tribunale Napoli Nord. Report non risparmia critiche nemmeno al ministro dell’Ambiente Sergio Costa, accusato di non mettere in pratica i proclami del passato.

La sardina Cristallo a Salvini: “Sua figlia sa cosa fa alle donne?”

“Caro Salvini, le chiedo se ha intenzione di raccontare a sua figlia che sulla sua pagina Facebook permette a legioni di frustrati di sfogare pulsioni sessuali represse. Lo saprà sua figlia che consente ai suoi sostenitori di inneggiare allo stupro di gruppo per punire una donna che semplicemente non la pensa come lei?”. Jasmine Cristallo, attivista calabrese e fra i coordinatori del movimento 6000 Sardine, militante della sinistra ma senza tessere di partito, alla “macchina infernale” aizzata dalla Bestia preferisce rispondere con “parole e concetti” in una lettera indirizzata a Salvini.

L’ennesima violenza contro l’animatrice della rivolta dei “balconi” calabri durante la campagna elettorale per le Europee scaturisce dalle centinaia di commenti beceri e sessisti che le sono stati scagliati contro dopo che Salvini l’altro ieri ha pubblicato su Facebook un link all’intervento della leader delle Sardine calabresi a Otto e mezzo (La7), commentando nella didascalia del video: “Possono camuffarsi da pesci, alberi, frutta tropicale ma, gratta gratta, son sempre i soliti sinistri”. Ospite di Lilli Gruber, la Cristallo – dopo aver rivendicato con orgoglio il suo essere di sinistra – ha duramente criticato i decreti sicurezza, definiti un “abominio” e un “regalo alle mafie”. Ma sui social della Bestia tutto è degenerato. “Essere di sinistra è da vergognarsi, viste le decine di milioni di morti causati dai comunisti nel mondo dove hanno instaurato le loro dittature”, “Un’ideologia che andrebbe messa fuorilegge come il nazismo”, sono tra i pochi commenti non sessisti scritti dai supporter di Salvini. Una mole di brutalità e aggressioni mosse dalla Bestia, a cui la Cristallo ha deciso di replicare prima intonando Gente di mare di Raf e Tozzi e poi “invitando i miei amici a non rispondere alle offese o a farlo con parole positive e versi di poesie” nella lettera a Salvini.

Lì la giovane donna va oltre la spettacolarizzazione e da mamma si rivolge a un papà: “Il nostro compito è rendere partecipi delle proprie azioni i figli che si educano attraverso l’esempio. Quando teneramente mette lo smalto o assiste alle recite natalizie di sua figlia, ci pensa a come si sentirebbe se fosse lei la vittima di quella stessa violenza che infligge ad altre donne? Mia figlia di 19 anni, leggendo i commenti a me destinati dai suoi campioni di civiltà ha reagito tremando. Salvini, non mi aspetto delle risposte, ma sappia che da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile, in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia e anche alla sua”.

Proprio l’altro giorno il Senatur Umberto Bossi, parlando degli avversari di Salvini nelle piazze e sui social, gli aveva dato un consiglio: “Non bisogna sottovalutare le Sardine, che sono una operazione intelligente, rappresentano la spunta sociale contro il Palazzo”. Ma Salvini l’ha ignorato.

“In Campania andrei col Pd. Stando soli non si vince mai”

Il ministro che era gialloverde e ora è giallorosso nota la differenza: “Nel governo con la Lega si partiva da posizioni distanti e spesso ognuno rimaneva sulla sua, mentre ora ci si confronta molto di più. In Consiglio dei ministri parlano tutti: e per me è meglio così, meglio restare in Cdm sei ore come l’altra sera”. Pensa positivo il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, tecnico indicato dal M5S, che molti vedrebbero come il candidato giusto per i 5Stelle e il centrosinistra in Campania. E lui non spranga la porta: “Dipenderebbe dal progetto”.

Avete approvato il decreto milleproroghe salvo intese, cioè senza accordo. Il governo continua a ballare.

Da tecnico prestato alla politica, le dico che questo governo andrà avanti, perché c’è il confronto, e chi se ne importa se è ruvido.

Ma non chiudete i provvedimenti…

Questo esecutivo non nasce da un matrimonio d’amore, ma tutti quelli che ne fanno parte sanno di dover fare rinunce per realizzare le cose. In Cdm abbiamo portato a casa il riordino di tutte le forze le polizia, ed è una cosa enorme. L’assonanza tra i partiti si sta costruendo.

Ma sull’ambiente c’è distanza tra promesse e fatti. Avevate promesso la plastic tax, poi avete dovuto rinviarla.

Sulla tassa proposta dal ministero dell’Economia ci siamo confrontati, e l’abbiamo modificata dopo aver inserito nel decreto clima incentivi verso la transizione ecologica per le aziende dell’imballaggio. E i fondi li ha messi il ministero dell’Ambiente.

Ha pesato il fatto che quelle aziende sono quasi tutte in Emilia Romagna, dove si voterà a gennaio. O no?

Non sono nato sotto un cavolo, vedo le dinamiche della politica. Però se posso dare un aiuto, cioè un incentivo, invece che uno scapellotto, ovvero una tassa, perché non farlo?

A Roma gli scapellotti servono? Nella guerra tra Regione Lazio e Campidoglio sui rifiuti non si è ancora arrivati alla soluzione indicata anche da lei, ossia a una discarica temporanea.

Incrociando le dita direi che siamo all’ultimo miglio. La Regione ha finalmente elaborato le linee guida per il Piano rifiuti, che sarà pronto entro metà 2020. E il Comune e la città metropolitana stanno cercando il sito e lavorando alla raccolta differenziata, che si era un po’ fermata e ora deve ricominciare a correre.

Però il M5S, da sempre contrario alle discariche, si sta spaccando in Comune. La sindaca Raggi riuscirà davvero a individuare il sito? La comunità vicino alla località Tragliatella, il possibile sito, è già sulle barricate.

Non mi permetto di entrare sulla scelta del luogo, non rientra nelle mie competenze. Però bisogna essere chiari: la discarica va fatta, ma sarà di servizio, cioè temporanea, e non una seconda Malagrotta. Durerà per la fase di transizione, ossia per il tempo di realizzare impianti di compostaggio per il trattamento dell’umido e individuare uno o due siti di afferenza, dove raccogliere rifiuti differenziati da inviare poi altrove.

Quanto tempo serve?

Un anno e mezzo.

E per aiutare la Terra dei Fuochi? Report stasera racconterà un disastro, con i roghi cresciuti del 30 per cento. Avevate promesso altro.

È chiaro che il Piano di azione non ha dato i suoi frutti. È stato congegnato come un orologio, ma se non girano tutti gli ingranaggi in sintonia, si ferma tutto. Si doveva fare di più sul fronte del controllo del territorio: chi appicca roghi è un criminale e va perseguito e fermato. Da alcuni mesi stiamo lavorando col ministro dell’Interno Lamorgese per colmare quei vuoti e scrivere un nuovo patto con sindaci, polizie locali, comitati e consorzi.

A proposito di Campania: nelle Regionali il M5S dovrebbe correre con il Pd?

Per vincere bisogna stare assieme, non da soli. Penso che nella situazione campana, oggettivamente difficile, sia necessario includere. E non per essere sicuri della vittoria, bensì per avere la maggiore partecipazione possibile al cambiamento.

Le hanno mai chiesto di correre da governatore?

Finora solo qualche amico.

Se glielo chiedessero Di Maio e i dem, cosa risponderebbe?

Vorrei capire con quale idea e con quale progetto. A me non interessa portare voti, ma fare polis, costruire un progetto politico condiviso. Perché la politica resta la più alta forma di carità.

Ma mi faccia il piacere

Faccia da sosia. “Alle feste di Arcore, Berlusconi si faceva mettere il sedere in faccia dalle ragazze. Pensavo fosse un sosia” (Ambra Battilana, testimone al processo Ruby-ter, 15.12). Il sedere?

Invito a nozze. “Salvini anti-giudici: ‘Attaccano il popolo. Processateci tutti’” (Repubblica, 22.12). Magari.

L’aiutino/1. “Sono pronto a dare una mano alle sardine” (Michele Santoro, Repubblica, 15.12). Peccato, stavano andando così bene.

L’aiutino/2. “Il Salvini ‘istituzionale’ adesso guarda al centro. I consigli dei ‘professori’ Pera e Urbani” (il Giornale, 18.12). Meno male, stava andando così bene.

Non c’è Paragone. “Grillo deve andare nelle piazze e dire: siamo cresciuti, non siamo più quelli di una volta” (Gianluigi Paragone, senatore M5S, Repubblica, 20.12). Una volta, tipo quando Paragone era leghista.

Colpa di Virginia. “Qualità della vita, la classifica 2019 fotografa le performance positive di tutte le grandi città della Penisola (ad eccezione di Bologna, che registra un leggero calo): Roma, diciottesima, sale di tre posizioni rispetto alla classifica dello scorso anno” (Sole 24 ore, 16.12). “Roma più vivibile? Quella classifica che sconcerta i romani”, “La Capitale è più vivibile? Se non dipende dal Comune (Messaggero, 17.12). Ammazza quanto risicano i Caltarosiconi.

Delitto di cronaca. “Possibile che, fermo (sic, ndr) restando l’apertura legittima di una indagine, nel giro di pochi giorni vengano diffuse sui giornali notizie di ogni tipo?” (Davide Faraone, senatore Iv, Il Riformista, 11.12). In effetti, è un vera sconcezza: bisogna assolutamente abolire i giornali.

Casi umani/1. “Salvini: ‘Io e Trump sotto attacco politico-giudiziario’” (Il Dubbio, 20.12). La pulce ha di nuovo la tosse.

Casi umani/2. “Io non ho attaccato i pm… E’ il loro lavoro, li rispetto… Questione di stile… Qui per me c’è un’invasione di campo: un Paese che rimette ai giudici la decisione sulle forme della politica viene meno al principio della democrazia liberale” (Matteo Renzi, senatore, leader Iv, Repubblica, 22.12). Non li attacca mentre li attacca e li attacca mentre non li attacca.

Casi umani/3. “Non siamo al governo per votare le scandalose leggi 5Stelle” (Renzi, ibidem). Semmai quelle di B. e Verdini, cioè quelle di Renzi.

Casi umani/4. “Ci sono due modi per concepire il caso Eternit (processo finito in prescrizione, ndr): o la vicenda non è un reato o se lo è, ma è prescritto, vanno cambiate regole sulla prescrizione perché non è possibile che le regole facciano saltare la domanda di giustizia. Non ci dev’essere modo di chiudere la partita velocemente perché tanto la domanda giustizia viene meno: no, la domanda di giustizia non viene meno. Cambieremo il sistema del processo e le regole del gioco della prescrizione. Mi danno i brividi le interviste ai famigliari delle vittime che mostrano una grande dignità, persone che credono nella giustizia più di qualche servitore dello Stato” (Matteo Renzi, premier Pd, , 20.11.2014). “La norma Bonafede sulla prescrizione è uno scandalo” (Renzi, Repubblica, 22.12). Questo Bonafede si permette addirittura di fare quello che prometteva Renzi.

Adamo ed Eva. “Gratteri arresta metà Calabria. É giustizia? No è solo uno show! La scelta di Callipo è cara a Gratteri, si vuole colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi” (Enza Bruno Bossio, deputata Pd e moglie di Nicola Adamo, di nuovo indagato da Gratteri, come del resto lei in altre indagini, 22.12). Sicura di non voler passare a Italia Viva? Sarebbe perfetta.

Nostalgia canaglia/1. “No al Ponte (sullo Stretto di Messina, ndr) perchè vengono prima i treni e le strade, dicono da 40 anni, e poi lo farebbe la mafia. La Sicilia non ha ottenuto né i treni né le strade, e a quanto pare Cosa Nostra s’è dedicata ai traghetti. Al posto del Ponte ci sono il vuoto, gli ingorghi e le mani della mafia” (Sebastiano Messina, Repubblica, 19.12).Silvio,ci manchi.

Nostalgia canaglia/2. “La sinistra del ‘No’ si illuse di trovarsi alla testa di un grande movimento progressista, per poi verificare lo smottamento politico gialloverde di cui quel voto fu il primo grande segnale” (Gad Lerner, Repubblica, 16.12). Infatti, se avesse vinto il Sì, Salvini non invocherebbe più i “pieni poteri”: li avrebbe già.

I titoli della settimana/1. “Fca-Peugeot, via alle nozze da 8,67 milioni di automobili”, “Elettrici e nati per la città: ecco i modelli del futuro” (Repubblica, 19.12). “John Elkann chiama in paradiso gli operai” (Libero, 19.12). Eddài, John, comprati pure Libero!

I titoli della settimana/2. “L’antigrillino Ambrosoli. La fiction Rai che stana i 5Stelle” (Libero, 17.12). é ufficiale: non l’ha ammazzato Sindona, ma Grillo.

Un Natale da favola con il classico “Schiaccianoci” del Roma City Ballet

Piccole, grandi, piacevoli certezze del Natale: Una poltrona per due e La vita è meravigliosa in televisione, i film della Disney distribuiti su ogni piattaforma, gli immancabili dubbi sugli ultimi regali e Lo schiaccianoci da godere a teatro.

E quest’anno nella Capitale (fino al 26 dicembre) all’Auditorium della Conciliazione è il Roma City Ballet Company con la regia e coreografia di Luciano Cannito a interpretare il classico musicato nell’Ottocento da Ciajkovskij; il tutto impreziosito dalla presenza di due coppie di primi ballerini ospiti, impegnati nei ruoli del Principe Schiaccianoci e della Fata Confetto e che si alterneranno nelle recite: la prima formata da due “principal dancers” del Teatro dell’Opera di Berlino, Ksenia Ovsyanick e Dinu Tamazlacaru; la seconda proveniente da New York e formata da Tatiana Melendez e Vincenzo Di Primo (già protagonista del programma televisivo Amici della De Filippi).

Nella versione coreografica di Cannito, ruolo determinante lo ha il misterioso Drosselmeyer, figura fantastica che riconosce in Clara la purezza infantile e decide di regalarle nella notte di Natale un sogno meraviglioso nel mondo delle favole, guidata dal Principe Schiaccianoci e dalla Fata Confetto, in un regno fatato di giocattoli che diventano figure animate, principi e principesse e che ne fanno il titolo di balletto del repertorio classico più rappresentato al mondo.

Lo spettacolo ha grande pathos, tra sogno e consistenza della realtà, e regala quasi due ore di piacevole brezza natalizia, con la Ovsyanick in grado di offrire un’esibizione di grande talento, un controllo del corpo sublime e una tecnica non comune nel panorama internazionale della danza.