“Mamma mia!” che noia i musical al cinema: mancava solo “Cats”

E mo so’ Cats. Da noi la trasposizione cinematografica del celeberrimo musical di Andrew Lloyd Webber, anziché a Natale come preventivato, arriverà solo il prossimo 20 febbraio, ma Oltreoceano, in Gran Bretagna e un po’ ovunque è già uscito e le recensioni, ehm, non sono positive: si va dalle mani nei capelli alle vesti stracciate, e la fantozziana boiata pazzesca si candida a “emozione particolare” di questo gattaro correlativo oggettivo. Concetto elaborato da Thomas Stearns Eliot cui si deve pure l’ispirazione di Cats, attraverso le eterodosse poesie raccolte ne Il libro dei gatti tuttofare: baffi in mostra, coda perpendicolare, miagolio per lasciapassare, sì, ma al cinema che ne è?

Regia di Tom Hooper (Il discorso del re, Les Misérables, The Danish Girl), il mancato gradimento invero non stupisce, dopo che il trailer diffuso la scorsa estate aveva fatto partire secchiate d’acqua via social contro questi gatti in calore Cgi: se a Broadway, dove lo spettacolo è andato in scena per diciotto anni, dal 1982 al 2000, con ininterrotto successo gli attori semplicemente indossano costumi e sono truccati per assomigliare ai felini, sul grande schermo vengono gattificati con la Computer generated imagery, mantenendo, eccezion fatta per le orecchie, il volto, le mani e, nel caso delle micie, pure il seno e acquisendo una digital fur, una pelliccia digitale, di dubbissimo gusto, probabile ridicolaggine e possibile perversione. Insomma, tempi duri per questi gatti di strada, primariamente tradotti sul palcoscenico da Lloyd Webber e ora affidati alle cure recitative di James Corden, Judi Dench, Jason Derulo, Idris Elba, Jennifer Hudson, Ian McKellen, Taylor Swift, Rebel Wilson, nonché la prima ballerina del Royal Ballet Francesca Hayward. Cast all star, sì, ma uniformemente sprecato.

Se la trama non fa la parte del leone, giacché è abbozzata ed esile come in pochi altri musical, dovrebbero supplire le coreografie, affidate a Andy Blankenbuehler, dovrebbe corroborare la miscela danzereccia, dal balletto classico al contemporaneo, dall’hip-hop al tip-tap, dal jazz alla street dance, eppure, lo sconcerto regna sovrano: un lapidario 3 (32 su 100) il voto conquistato su Metacritic, addirittura un miserrimo 19 per cento di giudizi positivi su Rotten Tomatoes, e le fusa sono dell’apocalisse. Sappiamo bene, le idee originali nel cinema del Terzo millennio sono queste sconosciute, e un serbatoio d’eccellenza quale Broadway non può andare sprecato: problema, come adattare il musical dal palco allo schermo? Si può eccepire sulla resa di Chicago, regia di Rob Marshall, Catherine Zeta-Jones e Richard Gere sul set e sei Oscar nel 2003? Si possono fare le pulci a Mamma mia!, con i pezzi degli Abba a quel gran pezzo d’attrice di Meryl Streep (2008)? Si possono contestare le esecuzioni dal vivo e i “faccioni” di Les Misérables, da Victor Hugo e con lo stesso Hooper dietro la macchina da presa e davanti Hugh Jackman e Anne Hathaway, tre statuette nel 2012? Si può fare il contropelo a Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street portato in sala da Johnny Depp, via Tim Burton, nel 2007? Ancora, si può sindacare sulle Dreamgirls Beyoncé e Jennifer Hudson, ispirate alle Supremes, del 2006? Certo che si può: a dire il vero, sono decenni che il genere fondativo del cinema americano, da The Jazz Singer del 1927 passando prima per Busby Berkeley, il demiurgo Vincente Minnelli (Un americano a Parigi, Gigi), la coppia Gene Kelly e Stanley Donen (Cantando sotto la pioggia) e poi il nuovo corso di West Side Story (1961), Cabaret (1972), All That Jazz (1979) e The Blues Brothers (1980), non sforna più capolavori, ma anche al peggio c’è, o dovrebbe esserci un limite, e invece con Cats parrebbe che no.

Su Variety, Peter Debruge non le manda a dire: “Fa male agli occhi e, sì, alle orecchie, come quasi tutti i numeri musicali, tra cui Memory”. Gli fa eco Peter Bradshaw sul Guardian: “Mentre guardano al green screen e strisciano, è strano vedere (gli attori) brontolare e recitare, e perché così tanti di loro assomigliano a Darth Maul (personaggio di Star Wars, ndr)?”, con Vanity Fair a mettere i chiodi nella bara: “Hooper fallisce completamente… Non si ottiene nulla trasformando Cats in un sontuoso esperimento Cgi e quasi tutto viene perso”. Slate prova a salvare il salvabile: “La sregolatezza di Cats è la sua più grande forza, e la versione di Hooper lo capisce”, ma è fatica sprecata, oramai lo sappiamo: un miagolio ci seppellirà.

“Ho imparato Tolstoj in tv, Battisti mi ha freddata e le nozze mi han salvata”

A giugno sono sessant’anni di carriera. Da allora ha inanellato un numero tale di esperienze, progetti e successi da diventare un assioma, un assoluto, da tramutarsi in una sorta di Limbo (il ballo) con l’asticella talmente bassa in quanto a difficoltà affrontate e superate da diventare un Limbo (dantesco) per chi ha provato a imitarla, senza mai riuscirci.

Eppure Loretta Goggi quando parla, in particolare quando ripensa ai momenti più alti e felici, quasi mai si riferisce alla carriera, ma solo al tempo passato insieme a suo marito, Gianni Brezza, scomparso nel 2011 “dopo 29 anni insieme, l’amore della mia vita. Sì, sono una romanticona”. E non piange, o nasconde bene le lacrime. Non recrimina, non si lamenta, non si ferma e la sua è solo lucida consapevolezza. E basta scorrere il book del nostro Umberto Pizzi, che li ha fotografati in tante occasioni, per scoprire un’evidenza: sono sempre mano nella mano. “Però è quasi tutto merito mio (sorride), ero io a smussare gli angoli”.

Ed è fondamentale.

In assoluto è necessaria una certa morbidezza mentale, senza credere solo alla passione o alla sensualità.

Data di nascita: 1950, stesso anno di Verdone e Zero.

Davvero? Cavolo che generazione.

Non male…

E aggiungo il mio giorno: 29 settembre, come la canzone di Lucio.

Lo ha mai rivelato a Battisti?

No, mai trovato il coraggio: quando avevo 19 anni siamo stati insieme in una trasmissione televisiva, era uno speciale dedicato proprio a lui, e con Lucio anche Equipe 84, Formula3 e Patty Pravo, ma non gli ho rivolto la parola. E da quel giorno non c’è stata più occasione.

Com’è possibile?

Battisti realmente non parlava mai; una sera a Torino, siamo a cena con Fatma Ruffini (storica autrice tv) e lui; io accompagnata da mio padre. A un certo punto Battisti mi guarda e mi fredda: ‘Tu ridi sempre’.

Perfetto.

A volte questa allegria è stata un problema, ma già da ragazza mi svegliavo cantando.

Perché un problema?

Da sempre mi hanno posto dei limiti, per molti il mio lato sorridente mi avrebbe potuto procurare in teatro solo ingaggi per il ruolo della ‘buona’; poi mi dicevano che non avevo la voce giusta, mentre dopo il successo a Sanremo con Maledetta primavera dovevo interrompere le imitazioni.

Mancava sempre qualcosa…

Ho passato gran parte della carriera a convincere i presunti esperti delle mie capacità.


Maledetta primavera
resta un caposaldo.

E pensare che è arrivata seconda a Sanremo, ma per me resta un gran momento, una rivincita, come presentare il Festival nel 1986. Anche lì ai piani alti non volevano.

Con quale motivazione?

Temevano le manifestazioni operaie e ,in quanto donna, la mia incapacità a gestire l’imprevisto (sono le 10 del mattino, è su un set, si prepara).

È tornata a recitare.

È una delle mie battaglie: di solito il pubblico italiano mette la data di scadenza agli artisti, come prodotti da supermercato.

E invece…

Ho deciso di interpretare il ruolo della vecchietta, e poi di togliermi dalle scene (sorride). Sul set mi diverte il trucco, il parrucco, vedere come gestiscono le luci.

Secondo Antonio Manzini, in Italia siamo colpevoli di offrire pochi ruoli alle attrici over 50.

È vero, mentre all’estero si costruiscono parti importanti e si investe su attrici come Meryl Streep o Helen Mirren, al contrario da noi nei pochi ruoli over vestono le anziane in modo improbabile e ridicolo, da giovani. Non solo: il 60enne delle fiction può avere una compagna con qualche anno di meno, la donna no.

Irreale.

E poi un tempo la televisione era più selettiva.

Lei è il nazional-popolare.

Fin da piccolina ho interpretato dei capolavori della letteratura, e questo mi ha molto aiutato già alle scuole medie.

In quale modo?

Quando i professori spiegavano Dante, Dostoevskij e Tolstoj, sapevo quasi tutto a memoria, ero quasi preparata.

Quasi…

Non per una mia impreparazione, solo perché gli sceneggiati tv non erano fedeli all’originale, ma tradotti per un pubblico generalista, e al tempo il livello di alfabetizzazione del Paese doveva formarsi. Comunque potevo non studiare.

Ha iniziato a nove anni: si è mai sentita come in Bellissima?

Con mamma no, mentre papà inizialmente ne ha un po’ sofferto, masticava malissimo la situazione, anche perché per periodi lunghissimi stavo lontana da casa, in particolare i primi tempi quando partecipavo teleromanzi e duravano anche otto mesi.

Le pesava?

Mi divertivo tanto, era come vivere tutti i giorni dentro a una festa di Carnevale: mi truccavano, sistemavano le acconciature, tutti carini e disponibili e soprattutto mi vestivano con abiti incredibili, di ogni epoca, ed ero circondata dai più grandi attori.

Si innamorava di loro?

Da questo punto di vista ho iniziato tardi, il primo bacio è arrivato quando avevo 16 anni; sul set i vari Alberto Lupo, Gino Cervi o Paolo Stoppa li vedevo come dei genitori aggiunti, o degli zii.

Paolo Stoppa presunto caratterino.

No, lui meraviglioso. Tra un set e l’altro mi dava ripetizioni di Storia (e inizia a parlare esattamente come Stoppa): ‘Lorè che te tocca oggi? Viè che la lezione te la sento io’.

La proteggeva.

In qualche modo mi ricordava la mia età, era come ancorarmi ai miei dieci anni; una volta sul set tirai fuori una penna, dovevo scrivere di Mark Twain, scoppiò il putiferio: era di color viola.

Il viola non è leggenda.

Scaramantici al massimo, mentre a me certe suggestioni non interessano.

In quegli anni ha incrociato la Mannoia.

Fiorella era la mia controfigura ne La Freccia nera: lei e la sorella erano talmente brave e atletiche da venire ingaggiate per le scene maggiormente pericolose.


La Freccia nera
visto da milioni e milioni di spettatori.

Alla Rai arrivavano migliaia di lettere, un’invasione, un successo memorabile.

Investita dalla popolarità.

Però il momento clou è arrivato con Canzonissima, e i paparazzi che si arrampicavano anche sui lampioni, sugli alberi, si piazzavano dietro le finestre pur di strappare una foto. Per me un trauma. Non ero abituata, non uscivo mai la sera e frequentavo solo gli amici di quando ero ragazza.

Con suo marito è diventata gossip.

Perché era già sposato, e quando abbiamo esplicitato l’unione siamo scappati a vivere a Milano, lì i paparazzi erano meno aggressivi.

Pe la carriera a cosa ha rinunciato?

Proprio a niente, sempre preferito la vita privata, e per questo tre o quattro volte ho interrotto ogni percorso artistico (sorride); quando è nata la storia con mio marito, per sei mesi ci siamo solo dedicati alla barca a vela e alle regate.

All’improvviso senza riflettori.

E senza rimpianti, eravamo io e lui e bastava.

Non è comune tra i suoi colleghi.

Lo so, la maggior parte non riesce a vivere priva di riflettori, di quella luce artificiale che in teoria illumina le esistenze.

Ha lasciato senza la certezza di poter tornare…

In Italia funziona così: quando scendi da treno è quasi impossibile risalire, e già lo sapevo, ma non mi interessava. Io avevo lui (e mostra il cellulare).

Questo telefono.

Lo so, è vecchio, funziona male, però è quello di mio marito e intendo utilizzarlo fino a quando sarà possibile (gli occhi diventano rossi e riesce a mantenere un sorriso non di circostanza).

Ci pensa sempre.

Prima di conoscere lui, mi ritenevo una persona pesante, ingombrante.

Addirittura.

Ero quella iper responsabile: a 25 anni avevo già una bella indipendenza economica, possedevo una macchina, viaggiavo per il mondo, affrontavo una realtà differente.

E…

I miei coetanei al massimo studiavano, magari per cercare la svolta giocavano la schedina al Totocalcio, e a quel punto il mio ruolo era di seconda madre.

Li bacchettava.

Due palle allucinanti, mentre accanto a me avevo bisogno solo di un uomo forte e maturo, uno che rispondesse a un’esigenza pratica nascosta dietro a una domanda dentro di me quotidiana: ‘Se succede qualcosa, a me chi ci pensa?’.

I suoi genitori.

Anche da adulta andavo in vacanza con loro, mi seguivano in molti appuntamenti, ma certe situazioni non si possono condividere con mamma e papà.

Quindi…

Il matrimonio è stato il mio salvavita, mi ha reso indipendente dalla televisione e dal teatro, mi ha dato la giusta sicurezza ed equilibrio, mai schiava di certe liturgie. Mi sono sentita libera e capita.

Non male…

Nel 1981 la Rai mi offre un programma, e nello stesso momento mi chiama Proietti per una tournée teatrale. O l’uno o l’altro. Spiazzata ne parlo con Gianni, e lui: ‘Vai da sola a Londra a vedere lo spettacolo che vuole portare in scena Gigi, e poi decidi’.

Da sola?

Sì, non voleva influenzare la mia scelta; insomma, prendo l’aereo, acquisto il biglietto, mi siedo a teatro e dopo cinque minuti capisco qual è la strada giusta.

Proietti.

Esatto, ed è stata un’esperienza meravigliosa, con Gigi ho capito cos’è la recitazione, quali sono i tempi giusti, cosa vuol dire professionalità. È un maestro. Aveva solo qualche problema con il dopo-teatro…

Cioè?

Andava e va a dormire in orari per me impossibili, arrivava il pomeriggio in teatro e iniziava a mangiare. Per lui era il pranzo. Una sera io do la buonanotte, mentre mio marito e Gigi decidono di restare per due chiacchiere. Mi sveglio alle quattro del mattino e Gianni non era ancora tornato, e allora non c’erano i cellulari. Ho chiamato tutti gli ospedali della zona, disperata, ero convinta fossero morti.

Tra gli anni Settanta e i primi Ottanta i cantanti italiani andavano alla conquista dell’America.

Me lo hanno proposto più e più volte, ho sempre rinunciato, preoccupata dai racconti di chi aveva affrontato quell’avventura.

Perché?

Chi andava a New York o in America Latina veniva sequestrato dal boss locale con pretese continue: matrimoni dei figli, comunioni, cene e tutto un repertorio. Quelle situazioni non mi piacevano e per questo ho rinunciato a dei concerti pure al Radio City Music Hall di New York. E a una serie di ingaggi molto importanti (sorride di nuovo). Alla fine non so perché ho scelto questo mestiere.

In quel periodo ha conosciuto anche Califano.

No, prima. Franco, insieme ad Arbore, è stato il produttore del debutto di mia sorella con il nome d’arte di Daniela Modigliani; in quel periodo frequentavano spesso casa nostra per mangiare la pasta e fagioli di mia madre.

Califfo personaggio particolare.

Era un uomo di una generosità rara. Una sera in un concerto vede un ragazzo infreddolito, senza dire nulla si avvicina, lo guarda, si toglie il montone e glielo porge. Alla fine del concerto lo stesso ragazzo si avvicina per restituirlo, e lui: ‘Ormai è tuo’.

Insomma, non sa perché ha scelto questo mestiere…

E aggiungo: non so neanche come posso stare ancora qua…

Tradotto?

La politica aiuta, i partiti aiutano, e non mi sono mai pubblicamente schierata.

A occhio non è da estrema destra.

Io? Ma neanche di centrodestra, al massimo di centrosinistra.

Un vizio.

L’ozio, il dolce far niente, ma quando è scelto, non imposto dall’umore.

Lo sa.

Ho passato un periodo brutto, per fortuna ne sono uscita.

Una fortuna.

Oltre a mio marito e alla famiglia? Quello di saper ancora oggi sognare, questa è la differenza tra vivere e sopravvivere.

(E magari la Primavera non è sempre maledetta).

Sciascia senza Nobel: troppo pessimista

Ho confessato più volte che se la musica è la mia passione, il mio vizio è la lettura. Nulla mi piace quanto passare il pomeriggio a letto insieme col bassotto Ochs a leggere in due. Or, pochi giorni fa, rievocando il trentennale della morte di Georges Simenon, ho scritto che nel Novecento i sommi ai quali non è stato conferito il Nobel sono Céline, Borges e Simenon. Dimenticavo Leonardo Sciascia, del quale pure quest’anno cade il trentennale della scomparsa.

Le opere complete di Leonardo Sciascia le tengo sempre in mano; sebbene i libri che ho sempre con me siano Lucrezio, Virgilio, Orazio, Leopardi, Manzoni: un anno I promessi sposi, un altro la prima versione, da lui rifiutata, convenzionalmente denominata Fermo e Lucia. Giovanni Macchia la giudica superiore e, certo, basterebbe l’atroce romanzo nel romanzo dedicato alla Monaca di Monza a farci gioire che tale versione non sia stata distrutta e sia stata ritrovata.

Manzoni e Leopardi sul cuore umano, sulla politica, sulla massa, hanno, con Flaubert, scritto le cose più rivelatrici di ogni tempo. Sciascia è un manzoniano e su Manzoni gli si debbono ricerche erudite che, come tutte le sue opere storiche, sono fra le perle della sua creazione. È un seguace di Manzoni nell’indagare il cuore umano e il suo indurirsi in rapacità e abiezione. Adorava le petites histoires, che spesso nascondono macigni. Lo studio che il grande Racalmutano fa dell’uomo parte sempre dalla Sicilia, sebbene s’allarghi in senso universale. L’attaccamento dei siciliani di ogni tempo alla roba, che si fa addirittura una metafisica della roba, non è dell’italiano tutto, se non dell’uomo assolutamente? E qui va osservato l’attaccamento alla roba proprio dei preti. Certo, di tutti; ma il clero siciliano, col suo particolarismo, la sua autonomia, ne è un emblema. Anche per l’essere il popolo siciliano, secondo Leonardo, superstizioso, sì, ma soprattutto irreligioso, a-cristiano se non ateo. In questo di alta meditazione è la ricerca storica Morte dell’inquisitore, la storia di un monaco secentesco detenuto e torturato dall’Inquisizione il quale, prima del rogo, riesce colle manette a uccidere l’Inquisitore palermitano. Sempre sul tema, di acre ironia è la Recitazione della controversia liparitana; e di deliziosa ironia Il Consiglio d’Egitto.

Perché a Sciascia non hanno offerto il Nobel, che avrebbe onorato questo premio sempre più spento? Ma perché dalle opere dei premiati deve scaturire una rappresentazione del mondo ottimistica, basata sul concetto che l’uomo sia fondamentalmente buono e capace di redenzione. Fosse esistito nel Settecento, l’avrebbero dato a piene mani a uno degli scrittori che più disprezzo e più mi è antipatico, Jean-Jacques Rousseau. Di Voltaire avrebbero detto: “Ma che vuole, costui?”.

Sciascia era un sommo pessimista, ed era divorato dal tarlo del dubbio. Inoltre, e questo suscita diffidenza, in lui è spesso difficile distinguere la narrazione pura (appunto, alla Simenon) dalla narrazione mista col saggio, come nel suo, e mio, Pirandello. Aveva risolto indagini storiche memorabili: una storia terribile, di tortura e rogo, suggeritagli da quel “chilo agro e stentato” che il Vicario di Provvisione stava facendo durante la rivolta dei forni, nel capo XIII. Il dubbio e la ricerca della verità: così aveva potuto esser stato comunista, poi socialista, poi radicale, poi nulla. Negli ultimi anni doveva chiedere ospitalità ai quotidiani; e chissà se lo compensavano. Era un bibliofilo e un esperto di ceramiche. E riusciva sempre a scoprire quel ch’è nascosto sotto un verso, una frase, una storia.

Alla mafia Sciascia si è dedicato con passione e lungimiranza: lo narrano Il giorno della civetta e A ciascuno il suo. Il bel libro recentissimo di Nando dalla Chiesa Una strage semplice rievoca l’assassinio di Paolo Borsellino e mette in luce come tuttora esso, tra mandanti e coperture e depistaggi, sia avvolto dal buio; e sebbene Sciascia su Borsellino abbia fatto il suo solo errore, subito emendato, questa storia a me pare eminentemente sciasciana, quasi la realtà, ancora una volta, si sia sulla creazione artistica modellata. Ma questa creazione artistica partiva, nel caso di specie, da un’analisi della realtà effettuale.

L’ho frequentato, sia pur brevemente. Ora è come se fossimo intimi. A Milano colla moglie, Mimmo Porzio lo invitava sempre a cena. Una boccata di fumo tra un boccone e l’altro; taciturno, uno sguardo di pazienza insondabile e disperata. La sua pagina è per me, oltre che modello stilistico, soccorso al disagio del vivere. La disperazione, se si fa arte, aiuta. Una volta mi aiutò anche la sua ironia. Avevo scritto che il rock è uno strumento di consenso sociale, giacché gli sventurati sfogano consumandolo ogni carica di rivendicazione ed eversione. Mi attaccò su Repubblica un intrattenitore televisivo, un certo Beniamino Placido. Risposi con una citazione di Nero su nero: “È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Oh i bei cretini d’una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini”.

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Nord Stream 2, gli alleati contro le sanzioni Usa

Non l’hanno presa affatto bene né l’Unione europea, né la Russia, la firma, da parte del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, delle sanzioni contro Nord Stream 2, il gasdotto che dal 2020 dovrebbe raddoppiare le forniture di metano da Mosca all’Europa passando per la Germania. L’opera, dal costo di una decina di miliardi di dollari, già completata all’80% e finanziata per metà da Gazprom e per l’altra metà dalle cinque società europee Omv, Wintershall Dea, Engie, Uniper e Shell, viene di fatto bloccata da Washington come “misura di sicurezza strategica” anche se in questo caso si tratta di prendersela con degli alleati Nato. Alla base della decisione di Donald Trump – che ha appena approvato in Congresso un bilancio per 700 miliardi di dollari – è che il gasdotto aumenterebbe la dipendenza energetica del Vecchio continente dalla Russia e quindi, secondo la Casa Bianca, questo significherebbe anche un accrescimento dell’influenza politica di Mosca sugli alleati europei. Per Bruxelles e per la Russia si tratta invece chiaramente di un’ingerenza nella politica energetica e di un tentativo di eliminare la concorrenza. “Per principio, l’Unione europea si oppone all’imposizione di sanzioni contro imprese europee che svolgono delle attività legali”, ha commentato un portavoce della Commissione europea.

Ma la reazione più dura è stata quella di Berlino, principale beneficiario del progetto, secondo cui “le sanzioni Usa danneggiano le società tedesche ed europee e costituiscono una grave interferenza negli affari interni della Germania e dell’Europa”, ha accusato in tv il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz, pur escludendo ritorsioni. “Sono misure improprie fra amici legati anche dall’essere membri della Nato”, ha proseguito Scholz. Il punto è che per gli Usa la questione Nord Stream 2 riguarda anche Kiev, che l’Amministazione Trump dice di volere sostenere in chiave anti-russa dopo l’annessione della Crimea e l’aggressione nell’est del Paese. Ma le misure, ha osservato un portavoce della cancelliera Angela Merkel, appaiono “particolarmente incomprensibili” dato che proprio il giorno prima è stato firmato un accordo per prolungare il transito di gas russo in Ucraina.

Risponde piccata anche Mosca: “Uno Stato con un debito pubblico di 22 mila miliardi di dollari vieta ad altri Paesi con debiti solvibili di sviluppare la loro economia”, ha commentato su Facebook Maria Zakharova, portavoce della diplomazia russa, denunciando “l’ideologia americana che non tollera la concorrenza mondiale. Presto ci chiederanno di non respirare”, ha concluso.

Il primo effetto pratico delle sanzioni è che la società svizzera Allseas, che possiede la più grande nave al mondo per la posa di cavi, ha annunciato immediatamente la sospensione dei lavori in attesa di chiarimenti. Ma le conseguenze potrebbero essere ben peggiori sul piano geopolitico perché le sanzioni di Trump contrappongono di nuovo nel giro di pochi mesi gli Stati Uniti e l’Europa dopo l’accordo di Parigi sul clima, l’accordo sul nucleare iraniano e il futuro della Nato. E, come se non bastasse, anche questa è un’altra puntata dello show di Donald Trump ormai sempre più disposto a governare il mondo a colpi di dazi e sanzioni. Mentre, dall’altra parte, un’Europa debole e divisa si limita a protestare. Ma non è detto che in questo caso la Casa Bianca non rischi l’effetto boomerang di mettere sullo stesso piano gli alleati e il “nemico” russo.

Trump, gli aiuti a Kiev e lo shutdown sfiorato

Per l’Amministrazione Trump, l’Ucraina è come il prezzemolo: la mette dovunque e ne fa sempre un casus belli con il Congresso. Il Washington Post rivela che, mentre la Camera stava per votare il rinvio a giudizio del presidente, che rischia l’impeachment nell’Ukrainagate, la Casa Bianca minacciava d’innescare uno shutdown se i Democratici non avessero rinunciato, nel bilancio 2020, a imporre l’immediata concessione di futuri aiuti militari all’Ucraina. Il veto del presidente alla legge di Bilancio avrebbe provocato una nuova serrata degli uffici non essenziali dell’Amministrazione pubblica, a partire dai parchi e dai musei. Un anno fa, uno shutdown ci fu, innescato dal rifiuto del Congresso di concedere a Trump i fondi per il muro anti-migranti al confine con il Messico. Alla fine, giovedì, il Senato ha rinunciato alla formulazione sull’Ucraina controversa e ha approvato il pacchetto di spesa per il 2020 da 1.400 miliardi di dollari. Meno di 24 ore dopo, il presidente firmava il bilancio, che comprende il finanziamento della Us Space Force, una nuova componente delle Forze Armate degli Stati Uniti. “Lo spazio è la nuova frontiera di guerra mondiale”, ha detto Trump, firmando il National Defense Authorization Act del 2020. “La superiorità nello spazio è assolutamente vitale”. La frase sull’Ucraina, riferita ai 250 milioni di aiuti militari stanziati per il 2020, era uno dei punti su cui la Casa Bianca ha ingaggiati un braccio di ferro col Congresso, nella fase finale del negoziato sul bilancio 2020. Se la clausola passava, il presidente non avrebbe potuto porre a Kiev condizioni per quegli aiuti.

L’Ukrainagate e l’impeachment ruotano sul fatto che Trump l’estate scorsa subordinò il versamento di 391 milioni di aiuti militari all’Ucraina all’apertura di un’inchiesta a Kiev contro Joe Biden e suo figlio Hunter: sotto accusa, il baratto tra un interesse di sicurezza nazionale e un interesse elettorale personale. Eric Ueland, uno dei negoziatori della Casa Bianca, ha detto al WP: “Siamo stati cristallini: non avremmo accettato alcuna restrizione ai poteri presidenziali”.

La vicenda s’è conclusa in modo sostanzialmente indolore: bilancio approvato, shutdown evitato, tutti in vacanza nello snodo dell’impeachment tra il rinvio a giudizio della Camera acquisito e l’avvio del processo in Senato. Ma l’attenzione sull’impeachment resta altissima, con Trump che chiede “un processo immediato”, mentre i democratici esitano a trasmettere le carte al Senato.

“Nancy Pelosi sta cercando un quid pro quo (uno scambio, ndr) con il Senato. Perché non fanno l’impeachment a lei?”, twitta il presidente: la speaker della Camera sta negoziando con il Senato regole processuali che tengano conto delle richieste dei democratici. “Quid pro quo” è l’espressione che evoca il baratto tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

La Pelosi replica: “È appena stato messo in stato d’accusa. E lo sarà per sempre. Non importa cosa farà il Senato. È in stato d’accusa per sempre perché ha violato la Costituzione”. Trump rilancia: “I Democratici non vogliono che il corrotto Adam Schiff (presidente della Commissione Intelligence della Camera, ndr) testimoni sotto giuramento, come non vogliono che lo facciano i Biden padre e figlio, o la talpa” della telefonata del 25 luglio con Zelensky, quella intorno a cui ruotano le accuse al presidente.

L’insostenibile “Elitar I”. Milan Kundera seguito dagli 007 comunisti

È il 1 giugno 1974: il “soggetto lascia la sua abitazione, a capo scoperto, in abito scuro, scarpe nere. È con la moglie. I due aspettano qualche minuto davanti alla porta di casa. Alle 10:05, un’automobile immatricolata ABJ 6797 si ferma davanti a loro. Al volante dell’auto c’è G. Con lui c’è uno sconosciuto. Il soggetto e la moglie salgono a bordo e l’auto riparte in direzione di via Ricna. Parcheggiano”. Per il “soggetto” è un giorno come tanti. Uno di quei giorni in cui Milan Kundera è pedinato e la sua vita privata scrutata a sua insaputa dai servizi segreti di Praga. Dal 1968 gli uomini della StB (Státní Bezpecnost”, “Sicurezza di Stato”), la polizia segreta del regime comunista ceco, non sono mai troppo lontani dallo scrittore.

Lo osservano, notano ogni gesto, ogni spostamento. Sono vestiti da “falsi turisti”, occhiali da sole e macchina fotografica “nascosta sotto il cappotto durante l’inverno”. I dettagli li riporta il quotidiano Le Monde che ha potuto consultare i verbali della StB, 2.374 pagine top secret scritte a macchina, conservati all’Istituto di studi dei regimi totalitari di Praga e pubblici dal 2007. Lo storico Petr Zidek, che lavora sugli archivi, sentito da Le Monde, spiega così la strategia che la StB ha applicato a Kundera e non solo: “Prima venivano forzati a lasciare il Paese, poi veniva loro impedito di rientrare”. Dal 1975 Milan Kundera vive in Francia. Nel 1981 ne ottiene la nazionalità: “La Francia è diventata la patria dei miei libri”. L’autore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, il più grande scrittore ceco di tutti i tempi, ma mai premio Nobel, 90 anni, è tornato nel suo Paese solo dopo la caduta del Muro e solo in incognito. Il suo capolavoro è stato pubblicato ufficialmente in ceco solo nel 2006. E solo a fine novembre scorso, lo scrittore ha riottenuto la nazionalità ceca, che gli era stata tolta nel 1979. “Ha preso il pezzo di carta e mi ha ringraziato”, ha raccontato l’ambasciatore ceco a Parigi, Petr Drulak. Ma all’epoca era un’altra storia.

Nel 1968 lo scrittore è finito nel mirino della polizia segreta per aver criticato le politiche culturali del partito comunista e la repressione della Primavera di Praga. Il 9 gennaio di quell’anno un primo fascicolo viene aperto con il nome in codice “Basnik”, “poeta” in ceco. Un secondo è aperto nel settembre 1971, col nome in codice “Elitar I”, “Elitista I”. La StB lo spiega così: “La teoria dell’elitismo è radicata in lui”. Un terzo fascicolo, infine, è aperto alcuni mesi dopo, “Elitar II”, “Elitista II”, nome con cui si indica la moglie di Kundera, Vera. Anche lei viene seguita.

È il 17 dicembre 1973. Elitista II, si legge nei verbali, “si è recata al caffè del museo etnografico di Brno per incontrare Z.K., un attore che vive con V.F., attrice anche lei. L’appuntamento era stato fissato in anticipo. Dopo aver discusso per una mezz’ora circa, la nostra fonte ha visto Kunderova chiedere a un cameriere un foglio di carta A4 su cui le ha scritto qualcosa. Il testo fa riferimento a “O.S.” e ne cita il numero di telefono. Vera Kundera ha consegnato questo foglio a Z.K.”.

La coppia è spiata per dieci anni, anche una volta a Parigi. Gli agenti controllano ogni loro “movimento sospetto”, le persone che incontrano, riportano interi stralci delle loro conversazioni. Annotano i problemi di salute, persino le passeggiate al parco. Gli agenti raccolgono le testimonianze di conoscenze o amici disposti a collaborare dietro pressioni o minacce. Riportano le confidenze che lo scrittore, interessato al paranormale, fa a una cartomante. La vita dei Kundera “diventa un inferno”, scrive Le Monde. La questione se la coppia intende emigrare all’estero “diventa un’ossessione” per la StB. “Già nel 1969 – scrive Le Monde – gli agenti hanno notato che Milan Kundera ha cominciato a stringere interessanti relazioni con l’estero”. La StB si interessa alla cerchia di amici scrittori che ruota intorno a Kundera. Emerge il nome di Philippe Roth, che “tenta di aiutare degli scrittori banditi all’Est ideando e pubblicando la collezione Writer from the Other Europe”.

I due si incontrano a Praga nel 1973 e diventano amici. Per la StB Roth invece è un “nemico”. Finiscono sotto sorveglianza la famiglia Gallimard, editore “storico” di Kundera, e François Kérel, il suo traduttore. I viaggi di Claude Gallimard alla casa editrice ceca Dilia finiscono nel fascicolo Elitar I.

“La StB – scrive Le Monde – sa chi lo aspetta in aeroporto, chi lo riaccompagna, annota gli orari degli aerei. Ma perde anche delle informazioni. Lo ha raccontato Milan Kundera in un breve testo del 2011 pubblicato da Le Nouvel Observateur: Claude Gallimard approfitta di uno di questi soggiorni per portarsi via discretamente due manoscritti, di cui uno è Il Valzer degli addii. “Per me questo libro era un addio alla mia vita di scrittore – aveva raccontato Kundera nelle colonne del giornale del suo amico Jean Daniel – Claude Gallimard l’ha capito e a modo suo, delicato, quasi timido, ha incoraggiato me e mia moglie a emigrare”.

Il Governatore del Grillo e “il messaggio” nelle nomine

Ignazio Visco, come si ricorderà, è a capo della Fusioni e Acquisizioni Spa, istituto già noto come Banca d’Italia. Col nome dell’azienda è stata aggiornata anche la definizione della carica di vertice: da governatore e basta a Governatore del Grillo, in omaggio alla nota sentenza per cui “io so’ io e voi non sete un cazzo”, motto che potrebbe a breve finire sulle banconote da 5 euro, Bce permettendo. Venerdì, per dire, il Governatore del Grillo ha proceduto a due nomine nel board della “Fusioni e Acquisizioni” con l’idea – ci informa l’autorevole CorSera – di mandare “un messaggio” alla politica in giorni di polemiche su Pop Bari: “Nell’istituto non si pensa di avere qualcosa da farsi perdonare”. E che vuoi che sia “consigliare” a una banca non solida di comprarsene una fallita e, a tal fine, rimuovere il divieto alle acquisizioni dopo un’ispezione dall’esito “parzialmente negativo” (2014)? E che vuoi che sia aspettare un anno a intervenire mentre a Bari per salvarsi mettono su un’operazione oscura con una finanziaria maltese (2019)? E che vuoi che sia se, prima di commissariare, viene all’improvviso trasferito Lanfranco Suardo, l’uomo della Vigilanza che seguiva la partita pugliese? “Viviamo in un clima difficile”, ha detto lunedì – omettendo il pur necessario “signora mia” – il Governatore del Grillo, in cui la gente quando qualcosa va male cerca “capri espiatori”, che poi sarebbero più correttamente “i responsabili”, categoria nella quale la Fusioni e Acquisizioni non può trovarsi per Statuto: c’è scritto indipendente, in realtà, ma si legge irresponsabile.

“Due papi” al pub: è anche questa la forza della Chiesa

I due papi racconta la storia immaginaria della successione di Bergoglio a Ratzinger. Dopo un primo brusco confronto nei giardini di Castel Gandolfo, lentamente ma irresistibilmente Ratzinger avrebbe ceduto al fascino di Bergoglio, che con la sua debordante umanità sarebbe riuscito addirittura a far accennare all’anziano papa tedesco un passo di tango in un cortile di San Pietro o a fargli condividere un trancio di pizza al taglio per strada o ancora a convincerlo a guardare insieme sul divano, sorseggiando birra, la finale di Coppa del mondo Germania-Argentina. Benedetto sarebbe stato al tal punto sedotto dal futuro Francesco da convincersi a cedere proprio a lui il trono di Pietro, nella convinzione che, meglio di ogni altro gerarca, Bergoglio sarebbe stato capace di realizzare felicemente lo svecchiamento dei modi, dello stile e del linguaggio del successore di Pietro. E tutto questo senza mutare di una virgola né la dottrina né gli assetti di potere ecclesiale e i privilegi di chi la guida.

Il film non racconta certo tutto questo con il tono disincantato dell’osservazione critica. Al contrario, sceneggiatori e registi sembrano essere stati anch’essi fatalmente rapiti dalla figura di Bergoglio a cui hanno perdonato tutto, compresi i tragici errori compiuti durante la dittatura militare qui trattati alla stregua di normali e umanissime cadute. Eppure, nonostante tutta la narrazione abbia un tono chiaramente apologetico, a me la trama del film sembra piuttosto credibile. La grandezza di un’istituzione millenaria come la Chiesa cattolica si misura anche sulla capacità dei suoi leader di mettere da parte le proprie idiosincrasie personali e di operare quelle scelte che garantiscono soprattutto la forza dell’organizzazione e le sue fortune mondane, la sua solidità patrimoniale e la sua influenza politica. Da questo punto di vista, la scelta di eleggere papa Bergoglio si è rivelata di una straordinaria efficacia, per i motivi che nel film si trovano tutti accennati: le telefonate, le scarpe consumate, la passione per il calcio e per il ballo, l’eccezionale facilità nel comunicare, la portentosa simpatia umana, l’esuberante vitalità.

Immessi nella grande macchina mediatica, tutti questi elementi hanno prodotto il “miracolo Bergoglio”, creato un personaggio straordinariamente affascinante che, con le parole e i gesti, ha incantato e ancora incanta un gran numero di persone, soprattutto in Occidente. Del resto, ed è ragionevole pensare che un uomo intelligente come Ratzinger l’avesse intuito, il mestiere del papa è ormai soprattutto quello di un grande comunicatore, di una star mediatica. Ormai privo di uno Stato e di interessi politici immediati, il pontefice romano nel nostro tempo viene giudicato quasi esclusivamente per quel che comunica con le parole e con i gesti. Di quel che egli fa per la gran parte del tempo, delle decisioni concrete che prende nel governare la Chiesa non interessa a nessuno. Indossare vecchie scarpe, rinunciare all’uso degli appartamenti papali o parlare continuamente di povertà e di poveri sono comportamenti ampiamente sufficienti a relegare sullo sfondo gli scandali finanziari e il possesso di un’immensa ricchezza così come la scelta di affidare per anni a un uomo come Pell le finanze vaticane o di lasciare in piedi lo Ior. Per un papa conta solo la comunicazione e su quel piano il papa porteño (così sono chiamati gli abitanti di Buenos Aires) stravince, batte tutti con un distacco enorme. Certamente sconfigge il povero papa tedesco che di simpatia naturale era quasi completamente privo e che nei pub romani frequentati nel film da Bergoglio chiamavano “il nazista”. Averlo capito ed essersi fatto da parte è, da parte di Joseph Ratzinger, il segnale più potente di una fedeltà all’istituzione che ha segnato una vita intera.

Ogni credente deve custodire fedeltà e grazia meditandole nel cuore

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa (Mt 1,18-24).

Questa quarta domenica di Avvento ci prepara all’ormai imminente festa della nascita del Signore. Ci viene presentato il profilo di Gesù Cristo nato dal seme di David secondo la carne, costituito Figlio di Dio, con potenza, secondo lo Spirito di santità (Rm 1,3-4). In pochi versetti è racchiuso il senso della genealogia che, in Matteo, descrive la nascita di Gesù. Isaia, citando la profezia di Acaz, evidenzia la dimensione divina nascosta nell’umanità del figlio di Maria: ecco: la vergine partorirà e concepirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Is 7,14). Matteo precisa che Emmanuele significa Dio con noi. La prospettiva storica sta a cuore all’evangelista. Ma è attento al conflitto interiore di Giuseppe, lo sposo di Maria, descritto nella drammatica obbedienza di fede a cui si consegna questo uomo giusto, credente! Gesù, quindi, proviene dalle generazioni passate, è il compimento della promessa, ma è anche inizio della Novità assoluta. È ciò che indica il suo nome Jeshua o Jehoshua, Dio è salvezza: Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. Redimerà, cioè, dalle colpe, farà uscire l’uomo dalla condizione di lontananza da Dio e lo ricondurrà alla piena comunione con Lui. In quanto Messia, Re e Pastore avrà cura del suo popolo e lo condurrà alla vita per sempre.

Con questo evento si realizza ciò che Dio aveva annunciato per mezzo dei profeti e che è il contenuto della fede di Giuseppe, uomo silenzioso e pieno di coraggio, e di Maria. Questa nascita e questo Bambino sono voluti da Dio, provengono da Lui e corrispondono alla sua volontà, al suo progetto di amore per la vita dell’uomo. Mentre si afferma il compimento della Parola-Promessa, si intende esprimere ulteriormente che, tra le pieghe di questo avvenimento, c’è Dio che perfeziona e guida ogni cosa. Dio con noi (Emmanuele) esprime e caratterizza la venuta, la presenza e l’opera di Gesù per la nostra liberazione dal peccato, fare dell’umanità redenta la famiglia di Dio.

Questa promessa è confermata alla conclusione del Vangelo: ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20b). Gesù è il dono autentico di Dio al suo popolo e alla storia di tutta l’umanità. I dubbi, le crisi, i sogni, il silenzio di Giuseppe che ascolta con fede la Parola e vive l’evolversi di questa misteriosa vicenda, ci insegnano a custodire in modo fecondo il dono della visita di Dio. È la fiducia nel Dio dei suoi Padri che gli fa superare la paura: Giuseppe, figlio di Davide, non temere. Per questo sa attendere che la speranza prenda corpo, perché Colui che promette ha nome Fedeltà, è Grazia e dona oltre ogni aspettativa. Ogni credente, come Giuseppe e come Maria, deve attendere e custodire tutte queste cose meditandole nel suo cuore (Lc 2,19). San Giuseppe e Maria, la Madre di Dio, ci aiutino ad accogliere e generare il Signore Gesù agli uomini d’oggi, con l’ascolto della sua Parola, nell’obbedienza della fede e nell’amore fraterno.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Antifascismo e sardine

Papa Bergoglio ha messo su una croce il giubbotto di un emigrante ignoto morto in mare. E, per la prima volta, esiste un popolo che può vedere e capire. Credenti e non credenti, persone vere e normali si rendono conto del dolore degli altri e non vogliono correre, dopo, con le barelle o le bare. Vogliono convivere adesso, alla pari, con altri essere umani. Pensate che nello stesso momento c’erano donne e uomini italiani che – nel pronto soccorso di un ospedale – hanno insultato una mamma nera. Quella donna era impazzita di dolore perché i medici le stavano dicendo che la sua bambina era morta. E subito il pianto gridato della madre ha scatenato invettive dei nostri connazionali, presumibilmente cattolici, che fra poco metteranno Gesù bambino nella mangiatoia.

Ma se coloro che hanno battuto freneticamente le mani ai porti chiusi e alle navi cariche di profughi, donne incinte e bambini respinte in mare, e hanno promesso lo stupro alla comandante della nave di salvataggio Sea Watch, volessero recarsi a festeggiare in chiesa l’arrivo di un bambino (che è Dio come ogni bambino e ogni essere umano, persino se è ebreo, persino se è nero) per loro Papa Bergoglio farà trovare la sua straordinaria pietra d’inciampo: il giubbotto di salvataggio del migrante annegato, messo sulla croce, estrema opera d’arte contemporanea, mite ma grande dichiarazione politica.

Qui occorre ricordare una frase inaspettata di Giorgia Meloni. Ha detto il suo rifiuto e disprezzo per coloro che hanno umiliato la donna nera al colmo del suo dolore. Si è mostrata furente, da madre, in totale disarmonia con ciò che i suoi (ma anche lei) dicono e fanno contro i migranti, come se avesse rotto per un istante la sua amicizia con i “sovranisti” che intendono vivere chiusi dentro, fra muri e filo spinato che taglia la faccia ai bambini se tentano di passare da sotto. Eppure quell’unica frase risoluta, appassionata, umana, che si conosce della Meloni, è apparsa come un istante di vacanza, una sospensione della condanna calata sull’Italia attraverso il varco di parole violente e insulti osceni (una signora nera dichiarata scimmia) aperto dalla Lega di Borghezio e Calderoli (dal grido “Tricolore al cesso” di Bossi – respinto con bandiera italiana alla finestra dalla signora Masseroni, mentre tacevano Camera, Senato, ogni altra istituzione – al ministro dell’Interno in costume da bagno che chiudeva i porti e condannava donne e bambini a restare al largo nel mare di agosto). È apparsa come la prova che la umanità dei sentimenti normali esiste se ci si distacca dal fascismo, dopo la corsa di sangue dall’Etiopia alla Shoah.

E qui nasce il problema di come far vivere in politica il ritorno della normalità. Dobbiamo gratitudine, oltre che sorpresa, ai giovani che hanno avuto l’idea di riempire le piazze con buona educazione e silenzio, e si chiamano Sardine. Ci pensate? Appaiono come un miracolo perché quelle folle calme e fitte in grandissime piazze intendono riportare normalità e civiltà. E comprensibilmente, con la vita che abbiamo vissuto, soprattutto negli ultimi anni di CasaPound e di Salvini, sembrerebbe un progetto gentile e folle, se non stesse già accadendo. Ferve la ricerca della linea di demarcazione fra la passeggiata Salvini-Orbán nella strada di filo spinato che porta ai nuovi campi e coloro che chiedono di cancellare subito i decreti Sicurezza. Non ha avuto vita facile chi ha provato a declassare la richiesta di decine di migliaia di persone di tornare alla normalità psichica e morale, al livello di una sinistra più furba e più giovane. Questa risposta facile è comprensibile. Se andando a destra ben presto ti trovi spalla a spalla col fascismo, dovrebbe essere fatale che più ti scosti dalla destra e più sei di sinistra. A questo punto, con intelligenza ma anche con buona consapevolezza del tempo in cui viviamo, i portavoce dei giovani in piazza hanno giocato la parola abbandonata, che però è parola chiave della storia: antifascismo. Perché irrita così intensamente i dirimpettai della destra che fingono di offendersi se dici loro “fascista”, nonostante la proibizione delle pietre di inciampo di Schio e il rifiuto spontaneo del sindaco di Biella, che ha negato la cittadinanza onoraria a Liliana Segre? Perché il gioco di fare del fascismo e dell’antifascismo due parti simmetriche e uguali non è riuscito. E la ragione non è che al fascismo, con tutto il suo entusiasmo per la morte, non è riuscito di mimetizzarsi. Il culto della razza è scattato fuori con veemenza, è il cuore del fascismo, si rivela nella cupa e truffaldina frase “prima gli italiani”, che propone di mandare avanti una razza che avrà anche qualche intoppo di mafia, ma è in assoluto la più meritevole e va premiata sempre e subito contro ogni graduatoria e ogni merito.

L’antifascismo non è una opposizione uguale e contraria. È tutta la civiltà che conosciamo: libertà, porte aperte e riconoscimento degli altri come uguali. Tutti gli altri. Anche la bambina nera morta nell’ospedale di Sondrio. E la sua mamma che non può consolarsi.