Mail box

 

Il Conte bis è arrivato a Natale nonostante le bizze di Renzi

Una volta si diceva di una squadra che non stava giocando bene in campionato, che forse il suo allenatore non avrebbe “mangiato il panettone”, perché sarebbe stato esonerato prima di Natale. Mi pare che non si possa dire altrettanto di Conte e del suo governo, perché senza ombra di dubbio il panettone lo mangeranno. Poi si vedrà. Insomma, i 4 alleati – o meglio i 3, se si esclude LeU che ha manifestato serietà e responsabilità con il suo leader Speranza – non fanno che trovare effimeri accordi sui singoli temi in discussione, per passare poi a brusche rotture. Basti pensare alla banderuola Renzi, leader di Italia Viva, che vive (mi si scusi il bisticcio) alla giornata, seguendo la propria utilità contingente.

E anche per quanto riguarda i 5S e il Pd si passa da momentanee convergenze a brusche giravolte. Al momento si ha l’intesa sul sì all’autorizzazione a procedere nei confronti del gigione Salvini, con qualche esitazione da parte di Renzi per la sua affinità elettiva con l’altro Matteo. A questo punto non si capisce perché il gradasso leghista – che si dichiara innocente – faccia il diavolo a quattro perché venga respinta l’autorizzazione a procedere richiesta nei suoi confronti dal Tribunale di Catania.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Nessun ministro ha il diritto di lasciare i profughi al largo

Sul caso della nave Gregoretti, come fu anche per la Diciotti, tutti a pontificare se sia stata una scelta collegiale dell’intero governo o, altrimenti, del solo ministro dell’Interno Salvini. Nessuno che entri nel merito della questione: le due navi, lasciate in mare per giorni e giorni, erano cariche di esseri umani. Ripeto, persone in carne e ossa, uomini, donne e bambini tenuti a “bagnomaria” senza colpe. Che sia Salvini o tutto il governo ad aver deciso tali mostruosità, in ogni caso si dovrebbe andare a giudizio: ci sono leggi che si devono rispettare, e le devono rispettare tutti, anche i membri dell’esecutivo. Lo scandalo delle immunità con cui la casta difende se stessa dovrebbe finire.

Mauro Chiostri

 

DIRITTO DI REPLICA

Egregio direttore, in relazione al vostro articolo “Zero trasparenza, tanti soldi. I peccati di ieri (e di oggi) dello Human Technopole” (Laura Margottini, 18 dicembre) ci preme respingere i dubbi rispetto all’asserita mancanza di trasparenza della Fondazione Human Technopole. Lo Statuto della Fondazione prevede, infatti, una serie di presidi finalizzati a garantire che l’attività sia soggetta all’indirizzo e al controllo pubblico, in un rapporto di completa trasparenza con le amministrazioni che esercitano la vigilanza; in particolare: i) l’articolo 2 sottopone la Fondazione alla vigilanza del ministero dell’Economia e delle finanze, del ministero della Salute e del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, i quali in ogni momento possono chiedere relazioni su specifici aspetti dell’attività, e comunque ricevono una relazione annuale sull’attività nel suo insieme, oltre al bilancio; ii) un magistrato della Corte dei conti assiste alle riunioni del Comitato di gestione, del Consiglio di sorveglianza e di un Collegio dei revisori, composto da soggetti designati dai ministeri vigilanti iii) quest’ultimo organo svolge il controllo della regolarità dell’amministrazione e della contabilità della Fondazione, predispone le relazioni ai bilanci consuntivi, ne riferisce al Comitato di gestione, effettua le verifiche di cassa e redige la relazione al bilancio permettendone l’approvazione. Infine, ci domandiamo perché siano state chieste spiegazioni e chiarimenti alla Fondazione Human Technopole in merito a una vicenda la cui paternità, secondo quanto si legge nell’articolo stesso, sarebbe riconducibile all’Istituto superiore di sanità e al consorzio Cnccs – Collezione nazionale di composti chimici e centro screening – e a cui la Fondazione è totalmente estranea. Confermiamo la nostra disponibilità e apertura al dialogo e al confronto per condividere l’attività svolta dalla Fondazione con chiunque fosse interessato ad approfondire.

Fondazione Human Technopole

L’articolo solleva dubbi e mette in evidenza criticità rispetto alle modalità di finanziamento e alla gestione del centro di ricerca Human Technopole, alcune delle quali già rilevate dalla senatrice Elena Cattaneo e altri esponenti della comunità scientifica e della politica. È proprio perché fino a ora a HT sono stati applicati gli standard internazionali che regolano il finanziamento alla ricerca pubblica e garantiscono la libera competizione tra progetti scientifici che i senatori a vita Cattaneo, Carlo Rubbia e Liliana Segre, tra gli altri, hanno sottoscritto e proposto l’emendamento oggetto dell’articolo, approvato in Commissione bilancio al Senato il 10 dicembre. Prendiamo atto dei chiarimenti forniti dalla Fondazione HT, che però non rispondono né confutano le criticità sollevate. Come ad esempio quelle relative alla mancata applicazione, in taluni casi, delle regole previste dallo stesso Statuto della Fondazione HT.

Laura Margottini

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’intervista alla senatrice a vita Elena Cattaneo “Troppi fondi ai poli selezionati” pubblicata il 18 dicembre abbiamo scritto erroneamente che è del Pd. La professoressa non fa parte né è mai stata iscritta al gruppo del Pd. Ce ne scusiamo con l’interessata e i lettori.

FQ

Rai, Salini cacci la politica prima che la politica cacci lui

“I partiti paralizzano l’azienda, la politica resti fuori”. Fabrizio Salini, ad della Rai “Repubblica”

Gentile dottor Salini, chiunque leggendo la sua gravissima denuncia sulla indegna gabbia nella quale i partiti (o meglio le conventicole che si richiamano a questo o a quel capataz) tengono prigioniera la Rai potrebbe chiedersi se da parte sua non sia inevitabile un gesto definitivo. Perché non convoca quanto prima il Cda per comunicare la sue autonome e inappellabili decisioni sulle nomine, prendere o lasciare? Se i consiglieri decidessero di votarle contro si assumerebbero essi davanti al Paese la pesantissima responsabilità di avere compromesso il presente e il futuro dell’azienda, e di avere mortificato il proprio ruolo per squallide beghe da bottega. Ma neppure si può escludere che di fronte a un ultimatum secco e senza appello questi signori (ma soprattutto i loro dante causa) ci penserebbero parecchio prima di mandare in frantumi l’attuale assetto di potere, e soprattutto le loro poltrone. Lei ha dichiarato di non avere proceduto alla nomine “per tenere unito un consiglio che vive le stesse divisioni della politica”. Mi scusi, ma non riesco trovare nella frase un nesso coerente tra il disperato tentativo di tenere unito un consesso specchio delle “divisioni della politica”, con il successivo grido di dolore sulla “politica che deve restare fuori”. Perché della due l’una. O si decide a cacciare la politica lontano dalle decisioni che spettano ai vertici aziendali, e dunque a lei in prima persona. O la “politica”, quella peggiore, alla fine troverà il modo di liberarsi di lei, magari con la scusa che non è all’altezza del compito. Infatti, alla sua denuncia la prima reazione del solito, molesto Anzaldi (che parla a nome del Pd senza essere mai smentito) ha il suono di un ceffone: “Non faccia la vittima, lavori se ne è capace”. A questo punto, ne converrà, diventa difficile per l’opinione pubblica assistere allo spettacolo di un mercato delle vacche (e dei direttori di tg) sempre più al ribasso senza pensare che l’ad non ne sia in qualche modo partecipe. Metta le carte in tavola, eserciti fino in fondo gli ampi poteri che la legge le conferisce, faccia valere la sua autorevolezza di manager competente e rispettato. Perdoni il tono della perorazione, ma sono un cittadino che paga il canone come milioni di altri cittadini e lo fa perché la Rai non è un’azienda qualsiasi, ma rappresenta, o dovrebbe rappresentare, una delle poche realtà ancora esistenti di servizio pubblico. O meglio, di servizio al pubblico. La paralisi di cui lei si dichiara vittima non è solo intollerabile, ma anche illegittima. Che diritto hanno i partiti di mettere le mani su un patrimonio che appartiene alla collettività? Come vede, evito qualsiasi riferimento ai preoccupanti dati di ascolto e al progressivo vuoto di potere che dissangua reti e strutture. E stendo anche un velo pietoso sul tragicomico raggiro che ha coinvolto il presidente Rai Marcello Foa, degno di “Totòtruffa”. Insisto: lei è sicuramente in grado di proporre le nomine per esperienza e competenza a suo giudizio più adatte. Dunque, lo faccia. Ma se per senso di responsabilità non se la sentisse di giungere alla resa dei conti, allora ne tragga le conseguenze. Mi creda: meglio una fine dignitosa che questa farsa infinita.

Bruno come B.: sembra Little Tony

La cultura – ne siamo certi – aiuta ad allenare la mente e a mantenersi giovani. Sarà per questo che Bruno Vespa, 75 anni e la bellezza di 61 libri scritti a curriculum, in occasione dell’uscita del suo Perché l’Italia diventò fascista sembra proprio rifiorito. Anche un po’ troppo, forse. Nella pubblicità uscita ieri su alcuni quotidiani, Vespa appare infatti con un nerissimo crine degno di Little Tony o perlomeno delle prime edizioni di Porta a Porta. E neanche a dire che la foto sia una immagine d’archivio, perché i credits ne confermano l’attualità (Massimo Sestini, 2019). Che ci sia allora stato un ritocchino grafico? O magari un intervento natalizio per infoltire un po’ la chioma, come in onore del vecchio amico B.? In quel caso, se non altro, non avrà certo avuto problemi a farsi prestare una bandana.

Cisl, 7 mesi per chi svelò i compensi d’oro

Sette mesi. È la condanna che il Tribunale di Verona ha inflitto al dipendente per aver divulgato i dati sugli “stipendi d’oro” dei dirigenti della Cisl. Nello scandalo reso noto dal defunto Fausto Scandola, venne coinvolta anche la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan. Il giudice Carola Musio lo scorso 19 dicembre ha condannato Riccardo Weiss a sette mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione nel casellario). Oltre alla condanna Weiss è stato anche interdetto dalle mansioni d’ufficio, quando la sentenza diventerà definitiva.

Nel 2015 il caso assunse una rilevanza nazionale in seguito alla denuncia di Scandola che riguardava, in particolare, Antonino Sorgi, presidente nazionale di Inas Cisl (256 mila euro lordi), Valeriano Canepari, ex presidente nazionale di Caf Cisl (289.241 euro), Pierangelo Raineri a capo della Fisascat Cisl (171 mila euro grazie ai gettoni di presenza Enasarco). Luigi Sbarra (attuale vicesegretario) e venne reso noto anche l’aumento che avrebbe portato il segretario generale Annamaria Furlan a percepire uno stipendio di 114 mila euro lordi (oggi sono 129 mila).

Per gli interessati si era trattato di violazione della propria privacy e quindi denunciarono l’impiegato Inps per “accesso abusivo al sistema informatico”. La difesa di Weiss ha cercato di provare l’assoluta mancanza di prove sulla responsabilità del proprio assistito ammettendo che probabilmente Weiss aveva guardato i dati, ma senza sapere che quei nomi erano i vertici della Cisl: “Gli hanno fatto firmare una lettera in cui ammetteva di aver dato un’occhiata ma a lui quei nomi non dicevano nulla” ha ribadito l’avvocato Malavolta. La difesa ha poi chiesto l’estromissione delle parti civili (dirigenti ed ex dirigenti) ritenendo non solo non provata la responsabilità di Weiss, ma anche inesistente il danno di immagine: “Si trattava di notizie e importi veri”.

I dirigenti Cisl che hanno ritenuto violati i propri dati, infatti, si erano costituiti parte civile chiedendo un risarcimento di 10 mila euro a testa. Il 18 dicembre, il Fatto aveva pubblicato una lettera, a firma, tra gli altri, dell’ex segretario generale della Cisl, Savino Pezzotta, che aveva invitato i dirigenti a ritirare la costituzione di parte civile e di fornire, piuttosto, spiegazioni e chiarimenti su quelle retribuzioni così elevate. Pezzotta si era spinto fino a dichiarare non perseguibile come violazione di privacy la divulgazione di dati relativi a compensi e retribuzioni di personaggi pubblici: “Chi diffonde dati sugli stipendi e contributi previdenziali di rappresentanti della democrazia delegata – scriveva – vìola forse la privacy e deve essere punito? Siamo fermamente convinti che quanto un cittadino percepisce a seguito d’incarichi elettivi o designati, pubblici e/o privati (compensi, consulenze, stipendi, liquidazioni, pensioni), non può rientrare nelle norme della privacy privata, ma deve in nome della tanto declamata trasparenza essere reso pubblico su siti di facile accesso per gli associati e/o per gli elettori”. Da qui l’invito a ritirare la parte civile.

Nella sentenza del 19 dicembre, in ogni caso, il giudice non ha concesso la provvisionale, cioè la somma di denaro liquidata alla parte danneggiata come un anticipo sull’importo che spetterà in via definitiva. Weiss dovrà però pagare le spese di costituzione dei due legali per 7 mila euro.

Senza provvisionale, la richiesta di risarcimento per danno morale dovrà essere oggetto di una specifica causa civile. La domanda che si fanno gli osservatori di questo caso, su cui la Cisl preferisce mantenere il riserbo, è se l’azione civile sarà intentata con l’obiettivo di farsi risarcire una cifra ben più alta.

Pop Bari, il figlio dell’ex n. 1 tra gli indagati del crac Fusillo

L’inchiesta sulla Popolare di Bari si allarga e la Procura del capoluogo pugliese indaga per corruzione l’ex presidente dell’istituto Marco Jacobini, dimessosi nel luglio di quest’anno. Il filone in realtà risalirebbe all’inizio dell’estate. Adesso a Jacobini è stato notificato un avviso di proroga delle indagini. Nessun dettaglio al momento su chi sarebbe il destinatario della presunta corruzione o in cosa si sarebbe concretizzata.

La Procura di Bari ha, invece, iscritto nel registro degli indagati per concorso in bancarotta fraudolenta delle società del gruppo Fusillo di Noci (Bari) l’ex ad della Pop Bari, Giorgio Papa, Gianluca Jacobini ex condirettore generale dell’istituto e figlio dell’ex presidente e Nicola Loperfido ex responsabile della direzione crediti. La banca, è l’ipotesi dei pm, avrebbe contribuito al dissesto delle società continuando a erogare credito e così aumentandone i debiti. Nei confronti di Jacobini e Loperfido il 12 dicembre scorso, il cda ha avviato le procedure per un’azione di responsabilità. L’attenzione della magistratura barese sul loro coinvolgimento nel crac delle società del gruppo Fusillo risale all’estate scorsa quando la GdF, su disposizione del procuratore aggiunto Roberto Rossi e del sostituto Lanfranco Marazia, ha eseguito perquisizioni nelle sedi delle società poi dichiarate fallite e nella direzione generale della banca.

Le indagini della GdF “hanno consentito di far emergere il ruolo di Pop Bari – spiegavano gli inquirenti già al momento delle perquisizioni – quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l’istituto di credito per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite negli anni”.

Non ci sono invece ancora dettagli sul filone che coinvolge Marco Jacobini. Secondo Repubblica, che ha anticipato la notizia, gli indizi avrebbero a che fare con i rapporti che l’ex presidente ha avuto con la Vigilanza di Banca d’Italia, mentre fonti della Procura di Bari, riporta il Corriere, confermano di essere al lavoro per ricostruire i dettagli sulle ispezioni del 2016-2017.

Rapporti tra Pop Bari e Bankitalia diventati più fitti a fine 2013 quando si discuteva dell’acquisizione di Banca Tercas, vivamente caldeggiata, in pratica ordinata da Bankitalia. La richiesta arriva nell’autunno 2013, mentre gli ispettori di Via Nazionale sono a Bari. Il 17 ottobre, il presidente Jacobini presiede il Cda “per fornire le informazioni necessarie ad assumere le determinazioni sull’invito della Banca d’Italia per un eventuale intervento di salvataggio di Tercas”, anche se si avvisa che malmessa. Nessun accenno al fatto che la Vigilanza, dal 2010 ha vietato a Bari le acquisizioni. Una settimana dopo, il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo comunica i risultati negativi dell’ispezione. Il giorno stesso la Popolare invia a Tercas una lettera per aprire le trattative. A giugno 2014 Bankitalia toglie il divieto e a luglio l’acquisizione si chiude. Pop Bari non si riprenderà più, fino al commissariamento deciso da Bankitalia il 13 dicembre.

“Il capo dei massoni disse: ‘Qui alti vertici dell’Arma’”

“Il pericolo in questa città è Gratteri”. L’ex senatore di Forza Italia, l’avvocato Giancarlo Pittelli, aveva capito da due anni che la musica era cambiata alla Procura di Catanzaro. Arrestato nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ma le intercettazioni raccontano le sue ossessioni e i suoi timori. Il 28 aprile 2018, Pittelli è nel suo studio e parla con un esperto informatico. Paventa il rischio di arresti senza precedenti: “Gratteri è il pericolo che c’è in questa città, perché è più intelligente di De Magistris. Però è pazzo ed è onesto”.

Il riferimento è all’inchiesta “Why not?” dell’ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris. Il primo tempo di una partita feroce tra la Giustizia e la “massomafia” calabrese. In quel caso vinta da Pittelli e dal “sistema”, al punto che De Magistris, attaccato anche dalle più alte cariche dello Stato, fu costretto a lasciare la magistratura.

Da tempo Pittelli è ossessionato dalle intercettazioni. Il 22 marzo 2018 nel suo studio legale c’è un altro fratello massone, l’imprenditore informatico Fernando Marascio. Lo ha chiamato per “blindare” l’ufficio. Ma le microspie del Ros sono già piazzate, e registrano tutto. Anche l’agitazione di Pittelli. “Mi devi recuperare la password – dice – ho speso 3.000 euro per fare il wi-fi a casa. Il Mac mi dicono che è difficile da infiltrare con i trojan”. Marascio lo rassicura: “I virus sono risolti, Giancà! Non abbiamo problemi, lo blindiamo”. Pittelli non è convinto: “Nel senso che se la Procura mi vuole mandare un trojan? Si può fare?”. La risposta getta nello sconforto l’avvocato massone: “Tesoro mio, tutto si può fare in informatica”.

Trojan spioni a parte, a terrorizzare l’ex parlamentare di Forza Italia, passato nelle braccia della Meloni, non sono solo i rapporti con i boss, ma anche le sue relazioni massoniche. Per i pm poteva contare su un “rapporto privilegiato con i vertici del Goi e con Carlo Ricotti”, professore di Economia della Luiss. Una rete che arriva fino al Gran Maestro Stefano Bisi, che ha sospeso dal Goi l’avvocato il giorno stesso del suo arresto giurando di non conoscerlo affatto.

Ma il nome di Bisi compare nelle carte dei pm. Nell’agenda del 2018, infatti, c’è annotato un suo appuntamento al Vascello, la sede del Goi a Roma, proprio con l’avvocato arrestato. Con loro un colonnello dei carabinieri. Si tratta di Francesco Merone, il comandante del reparto Comando della Legione Calabria, che non contento della divisa voleva il grembiulino di “massone”.

“Stiamo parlando di livelli enormi”. Pittelli è entusiasta quando parla di Merone. Per comunicare con il militare, invece, usa “Signal”, sistema suggerito dall’ufficiale perché non intercettabile. Il link per scaricare la piattaforma sul cellulare dell’avvocato lo invia con un sms lo stesso carabiniere: “Installalo”.

“Ho parlato con Bisi per il nostro amico, per il colonnello”. Il massone Giuseppe Messina, primario di Chirurgia dell’ospedale di Soverato (Catanzaro), informa Pittelli che il gran maestro ha dato l’ok all’ingresso dell’ufficiale nella massoneria: “Mi ha fatto una battuta, dice ‘non è che vogliono infiltrarci perché qua, gli alti vertici, stanno arrivando tutti da noi, a Roma”. L’ok definito arriva l’11 aprile 2018. È sempre il medico massone a dare la notizia all’avvocato: “Mi diceva Bisi che per il 18 sarà a Roma al Vascello, ti puoi organizzare con il colonnello”. “Perfetto”.

Massoneria e politica per il grande manovratore Pittelli sono una cosa sola. “A Milano ho visto Paolo Pomicino, abbiamo parlato a lungo. Ha le idee estremamente chiare Lorenzo. Sia lui che Peppino. Si può fare un lavoro”. Pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, Pittelli parla con l’ex europarlamentare e segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. Fantasticano di un nuovo progetto politico che “avrebbe coinvolto – scrivono i pm – il noto Paolo Cirino Pomicino, Giuseppe Gargani nonché gli stessi Cesa e Pittelli”.

Al segretario dell’Udc, l’avvocato accusato di concorso esterno con la ‘ndrangheta, confida di aver parlato dell’idea “con un’istituzione particolare”. La massoneria. Poco prima Pittelli ha incassato il sostegno del docente della Luiss, Carlo Ricotti: “Se voi mi date qualche lista vedrò di indirizzarla verso i fratelli che sono già orientati”.

Ma l’obiettivo finale era un altro, e di altissimo livello. L’avvocato lo svela a Giuseppe Gargani, storico esponente della Democrazia cristiana: “Peppino. Siccome penso che Lorenzo non abbia tanti giuristi da poter collocare, a me piacerebbe chiudere la carriera col Csm”. Gargani è entusiasta per l’autocandidatura di Pittelli, “Figurati sarei felice di poterti mandare, facciamolo questo…”. Cesa è più cauto ma possibilista: “Se andiamo bene, una roba a noi ce la danno”. I giudici e il loro “parlamentino”.

“Adamo comanda il presidente”

“Il migliore in assoluto in questo momento è solo Nicola Adamo”. Parola di Giovanni Giamborino, uno dei 334 arrestati nell’inchiesta “Rinascita-Scott”. Negli atti della Dda di Catanzaro, l’imprenditore è descritto come l’uomo della cosca Mancuso che cura i rapporti tra i boss e i “colletti bianchi”, appartenenti alla massoneria, come Giancarlo Pittelli (ex senatore di FI) finito in carcere, e politici come Nicola Adamo, l’ex parlamentare del Pd colpito dal divieto di dimora in Calabria.

A Giamborino si era rivolto Antonio Mobilio che voleva essere raccomandato in Regione per la progressione di carriera al Genio Civile. È il 29 novembre 2016 e nell’Audi A3 di Giamborino i carabinieri del Ros registrano tutto: “Nicola Adamo comanda il presidente”.

Dalle intercettazioni il Pd esce a pezzi così come la Regione guidata da cinque anni da Mario Oliverio, descritto dagli indagati come uno che riceve ordini da Adamo. Stando alle carte in mano ai pm, sarebbe lui il vero governatore della Calabria: “Lo sanno che comanda lui – dice Giamborino – La moglie Bruno Bossi (Enza Bruno Bossio, ndr) è deputato, la prima eletta nel collegio della Calabria. Se c’è Oliverio è lui, oggi è lui… esclusivamente lui”. Giamborino rassicura l’amico (“Per Natale parlo io con Nicola Adamo”), ma Mobilio è titubante: “Adamo è un amico no? Ma quello se lo domanda ‘A me cosa mi esce?’”. “Ti esce che è a disposizione tua quando mandi qualcuno”. E ancora: “Per me è importante che se ho bisogno ci posso contare”. Giamborino ha una risposta per tutto. Ma anche una seconda possibilità per raccomandare l’amico: “Parlo pure con Giancarlo (Pittelli, ndr). Con me siamo fraterni amici, se gli dico che si deve buttare dal ponte si butta dal ponte. Lui a Catanzaro fa quello che vuole. Possiamo andarlo a trovare in qualsiasi momento. Tutto possiamo vedere”.

Alla luce di quanto sta emergendo dalle indagini, la polemica che in queste ore agita gli equilibri nel Pd ha un altro sapore, meno politico e più sgradevole. La deputata Enza Bruno Bossio ha accusato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri di volere impedire la ricandidatura di Oliverio, cioè di quel presidente della Regione dietro il quale, stando alle intercettazioni telefoniche, si nasconderebbe suo marito Nicola Adamo. Le hanno risposto il commissario regionale del Pd Stefano Graziano e il responsabile Mezzogiorno della segreteria nazionale Nicola Oddati. “Il pensiero della Bruno Bossio – scrivono in una nota stampa gli uomini di Zingaretti – non rappresenta quello della comunità del Partito democratico della Calabria. Ringraziamo Gratteri per il lavoro svolto e per aver inflitto alla ’ndrangheta un duro colpo. Ridurre migliaia di ore di lavoro, migliaia di pagine di una inchiesta a un tentativo di bloccare Oliverio è offensivo nei confronti di chi ha lavorato alle indagini e di chi ha subito le imposizioni della malavita. Il Pd già da mesi lavora per una Calabria nuova e libera. Ora con Pippo Callipo vogliamo costruire, insieme, una stagione di sviluppo e crescita”.

Pd e Iv dicono no: niente pacchetto digitale

“Oggi non c’erano le condizioni per approvare il Piano per l’Innovazione digitale. C’è bisogno di un approfondimento e le norme, frutto di un’intesa nella maggioranza, potranno essere inserite in un emendamento in sede di conversione del decreto”. Dopo cinque ore e mezza di riunione del Consiglio dei ministri che ha approvato (“salvo intese”) il dl Milleproroghe, il ministro Dario Franceschini del Pd giustifica così lo stralcio degli articoli sulla digitalizzazione voluti dalla ministra competente (in quota M5S) Paola Pisano in ossequio al “Piano Nazionale per l’Innovazione 2025” presentato a inizio settimana. Insomma, il pacchetto sull’innovazione che, insieme a quello sulle concessioni autostradali, è stato l’ennesimo oggetto di scontro nel governo.

Per il Pd, che pure non ha contrarietà ideologiche al pacchetto, il problema è la mancata condivisione di contenuti che, arrivati sul tavolo del Consiglio dei ministri, sono sembrati più corposi e importanti di quanto si aspettassero: Franceschini ha spiegato alla Pisano che interventi così rilevanti vanno condivisi prima coi partiti della maggioranza. Ad esempio, un pezzo del decreto interveniva in materia di sicurezza nazionale e rapporti coi servizi: materia assai delicata. Come pure il riflesso dei nuovi obblighi previsti dalla ministra su società controllate tipo Poste (che è la preoccupazione del ministro Gualtieri).

A opporsi al pacchetto digitale – e con forza – sono stati anche i renziani, che ne hanno subito preteso lo stralcio: una cosa del genere non può essere infilata nel decreto Milleproroghe. Poi dal fioretto, Italia Viva è passata alla clava. Così il capogruppo in Senato Davide Faraone su Twitter: “Verba volant, scripta manent. Italia Viva non voterà mai norme che violano il diritto e minacciano gli investimenti e norme che sono in palese conflitto di interessi. Vale per le concessioni autostradali, vale per la Casaleggio”. Il riferimento qui è ai “ringraziamenti” della ministra Pisano al numero uno della Casaleggio Associati proprio in fondo al Piano per l’innovazione.

“Linkiesta” ha infatti rivelato che nel testo presentato martedì da Pisano sulla “Strategia per l’innovazione tecnologica e digitale del Paese”, un documento di 28 pagine, all’ultimo foglio tra i ringraziamenti “per il contributo all’elaborazione di questo piano”, il ministro cita Casaleggio insieme a un breve elenco di esperti: alcuni sono legati alla galassia 5 Stelle o direttamente al capo azienda; altri invece sono dei big delle nuove tecnologie, scienziati, accademici e personalità del mondo imprenditoriale. È questo “infortunio”, a voler essere buoni, che ha spinto Italia Viva e Forza Italia a parlare di “conflitto di interessi”, anche se ieri sera il ministero dell’Innovazione spiegava che non c’è “nessuna consulenza, di nessun tipo” di Casaleggio e che “la strategia è stata scritta di proprio pugno dalla Pisano, collaborando col suo team”.

La ministra può sperare ancora che questo primo pezzo del Piano digitale finisca come emendamento nel Milleproroghe durante l’iter parlamentare. Difficile, nonostante l’apertura di Franceschini, un po’ per questione di tempo e un po’ perché il Pd vorrebbe un provvedimento ad hoc. Nel decreto il “gancio” per un emendamento comunque c’è: a Pisano è stato infatti concesso di ampliare lo staff del suo Dipartimento a Palazzo Chigi.

Intercettazioni, il potere resta ai pm. E si apre ai difensori

Trovata la quadra sulle modifiche alla riforma intercettazioni di Andrea Orlando quando era ministro della Giustizia e mai entrata in vigore per le tre proroghe decise dal suo successore Alfonso Bonafede, ora alleato di governo. Ma sul fronte prescrizione, che dal primo gennaio si femerà con la sentenza di primo grado, secondo la riforma Bonafede, Orlando agita un ddl dem da portare avanti se non viene trovato un accordo con M5s su tempi certi del processo.

Ieri, in Consiglio dei ministri è stato approvato il decreto legge sulle intercettazioni che salva la faccia del Pd e di Orlando perché non c’è la quarta proroga consecutiva, ma apporta modifiche sostanziali in direzione sia dei pubblici ministeri sia degli avvocati, per una volta uniti e contrari a quella normativa del 2017: la delega per la cernita delle intercettazioni alla polizia giudiziaria, in linea gerarchica dipendente dal governo e non al pm, indipendente dall’esecutivo; l’impossibilità della difesa di avere piena la visione del materiale registrato con il divieto di fare fotocopie persino delle intercettazioni rilevanti mentre per quelle considerate irrilevanti dalla pg e depositate in una cassaforte sotto responsabilità dei magistrati, previsto solo l’ascolto, complicatissimo, senza poter prendere neppure appunti.

Con questo decreto legge, im vigore da marzo, ci sono miglioramenti fondamentali: torna al pubblico ministero la supervisione delle registrazioni e quindi l’ultima parola su quale materiale considerare rilevante e quale no. Gli avvocati potranno fare copia delle intercettazioni rilevanti, inoltre potranno chiedere al giudice di acquisire intercettazioni ritenute irrilevanti dal pm ma importanti secondo la difesa. Il giudice, autonomamente o su istanza della difesa, può decidere di stralciare delle conversazioni che il pm aveva ritenuto rilevanti.

Per quanto riguarda le indagini in corso, arriva il chiarimento per i procuratori che erano pronti a inviare una lettera al ministro Bonafede, se il primo gennaio fosse entrata in vigore la vecchia legge Orlando pure senza una norma transitoria. Valgono le regole attuali, le nuove si applicheranno alle iscrizioni di notizia di reato datate dal primo marzo 2020 in poi.

Per i giornalisti restano le norme attuali sulla violazione di segreto d’ufficio in caso di pubblicazioni di materiale di indagine riservato. Niente carcere.

“Ora è tutto più tecnologico e tracciabile e non c’è alcun bavaglio”, ha detto Bonafede e su Facebook aggiunge: “Abbiamo approvato in Consiglio dei ministri il decreto legge sulle intercettazioni, uno strumento irrinunciabile per le indagini. Ora elaboriamo un sistema moderno e digitale: ci saranno maggiori garanzie per trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza delle indagini, la tutela della riservatezza e il diritto di difesa”. E motiva perché il decreto legge, di solito immediato, sarà valido dal primo marzo: “Per dare il tempo agli uffici e addetti ai lavori di adeguarsi e di implementare sotto il profilo organizzativo una normativa così delicata. Il provvedimento – conclude – farà il suo iter parlamentare per la conversione, ma c’erano atti che non potevamo ritardare, perché si mettevano a rischio tutte le indagini in corso nelle varie procure italiane”.

Nell’anticipare il provvedimento, Bonafede aveva spiegato il senso delle modifiche sostanziali della riforma Orlando: “C’era una delega alla polizia giudiziaria che vedeva il pm un po’ assente nella scelta tra intercettazioni rilevanti e irrilevanti. Per noi era importante ci fosse un elemento di garanzia e così il pm torna ad avere una supervisione. Era previsto, inoltre, che l’avvocato non potesse prendere copia delle intercettazioni, ma questo rischiava di ledere il diritto alla difesa ed è stato eliminato”.

Non una parola di Bonafede sulla riforma della prescrizione e le schermaglie, le ennesime, di queste ultime ore.

Per il ministro della Giustizia il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado scatta dal primo gennaio, ma il vicesegretario del Pd Orlando annuncia per la prossima settimana la presentazione di un ddl: “Come fosse un’assicurazione sulla vita. Speriamo che non sia necessario approvarlo perché nel frattempo verrà trovato un punto di equilibrio tra prescrizione e tempi ragionevoli del processo”. Se così non fosse, per Orlando ci sarà “un ritorno alla prescrizione attuale”. Italia Viva di Matteo Renzi ribadisce di essere pronta a votare il ddl Costa, che vuole affossare la riforma Bonafede, in discussione alla Camera dal mese prossimo e fa sapere che diserterà il vertice che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha fissato per il 7 gennaio proprio sulla Giustizia.

Il giornalista pentito che spiega ai 5 Stelle cosa sono i 5 Stelle

“Io non vorrei mai appartenere a un club che conta se tra i suoi membri uno come me”. Gli iscritti al M5S di prima e seconda ora e di prima e seconda fila dovrebbero portare stampigliata questa frase di Groucho Marx cara a Woody Allen sulla maglietta della salute, se non proprio tatuarsela sul petto.

Da anni ormai l’Italia politica è occupata dalle crisi di coscienza di un esercito di fuoriusciti o fuoriuscenti dal MoVimento; MoVimento in cui sono entusiasticamente entrati accettandone le regole e da cui fuoriescono per l’improvvisa scoperta di regole, o per una versione da saga fantasy del riflusso scismatico espresso dalla formula “io sono rimasto fedele al movimento delle origini, sono loro che sono cambiati”.

Nell’ormai famoso passaggio da spina nel fianco a partito di potere seppure sui generis, il M5S è cambiato molto, o per opportunismo (come quando ha votato contro l’autorizzazione a procedere nel caso Diciotti), o per non cambiare; ma in questo caso, si parva licet, è come se periodicamente un fedele si sentisse autorizzato ad aprire uno scisma nella Chiesa cattolica perché i preti si rifiutano di dire che il pipistrello è un uccello, come è scritto nella Bibbia.

L’ultimo fuoriuscente clamoroso (in senso etimologico) è Gianluigi Paragone, un giornalista eletto senatore nel proporzionale (fu battuto dal leghista Candiani all’uninominale nella sua Varese) nel 2018, quando s’è accorto che “non potevo sempre rifugiarmi dietro il paravento dell’essere giornalista”, il che implica viceversa che il giornalista che non si candida a niente si rifugia dietro il paravento dell’essere sé stesso, oppure che uno dei due non è un giornalista.

Direttore della Padania nel 2005, quindi vicedirettore di Libero, poi, nel 2009, “cooptato in Rai su indicazione della Lega” (ipse dixit), conduttore populista e vicedirettore di Rai 1 e Rai2, infine nel 2013 domatore a La7 di ospiti tenuti in piedi in una specie di gabbia da circo a urlare davanti a un microfono enorme (metonimia della voce del popolo) la cosa più caciarona e provocatoria possibile, se si voleva essere invitati di nuovo.

Ora Paragone, che già aveva minacciato di dimettersi in caso di accordo col Pd e si astenne dal voto di fiducia al Conte 2, spiega ai grillini com’erano i grillini delle origini, quando lui era della o per la Lega. Un indizio che forse applica il principio di Groucho Marx è il fatto che non si sia ribellato alle perdite di innocenza e alle compravendite dell’anima, tra le quali bisognerebbe mettere pure l’aver imbarcato gente della Lega e di averci fatto un governo, ma alle scelte più consone e naturali per il M5S, con la rilevante eccezione del voto contro il Tav, “un’opera antimoderna ordinata dal sistema”, voluta dalla Lega in quanto “partito di sistema”. Una vita contro il potere, e lo dice un ex vicedirettore di Rai 1 e Rai2.

Sicché fatalmente “il caso Paragone” è un caso M5S, dato che chi fosse Paragone si poteva apprendere consultando la sua opera omnia: L’invasione. Come gli stranieri ci stanno conquistando e noi ci arrendiamo (con Francesco Borgonovo, Aliberti, 2009); GangBank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita (Piemme, 2017); Noi no! Viaggio nell’Italia ribelle (Piemme, 2018); La vita a rate. Il grande inganno della modernità: soldi in prestito in cambio dei diritti (Piemme, 2019).

La domanda è perché Paragone non se n’è andato al momento dell’accordo col Pd, sebbene avesse minacciato di farlo per tornare a fare il giornalista, pardon: a rifugiarsi dietro il paravento dell’esserlo. La crisi di coscienza scoppia ora, quando il M5S gli chiede di votare la fiducia su una Legge di Bilancio non abbastanza leghista, cioè una legge che Salvini si è guardato bene dal fare, inventandosi la crisi etilica del Papeete, e per votare la quale era comunque meglio stare nella Lega, contro l’Europa “cattiva, ingiusta, generatrice di conflitti sociali” (una cosa che non dice manco più Salvini, che vuole Mario Draghi al Quirinale).

Siamo andati a controllare: il Codice etico prevede all’art. 3 l’obbligo di “votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle”, a proposito di fedeltà ai princìpi.

Il problema non è tanto che il M5S non è rimasto fedele a sé stesso, visto che tutte le infedeltà a sé stesso sono state commesse prima di oggi e soprattutto che la Legge di Bilancio bisognava pur farla, e farla col Pd, non con lo spettro nostalgico di Borghi e Salvini; bizzarro è che l’agnizione di essere sovranisti e anti-Ue avvenga ora, con altri tre senatori della Repubblica – tali Urraro, Grassi e Lucidi – che prendono cappello lamentando “la totale mancanza di democrazia” dentro il M5S, infatti vanno nella Lega dove comanda solo Salvini insieme ai suoi bestiofori, o bestiogeni, insomma i gestori della Bestia.

Una transumanza che ha costretto Gian Marco Centinaio, ex ministro leghista, a una scrematura: “Abbiamo detto dei no? Certo, non prendiamo tutti. Alcuni non rientravano nei nostri standard”, che è tutto dire. Altri dieci “grillini fedeli alle origini” sarebbero pronti a seguire Paragone per fare un gruppo-canaglia di sostegno e pressione psicologica al governo, tipo Italia Viva, al che si aprirebbe l’aporia di qualcuno che spiega ai Cinquestelle cosa sono i Cinquestelle diventando come Renzi.