“Facilitatori regionali, lasciamo scegliere la base”

Per lui i facilitatori sono anche, potenzialmente, una buona idea, “una via per riannodare i fili con gli attivisti e i territori e darci una migliore organizzazione”. Però per l’eurodeputato dei Cinque Stelle Fabio Massimo Castaldo, riconfermato vicepresidente del Parlamento europeo, bisogna correggere più di qualcosa: “Si è voluto correre un po’ troppo: nel momento in cui vuoi ricostruire il rapporto con la base devi lasciare agli iscritti la scelta dei nomi”. E invece per i facilitatori regionali, la prossima tappa verso il team del futuro ideato dal capo politico Luigi Di Maio, che ieri ha riunito il team per la prima volta, gli iscritti potranno scegliere solo una rosa di candidati. Perché l’ultima parola sui nomi sarà sempre di Di Maio.

Lei aveva già protestato per il listino bloccato con cui erano stati votati i sei facilitatori delle aree organizzative. Ora ci risiamo, anzi forse si peggiora.

Io ho sollevato un quesito importante, di metodo e di coerenza, e il fatto che questa sensibilità sia stata recentemente ribadita al Fatto anche da Paola Taverna testimonia l’inopportunità di quella scelta. Ora intravedo una nuova criticità.

Viene tutto calato dall’alto?

Voglio metterla in modo molto costruttivo, ma anche con tutte le migliori intenzioni, prevedere un sistema misto per scegliere i referenti regionali rischia di alimentare divisioni e rancori verso chi verrà prescelto.

Lei come sceglierebbe?

Farei un filtro a monte sui requisiti di candidabilità, tramite il collegio dei probiviri. E poi lascerei la scelta dei facilitatori a una votazione libera e trasparente, tenendo conto degli equilibri geografici tra le varie province. Per capirci, nel Lazio non andrebbero eletti solo rappresentanti di Roma.

La sua proposta pare più che un altro un segnale di presenza.

Il regolamento definitivo ancora non c’è, c’è tutto il tempo per discutere della mia proposta. La porto all’attenzione del capo politico e degli altri facilitatori nazionali. Alcuni mi hanno già detto che la trovano molto interessante. E in generale, abbiamo bisogno di sempre maggiore condivisione nelle procedure e nelle votazioni.

Lei parla di regole. Ma il tema per molti è la guida, cioè Di Maio. E in assoluto per voi 5Stelle è un momento difficile.

Le difficoltà sono evidenti, ma è fuorviante ragionare esclusivamente sulla figura del capo politico. Dobbiamo preoccuparci anche di altro, per esempio dell’agenda politica, nella convinzione che bisogna assolutamente raggiungere risultati e far proseguire questo governo. Poi bisogna dare maggiore voce e risorse ai territori: i nostri gruppi e consiglieri locali si sono sentiti abbandonati per troppo tempo.

A Bruxelles voi 5Stelle vi siete spaccati nella votazione sulla presidente Von der Leyen. Brutto segnale, no?

È stato un passaggio doloroso. In passato io ho fatto un passo indietro quando ho capito che la maggioranza del gruppo aveva una posizione diversa. A mio avviso, chi non ha votato la Von der Leyen, come deciso a maggioranza, ha commesso un errore nel merito e nel metodo. Ma spero che ci sarà modo di recuperare un’unità che è fondamentale per essere veramente incisivi nel Parlamento europeo.

Salvare Salvini oppure no? I dolori della giovane Italia Viva

Non ho avuto nessuna indicazione dai vertici di Italia Viva su come comportarmi sulla richiesta di autorizzazione a procedere per Matteo Salvini nel caso della Gregoretti. Anche perché non ho mai preso indicazioni sulle vicende della Giunta”. Così dice Giuseppe Cucca, vicepresidente della Giunta, al Fatto Quotidiano. Lui è uno dei tre renziani il cui voto potrebbe essere determinante per l’esito della votazione sul leader leghista (la maggioranza, con Iv, conta 13 voti contro 10). Gli altri due sono l’amico di Matteo, Francesco Bonifazi e Nadia Ginetti. Il fu Rottamatore in questi giorni fa trapelare la tentazione di un voto contrario. Dice ancora Cucca (che della Giunta faceva parte pure nella scorsa legislatura): “Decido in autonomia. L’ho sempre fatto sulla base del contenuto degli atti e del confronto con i colleghi”. E poi ci tiene a chiarire: “Renzi non si permetterebbe mai di intromettersi. Perlomeno con me, sono il riferimento in Giunta”. E suol merito: “Sicuramente è prematuro decidere che fare. Ma non mi piace la frase ‘vada salvato!’. O ci sono le condizioni per autorizzare o no”.

DentroItalia Viva le cose non vanno benissimo. Ma al netto dei sondaggi inchiodati tra il 3 e il 4% e della preoccupazione per i propri destini personali (a partire dalle ricandidature), i malumori riguardano la gestione politica del partito.

“Per mettere le dita negli occhi degli altri, non possiamo mettere a rischio il destino della Banca Popolare di Bari”. I messaggi di due parlamentari del Sud nelle chat interne del partito sono stati più o meno di questo tenore. Il malumore serpeggia nei gruppi pure per una questione di metodo: “Non funziona minacciare di non appoggiare una cosa, e alla fine, invece, farlo”, è il ragionamento di alcuni.

Ancora. Davide Faraone, capogruppo in Senato, appare troppo accentratore e troppo poco incline alla comunicazione. In realtà, è il metodo Renzi: l’ex premier ha sempre utilizzato una stretta cerchia di fedelissimi per gestire le cose sostanzialmente in proprio. Ma Faraone è anche sembrato a molti troppo concentrato sulle questioni siciliane, durante l’iter della manovra.

In questi giorni, poi, si rincorrono le voci su una serie di senatori pentiti, che sarebbero pronti a tornare nel Pd. Durante il brindisi per gli auguri natalizi, c’è chi giura di aver sentito Renzi parlare al telefono con Ernesto Magorno (assente dalla foto di gruppo). “Dai, aspetta. Dici a Delrio che ci pensi un altro po’”. L’interessato, interpellato dal Fatto, nega di avere di queste tentazioni: “Io sono più renziano di Renzi. Anzi, penso che il suo partito avrebbe dovuto farlo molto prima”. L’altra attenzionata è Annamaria Parente. Anche lei, però, nega: “Sto benissimo dove sono. Sono sempre più contenta”. Sarà. La Parente, insieme a Mauro Maria Marino, nella riunione del gruppo ha avanzato delle critiche sulla gestione della manovra.

Gennaio sarà un mese centrale per le scelte di Renzi. Nel tavolo da poker con Matteo Salvini, per portare a casa prima di tutto una legge elettorale non troppo svantaggiosa e nel libro dei sogni pure un governissimo, l’ex segretario del Pd potrebbe arrivare come extrema ratio pure a far cadere Conte. Tra le cose che lo frenano c’è il fatto che rischia di tornare in Parlamento con un gruppetto talmente esiguo da non contare nulla. Dei destini personali di quelli che l’hanno seguito, però, poco gli importa. Loro, evidentemente, l’hanno capito.

“Hanno seppellito l’ideale federalista”

“Ieri è stata seppellita un’idea. Nel segno del sovranismo, ovvero la declinazione moderna del centralismo. Matteo Salvini è diventato schiavo dello Stato centrale. Basta vedere cos’ha portato a casa la sua Lega sull’autonomia: un bel niente”. Giuseppe Leoni sta viaggiando in auto verso Milano, dove ieri si è tenuto il congresso della Lega Nord per modificarne lo statuto e renderla, di fatto, una scatola vuota a vantaggio del nuovo partito: la Lega per Salvini premier. Una bad company che resta in vita per onorare i debiti verso la giustizia. Leoni, socio fondatore della Lega insieme a Umberto Bossi nel 1984 e primo deputato del Carroccio nel 1987, al congresso non è stato nemmeno invitato.

Leoni, ha visto? Bossi c’era ed è intervenuto, anche attaccando Salvini…

Umberto fa quel che può. Ha fatto bene ad andare e a parlare. Ma fisicamente è un quarto del Bossi di prima, purtroppo la malattia ha il suo peso. E poi credo anche non possa opporsi più di tanto perché forse non è libero dal punto di vista economico. Detto questo, è indecente il comportamento nei suoi confronti da parte di tutto il suo ex stato maggiore.

La Lega l’ha inventata lui.

Gli italiani sono così. Prima del 25 aprile c’erano 45 milioni di fascisti, dopo 45 milioni di antifascisti. Con Bossi lo stesso: prima erano tutti lì a osannarlo e leccargli i piedi. Poi tutti quelli che erano con lui sul palco in camicia verde sono stati i primi a voltargli le spalle: Calderoli, Giorgetti, Maroni. Io non sono mai stato sul palco né a Venezia né a Pontida, ma ero e sono più leghista di tutti. Bossi per loro è diventato un peso. Anche alle feste della Lega è più sopportato che acclamato.

Ma non è che questo passaggio tra i due partiti è un modo per scampare all’obbligo di versare i famosi 49 milioni allo Stato?

È una lettura che si può dare, ma non credo sia così semplice. C’è di mezzo la legge, una sentenza, ci saranno accordi precisi tra la Lega e il Tribunale di Genova. Ora però dei 49 milioni e anche della Russia non si parla più. E di solito quando dalle Procure c’è silenzio è un brutto segnale: potrebbe arrivare lo tsunami.

Altre inchieste su Salvini?

È solo una sensazione.

Secondo Maroni e altri colonnelli ci sta che un partito si trasformi e cambi i propri obiettivi.

Guardi, io non discuto il fatto che, finché prende il 30%, Salvini per certi versi abbia ragione. Ma un congresso non si fa così, a tre giorni dal Natale, convocato in tutta fretta, senza dare tempo ai delegati di studiare il nuovo statuto e proporre modifiche. Non è un congresso, è una ciofeca. E infatti molti non sono andati.

Perché Salvini ha così successo?

Perché va dietro ai voti, non alle idee. È bravo a solleticare la pancia degli italiani, a stuzzicare la loro ignoranza. Gli piace giocare facile. Come sull’immigrazione. Non c’era nessuna emergenza e il nuovo governo lo sta dimostrando. Ma senza le idee non si va da nessuna parte. E poi se la Lega sventola in Tricolore, in cosa si differenzia dalla Meloni o da Forza Italia…? Le istanze federaliste sono più vive che mai, al Nord il malcontento è alto. Il tempo, come sempre, sarà galantuomo.

Salvini è diventato il punto di riferimento dei neofascisti…

Su questo Bossi era molto diverso, i fascisti non li poteva vedere. Matteo invece strizza l’occhio a quel mondo così da avere i loro voti. Come a dire: votate la Lega, perché il voto a CasaPound non serve a niente. Chissà, se diventerà premier, coi pieni poteri magari vorrà indietro Nizza e la Savoia.

Il timore dei pm sul vecchio partito senza più fondi

Addio Nord. Addio Padania. Ma voltare pagina sui 49 milioni che la Lega deve allo Stato sarà un po’ più difficile.

Il dubbio che la nascita del nuovo soggetto politico potesse apparire come un espediente per eludere il debito con la giustizia deve essere venuto anche a Roberto Calderoli, se proprio ieri ha detto: “La Lega Nord continuerà a esistere anche perché dobbiamo rispettare gli impegni presi con la Procura di Genova”.

Ed è una questione che si sono posti anche i magistrati e gli investigatori genovesi di fronte alla nascita di una figura politica nuova: un partito bad company, la vecchia Lega Nord, appunto.

“Il problema adesso”, si sostiene in tribunale, “sarebbe se il vecchio soggetto sopravvivesse, ma smettesse di pagare”. Impossibile, ovviamente, impedire la formazione di un nuovo soggetto.

La Procura intende controllare che la Lega Nord – visto che resterà in vita, e le sue obbligazioni quindi non transiteranno nel partito appena nato – non resti una scatola vuota. Lasciando così a bocca asciutta la Procura che ha stipulato un accordo: ogni bimestre saranno prelevati 100 mila euro da uno specifico conto. In pratica: 600 mila euro per 76 anni. Una rateizzazione che, ha ricordato il pm Francesco Pinto che conduce l’inchiesta, non impedisce agli inquirenti di continuare la caccia ai 49 milioni. Anzi, nelle ultime settimane i magistrati si sono convinti di aver trovato una tranche di 500 mila euro proveniente dal tesoro.

Resta, però, il dubbio di fondo: dove la Lega Nord andrà a prendere i soldi – 50 mila euro al mese, non proprio bruscolini – visto che le attività politiche saranno svolte dalla Lega Salvini Premier? Giulio Centemero, tesoriere della Lega, non condivide i dubbi: “In realtà il nuovo soggetto politico esiste già da tempo. I conti sono separati. Le rate finora sono state pagate tutte e continuerà così, la rateizzazione rimane in capo alla Lega”. Ma il partito ‘fantasma’ dove troverà il denaro necessario? “Tanto per cominciare noi siamo un partito che ha aperto le porte al doppio tesseramento. Primo, ci sono gli affitti degli immobili. Secondo, le erogazioni liberali. Terzo, il 2 per mille”. Per questa ultima voce nel 2018 la vecchia Lega Nord per l’Indipendenza della Padania ha incassato 922.040 euro, poco meno della metà della Lega di Salvini che è arrivata a 2 milioni e 40mila euro. Bisognerà capire se, però, adesso che il sogno della Padania sta tramontando i nostalgici della visione secessionista continueranno a sostenere economicamente il partito nato con Umberto Bossi.

Soprattutto perché i denari finirebbero sostanzialmente alla Procura: “Lo hanno sempre fatto e credo che continueranno anche adesso”, è convinto Centemero. Che, però, garantisce: “In capo alla Lega Nord è rimasta Pontidafin srl che ha nel portafogli il patrimonio immobiliare”. Di che cosa parliamo? “La sede di via Bellerio, la vecchia scuola della Lega, le sedi di Torino e Arona, un negozio di Milano che ospitava la sede del sindacato padano”, spiega il tesoriere del Carroccio.

Ma se la Lega Nord non rispettasse le scadenze previste dalla Procura? “Lo abbiamo sempre fatto. Dovete convincervi che questa è un’operazione politica. Le questioni giudiziarie non c’entrano”. Potrebbe pagare la Lega Salvini premier? “No, sono strutture completamente separate. Due cose diverse”, conclude Centemero.

Insomma, secondo il tesoriere leghista il pagamento andrà avanti; la vecchia Lega Nord ha un patrimonio immobiliare (che, comunque, ha un valore ben lontano da 49 milioni). Impossibile, però, chiedere il denaro al nuovo partito. In realtà in Tribunale a Genova non sono così convinti: la Cassazione, in riferimento alla nuova organizzazione delle sezioni locali del Carroccio, ha stabilito quando si possa ritenere che vi sia una continuità tra vecchi e nuovi soggetti. Insomma, non basta cambiare nome.

Salvini si è fatto la sua Lega. Bossi battezza col dito medio

“Oggi non si chiude nessun partito. Altro che funerale: funerale un cazzo”. Sono lontani i tempi del celodurismo in canottiera, ma Umberto Bossi non rinuncia all’estetica del dito medio appena attacca a parlare davanti al congresso della Lega Nord. Che al suo ingresso lo accoglie con una standing ovation. Ma con buona pace del senatùr, pochi minuti più tardi, l’assise, all’unanimità, manda praticamente in soffitta la sua creatura, il vecchio Carroccio. Per completare la transizione, nei fatti compiuta da tempo, verso la Lega per Salvini premier. Dal banco della presidenza, Bossi parla il giusto: dieci minuti per un ultimo ruggito di fronte ai delegati che però sono già proiettati verso il futuro che si chiama Matteo Salvini.

“Oggi arriva solo il doppio tesseramento, lo possiamo concedere a Salvini. Siamo noi che concediamo non è lui che ci impone. Salvini non può imporci un cazzo, lo diciamo con franchezza. Le cose imposte non funzionano. Se vuole il simbolo, raccolga le firme”, dice Bossi che ricorda come la Lega “non è un partito qualsiasi, ma una forza identitaria”. Che deve essere capace di mettersi in ascolto del Paese e per questo non deve sottovalutare le Sardine: “Sono una operazione intelligente, all’inizio lo abbiamo fatto anche noi della Lega”, dice prima di andarsene e lasciare la scena a Matteo, il nuovo mattatore.

Che delle Sardine riunite anche fuori dell’hotel di Milano, dove i leghisti sono a congresso, ha tutt’altra idea: “Erano in 40. Le Sardine? Le piazze del ‘no’ le lasciamo ad altri”, dice prima di sciogliere le briglie e incalzare a distanza la maggioranza di governo, sospettata di voler modificare i decreti Sicurezza a lui cari: “L’Italia ha bisogno di regole, ordine e disciplina, non del caos”.

Il “Capitano” poco prima che Bossi lasci la scena, lo abbraccia e lo ringrazia della presenza che vale una benedizione, seppure ruvida. Assente invece Roberto Maroni, bersaglio della platea (“preferisce parlare sui giornali”) e delle bacchettate di Salvini. “Serve un movimento snello e orgoglioso delle sue radici, ma che guarda avanti. Chi guarda al passato è morto. Per me sono stati sei anni entusiasmanti e io sono ottimista per natura e penso che l’anno prossimo sarà straordinario. Ma non siamo senatori e deputati a vita, non possiamo essere pigri”, spiega Salvini prima di lanciarsi nell’arringa finale: “Il primo requisito per vincere una guerra è capire che sei in guerra. Ogni tanto ho come la percezione che qualcuno sia chiuso nel suo orticello”. E invece, per tornare al governo (“tra le modifiche alla Costituzione ci sarà anche da cancellare i senatori a vita”) serve lavorare ventre a terra.

Ma prima viene la legge elettorale: “A gennaio la Corte costituzionale deciderà sull’ammissibilità o meno del referendum sul maggioritario. Contiamo che i giudici supremi non scippino questo diritto di democrazia al popolo italiano”, dice tirando per la giacchetta la Consulta. E poi ci sono i magistrati che lo accusano di sequestro di persona per la gestione dei migranti a bordo della nave Gregoretti. “Se dovessero processarmi non vedo l’ora di portare milioni di italiani in tribunale, propongo al congresso di autodenunciarsi, i favorevoli si alzino”, ha incalzato la platea dei delegati che a quel punto sono balzati sull’attenti come un sol uomo.

Ultimo guizzo prima di mettere ai voti il nuovo statuto del movimento fondato da Umberto Bossi nel 1991. E che dopo le modifiche prevede che il senatùr rimanga presidente a vita, ma senza la possibilità di “assumere i poteri e le competenze del consiglio federale” in caso di dimissioni del segretario né di “convocare entro 120 giorni il congresso straordinario degli organi elettivi”. Al posto del segretario è prevista la figura del “commissario federale con pieni poteri”. Di gestire le spoglie della Lega Nord che, nonostante tutto, deve sopravvivere per rassicurare i magistrati sull’impegno a rimborsare i 49 milioni non dovuti percepiti in passato dal partito.

“Ce la mangiamo io e te la Torino-Lione”. Gli appetiti delle cosche fin dal 2011

Torino

Il 1° luglio 2014 l’operazione “San Michele” (inchiesta del Ros dei carabinieri coordinata dalla Dda di Torino) rivela l’interesse di alcuni ‘ndranghetisti e loro fiancheggiatori negli appalti della Torino-Lione.

“Ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità” diceva nel 2011 l’imprenditore di Catanzaro Giovanni Toro a Gregorio Sisca, affiliato della locale di San Mauro Marchesato (Crotone) distaccata in Piemonte, condannato in via definitiva per associazione mafiosa il 4 luglio 2018. È soltanto una delle frasi che dimostrano l’appetito per appalti e subappalti. Ad esempio gli investigatori del Ros intercettano altre conversazioni utili a capire come i mafiosi stessero preparandosi. Tra la fine del dicembre 2011 e il gennaio 2012 gli indagati “torinesi” tornano a Crotone per il Natale e incontrano i “cirotani” in riunioni “finalizzate a predisporre le società e mezzi in vista dell’avvio dei lavori di scavo del tunnel ferroviario Tav Torino-Lione”, annotava il gip.

Uno degli ambiti prediletto è quello del movimento terra. Sisca dice al telefono col boss Mario Audia: “Adesso che parte la Tav. Vediamo di farlo entrare insieme a questa cooperativa qua della Tav”.

Parlava di un imprenditore da inserire nel consorzio Valsusa che raggruppava alcune ditte che operavano a Chiomonte. Sisca aveva sollecitato alcuni suoi familiari affinché ottenessero alcuni preventivi per comprare nuovi camion.

Giovanni Toro, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (in attesa di appello), ottiene il subappalto per l’asfaltatura del cantiere di Chiomonte e vuole anche far fruttare la sua cava a Sant’Antonino di Susa, ma rischiava lo sfratto dai proprietari, ma Sisca li minaccia e aiuta il compare a rimanere in quella possibile miniera d’oro.

“Noi dobbiamo stare lì perché è lì dentro che nei prossimi dieci anni arrivano 200 milioni di euro di lavoro”.

Anche perché con il ciclo del cemento, frantumando gli scarti delle lavorazioni, “lì è un business che non finisce più”.

“Al Nord la politica nega ancora la mafia, ma ora basta scuse”

“La grande sfida è abbinare il dovere del rispetto della legalità con l’obiettivo dell’efficienza degli appalti”. Roberto Tartaglia, classe 1982, giovane pm del processo Trattativa Stato-mafia prima e adesso consulente della commissione parlamentare Antimafia, è il più probabile successore di Raffaele Cantone alla guida dell’Anac. Gli arresti degli ultimi giorni, da Catanzaro a Torino, ai suoi occhi rivelano che non è finita “la colonizzazione delle mafie al Nord”.

Possibile che da Minotauro (2011) in poi nella società, nella politica e nell’imprenditoria del Nord non ci siano i sufficienti anticorpi?

La capacità delle mafie di trasferire i propri affari in regioni diverse da quelle di provenienza e di ricreare lì le medesime strutture organizzative e le stesse forme di soggezione e inquinamento sociale è stata paventata molto prima delle varie indagini giudiziarie, operazione Minotauro inclusa. Non possiamo dimenticare la terribile profezia del 1961 di Leonardo Sciascia, che usò la metafora della ‘linea della palma’ – il confine del clima propizio alla vegetazione della palma, che secondo gli scienziati progrediva verso il Nord di cinquecento metri all’anno – per descrivere il fenomeno della progressiva risalita delle mafie meridionali verso il resto del Paese. E concludeva: ‘Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia’. Sottovalutare questo trend almeno dal 2000 in poi significa soffrire, nella migliore delle ipotesi, di micidiale miopia politico-criminale. Le mafie meridionali oggi migrano verso i territori dove la ricchezza, la produzione, gli appalti sono più consistenti e proficui; e, come ha scritto anche la Dia nella sua ultima relazione del 2019, gli “anticorpi” non stanno funzionando come dovrebbero, perché al Nord è ancora forte la tentazione di minimizzare, è ancora modesto l’allarme sociale. Eppure potremmo attingere, per bloccare questa che ho chiamato “colonizzazione”, a decenni di esperienza della vera cultura antimafia nelle regioni “tradizionali”: cittadini informati e sensibilizzati, società civile predisposta a creare reti di sostegno, indagini veloci, giornalisti liberi, ricorso sistematico a strumenti di prevenzione.

Nel Nord produttivo gli appalti sono ancora preda delle mafie, come si rompe il meccanismo?

L’ultimo anticorpo che ho citato sopra è quello della prevenzione. In nessun settore come in quello degli appalti pubblici credo che la prevenzione possa essere determinante. La sola repressione, con i suoi inevitabili limiti, non basta. Per prevenzione non intendo un sistema di controlli asfissianti, paralizzanti, in grado di ritardare (se non di bloccare) lo sviluppo delle opere pubbliche: questo sarebbe l’ennesimo tributo versato alle mafie. Un sistema di prevenzione fondato sulla vigilanza dei grandi appalti – ed imperniato sul criterio della differenziazione dei protocolli di intervento (non ogni appalto e ogni contesto è uguale a un altro) e della sinergia collaborativa tra stazioni appaltanti e autorità di garanzia – può velocizzare i tempi e le procedure, garantendo il rispetto delle regole. La grande sfida è abbinare il dovere della legalità con l’obiettivo dell’efficienza degli appalti.

I partiti possono difendersi da chi con i boss parla e fa affari?

Non ci possono essere più scuse (e pretesti) di trenta anni fa: personaggi ambigui, contesti grigi e dinamiche di compromesso sono, quasi sempre, riconoscibili. E anche per i partiti politici l’unica arma è rappresentata dalla prevenzione che, nel sistema politico, significa codici di autoregolamentazione, incremento del tasso di trasparenza delle procedure più sensibili, verifica prudenziale delle candidature, anche correndo il rischio di perdere qualche voto. Nell’immediatezza perché la legittimazione che la politica può poi recuperare dai sistemi virtuosi può ripagare quelli che, in un primo momento, appaiono come sacrifici.

Da Catanzaro a Torino sono stati giorni esaltanti e drammatici…

Il pentito Leonardo Messina, nel riportare indirettamente le intenzioni di Salvatore Riina pronunciate alla vigilia della stagione stragista del 92/93, dichiarò che ‘Cosa nostra voleva farsi Stato’. Sconfiggere le mafie non significa solo lottare contro le sue manifestazioni “militari”, ma anche distruggere la continua tentazione di “farsi Stato”. Questo secondo risultato è ancora lontano, ma non irraggiungibile.

Qual è la minaccia più grande?

La rassegnazione ad alcune forme di convivenza, magari considerate inevitabili. Sono sicuro però che l’Italia non potrà mai accettare sul serio questo tipo di rassegnazione.

Il presunto boss a Torino: “Ho parlato del Tav con FI”

Torino

Gli appetiti della ’ndrangheta per la Torino-Lione non sono mai finiti. I lavori dovevano continuare. Sei anni dopo l’inchiesta “San Michele”, a dimostrare questo interessamento c’è una conversazione riassunta nell’ordinanza di custodia cautelare sugli arresti di otto persone avvenuti a Torino venerdì mattina nell’operazione “Fenice” della Guardia di finanza, quella che ha condotto in carcere l’ormai ex assessore regionale del Piemonte agli affari legali, Roberto Rosso (FdI), indagato dalla Dda torinese per voto di scambio politico-mafioso.

A mezzogiorno del 24 febbraio scorso due dei personaggi poi arrestati per associazione a delinquere di stampo mafioso si sentono al telefono e parlano di un incontro con alcuni politici a cui uno dei due aveva ribadito che i lavori nei cantieri di Chiomonte devono proseguire. I due intercettati sono Francesco Viterbo e Onofrio Garcea, ritenuto esponente della cosca Bonavota, figura importante della ’ndrangheta a Genova (condannato in attesa di Cassazione), ma da tempo attivo a Torino. È lui che – dopo l’operazione “Carminius” del 18 marzo 2019 – guida l’organizzazione criminale originaria di Vibo Valentia attiva nell’area di Carmagnola (Torino). “Io metterei tutti i giudici lì sopra su una barca poi gli sparerei – diceva Viterbo commentando le notizie su quell’operazione –. I giudici sono dei pezzi di merda che ascoltano le telefonate, arrestano le persone per niente, tanto loro in galera non vanno”.

In un’altra conversazione, avvenuta il 24 febbraio, Viterbo racconta al presunto boss Garcea di essere stato invitato da un importante imprenditore edile, Giovanni Parisi (non indagato), a una manifestazione di Forza Italia alle 10 dello stesso giorno nel Comune di Nichelino (Torino). A quell’incontro è andato insieme ad altre due persone di cui uno, Carlo De Bellis, anche lui arrestato venerdì per concorso esterno in associazione mafiosa. Il presunto boss Garcea, invece, non ha partecipato “a causa di motivi personali”, si legge nell’ordinanza. E quindi ascolta il resoconto sull’incontro con “quattro o cinque onorevoli” di Forza Italia (non indagati). “Viterbo – riassume il gip Giulio Corato – ha raccontato di aver parlato con l’onorevole ‘Napoli… e Bertoncino’ con i quali hanno discusso sia di ‘dover prendere il Paese in mano’, facendo riferimento alle elezioni amministrative del Comune di San Gillio (Torino), sia che i lavori presso il cantiere del Tav a Chiomonte (Torino) devono proseguire”.

Parlavano di Osvaldo Napoli, deputato e consigliere comunale a Torino, ex vicepresidente dell’Osservatorio sulla Torino-Lione insieme a Paolo Foietta, e di Maurizia Bertoncino, socialista candidata di +Europa al Parlamento europeo.

A quella manifestazione avrebbero partecipato anche Paolo Zangrillo, deputato e commissario regionale di Forza Italia, e Alberto Cirio, eurodeputato non ancora candidato alla presidenza del Piemonte.

“In quell’incontro a Nichelino c’erano cento persone – ricorda Napoli –. Io non so chi siano quei due (Viterbo e Garcea, ndr). Dal lato morale sono di una tassatività enorme. In 27 anni da sindaco non ho mai messo piede in Procura”. Ed effettivamente dalle 283 pagine dell’ordinanza il suo nome non compare più, indizio che con i due presunti ‘ndranghetisti non ci sono stati contatti. Il “Sì Tav” Napoli afferma di non aver mai parlato di affari e appalti dell’Alta velocità. In merito al rischio di infiltrazioni della criminalità negli appalti della Torino-Lione, crede “che ci siano i presupposti per controllare che tutto sia nella normalità. Siccome sono appalti di un certo livello, non bisogna aver paura che la magistratura faccia le verifiche”.

Il deputato di Forza Italia nega anche l’interessamento politico per le elezioni a San Gillio e precisa di non aver chiesto voti come ha fatto Rosso, sospettato di aver pagato quasi ottomila euro a Garcea e Viterbo per procacciare voti.

Intanto ieri pomeriggio, nel carcere della Vallette, Rosso non ha risposto al gip durante l’interrogatorio di garanzia: “Per una persona come lui, totalmente estranea a realtà di tipo ’ndranghetista, ci vuole tempo – ha spiegato il suo difensore Giorgio Piazzese –. Deve metabolizzare una notevole mole di atti, che non abbiamo ancora avuto il tempo di studiare. Li leggeremo e valuteremo il da farsi”. Anche l’imprenditore Mario Burlò, arrestato per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, non ha risposto alle domande del magistrato.

Il Riesame su Open: legittimi i sequestri a Carrai e ai finanziatori della fondazione

Ci vorranno 45 giorni per sapere le motivazioni in base alle quali Marco Carrai, uno dei personaggi chiave dell’indagine sui finanziamenti a Open, la fondazione ‘cassaforte’ di Renzi, ha perso il ricorso al Riesame per ottenere il dissequestro dei documenti e dei supporti informatici acquisiti dai pm durante le perquisizioni di fine novembre.

Un successo per l’accusa portata avanti dalla Procura di Firenze, che indaga l’avvocato Alberto Bianchi e Carrai per finanziamento illecito ai partiti, e il solo Bianchi per traffico d’influenze.

Un termine, quello dei 45 giorni per il deposito delle motivazioni, che secondo gli avvocati Massimo Dinoia e Filippo Ferri, difensori dell’imprenditore toscano ex componente del Cda di Open “è un tempo inusuale, piuttosto sorprendente e francamente mai visto prima per situazioni simili, tanto più considerando che la tesi sottoposta a giudizio dalla difesa del signor Marco Carrai (e sostenuta dal conforto di tre illustri cattedratici) era limitata a una questione di puro diritto, cioè se le asserite condotte ipotizzate nel decreto di sequestro costituiscano o no un reato. A nostro avviso e a quello dei tre esperti cattedratici, di cui uno ex presidente della Corte Costituzionale, no”.

Il riferimento è a un parere anche di Giovanni Maria Flick, dal quale, secondo quanto appreso, sarebbe emerso che la Fondazione Open non fosse da considerare articolazione di partito – come sostenuto dalla Procura –, a meno di applicare in modo retroattivo, e quindi illegittimo, la legge ‘spazza-corrotti’ varata nel 2019. Se giuridicamente la Fondazione non è un partito politico, era il ragionamento proposto dai difensori dell’imprenditore, allora non può esistere il finanziamento illecito ai partiti, ovvero il reato contestato a Carrai.

Ricorso respinto anche per alcuni dei finanziatori di Open, non indagati ma sottoposti a perquisizioni, tra cui la famiglia Aleotti e il finanziere Davide Serra che, come Carrai, si erano rivolti al Riesame per vedersi annullare i sequestri avvenuti nelle visite della Guardia di Finanza casa e ufficio scattate alla fine di novembre scorso.

Aveva invece rinunciato a un nuovo ricorso al Riesame l’avvocato Antonio D’Avirro, difensore di Bianchi. Lo studio dell’ex presidente di Open era già stato perquisito dalle Fiamme gialle lo scorso mese di settembre, e il 24 ottobre scorso il Tribunale del Riesame aveva respinto la richiesta di dissequestro.

Toto, Gavio e Castellucci. Il filo rosso con Matteo&C.

Natale, tempo di regali e di soccorso renziano ai signori delle Autostrade, come insegnano i precedenti della rivolta di ieri in consiglio dei ministri. Riavvolgiamo il nastro al dicembre del 2017, quando il crepuscolare governo Gentiloni, con Graziano Delrio ai Trasporti e Renzi segretario del Pd, approva un emendamento ad hoc alla manovra di bilancio per salvare la quota del 40% di lavori in house alla rete autostradale, senza dover passare per le forche caudine delle gare d’appalto, chissà mai dovessero essere vinte da altre imprese. Dopo il lungo pressing su Renzi e i sindacati, il provvedimento rende felici i Benetton e i Gavio e le loro aziende di costruzione: Itinera, Abc, Sicogen, Sea, Interstrade, Sina della famiglia Gavio e Pavimental e Spea di Autostrade per l’Italia (Benetton). Senza quell’emendamento, sarebbe definitivamente entrata in vigore una norma del codice degli appalti congelata da due anni, che vincolava al 20% i lavori in house del totale delle opere autostradali.

Per blindare l’operazione, un altro emendamento affida all’Anticorruzione (Anac) il controllo del rispetto delle quote. Il provvedimento ricalca, in sostanza, gli impegni assunti da Renzi durante il tour in treno per l’Italia, parlando con i lavoratori delle concessionarie autostradali a Casale Monferrato, terra dei Gavio. Secondo un calcolo dell’Ance, l’associazione dei costruttori, in questo modo sono stati sottratti al mercato 15 miliardi di euro di lavori.

Il filo che collega il mondo renziano ad Autostrade per l’Italia (Aspi) passa anche per lo studio legale di Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione Open e affidatario nel 2016 di una consulenza per conto della Toto Costruzioni Generali, un incarico riguardante la chiusura di un contenzioso con Aspi. Bianchi lavora all’interno di un collegio di legali, chiude la disputa tra le due aziende e riesce a far incassare alla Toto circa 70 milioni di euro. Per gli investigatori però la consulenza a Bianchi è solo un modo per nascondere un finanziamento. Ma l’inchiesta della Procura di Firenze su Open ha rivelato che l’altro renzianissimo Marco Carrai, amico personale dell’ex premier e già componente del Cda della Fondazione, avrebbe contattato l’ad di Aspi, cioè la parte in causa contro Toto. L’incontro con l’ad Giovanni Castellucci sarebbe avvenuto nel giugno 2015 e per i pm fiorentini che hanno indagato Bianchi e Carrai l’incrocio delle circostanze sottolinea “il rilievo che le operazioni di trasferimento di denaro dal gruppo Toto ad Alberto Bianchi e quindi da Bianchi alla Fondazione Open appaiono in effetti dissimulare un trasferimento diretto di denaro” dai Toto alla Open. Tra le carte sequestrate si rinviene un appunto ricevuto il 3 luglio 2015 da Bianchi. È un messaggio che gli inquirenti attribuiscono a Carrai. “Lui dice che troppo distante il prezzo. Mi ha detto che tu lo chiami e ci fissi” e poi viene riportato un numero di un’utenza intestata ad Autostrade. Ed entrerebbe in gioco un altro renziano doc, anche se non trasmigrato in Italia Viva, il dem Luca Lotti, anche lui ex Cda di Open. Bianchi, secondo la Finanza, gli avrebbe consegnato un appunto sulla trattativa legale in atto.

E anche il Gruppo Gavio risulta tra i finanziatori di Open: 51.000 euro fino al 2014. L’anno in cui beneficia, insieme a Benetton e a Toto, dell’articolo 5 del decreto Sblocca Italia, con Renzi a Palazzo Chigi. La legge dava ai concessionari autostradali la possibilità di modificare la convenzione in corso con lo Stato e stipulare un atto aggiuntivo a fronte di nuovo piano economico-finanziario e di un preventivo assenso dell’Ue. Un meccanismo che ha portato le società a ottenere una proroga delle concessioni.