Revoca più facile per Aspi e gli altri big autostradali: Renzi prova a bloccarla

La storia è complicata, ma la notizia “politica”, per così dire, è che i renziani non temono l’imbarazzo: ieri in Consiglio dei ministri hanno prima bloccato la discussione per ore sul tema delle concessioni autostradali (un articolo del “Milleproroghe” potrebbe aprire la porta alla revoca delle concessioni), poi le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti – nonostante il decreto sia stato approvato “salvo intese” proprio su quel punto – hanno preteso di inserire a verbale il voto contrario della delegazione di Italia Viva. È appena il caso di ricordare, a questo punto, che un pezzo dell’inchiesta sulla fondazione renziana Open verte attorno ai rapporti tra l’inner circle dell’ex presidente del Consiglio e alcuni signori delle Autostrade, l’abruzzese Toto in testa. E i signori delle Autostrade, attraverso la loro associazione Aiscat, già gridano – a un coro con le note stampa dei renziani tipo Davide Faraone e Raffaella Paita – che così si “mina la credibilità dello Stato agli occhi degli investitori”: “Si distrugge un intero settore produttivo del Paese” e si causa “il licenziamento di decine di migliaia di persone”.

E qui veniamo al merito. All’interno del cosiddetto Milleproroghe è infatti finito un articolo nato originariamente – così spiegano fonti di governo – “per sbloccare l’autostrada Catania-Ragusa”, intenzione che può essere tradotta anche così: fare un regalo da 40 milioni a Vito Bonsignore, ex sottosegretario andreottiano, poi deputato ed eurodeputato rito democristiano, infine imprenditore nel settore autostradale. E il nostro, attraverso una sua società, era il concessionario in project financing della Catania-Ragusa: il progetto, però, era talmente scombiccherato dal punto di vista finanziario che alla fine è subentrata l’Anas.

La società pubblica, a sua volta, ha deciso di comprare il progetto già predisposto da Bonsignore pagando 40 milioni (7 milioni in più di quanto lui stesso lo valuti a bilancio): un primo tentativo al Cipe di giovedì è saltato e allora è arrivata la norma nel Milleproroghe, che – “in caso di estinzione anticipata del rapporto concessorio” – consente ad Anas “di acquistare gli eventuali progetti elaborati dal concessionario previo pagamento di un corrispettivo”. Il regalino a Bonsignore, però, è all’interno di un articolo assai più complesso e dirompente, che mira – così hanno spiegato i ministri Pd Gualtieri (Tesoro) e De Micheli (Infrastrutture) – a rovesciare i rapporti di forza tra Stato e concessionari quando si dovrà “revisionare” i contratti in essere come previsto dall’accordo di governo.

In realtà, il testo va assai più in là e pare il mezzo legislativo che anticipa la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia: i rumors sulla conclusione entro l’anno dell’iter di revoca iniziato all’indomani del crollo del Ponte Morandi (agosto 2018) si rincorrono da giorni al ministero e a Palazzo Chigi.

Tecnicamente funziona così. La concessione è scandalosamente favorevole alla società controllata dai Benetton e prevede un indennizzo calcolato in 20 miliardi di euro persino in caso di revoca per colpa grave: una clausola palesemente nulla secondo il codice civile (art. 1229 e 1419), ma che essendo stata approvata per legge (un decreto nel 2008) avrebbe una sua forza in Tribunale. Per questo la relazione giuridica chiesta dal governo consiglia di “abolire” la legge pro-Benetton.

L’articolo approvato “salvo intese” del Milleproroghe stabilisce che sia Anas a subentrare nella gestione dell’autostrada in un primo momento e poi che, in caso di revoca, gli unici risarcimenti dovuti siano per “i costi effettivamente sostenuti, nonché le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza dell’estinzione del rapporto concessorio”. Già così il costo di far fuori Autostrade sarebbe dimezzato, ma c’è di più: se la revoca avviene per “inadempimento” (tipo il crollo del ponte), quanto dovuto dallo Stato sarà al netto di quel che l’azienda dovrà risarcire e sarà pagato solo alla fine del processo. Insomma, poco e niente e pure a babbo morto. Infine, l’abolizione della concessione-legge dei Benetton: queste nuove regole varranno per tutti i contratti – anche quelli in essere e “anche ove approvati per legge” – e le clausole contrarie sono “da considerarsi nulle ai sensi dell’art. 1419, comma 2, del codice civile” (il quale, a sua volta, stabilisce che la nullità di alcune clausole non annulla il contratto “se le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”).

Un quadro giuridico che consentirebbe la revoca ai danni di Autostrade per l’Italia o (nella versione Pd) di mettere la pistola sul tavolo nelle trattative per la revisione dei vantaggiosi contratti in essere di Aspi & C. Il ministero dei Trasporti, ad esempio, ha da tempo sotto osservazione sia la concessione del gruppo Toto per le condizioni dei viadotti abruzzesi che quella con le società controllate dai Gavio, a cui è di recente venuto giù un viadotto della Savona-Torino. Entrambe queste grandi concessionarie, sia detto per provare la mancanza di imbarazzi di Italia Viva, sono state in passato generose finanziatrici della fondazione renziana.

Questo rovesciamento dei rapporti di forza tra Stato e privati non è ovviamente andato giù all’Aiscat, che denuncia “l’incostituzionalità” della norma, esclusa però dal legislativo di Palazzo Chigi). Più complicato capire la posizione che potrebbe prendere l’Ue: nel 2007, infatti, Bruxelles bocciò il sistema tariffario proposto dall’allora ministro Antonio Di Pietro perché non tutelava a sufficienza gli interessi dei privati.

Vivi a loro insaputa

Parafrasando il celebre telegramma di Mark Twain all’Associated Press che aveva pubblicato il suo necrologio, si può dire che la notizia della morte dei 5Stelle era alquanto esagerata. Nando Pagnoncelli sul Corriere li dà addirittura in crescita di un punto su fine novembre e di mezzo sul risultato delle Europee: cioè al 17,7% (a maggio si erano fermati al 17.1). E sono i soli a crescere, da maggio, insieme a FdI (dal 6,5 al 10,3). La Lega ha perso tre punti (dal 34,3 al 31,5), FI è scesa dall’8,8 al 7,4, il Pd dal 22,7 al 18,2 (ma il calo è inferiore al totale dei renziani, dunque in realtà è una piccola crescita). Poi c’è la nebulosa dei partitini di centrosinistra, da LeU a Iv a Calenda alla Bonino ai Verdi, che insieme – ammesso e non concesso che siano compatibili – totalizzano l’11,5%. Quindi il centrodestra è al 49,2 e il centrosinistra più il M5S al 47,4. Un’Italia spaccata in due che però, col varo della legge di Bilancio, dà più fiducia al governo (dal 42 al 44%) e al premier Conte (il politico più apprezzato, col 47%). Tutto questo al netto di un 42,3% di astensionisti e indecisi: un’area grigia che è cresciuta di altri 3 milioni negli ultimi quattro mesi.

Confrontando i dati con quel che accade in Parlamento, percorso da transumanze incrociate di voltagabbana variamente ribattezzati scissionisti, dissidenti, malpancisti, responsabili e disponibili, viene da chiamare lo psichiatra. Si capisce che la parte meno indecente di FI faccia di tutto per non morire salviniana. E si capisce pure che, fallito lo sfondamento al centro di Renzi, chi l’aveva seguito tenti di rientrare all’ovile del Pd o guardi a Calenda, che almeno non ha la Finanza alle calcagna. Ma ciò che resta incomprensibile è cosa vogliano le decine di mugugnatori grillini. Mugugnavano durante l’alleanza innaturale con la Lega, mugugnavano quando cadde il governo giallo-verde e temevano di tornare al voto cioè a casa, mugugnano con l’alleanza un po’ meno innaturale col Pd. Mugugnavano per la gestione monocratica di Di Maio, mugugnano per la gestione collegiale di Di Maio. Mugugnavano perché Grillo non si faceva vivo, mugugnano dopo che Grillo s’è fatto vivissimo. Mugugnavano perché Di Maio non sosteneva Conte, mugugnano perché Di Maio sostiene Conte. Ma quando la piantano? Ma non si sentono ridicoli? Ma perché non dicono una volta per tutte cosa vogliono fare e dove vogliono stare? Non c’è solo Paragone, che quando i 5Stelle nascevano stava in Rai in quota Lega e ora spiega a Grillo cos’è il suo Movimento: come quei conoscenti che li inviti a pranzo e ti fregano le posate.

Ci sono altre decine di anime in pena che insufflano ogni giorno malcontenti ai giornali, per alimentare la rubrica fissa “Caos 5Stelle” a base di esodi biblici, fughe di massa, “altri grillini pronti a votare contro la manovra”, “pronti a uscire”, “pronti a creare il partito di Conte” (a sua insaputa), pronti a tutto. Se sapessero leggere, potrebbero dare un’occhiata all’analisi di Pagnoncelli, che descrive un M5S tutt’altro che finito: anzi, ha un altissimo “indice di fedeltà degli elettori” (secondo solo alla Lega) e con la nascita del Conte2 “ha attratto il 29% dell’elettorato attuale dall’astensione: elettori presumibilmente delusi dall’alleanza con Salvini che oggi ritornano”. Diversamente dalla Lega, che “non riesce a conquistare nuovi elettori” e resta piantata sul 30%, e dal Pd, inchiodato al suo zoccolo duro del 18-20%, i 5Stelle hanno un serbatoio di 4,5 milioni di elettori “in sonno” che non hanno cambiato casa né casacca: alle Europee si erano astenuti, ma dopo l’alleanza con il centrosinistra si sono in parte riavvicinati.

Il Conte 2 – lo dicono i numeri – fa male a Salvini e bene al Pd e soprattutto al M5S. Che, toccato il fondo a maggio dopo una lunga emorragia, ha iniziato una lenta risalita. Specialmente nelle ultime settimane, dopo i due blitz di Grillo e l’appoggio più convinto di Di Maio al governo, senza più i mille distinguo che lo assimilavano al guastatore Renzi. Non solo. Aver tenuto duro sul carcere agli evasori, la prescrizione bloccata dal 1° gennaio e il no al bavaglio per le intercettazioni ha permesso al M5S di riaffermarsi come partito della legalità, sottolineando la vera diversità rispetto a tutti gli altri, confermata anche dalle cronache giudiziarie. Le indagini su collusioni e voti di scambio con la ’ndrangheta dalla Val d’Aosta all’Umbria, dalla Calabria al Piemonte, dalla Lombardia all’Emilia, investono uomini di tutti gli schieramenti, tranne i 5Stelle. Del resto, molte indagini utilizzano i nuovi strumenti legislativi voluti o perfezionati proprio da loro: la Spazzacorrotti, la riforma del voto di scambio, le intercettazioni col trojan horse e presto, dal 1° gennaio, le manette agli evasori e la fine della prescrizione dopo il primo grado. Per questo, mentre tutti li danno per morti a reti ed edicole unificate, i 5Stelle iniziano a riprendersi. Manca solo che gli interessati si accorgano di essere vivi e smettano di comportarsi come se fossero morti. Uscendo dalla funerea inerzia e dalla rassegnata afonia dell’ultimo anno, per darsi un’immagine di solidità e novità in grado di ricompattare i gruppi allo sbando e attrarre altri astenuti da quel prezioso serbatoio. Lanciando sfide nuove e coraggiose agli alleati, pronti anche ad alleanze nelle regioni dopo le sciagurate scelte isolazioniste in Emilia Romagna e Calabria. E convocando al più presto (marzo è tardi) gli stati generali per un nuovo programma-organigramma che parli anche al popolo misto delle Sardine. Se scopriranno di essere vivi, i 5Stelle potrebbero persino ritrovare la memoria e ricordare chi era che dieci anni fa si batteva nelle piazze per l’ambiente, il welfare, l’innovazione, la libera informazione e la legalità.

Sanremo, la strategia del “vecchio” sicuro

La damnatio memoriae del Divo Claudio: ecco la prima missione di Amadeus. Alla pre-finale di Sanremo Giovani non si è percepita traccia dell’impero caduto. Nessuna citazione di Baglioni, e cospicua ne è parsa l’assenza nella giuria tv inzeppata di conduttori (Baudo, Conti, Clerici, Chiambretti) costretti da un’imbarazzante scelta autorale a votare due volte in caso di parità; tra loro anche lo smagato Gigi D’Alessio, volto perenne di Raiuno. Ma l’ottimo Ama (ancora così radio-ruspante da garantire brio) non si è limitato a rimuovere le statue dell’ex “dittatore”: ne ha smantellato il congegno narrativo. A partire dall’azzardo di tenersi in tasca i nomi dei Big. La mancata suspense ha segato l’audience: 13% e sorpasso di Canale 5 con un’altra giostra, All together now. Ama ha poi ripristinato il confine tra under e affermati: se l’anno scorso a Sanremo il vincitore tra gli “esordienti” (ma in parecchi li hanno già bastonati altrove) accedeva alla gara maggiore, stavolta sarà evitato l’effetto Mahmood.

Già dai tempi di Conti i Giovani surclassavano i Maturi: memorabile il 2016 quando, oltre a Mahmood, trovavi Meta e Gabbani. Per non parlare di Ultimo, che ora si è preso il Circo Massimo. La scelta di Ama – l’apartheid dei ragazzi – sembra però un eccesso di cautela. Perché tra gli otto in lizza per la mini-vittoria all’Ariston non c’è forse l’asso pigliatutto. Qualcuno merita comunque attenzione: come i favoriti, gli Eugenio in Via di Gioia, che si sono fatti le ossa nelle strade torinesi e che con l’elettro-folk green e ballereccio di “Tsunami” hanno sconfitto (scontri diretti gestiti malissimo) il romano Avincola, che con il post-indie di “Un rider” aveva portato al Casinò la sua vita da precario. Tra gli altri finalisti occhio all’ansia più rock che trap di Fasma (ha ragione D’Alessio, basta con l’autotune) e allo scavo che Leo Gassmann esercita sull’inconscio dei giurati: tutti a dirgli che non lo votano per il cognome, e la cosa sta diventando stucchevole.

Misteriosamente, se non per il plot del bullizzato-salvabullo (più la firma pesante dello scomparso Giampiero Artegiani) passa anche l’enfatico Marco Sentieri, così come lo scanzonato Fadi. Da Area Sanremo spunta infine un altro possibile teen idol, Matteo Faustini. E le quote rosa? Le hanno accolte pure loro dalla back door: Martinelli e Lula vanno di veleno sul “Gigante d’acciaio” dell’ex Ilva, mentre da Sanremo Young la prescelta è la quindicenne Tecla Insolia, che si fa carico in “8 marzo” della violenza sulle donne. Tema tosto, arrangiato come nel 1967. Del resto, questo sarà il Festival n. 70. Ama sa che il trionfo di un giovane non fa più notizia. Meglio celebrare i fasti Rai: come accadrebbe se tra i campioni rivincesse un Masini. Poi magari la sfanga Anastasio.

“Il giorno in cui Gigi Hadid ha indossato un mio abito”

L’ispirazione esiste – diceva Picasso –, ma ti deve trovare al lavoro. Anche le occasioni esistono. E anche loro ci devono trovare al lavoro. Meglio se con un passaporto in tasca. È il 2015, lavoro per l’ufficio stile di Alexander McQueen a Londra, e non so mai cosa aspettarmi. Giovedì mattina, appena arrivata il capo mi chiama: “Marta: hai il passaporto dietro? Tra due ore, devi volare in Italia!” Il passaporto ce l’ho, e vengo inviata in missione per recuperare un tessuto ricamato, arrivato all’aeroporto di Heathrow dall’India quella mattina stessa. Poi devo correre a Luton – altro aeroporto londinese – e volare in Italia, alla fabbrica di scarpe che, in 24 ore, dovrà “creare” un paio di scarpe da riportare immediatamente a Londra, per prendere un volo per New York ed essere (forse) indossate dal marito della direttrice creativa dell’azienda, durante la prestigiosissima cerimonia del Met Gala. È il mio secondo stage. Forse uno dei più duri. Di certo uno dei più formativi, cominciato con le sbrigative parole della direttrice dell’ufficio stile: “Inizi lunedì”. Un mondo tra il magico e lo spettrale, dove il capo dell’atelier – donna anziana e dura, con un marcato accento cockney – sbaglia di proposito tutti i nomi degli stagisti.

La notte prima della sfilata, però, quando ti ritrovi da sola con lei a cucire l’ennesimo bottone ricoperto di chiffon per l’abito di chiusura, ti racconta, tra lacrime di commozione, le storie di quando lavorava con Lee, creando collezioni che hanno cambiato per sempre la storia della moda. È l’inizio di una serie di esperienze e storie incredibili, che oggi, ogni volta che vedo un mio abito sfilare in passerella, ricordo con un sorriso.

“Fatti trovare alle 8 davanti alla scuola”. Me lo chiede Stella McCartney. È passato qualche mese e ora lavoro nel suo ufficio stile. E, così, mi ritrovo in una scuola privata di West London, tra perline e frange da cucire, ad assistere a una lezione di “T-shirt making”, tenuta da Stella e sua figlia di nove anni, davanti a dodici bambine urlanti. Non è così semplice affermarsi e ottenere un primo contratto da “stilista”. Quel passaggio, per me, viene scandito tre o quattro mesi dopo, a Parigi, da tre parole: “Isabel vorrebbe incontrarti”. Isabel Marant mi dà appuntamento nel suo ufficio e mi chiede di dare un’occhiata al mio Portfolio. Qualche domanda dopo, si alza, osserva come sono vestita e mi congeda con un’offerta di lavoro. Il primo giorno nel suo studio di Parigi, il capo mi mette subito alla prova: ho solo una settimana per realizzare il progetto che mi affida. È da qui che nasce il mio primo pezzo che va in passerella, per la sfilata Autunno-Inverno.

Un lunedì di settembre: nove del mattino. Sul divano della reception, tre modelle aspettano di essere chiamate per un casting. Nello showroom, i prototipi della collezione sono organizzati per “storie”. Isabel prepara i look della sfilata insieme con Geraldine, la stylist di Vogue Paris con cui collabora da diversi anni. C’è una troupe televisiva che filma un documentario sul “making of” dello show. In piedi davanti ai riflettori, Gigi Hadid parla alle telecamere: indossa uno dei pezzi su cui ho lavorato. Qualche giorno dopo, sfilerà in passerella. È un ottovolante che non si ferma mai. Ogni stagione pensi, disegni, corri, sudi e sacrifichi tanto e, dopo tre mesi, ricominci tutto da capo. Questa mattina, arrivando in ufficio e guardando il muro d’immagini che servono d’ispirazione per la nuova sfilata, insieme a Isabel seduta per terra a schizzare idee, fumando, mi chiedo cosa devo aspettarmi da questa giornata.

E pensare che era cominciato tutto per un cappello. Qualche settimana dopo aver presentato la mia prima collezione durante la sfilata della Università, scorrendo tra le email di una vecchia casella di posta elettronica inutilizzata da mesi, trovo un messaggio di un’editor di Vogue. Mi chiede se può utilizzare i cappelli della mia collezione per un servizio fotografico di Tim Walker, commissionato per l’esclusiva edizione di settembre di Vogue UK, curata da Kate Moss. Non so come abbia trovato quell’indirizzo email, né tantomeno di come sia venuta a conoscenza della mia collezione. Ma è la scintilla di un Big-bang. Questa industria è così: ti trova nel momento in cui non te lo aspetti. Ed è allora che devi farti trovare pronta.

“Il cinema è diviso in clan Se sei donna è pure peggio”

È cangiante. Inafferrabile. Appare, ride, imita, piange, ancora ride, poi scompare, cambia personaggio e torna. È Paola Minaccioni, 48 anni da Roma, ogni mattina è una dei protagonisti de Il ruggito del coniglio, più una serie infinita di film, serie tv, teatro (nel nuovo anno sarà protagonista di una pièce di Özpetek) e ora ha girato anche il suo primo corto da regista. Quando parla è comica anche a sua insaputa, è diretta, non si nasconde, né bluffa, e come lo chef Fulvio Pierangelini sembra amare l’imprevedibilità delle imperfezioni, “perché ormai ci siamo omologati, siamo tutti simpatici e carini”.

Quindi…

Mancano le grandi personalità, non c’è più il Carmelo Bene che litiga con Vittorio Gassman; oggi verrebbero cacciati dal sistema.

Come mai?

Viviamo al tempo dei social: quanta gente triste si fotografa su Instagram? Sono sempre felici o forzatamente felici, e allo stesso tempo il mondo si è appiattito e diventato più commerciale (ci ripensa). Non è un caso se Carmelo Bene arrivava dal teatro…

E allora?

A quel tempo partivi dal palco e finivi in tv, quindi avevi una tua struttura, ti eri formato; oggi è il contrario e sei costretto a rifugiarti nella comfort zone e a seguire la corrente.

Chi voleva conoscere da piccola?

La Marchesini: la imitavo già a scuola; anni dopo ho provato a conoscerla, ma niente.

Al cinema ci sono pochi ruoli femminili.

È che sono sempre gli stessi: mogli, amanti, donne abbandonate, e nella stessa fascia d’età. Tutto questo si amplifica se sei un comico.

Come lei.

Se uno viene da un talent si possono aprire le porte anche di un ruolo drammatico: non ci sono pregiudizi.

Invece se si è comici…

Tutto fermo, poi se uno è nato e cresciuto in strada, allora la credibilità è “zero”.

Lei, da dove?

Don Bosco, periferia.

E mamma sindacalista.

Della Cgil, attivista, mi portava alle manifestazioni: sono abbonata a quelle per l’aborto, i diritti degli omosessuali, o il sociale; eravamo buffe.

Per cosa?

Mamma da questo punto di vista era avanti, poi dentro casa mi spingeva a sposarmi per trovare una sistemazione, ed è una delle grandi contraddizioni di questa società basata su una falsa credenza.

Tradotto?

Dati alla mano non mi sembra che il matrimonio sia la panacea dell’esistenza.

Cattolica?

No! Quando la domenica mattina io e mia sorella tentavamo di andare a Messa, ci bloccava sulla porta: “Se volete fare un’opera buona, datemi una mano in casa”.

Donna pratica.

Da brava romana ci ha concesso i comandamenti (in realtà sono i “sacramenti”).

Insomma questi “comandamenti”?

La comunione l’ho fatta con mia sorella che è più grande di me di due anni, “così mi tolgo il pensiero in una volta sola” la spiegazione di mamma; poi per prepararmi alla cresima mi ha spedito a un corso prematrimoniale. A 11 anni.

È un pezzo comico…

Per la cresima ci ha vestito identiche, con gonne improbabili color grigio a quadrettini rossi; materiale per la psicoanalisi.

Suo padre è stato lo storico massaggiatore della Roma.

E ha girato il mondo…

A scuola i ragazzi le chiedevano di suo padre?

Più che altro biglietti, magliette, allenamenti, e non capivo l’enfasi, c’ero nata, per me era normale.

Non erano idoli?

Era la quotidianità, come Roberto Pruzzo che ci ha regalato il cane.

Quindi, il primo pubblico.

L’imitazione dei professori, mentre il vero esordio è stato in una manifestazione di fine estate, con annesso un piccolo complesso: c’era il concorso per la miss del paese, e invece di chiedermi di partecipare, mi vollero per lo sketch.

Cattivoni.

Io su un palco e mille persone davanti: dall’emozione non sentivo le ginocchia.

Però le hanno dato della bruttarella.

Sempre sentita così, e quando ti ci senti, lo sei.

Oggi è considerata sexy.

Nella vita privata sono sempre stata libera, e questo perché ho avuto la fortuna di scoprire la sessualità da grande, quando avevo la giusta testa.

I registi con i quali ha lavorato, l’hanno coinvolta in altri progetti.

Con Ferzan è nato un idillio, ma anche con Milani e Ponti è andata bene.

Nel cinema ci sono cricche?

Eccome, sono tutti gruppi o clan e hanno il difetto di non far entrare nessuno; poi sono normali le preferenze.

Ruolo da protagonista?

Eh, lo sto aspettando; cosa devo fare? Il botox?

È più difficile strappare una risata di una lacrima.

L’attore comico non può recitare, deve essere immediato e sul palco non puoi pensare alla battuta, altrimenti la rendi inefficace; mentre nelle parti drammatiche non è necessaria la perenne connessione con il pubblico.

E qui da chi ha imparato?

È stato importante lavorare con Lillo e Greg: prima di loro sono stata con una compagnia importante, una di quelle dove anche le micro-pause venivano calibrate.

E allora…

Con Lillo e Greg mi sono immersa nell’opposto: a prima vista sono dei cialtroni pazzeschi, non provavano, e non capivo; poi però li ho visti sul palco e sapevano esattamente cosa dire e come, con un’efficacia rara. Sbalorditivi.

Cosa legge?

Da quando ci sono i social leggo pochissimo.

Ah, li usa?

Porca miseria, ne sono attratta da morire, poi li studio, li guardo, partecipo; ah, sto leggendo Olocaustico di Caviglia, e questa estate solo testi di psicologia.

Come mai?

Storia d’amore finita ed è nato uno spettacolo comico.

Prova invidia?

Tanto, e non voglio togliere agli altri, però mi piacerebbe venir coinvolta di più.

 

“Denunce-tsunami”. La Chiesa inondata dai casi di pedofilia

Uno “tsunami” di nuovi casi, una quantità di denunce mai vista prima, che ha “sopraffatto” un organico non adeguato a gestirle. A tre giorni dall’abolizione del segreto pontificio sui procedimenti canonici riguardanti abusi su minori, è John Joseph Kennedy – capo dell’Ufficio disciplinare della Congregazione per la dottrina della fede – a svelare un dato utile per capire le ragioni della scelta di Francesco. Nel 2019, dice monsignor Kennedy all’Associated Press, alla Congregazione sono arrivate più di mille denunce per abusi commessi da membri del clero cattolico su minori o infermi di mente. Un numero enorme, se si pensa che il record erano i 527 casi del 2010, poco più della metà. E parliamo solo delle denunce trasmesse dalle diocesi locali, a cui spetta il primo filtro di “credibilità”, ma senza alcuna sanzione prevista per chi sceglie di insabbiare.

Per la maggior parte, gli abusi denunciati risalgono ad anni o addirittura decenni fa. Alcuni esposti, dice il capo dell’Ufficio, “vengono da Paesi di cui finora non sapevamo nulla”. E se fino all’anno scorso gli Usa erano nettamente in testa per numero di segnalazioni, adesso Italia, Argentina, Messico, Cile e Polonia li hanno quasi raggiunti. “Credo che se non fossi un sacerdote e avessi un figlio vittima di abusi, smetterei di andare a messa”, ammette Kennedy, che viene dall’Irlanda, uno dei primi Paesi dove è scoppiato lo scandalo pedofilia. “Smetterei del tutto di avere a che fare con la Chiesa. Direi: ‘Bene, visto che non siete in grado di prendervi cura dei bambini, perché dovrei credervi?’. Ma vi garantisco che per ognuno di questi casi sarà fatta giustizia”, promette. “Non pretendo di riportare alla fede chi ha vissuto questi traumi. Ma vorrei che almeno avessero l’opportunità di dare alla Chiesa una seconda chance”. Il problema è che il suo Ufficio, competente sugli abusi commessi in tutto il mondo, ha appena 17 funzionari: si tratta, peraltro, di vescovi senza alcuna esperienza giudiziaria, chiamati a far luce su vicende spesso intricate, delle quali, come scrive il Washington Post, “anche il più stagionato procuratore farebbe fatica a venire a capo”.

L’organico non è stato adeguato all’impennata del numero di denunce, che rispetto al periodo 2005-2009 (quando si aggiravano intorno alle 200 l’anno) sono quadruplicate. “So che la clonazione è vietata dal mio credo”, scherza Kennedy, “ma se potessi clonerei i miei ufficiali per farli lavorare giorno e notte, sette giorni alla settimana”. Ed è un lavoro ingrato: fare l’istruttoria di questi procedimenti significa immergersi nella relazione morbosa tra il prete e la vittima, valutare i pedofili sotto l’aspetto psicologico, leggere pagine e pagine di testimonianze struggenti di donne e uomini violentati da bambini, che finalmente riescono a fare i conti con il proprio trauma.

Dal 2001 – da quando, cioè, Giovanni Paolo II ha accentrato la competenza sugli abusi nella Congregazione per la Dottrina della Fede – i procedimenti per delicta graviora contra sextum (contro il sesto comandamento, “non commettere atti impuri”) sono circa 6mila. Con un calcolo approssimativo, in media poco più di 300 l’anno. Negli ultimi anni, però, hanno sempre superato i 400: 527 casi nel 2010, 404 nel 211, 418 nel 2012, 443 nel 2013, 518 nel 2015, 415 nel 2016, 410 nel 2017.

Una volta conclusa l’istruttoria, la Congregazione propone al Pontefice la sanzione considerata più adatta. Dal 2004 al 2014 – il periodo più lungo in cui sono disponibili i dati – la pena più grave, la riduzione allo stato laicale, è stata applicata in 848 casi, mentre in 2572 si è optato per la dispensa dagli obblighi sacerdotali (celibato compreso). Sotto il pontificato di Francesco, invece, l’unico dato disponibile è quello del 2016: gli “spretati” sono appena 16, i “dispensati” 127.

Un tiratore scelto dietro casa di Putin

Evgeny Manyurov, 39 anni, moscovita, residente a Podolsk, periferia della Capitale russa. Tiratore insignito. Prima del suo assalto armato alla Lubyanka – sede dell’Fsb, servizi di sicurezza russi, due agenti morti –, il suo nome appariva solo nella lista dei vincitori Dossaf, una competizione di tiro al bersaglio di epoca sovietica, gara per patrioti paramilitari ripristinata nel 2009 dal presidente Putin. La sua foto l’ha diffusa il media Baza: è un uomo dal volto rubizzo con gli occhi spenti, molto peso, pochi capelli. Giovedì, quando ha tentato di attaccare uno dei palazzi più blindati della Federazione russa, Manyurov era nervoso, ha mentito dicendo a sua madre che avrebbe partecipato a un addestramento. “Non so perché, ma odiava l’Fsb”, ha riferito la donna.

Dipendente di diverse agenzie private di sicurezza negli ultimi 5 anni, si era licenziato: “Era disoccupato, parlava con degli arabi al telefono, non capivo l’argomento delle conversazioni, avvenivano in inglese”, ha detto la madre. Il padre ha riferito invece che suo figlio “era stato zombizzato”, termine che nell’emisfero slavo identifica chi subisce il lavaggio del cervello. Tutto è cominciato quando aveva lavorato come guardia di sicurezza all’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti, riferiscono i genitori: “Perfino il suo accento era cambiato”. Il video in cui si accascia e muore con accanto un fucile automatico e un coltello è diventato virale in Russia, insieme a un altro diffuso nelle ultime ore: uomini in uniforme nera, con fasce bianche al braccio, scudi antiproiettile, fucili d’assalto, si aggirano per strada e sfollano il centro commerciale Globus prossimo alla Lubyanka. Sono membri dell’unità speciale Grom, “il tuono”, militari del ministero degli Interni.

Due giorni fa, la vicenda Manyurov campeggiava in apertura sui giornali del mondo, mentre alcune tv russe, vicine al Cremlino, vi hanno accennato solo a tarda sera, per 50 secondi, alla fine dei tg. Un’indagine è stata aperta sui due ufficiali colpiti a morte, ma alcuna spiegazione è stata data sul possibile motivo del gesto. Oggi Mosca sostiene che non è un attentato terroristico, ma non fornisce altre spiegazioni. Le prove che non sia stato detto tutto dal Cremlino galleggiano evidenti tra la cronologia sospetta, l’ultima versione ufficiale dell’Fsb che stride con le sue stesse informazioni iniziali, che riferivano di tre assalitori e non uno solo. Durante l’assalto, giornalisti sul luogo hanno continuato a sentire molti spari anche dopo la morte di Manyrov colpito dagli agenti. A Mosca ci si chiede come abbia fatto il tiratore ad avvicinarsi a un chilometro e mezzo dalla sala in cui Putin stava per inaugurare un concerto. Il presidente aveva appena concluso la sua tradizionale conferenza di fine anno per duemila giornalisti a cui aveva dato inizio parlando di terrorismo.

Altro che cambiamento, il premier lo sceglie l’Iran

Il primo ministro libanese incaricato, Hassan Diab, inizierà oggi le consultazioni per provare a formare il nuovo governo mentre in molte città del Paese dei Cedri continuano le proteste contro l’intera classe politica accusata di corruzione e di incapacità nel gestire la cosa pubblica.

Pur chiedendo un governo composto da tecnici, i manifestanti hanno rigettato la scelta del docente universitario di Ingegneria informatica, presso l’Università americana di Beirut, non solo perché lo ritengono il candidato di Hezbollah travestito da indipendente, ma anche per il suo passato impegno in politica.

Secondo la piazza, Diab fa parte della vecchia guardia avendo ricoperto anche la carica di ministro dell’Educazione e avendo fatto parte dell’Azm Movement. Il sessantenne Diab è stato votato dai rappresentanti del partito armato Hezbollah – longa manus dell’Iran nel Mediterraneo – e dai suoi alleati tra cui il partito Amal (la formazione sciita nata ben prima di Hezbollah) e dal Partito libero Patriottico guidato dal ministro degli Esteri Gebran Bassil, genero del cristiano Michel Aoun, attuale presidente della Repubblica.

L’ex generale, nonché fondatore di questo partito cristiano maronita di centrodestra, nel 2016 venne eletto alla presidenza della Repubblica confessionale libanese proprio grazie al patto di alleanza con il potentissimo Hezbollah (vincitore delle scorse elezioni e il cui esercito paramilitare è ben più forte ed equipaggiato di quello nazionale) che i manifestanti contestano duramente perché fa gli interessi politici-economici del regime teocratico iraniano anzichè della impoverita cittadinanza libanese tout court. Il Paese, dove lunedì arriva Di Maio per il saluto al contingente italiano dispiegato proprio nel sud dove Hezbollah è più influente, è rimasto senza un governo funzionante dalla fine di ottobre, quando l’ex primo ministro sunnita Saad Hariri si è dimesso di fronte alle proteste che stavano andando avanti già da due settimane. Le sue dimissioni non sono però bastate a placare la frustrazione interconfessionale esplosa dopo l’imposizione di una nuova tassa, questa volta sulla messaggistica whatsapp. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della rabbia provocata dal deterioramento dei servizi pubblici a fronte del carovita, dell’aumento dell’inflazione e della devastante disoccupazione.

Le enormi sfide che Diab dovrà affrontare, se reggerà al niet della folla, sono enormi. Il Libano sta affrontando una delle sue più gravi crisi finanziarie e politiche dalla fine della guerra civile (1975-1990), con l’economia paralizzata, il deprezzamento della valuta e gli investitori stranieri sempre più preoccupati che il governo non sarà in grado di restituire gli interessi sul debito del 2020.

“Tutti i nostri sforzi devono essere orientati a prevenire un collasso, ripristinare la fiducia e proteggere l’unità nazionale”, ha detto Diab. “Terrò colloqui con ex primi ministri e tutti i blocchi parlamentari, nonché con forze politiche, partiti e movimenti popolari”.

Il fatto che Diab sia sostenuto da Hezbollah, potrebbe tuttavia complicare gli sforzi del Paese per garantirsi gli aiuti internazionali già stanziati ma bloccati in attesa delle riforme. Un governo dominato da Hezbollah molto difficilmente verrà sostenuto soprattutto dagli Usa, dagli Stati del Golfo arabo e dall’Unione europea visto che hanno inserito il partito armato sciita nella lista delle organizzazioni terroristiche. E l’Iran in questo momento è troppo debole per fare pressioni sui propri amici “non ufficiali” tra gli stati membri dell’Unione. Contro la nuova squadra di governo, a Beirut i manifestanti sono scesi ancora in piazza ieri. Testimoni riferiscono di scontri tra manifestanti e militari, il cui bilancio in serata era di almeno sei feriti tra soldati e dimostranti. Intanto Human Rights Watch ha chiesto che l’indagine condotta dal ministero degli Interni libanese sull’uso eccessivo della forza contro i manifestanti il 14 e 15 dicembre scorsi a Beirut sia “trasparente”.

Mormoni, grosso guaio col fisco

Ogni Chiesa ha il suo Ior. E i suoi guai, tra giudici e finanza. Dalla vendita delle indulgenze in poi, l’elenco è infinito. Ma, ogni volta, la notizia d’una truffa in una Chiesa suscita un brusio incredulo. Più forte, se lo scandalo riguarda i mormoni, i cristiani poligami, quelli che sconfissero le cavallette e crearono una città lussureggiante, Salt Lake City, il loro Vaticano, in una valle arida e brulla; quelli che ci mandano giovanotti in camicia bianca e maniche corte a fare apostolato in bicicletta nelle nostre città.

Ai primi di novembre, la notizia che una decina di mormoni statunitensi, tra cui quattro bambini e due gemelli di sei mesi e le loro madri, erano caduti in una imboscata dei narcotrafficanti in Messico ed erano stati uccisi a colpi d’arma da fuoco e poi bruciati dentro la loro vettura aveva suscitato sdegno ed emozione in tutto il mondo. Il massacro avvenne a Rancho de la Mora, tra gli Stati di Chihuahua e di Sonora, vicino al confine con gli Stati Uniti, in una zona infestata da trafficanti e banditi.

La storia la propone anche il Washington Post. David A. Nielsen, ex gestore degli investimenti della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, ha denunciato una truffa da 100 miliardi di dollari. Nielsen ha raccontato all’Internal Revenue Service (l’Irs), l’agenzia governativa Usa che riscuote tasse e tributi, che i dirigenti della chiesa accumulavano le donazioni invece di utilizzarle per opere di beneficenza. E che, in particolare, avrebbero finanziato con quel denaro due business privati. Nielsen, mormone di 41 anni, ha lavorato fino a settembre come manager presso la Ensign Peak Advisors, la divisione investimenti della Chiesa, i cui proventi sono esentasse se utilizzati esclusivamente per scopi religiosi, educativi o assistenziali, senza fini di lucro: una condizione che, secondo Nielsen, l’azienda non ha mai soddisfatto. Né la Ensign Peak Advisory né la Chiesa hanno finora reagito: “Non forniamo informazioni su transazioni specifiche o decisioni finanziarie”, spiega il portavoce Eric Hawkins. Ai mormoni viene chiesto di versare ogni anno alla Chiesa il 10% dei loro guadagni, una pratica antica conosciuta come decima. L’organizzazione religiosa raccoglie così circa 7 miliardi di dollari l’anno. I mormoni nel mondo sono oltre 15 milioni, oltre la metà in America (e quasi la metà di questi nello Utah, il loro Stato, lungo le Montagne Rocciose), e i fedeli continuano a crescere grazie all’azione di proselitismo compiuta da decine di migliaia di missionari in tutto il pianeta. In Italia, sono circa 26 mila: il primo tempio è stato inaugurato a Roma, a gennaio.

La loro dottrina si fonda sul Libro di Mormon, versione rivista e corretta della Bibbia che il loro sedicente profeta Joseph Smith sosteneva gli fosse stato rivelato, intorno al 1830. Perseguitati, mossero verso Ovest sotto la guida di Brigham Young, lungo il Mormon Trail, che oggi è divenuto monumento nazionale, e s’installarono nella terra più inospitale che trovarono, che Young pensava, a ragione, nessuno avrebbe loro contestato. I mormoni si definiscono cristiani, ma cattolici e protestanti giudicano la loro una “falsa religione”, perché rifiutano dogmi come la trinità, reinterpretano i sacramenti, permettono talora la poligamia. Sono convinti che il Cristo risorto visitò i nativi americani. E che ogni fedele possa salvare tutti i suoi antenati, per cui conservano in rifugi a prova di atomica le loro genealogie. I loro leader spirituali sono laici e vigilano su un codice di condotta rigido, che fa dei mormoni fedeli molto disciplinati e con uno stile di vita molto sobrio: non bevono, non fumano e hanno sacra la famiglia. Anche per questo, la denuncia della truffa suscita sorpresa e desta scalpore.

Da sempre, i mormoni suscitano curiosità e interesse. Conan Doyle ci costruì intorno la trama d’uno dei suoi racconti, Uno studio in rosso, un’avventura di Sherlock Holmes ambientata nel 1881. Molti i mormoni fra le personalità del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo: il più famoso è il senatore repubblicano Mitt Romney, l’organizzatore nel 2002 delle Olimpiadi invernali di Salt Lake City, candidato 2012 alla Casa Bianca. Mormoni pure la scrittrice Brenda Novak e Stephanie Meyer, l’autrice della saga Twilight. Quest’anno, rispetto al passato, i mormoni hanno aperto a gay e lesbiche, decidendo che il matrimonio omosessuale non sia più considerato motivo di espulsione e che le coppie di mormoni appartenenti alla comunità Lgbt possano battezzare i loro figli, pur confermando l’opposizione dottrinale alle nozze gay e ai rapporti tra persone dello stesso sesso, definiti una “grave trasgressione”.

Lo chef: “Confermo, la cucina non è un luogo per donne”

Chef Vissani, parliamo di quello che ha detto sulle donne che non possono stare in cucina: in molti si sono sentiti offesi.

Perché sono tutti dei pirla.

Non chiede scusa, quindi.

Neanche per idea. Abbia pazienza, di cosa dovrei chiedere scusa, poi? Mi dica le parole esatte delle quali dovrei scusarmi.

Testuali: ‘Le donne non ce la fanno fisicamente in cucina. Da me stanno in pasticceria’. E ancora: ‘Io sono 50 anni che sto dentro le cucine e non capisco ancora le donne dove sono’.

Leonardo da Vinci, che era gay, diceva sempre che una donna non può stare in pasticceria perché non ce la fa a sollevare una forma di marzapane. La verità è che ho citato Leonardo, altroché.

Ma è cucina o sollevamento dei pesi?

Le donne sono bravissime, creative, sanno mettere bene un piatto, renderlo bello. Ma le donne non sono Superman.

Se fossero Superman, cosa farebbero?

Guardi, mia sorella ha 50 anni e sta in pasticceria. Mi dice sempre: ma lo sanno questi cosa vuol dire sollevare un sacchetto di farina 23 chili?

Va bene, ci vogliono spalle grosse, virili.

Pensi che prima la misura standard dei sacchi di farina per cucine professionali era da 50 chili. Non abbiamo i facchini, dobbiamo fare da soli. E le donne non ce la fanno. Da me ho il 50 per cento di personale composto da ragazze e ne sono molto felice. Ma non ce la fanno. Perché la cucina è tosta.

Le chef che le hanno risposto dicono che ce la fanno. Per prenderla in giro, hanno fatto un calendario riprendendosi mentre sollevano pentolini e pentoloni.

Se prendiamo una casseruola di alluminio, per carità. Ma se parliamo della “piatta” col doppiofondo d’acciaio, buona fortuna. Nella mia cucina dico sempre ai miei: date una mano alle ragazze.

Politically correct…

La cucina professionale non è un gioco. La ragazza si stanca e produce meno e se ne va.

Insiste?

Un conto è la cucina di casa. Un conto è il lavoro duro.

Ma come spiega il successo anche internazionale di grandi chef donne? Penso alla Bowerman.

E chi è la Bauer?

La Bowerman, chef con una stella. Proprio come lei, visto che una l’ha persa.

Non ho mai saputo che fosse affermata…

Ok, si è distratto.

Ma le concedo che ci sono grandi chef donne. Penso a Nadia Santini del Pescatore di Canneto sull’Oglio o a Pina Beglia dei Balzi Rossi…

E come se lo spiega?

Parli con gli anziani del mestiere. Sono tutti con me. Quando eravamo ragazzini, a stare vicino ai fornelli ci venivano le vene varicose per il calore. Negli anni 60, quando si aprivano i forni sotto la cucina, si stava tutti in difficoltà e le donne avevano problemi alle ovaie. E infatti stavano lontane dai forni.

Alle ovaie? Comunque, c’è la tecnologia ora.

Oggi mica è diverso. Nei ristoranti grossi chi lava le casseruole? Le donne? O gli uomini, anzi gli extracomunitari?

Ho paura della risposta.

E fa bene. Gli extracomunitari. Maschi. Io ne ho avute venti di donne in cucina. Fanno un mese, due mesi, poi se ne vanno. Perché è pesante. Ripeto: non parlo di capacità. Ma un conto è fare un piatto e metterlo fuori decorato, impiattarlo, magari con il bisturi o i fiori di campo. Un conto è stare lì a caricare pesi dalla mattina alla sera. Non dovete guardare i grandi ristoranti, dove in brigata ci sono 20-30 persone. Guardate quelli da quattro, cinque: il decoratore non sposta i sacchi di farina.

Le donne decoratrici?

Le donne sono la colonna portante della società, anzi, della vita. E poi guardi, mi si può dire di tutto, tranne che non mi piacciano le donne.

Che c’entra? Questo è sessismo.

Perché? Non ho detto nulla contro di loro. Mi sono solo chiesto quante volte in una giornata possano tirare fuori una casseruola bollente. Per farlo ci vogliono due uomini, belli grossi. E mi creda, non ce la fanno manco loro. Le donne sono sensibili, hanno una mano delicata. E dunque confermo: la pasticceria è un luogo più adatto a loro della cucina.

Veramente Leonardo diceva che nemmeno in pasticceria…

Sicuramente è un luogo più adatto della cucina.

A proposito di Leonardo, prima ha sottolineato che era gay. Perdoni, ma che dice dei gay in cucina?

Con uomini omosessuali io ci ho lavorato. Sono molto bravi e puliti.

Puliti? Uomini omosessuali?

Sì certo, puliti. Io ho lavorato con omosessuali e mi hanno colpito: sono di una pulizia che fa paura. Un uomo che vive da solo non è ordinato e preciso. Io, per esempio. Un omosessuale o una donna in cucina sono più puliti.

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