Amatrice, un Centro culturale con i fondi dei lettori del “Fatto”

Dopo tre anni, ieri, finalmente è stata posata la prima pietra del nuovo Centro Polifunzionale di Amatrice che i lettori del Fatto Quotidiano hanno contribuito a finanziare insieme alla Croce Rossa, all’associazione fondata da Raoul Bova, Io ci sono, a Poste italiane, alla Fondazione Alberto Sordi e all’associazione amatriciana, Mille idee per ricominciare.

La cerimonia si è svolta in un clima diviso tra la soddisfazione e la commozione per quanto la città ha vissuto e sta ancora vivendo.

Il centro storico, infatti, è ancora chiuso, il vecchio campanile dondola ripiegato su se stesso e la cittadina osserva le ruspe e le gru circondate dalle montagne innevate senza ancora costruzioni da esibire. Tutto è fermo, la popolazione vive dispersa tra le poche casette emergenziali e le risorse private di ognuno. Il “centro” è composto dai container della Protezione civile, da alcune prime ricostruzioni realizzate dalle donazioni private che hanno messo in mostra una catena di solidarietà arrivata da tutta Italia.

Il 24 agosto del 2016 la notizia del terremoto seccò la gola a tutti noi. Oltre 300 morti, l’appello accorato dell’allora sindaco Sergio Pirozzi – “Amatrice non esiste più” – e una solidarietà diffusa come non si vedeva da tempo. Anche tra i lettori del Fatto scattò una reazione generosa e in poco meno di una settimana raccogliemmo 225mila euro da destinare ad Amatrice. Dopo averne discusso con il sindaco, incontrammo gli attivisti dell’associazione Io ci sono che avevano realizzato un primo progetto per la costruzione di un Centro Polifunzionale. Raoul Bova aveva organizzato una partita di calcio a Rieti con la Nazionale Cantanti per raccogliere la somma. Poi arrivò la Croce Rossa che stava allestendo un progetto di dimensioni più ampie: una superficie di oltre 1.000 metri quadri con cavea esterna per spettacoli all’aperto, un foyer, una sala cinema/teatro da 220 posti, un caffè letterario e un presidio della Croce Rossa.

L’idea di far parte dei mega-progetti della Cri un po’ ci spaventava. Avevamo raccontato su questo giornale le vicende non proprio esaltanti dell’ex ente pubblico. Ma dopo gli scandali e la crisi degli scorsi anni, la Croce Rossa ha aperto una nuova pagina e oltre alla ricca attività istituzionale – è un ente di diritto privato ma di interesse pubblico con una convenzione con il Mef di circa 60 milioni – ha ormai avviato una notevole attività di sostegno alle ricostruzioni nelle aree post-sisma, con fondi gestiti in piena trasparenza, quasi come un general contractor, come nel caso di Amatrice. Sostituendosi all’intervento pubblico in senso stretto.

E il pubblico in questa vicenda è il principale imputato. La ricostruzione non è mai cominciata e quel poco che si vede è opera dei privati. Come i soggetti che si sono riuniti ieri. Secondo i dati dell’Osservatorio Sisma – realizzato da Legambiente e Fillea-Cgil – a luglio 2019, su oltre 8 mila edifici crollati nel Lazio, solo il 10% ha visto una domanda di ricostruzione. Segno di una totale sfiducia che l’intervento statale possa servire. Dopo tre anni solo le macerie sono state rimosse, e non del tutto.

Pirozzi se la prende con l’attuale maggioranza di governo rea di non aver approvato nel recente decreto Sisma gli emendamenti proposti all’unanimità dalla Regione Lazio. Si trattava di misure che per i Comuni con il 50% piu uno di edifici crollati avrebbero consentito più agili cambiamenti di destinazione d’uso degli edifici distrutti, procedure semplificate in materia antisismica, poteri straordinari per il commissario, come quelli conferiti a Genova dopo il crollo del Ponte e altre misure di questo genere. Un approccio orientato a meno vincoli e a maggiori deroghe che non ha trovato appoggio nella maggioranza parlamentare convinta che il decreto approvato contenga già buoni strumenti per andare avanti. Ma la necessità di procedere seriamente alla ricostruzione al momento resta intatta.

Resta la soddisfazione che si respirava ieri, anche per aver iniziato a “uscire dalla delusione e dal dolore” come ha detto Raoul Bova. Dopo tre anni di strettoie burocratiche e di qualche malfunzionamento iniziale della stessa Cri, poi recuperato, le parole degli intervenuti, dal sindaco di Amatrice, Antonio Fontanella, al presidente della Croce Rossa, Francesco Rocca, allo stesso Pirozzi, hanno voluto mettere da parte la retorica della “prima pietra” confidando che entro l’estate sarà posta l’ultima. Probabilmente in tempo per inaugurare il Centro Polifunzionale in occasione del quarto anniversario del terremoto. E sperando che intorno a esso ci siano più case, negozi, spazi pubblici, almeno una parvenza di vita comune. Amatrice ne ha bisogno.

Dal Veneto a Pop Bari, le fusioni “obbligate” inguaiano Palazzo Koch

La situazione in cui si trova il governatore Ignazio Visco è talmente precaria che perfino il Pd si è rassegnato a criticare l’operato della Banca d’Italia. Dopo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (“serve una verifica sulla vigilanza”), ieri è toccato al vicesegretario dem Andrea Orlando. “La Banca d’Italia è sia un giocatore che un arbitro – ha detto alla Reuters – Una funzione che va separata”.

Visco è alle corde perché il disastro della Popolare di Bari ripete il copione già visto nel crac delle due popolari venete, Pop Vicenza e Veneto Banca. Il modus operandi (e perfino le date) sono sovrapponibili e i risultati ugualmente disastrosi. Al netto della mala gestio, a compromettere la Popolare di Bari è stato lo sciagurato acquisto della disastrata Tercas, vivamente caldeggiato, in pratica ordinato dalla Banca d’Italia. La richiesta arriva nell’autunno 2013, mentre gli ispettori di Via Nazionale sono a Bari. L’esame si chiuderà con un responso “parzialmente sfavorevole”. Il 17 ottobre, il presidente Marco Jacobini presiede il Cda “convocato per fornire tutte le informazioni necessarie ad assumere le determinazioni sull’invito della Banca d’Italia a esaminare la sussistenza di condizioni favorevoli e verificare i profili operativi di un eventuale intervento di salvataggio di Tercas”. Il dg Vincenzo De Bustis, osserva che “è un riconoscimento della credibilità e della fiducia che la vigilanza ci accredita”, anche se avvisa che Tercas è malmessa. Nessun accenno al fatto che la Vigilanza, dal 2010 ha vietato a Bari le acquisizioni. Una settimana dopo il capo della vigilanza Carmelo Barbagallo vola a Bari per leggere al cda i risultati negativi dell’ispezione. Il giorno stesso la Popolare invia a Tercas una lettera per aprire le trattative. A giugno 2014 Bankitalia toglie il divieto e a luglio l’acquisizione si chiude. Pop Bari non si riprenderà più, nonostante un pesante aumento di capitale con azioni e obbligazioni piazzate a ignari clienti.

Gli uomini di Visco lavoravano sempre così. Qualche giorno dopo aver “convinto” Bari a prendersi Tercas, Bankitalia apre il dossier veneto. Il 6 novembre Barbagallo vola a Montebelluna (Tv) e nella sede di Veneto Banca legge gli esiti negativi di un’ispezione durata mesi. L’allora ad Vincenzo Consoli ha spiegato ai pm che Barbagallo gli ordinò, per conto di Visco, di fondersi con un istituto più solido (di “elevato standing”). Il giorno prima Visco aveva denunciato Consoli in procura. La prescelta per il matrimonio è la Popolare di Vicenza presieduta da Gianni Zonin, banchiere assai caro alla vigilanza ma alla guida di un istituto messo decisamente peggio. Nel febbraio 2015, subentrata a Bankitalia, la vigilanza della Bce troverà 1 miliardo di capitale autofinanziato con prestiti ai clienti. Secondo Bankitalia un fenomeno di questa portata era stato nascosto alla vigilanza, che pure ispezionò la Popolare di Zonin nel 2012: un’ispezione mirata al credito, dove in circa 3 mesi vengono passate al setaccio 367 pratiche di fido, per un valore di 3,8 miliardi. Secondo i consulenti della procura in quel periodo le “baciate” ammontano già a 280 milioni, a fine 2012 supereranno il mezzo miliardo. Nello stesso periodo gli ispettori sono in Veneto Banca, e sostengono di aver trovato operazioni baciate per oltre 150 milioni.

Perché dunque invitare la prima a consegnarsi alla seconda? Secondo Consoli, il pressing è stato tale che il 27 dicembre 2013 è costretto a fiondarsi nella tenuta di Zonin ad Aquileia, dove il banchiere viticoltore gli dice che la fusione si fa alle sue condizioni e che ha Visco dalla sua parte. In audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche il governatore e Barbagallo hanno sempre smentito di aver indicato loro l’operazione. Ieri il sito Vicenza più ha pubblicato la registrazione di un incontro tenutosi a febbraio 2014 nella sede di Bankitalia a Roma tra Barbagallo, Zonin e il presidente di Veneto Banca Flavio Trinca. La trascrizione dell’audio riporta Trinca che si lamenta delle pretese di Zonin. A un certo, Barbagallo prova a rassicurarlo sul fatto che chi comanda si deciderà in un secondo tempo. Gli ricorda però che la cosa si deve decidere prima del 4 novembre 2014, perchè poi la vigilanza passerà alla Bce (“non saremo più noi a decidere…”). Un mese dopo Consoli incontra i vertici di Banca Etruria in casa del ministro Maria Elena Boschi per discutere di una difesa comune dalle prepotenze della vigilanza, che ha chiesto anche ad Arezzo (dove siede il padre della Boschi) di consegnarsi a Zonin. Consoli sarà arrestato nel 2016 per le accuse di Bankitalia di tre anni prima. Se la fusione fosse andata in porto il botto delle due venete forse sarebbe stato ancora più fragoroso. Come è successo a Bari con Tercas.

Blitz di Visco sulle nomine. Franco direttore generale

Se mai la maggioranza giallorosa aprirà le ostilità verso la Banca d’Italia non sarà sulle nomine ai vertici dell’istituto. È durato infatti meno di cinque giorni il presunto stallo sulla scelta del direttore generale di Palazzo Koch. Al posto di Fabio Panetta, destinato al board della Bce (dove è uscito Mario Draghi) ieri, su indicazione del governatore Ignazio Visco, il consiglio superiore ha promosso Daniele Franco, ex Ragioniere generale dello Stato recentemente rientrato a via Nazionale.

All’apparenza è un blitz, visto che la nomina sembrava destinata a slittare dopo le minacce fatte trapelare dai 5Stelle all’indomani dello scoppio del bubbone Popolare di Bari con il commissariamento e il decreto approvato dal governo per salvare l’istituto con un iniezione di 900 milioni di fondi pubblici. La critica all’operato della vigilanza sembra potersi scaricare contro Franco, peraltro già finito nel mirino dei pentastellati nell’autunno 2018: all’epoca lo scontro fu sulle coperture della prima (e ultima) manovra del governo gialloverde. A febbraio scorso, la stessa ostilità (avallata dalla Lega) verso l’operato di Bankitalia, innescò un effetto domino dopo le dimissioni del direttore generale di Palazzo Koch, Salvatore Rossi. Visco e soci indicarono come sostituto Panetta e come vice Franco e la manager Alessandra Perrazzelli ma vennero fermati per oltre due mesi. La nomina infatti avviene non decreto del presidente della Repubblica, promosso dal premier di concerto con il ministro dell’Economia e sentito il Consiglio dei ministri. Ed è in quest’ultima sede che si fermò il procedimento.

Stavolta Visco è uscito dallo stallo in tempi lampo, aiutato anche da uno scenario assai diverso. Per prima cosa Franco non è un nome con un passato recente di peso a Via Nazionale. È inviso ai renziani ma ben considerato dal Pd e pure dall’ala più istituzionale della Lega. Ieri, per dire, il governatore veneto Luca Zaia ha elogiato la scelta del burocrate bellunese. Il governatore, peraltro, ha deciso di promuovere nel direttorio come vice dg Piero Cipollone, fino a due mesi fa consigliere economico del premier Giuseppe Conte, principale interlocutore di quel “partito del Colle da sempre in difesa della sacra inviolabilità dell’indipendenza della Banca d’Italia. L’assenso di Palazzo Chigi ha coperto i malumori dei 5Stelle, che ieri non hanno commentato la scelta.

La partita sembra rinviata alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, che però stenta a decollare. Il presidente sarà scelto a gennaio (dopo il passo indietro di Elio Lannutti, in pole position ci sono i 5Stelle Carla Ruocco, Alvise Maniero e Raphael Raduzzi). Salvo sorprese Visco incasserà il via libera. La sua posizione resta però precaria. Dopo visto che anche il Pd ora chiede una verifica sull’operato della vigilanza. Tanto più che la voragine della Popolare di Bari sarà ben superiore al miliardo ipotizzato in un primo momento.

France Telecom condannata per i suicidi

“France Telecom ha distrutto la sua vita e non gli ha lasciato scampo”: Noémie Louvradoux è la figlia di Remy, uno dei 19 dipendenti che si sono suicidati tra il 2008 ed il 2009, dopo che l’azienda (diventata Orange nel 2013) ha iniziato a ridurre il personale “a oltranza” per arrivare all’uscita di 22mila persone e alla mobilità di 10mila su un totale di 120mila. In tre anni.

Ieri si è chiusoil processo e i giudici hanno stabilito che in quegli anni ci sono effettivamente state “vessazioni morali” e mobbing istituzionalizzato. A pagare, l’ex ad Didier Lombard, il numero due Louis-Pierre Wenès e il direttore delle risorse umane Olivier Barberot, condannati a 1 anno di carcere di cui otto mesi con la condizionale e 15mila euro di multa. L’azienda dovrà invece pagarne 75mila. Remy Louvradoux si è ucciso a 57 anni, pochi giorni prima che la figlia ne compisse 18. In azienda, hanno spiegato gli avvocati, Louvradoux aveva raggiunto incarichi di livello, nel 2006 gli furono tolti e fu trasferito almeno quattro volte in tre anni. In una lettera ai suoi capi aveva scritto “il suicidio è l’unica soluzione”. Lettera che Lombard sostiene non aver mai visto.

“Gli strumenti per raggiungere le 22mila uscite erano vietati”, ha detto il tribunale, parlando di riduzione del personale “a marce forzate”. La volontarietà delle uscite sostenuta dagli imputati non sussiste. I tre dirigenti avrebbero fatto “pressione sui quadri”, che “si è ripercossa” sui lavoratori. C’era “un piano concertato per peggiorare le condizioni di lavoro dei dipendenti, per accelerare le loro uscite”, politica che “ha creato un clima ansiogeno” tra il 2007 e il 2008. Gli imputati (che hanno annunciato ricorso) sono stati invece prosciolti per il periodo post-2008. I giudici hanno condannato anche la società al pagamento di una multa di 75mila euro, che non ricorrerà. Da ottobre sta valutando gli indennizzi per i familiari.

I casi di cui si tiene conto riguardano 39 dipendenti, 19 dei quali si sono tolti la vita, 12 hanno tentato e 8 hanno sofferto di depressione. Molti, tra cui uno che si è lanciato dalla finestra di fronte ai colleghi, lasciarono lettere in cui dicevano che la compagnia aveva reso le loro vite impossibili. Un tecnico di 51 anni di Marsiglia accusò i capi di “management del terrore”. La vedova di un altro, Michel Bugead, ha testimoniato che il marito scrisse alla direzione: “Era molto attaccato alla società che gli aveva permesso di salire nella scala sociale”.

E ancora, ci sono le testimonianze dei dipendenti che anche ora accusano l’azienda di mobbing. Daniel Doublet racconta che non gli venivano dati più incarichi. Trasferito a Besancon da Parigi doveva aveva la famiglia, ha spiegato che nella nuova sede non gli era stato affidato nessun incarico: “Mi sentivo come fossi un nulla, un parassita”. Lombard – che nel 2010 fu costretto alle dimissioni – ha negato di aver detto, nel 2006, che avrebbe spinto la gente ad andarsene, o dalla porta o dalla finestra. “Le trasformazioni che un’azienda deve affrontare non sono piacevoli – ha detto – ma questo è quello che è, non c’è nulla che avrei potuto fare”.

Mittal-governo: prove di intesa ma con gli esuberi

Un’intesa dell’ultimo minuto tra l’Arcelor Mittal e i commissari dell’ex Ilva consente di guadagnare tempo, e l’acciaieria di Taranto torna all’anno zero. Perché su quei fogli è messa nero su bianco la volontà di entrambi di rifare insieme – entro il 31 gennaio 2020 – sia il piano industriale sia quello ambientale. Con il rischio di esuberi che, malgrado le rassicurazioni, appare sempre più concreto. Decarbonizzazione e intervento pubblico per gli investimenti “green” sono le due parole chiave contenute tra impegni ancora vaghi. Ma soprattutto, è scritto chiaramente che poi bisognerà tornare al tavolo con i sindacati. Insomma, ora è certo: l’accordo che a settembre 2018 aveva evitato licenziamenti (esclusi quelli volontari) rischia una pesante revisione.

Dopo la nottedi trattative, ieri mattina sono state messe le firme sul memorandum. Poche ore dopo (sempre in mattinata) era fissato l’appuntamento davanti al Tribunale di Milano per il ricorso cautelare con il quale i commissari si sono opposti alla scelta di Arcelor Mittal di recedere dal contratto. Visto il patto raggiunto, l’azienda e gli stessi commissari hanno chiesto ai giudici di rimandare l’audizione, che ora si terrà il 7 febbraio. Entro quel giorno si spera di arrivare a un accordo definitivo. Tra l’altro, la situazione risulterà più nitida il 30 dicembre, dopo l’udienza del Riesame che deciderà sul ricorso contro la chiusura dell’altoforno 2, decisa dal Tribunale di Taranto.

La pre-intesa di ieri parte dall’obiettivo di produrre otto milioni di tonnellate all’anno dal 2023. Da raggiungere con l’utilizzo di due altiforni e con i forni elettrici, molto meno inquinanti, da alimentare a gas col in “preridotto”. La mano pubblica dovrà svolgere un ruolo nell’ottica del risanamento: entrerà nel capitale di Arcelor Mittal italia e sarà creata una nuova società che si occuperà di colare acciaio senza bruciare carbone. Quanto ai posti di lavoro, “al fine di mantenere l’attuale livello occupazionale – recita il documento – tutte le parti che hanno firmato l’accordo sindacale di settembre 2018 devono raggiungere un nuovo accordo”.

L’impegno a non ridurre i posti è stato ripetuto in giornata da esponenti del governo. “I pilastri – ha detto il ministro del Sud Giuseppe Provenzano – sono il pieno impiego della forza lavoro, un livello di produzione alta che consenta la sostenibilità economica della tutela occupazionale, l’innovazione nella produzione e gli investimenti per l’ambientalizzazione”. “L’accordo – ha spiegato il titolare dell’Economia Roberto Gualtieri – prevede la partecipazione dello Stato nel capitale a fronte di un rilancio di Taranto con tecnologie innovative a minore impatto ambientale e la tutela dei livelli occupazionali”. Dietro queste rassicurazioni, però, c’è in realtà la consapevolezza che gli esuberi saranno inevitabili. Nel decreto che l’esecutivo sta preparando, con lo scopo di approvarlo nei primi giorni di gennaio, saranno infatti previste misure a favore degli operai che rischiano di perdere il lavoro. Si sta pensando a incentivi a favore dei lavoratori che decideranno di andar via e delle imprese che vorranno assumerli.

Sulla base di questa consapevolezza, l’intesa raggiunta ieri mattina non piace affatto ai sindacati dei metalmeccanici. I punti critici sono diversi. Il primo, appunto, è la necessità di dover ridiscutere l’accordo di settembre 2018, che aveva previsto l’assunzione immediata di 10.700 persone e l’assorbimento di tutto il resto entro il 2025 (al netto di chi accettava il premio per dimettersi). Mittal aveva chiesto 5mila esuberi. Il governo potrebbe dare l’ok a meno della metà. Quasi certamente il nuovo piano industriale potrà salvaguardare tutta l’occupazione. “Prendono atto che l’altoforno 2 chiuderà – ha tuonato Rocco Palombella – e non capiamo come pensano di gestire la transizione con meno di tre milioni di acciaio prodotto. Se non c’è neanche l’impegno a portare a Taranto l’acciaio di altri stabilimenti per lavorarlo, allora ci saranno migliaia di persone in cassa integrazione”. Il problema sta pure nel metodo: “La Fiom – ha avvertito il segretario Gianni Venturi – non è disponibile a un negoziato dagli esiti già predefiniti”. “Per noi resta confermato il rifiuto di un piano industriale che contenga esuberi – ha aggiunto il leader della Fim Cisl Marco Bentivogli – Quelle di oggi ci sembrano solo linee guida molto simili al piano industriale già presentato dal ministro Patuanelli nell’ultimo incontro e su cui abbiamo dato un giudizio negativo”.

Vittime (o carnefici) di selfie: buon dito medio a tutti

Chi l’avrebbe mai detto, il dito medio è il campione di Natale. Quando si alza lui da solo non ce n’è più per nessuno, né per il pollice (Tutto ok? incrociamo le dita), né per indice e medio in segno di vittoria (facciamo gli scongiuri). L’indice levato per chiedere la parola è andato in pensione, se non interrompi urlando il compagno di talk show non ti si fila nessuno. Non parliamo poi delle corna, mignolo e indice levati sulla testa del vicino nella foto ricordo: roba da macero berlusconiano, come le cravatte a pallini blu e le poesie di Sandro Bondi.

La parabola della foto di Erika Labbe, la diffusione virale, la gogna mediatica dei nemici di Salvini, il bullismo (mediatico) e le spedizioni punitive (mediatiche) degli amici di Salvini, l’incauta 19enne costretta a chiudere i social; tutto ciò è un’eccellente metafora di un Paese sull’orlo di una crisi di nervi (ovviamente mediatica).

Viene voglia di difendere l’ignaro senatore, ma un po’ se l’è cercata. Saranno i mojito, sarà la Nutella, sarà la pizza con la salciccia, sta di fatto che ha l’abbiocco facile. È la seconda volta che si fa beccare tra le braccia di Morfeo, dopo lo scatto stile Sansone e Dalila scattato da Elisa Isoardi après l’amour. Ora da Aznavour siamo passati a Cattelan, ma l’esercito del selfie che è diventata l’Italia è in agguato, oscurare gli obiettivi è più difficile di chiudere i porti. In questo triste duello prenatalizio non ha vinto Erika, ma nemmeno Matteo. Ha vinto il dito medio.

La Repubblica degli Agnelli è una monarchia

“Uso la definizione ‘struttura d’opinione’ perché credo sia quella più adatta a spiegare che cosa fu questo gruppo, al tempo stesso giornalistico, politico, culturale, editoriale”.

(dall’articolo “Due parole su di noi” di Eugenio Scalfari, nel libro fotografico sui 25 anni del settimanale L’Espresso – Roma, 1981 – pag. 14)

 

Mentre il comitato di redazione del quotidiano Repubblica continua a “prendere atto” – come sta facendo ormai da tre anni a questa parte, e cioè dall’epoca della maxi-fusione con le testate della Fiat – che il giornale fondato da Eugenio Scalfari ha cambiato definitivamente padrone, rischiando di cambiare anche anima e pelle, la nuova proprietà procede come un bulldozer a un avvicendamento al vertice dell’azienda. Liquida dopo meno di due anni l’amministratore delegato, Laura Cioli, con una buonuscita di 1,8 milioni di euro che s’aggiunge a quella di 3,7 percepita dopo dieci mesi di lavoro al gruppo Rcs-Corriere della Sera, per nominare direttore generale Maurizio Scanavino, manager di fiducia di John Elkann. E così il Cdr di Repubblica, come si legge in un suo comunicato, “non può sottrarsi al dovere di sottolineare che i risultati raggiunti dal management del gruppo Gedi sono stati possibili in larga misura grazie al sacrificio economico e professionale dei lavoratori dipendenti (giornalisti e poligrafici) dell’azienda, che in questi anni hanno concordato con enorme senso di responsabilità ripetuti interventi di riduzione dei costi del lavoro e di riorganizzazione delle redazioni”.

Prima di tutto, allora, bisogna esprimere solidarietà ai giornalisti e ai poligrafici dell’azienda che hanno dovuto subire gli effetti delle scelte manageriali. E per chi ha lavorato 40 anni in quel giornale e in quel gruppo, questo sentimento s’accompagna a una sincera e profonda amarezza. L’epilogo dimostra che l’operazione Stampubblica è stata in realtà una vendita differita, un passaggio di proprietà a scadenza, dalla famiglia De Benedetti alla famiglia Agnelli. Uno sfregio alla storia del Gruppo editoriale L’Espresso, passato da un “editore puro” com’era Carlo Caracciolo a un editore che più impuro non si può qual è la più grande industria privata italiana.

A questo punto, però, occorre chiedersi perché Elkann – il nipotino dell’“avvocato di panna montata” come Scalfari ribattezzò Gianni Agnelli – abbia deciso di acquisire la quota detenuta dai figli di De Benedetti, pagandola a un prezzo quasi due volte superiore a quello di mercato (0,46 euro contro una quotazione di 0,28, con un “premio” del 64%). Tanto più che nel frattempo la Fiat è finita di fatto sotto il controllo della Peugeot, per cui la Casa Reale torinese ricaverà attraverso il concambio delle azioni un profitto di circa 1,8 miliardi di euro. Posto che oggi l’editoria non è un grande affare per nessuno, che cosa pensa di fare la famiglia Agnelli di due storiche testate come Repubblica e L’Espresso?

C’è, purtroppo, il forte rischio che vengano sottomesse agli interessi padronali, economici e finanziari. Un fatto, intanto, è certo: ciò che resta di quel gruppo non sarà più una “struttura d’opinione”, come la definì Scalfari nell’articolo citato all’inizio. O almeno, non sarà più una “struttura d’opinione” progressista, riformista, diciamo pure di sinistra. A chi verrebbe mai in mente, d’altronde, di definire La Stampa un giornale di sinistra? Basterebbe ricordare che per pubblicare gli articoli di Alberto Ronchey, ex direttore di quel quotidiano, Scalfari adottò la testatina “Diverso parere”. Più verosimilmente, Repubblica degli Agnelli è destinata a diventare una monarchia: cioè il contrario di una Repubblica.

Ormai è guerra planetaria alla natura

A Madrid è andata in scena la replica di una commedia che si ripete da Berlino nel 1995. Da allora il copione delle 25 Conferenze dell’Onu sul clima prevede sul palcoscenico una Madre Terra febbricitante, dei bravi medici-scienziati al suo capezzale e dei pater familia capi di governo restii a sborsare i denari necessari per comprare le medicine. Per decarbonizzare la Terra servirebbero molti trilioni. Uno, forse due o tre punti di Pil. Per la sola conversione degli apparati energetici, ad esempio, scrive l’Agenzia per l’energia, servirebbero 68.000 miliardi di dollari. Solo in Europa, per raggiungere la “neutralità climatica” (zero emissioni nette al 2050) servirebbero 300 miliardi all’anno. E dove li potrà mai trovare la Von der Leyen? Solo in Italia, per rispettare gli obiettivi nazionali presi con la firma dell’Accordo di Parigi, cinque anni fa, servirebbero 190 miliardi. E in quale cilindro dovrebbe trovarli Conte? Come chiedere, poi, a Cina, India e agli altri “Paesi in via di sviluppo” di rinunciare a estrarre e usare le loro risorse? Attenzione, avvertono i saggi esperti di economia, primi consiglieri dei politici: imporre alle imprese produttive tagli alle emissioni dei gas climalteranti implicherebbe una perdita di competitività. Tanto più se ciò dovesse avvenire con tasse sulle emissioni (carbon tax). Abbiamo già visto cosa è successo con i Gilet gialli in Francia e con la plastic tax da noi. Quindi, sembra non esserci alternativa tra morire soffocati o perdere redditi. A meno che non avvenga il decoupling (il miracolo della separazione tra crescita del Pil e aumento degli impatti ambientali), ovvero non si riesca a “riconciliare l’economia con il pianeta”, come recita l’European Green Deal. Un’operazione, invero, annunciata molte volte, con varie denominazioni, peccato che si sia dimostrata infruttuosa. C’è una logica nell’economia capitalistica che appare insuperabile: ogni centesimo di plusvalenza si porta dietro un pezzetto di natura, accelerando l’entropia del sistema. Volere trovare i finanziamenti necessari alla cura della crisi ecologica facendo crescere il volume del valore di scambio delle merci prodotte e vendute sui mercati significa provocare un cortocircuito. È come dire: curiamo la Terra facendola lavorare di più. La fisiologia dell’economia dei soldi è diversa da quella dell’economia della natura. I cicli economici di Kondratiev sono diversi dai cicli bio-geo-chimici che regolano e rigenerano la vita sulla Terra. Si tratterebbe solo di stabilire quali sono più importanti. In verità non c’è una differenza sostanziale tra i rozzi negazionisti della “coalizione fossile” (Stati Uniti, Arabia e Paesi arabi, Brasile, Australia) e i più raffinati governi europei che vorrebbero creare un “mercato del carbonio” mondiale (oggi una autorizzazione statale a emettere una tonnellata di CO² viene scambiata a 25 euro) così da scaricare altrove i costi della riconversione degli impianti più inquinanti. Ha scritto un commentatore su un giornale: “C’è chi ritiene che permettere a chi inquina di ‘comprare’ i diritti a farlo dai Paesi virtuosi e meno sviluppati sia in fondo una forma di neocolonialismo “ (Stefano Agnoli, “Per la svolta servono Usa e Cina”

, Corsera, 17 dicembre 2019). Ed è proprio così. È in corso una guerra planetaria non dichiarata per tenere le mani sulle risorse del pianeta, che comprendono i combustibili fossili, ma anche e sempre di più le “terre rare”, l’acqua dolce, i suoli fertili, i semi, i genomi. L’arma di distruzione di massa che stanno usando i “poteri fossili” è il clima. E come sempre a farne le spese sono i civili, le donne e i bambini più poveri. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc) nel solo 2018 gli sfollati a causa di calamità naturali sono stati 17,2 milioni. In dieci anni i profughi ambientali saranno 265,3 milioni. Secondo la rivista Nature, entro la fine del secolo, saranno 40 milioni le persone esposte alle inondazioni per l’innalzamento dei livelli dei mari.

Sul voto di scambio altro che barbarie

L’assessore piemontese Roberto Rosso, di Fratelli d’Italia, è finito ieri in manette con l’accusa di aver pagato 15 mila euro per un pacchetto di voti alle elezioni regionali 2019 in Piemonte. Nell’aprile 2015 era stato arrestato Santi Zappalà, all’epoca sindaco Pdl di Bagnara Calabra, accusato di aver comprato dalla cosca Pelle Gambazza di San Luca (Reggio Calabria) una dote di voti pagati 400 mila euro. A Milano, i voti costano di più: Domenico Zambetti, allora assessore alla casa nella giunta regionale di Roberto Formigoni, nel 2010 secondo i pm aveva pagato, agli amici calabresi insediati nell’hinterland milanese, 50 euro a voto, per portare a casa un pacchetto di 4 mila preferenze.

Il voto di scambio esiste. Nella forma più raffinata, quella in cui il politico chiede un bel gruzzolo di preferenze, promettendo in cambio a chi glielo procura di concedere, una volta eletto, favori, concessioni, appalti. Ma resiste anche la forma grezza, primitiva, del pagamento cash, un tot di euro a voto.

Per avere una legge che sanziona in modo severo questo commercio, che è la negazione della democrazia, abbiamo dovuto aspettare decenni. E quando la norma è stata discussa in Parlamento, l’opposizione trasversale alla sua approvazione era forte e il dibattito surreale e pirotecnico. Alla Camera, la primavera scorsa, la legge era passata con i sì del Movimento 5 stelle, che l’aveva proposta, della Lega, allora al governo con i 5stelle, e di Fratelli d’Italia. Contrari Forza Italia e Pd. Astenuta LeU. Poi l’approvazione definitiva era arrivata al Senato, con i voti anche di LeU.

Il cuore della nuova legge è l’inasprimento delle pene per il voto di scambio, che possono arrivare fino a 15 anni di carcere, anzi, fino a 22 anni e mezzo, con le aggravanti speciali (per chi viene eletto).

Mentre i Cinquestelle si proclamavano “orgogliosi per una legge che tutela la democrazia e il diritto di voto dei cittadini”, il Pd, allora all’opposizione, votava contro e protestava: “Con questa legge si fa confusion e”. Forza Italia faceva praticamente ostruzionismo, sostenendo che “questa è una fiction dell’orrore con la subdola regia del M5s. Nella prima puntata della fiction, protagonista è stato il decreto Anticorruzione”, proclamava Matilde Siracusano. “Adesso arriva la seconda puntata, il voto di scambio politico-mafioso, che espone a rischio di condanna fino a 10-15 anni di carcere i consiglieri comunali, regionali e soprattutto i giovani che si affacciano alle prime campagne elettorali, inconsapevoli di aver accettato la sola promessa di voto da persone di cui ignoravano l’identità”. Poverini. Ignari. Giovani. La “sola promessa”, senza neanche un contratto firmato e bollato.

Il dibattito parlamentare e i commenti ai giornali tradivano una fifa blu: “Si rischia di trasferire il Parlamento dentro a una galera”. Detto così, senza vergogna. Contro una norma che impone pene più alte modificando l’articolo 416 ter del codice penale e prevedendo che chiunque accetti, direttamente o con intermediari, la promessa di voti da persone di cui sa che appartengono ad associazioni mafiose, in cambio di denaro o della promessa di denaro oppure di un altro favore, o in cambio della disponibilità a soddisfare interessi dell’associazione mafiosa, è punito con la stessa pena stabilita per l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Chi accetta voti mafiosi e promette benefici si collega infatti saldamente con l’organizzazione criminale.

Che vergogna, che crudeltà, che giustizialismo, trattare come associati alle cosche dei poveri politici e amministratori ignari, ingenui, forse distratti, magari giovani e inesperti, “alle prime campagne elettorali”. Che barbarie, stabilire una connessione diretta con la mafia per chi compra voti dalla mafia promettendo poi di restituire il favore. Che barbarie, elevare le pene da sei-dodici anni a dieci-quindici anni. Aggiungendo poi per tutti i condannati l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Queste norme arrivano in ritardo e dovrebbero essere salutate facendo saltare a decine i tappi di champagne, anzi di spumante italiano, da parte dei politici che i voti non li comprano e dunque da queste norme sono protetti dalla concorrenza sleale dei colleghi che hanno l’amico mafioso. Invece sono viste con sospetto e paura: rischiano di funzionare; di mandare davvero in galera chi trucca la democrazia vendendosi alle cosche.

Se poi alla legge sul voto di scambio aggiungiamo anche la “spazzacorrotti”, signora mia, dove andremo a finire? E se, non contenti, blocchiamo pure la prescrizione, via d’uscita classica che non stanca mai e si porta con tutto, la carriera politica di tanti è davvero in pericolo. Insopportabile. Inaccettabile. “Si rischia di trasferire il Parlamento in galera”. Ma smettere invece di incassare tangenti e comprare voti mafiosi?

Mail box

 

Una legge sulle liti temerarie che protegga la libera stampa

Se fosse in vigore in Italia la legislazione americana sulle liti temerarie (frivolous) credo che con i risarcimenti previsti – a carico del proponente la lite e del suo avvocato – Marco Travaglio potrebbe costruirsi non una parte di villa, come dichiara Renzi, ma un intero quartiere.

Ma siamo in Italia, e purtroppo i politici hanno interesse a mantenere sotto scacco e minaccia la libera stampa (con quella ammaestrata e scodinzolante non ce n’è bisogno) con querele che molto, troppo spesso si rivelano per quello che sono: un modo per intimidire giornalisti e giornali liberi che non dispongono di grandi risorse e che sono costretti a difendersi anche se raccontano fatti veri e documentati.

Mi auguro che la legge sulle liti temerarie in discussione in questi giorni, pur con tutti gli annacquamenti introdotti dalle forze politiche che la temono di più (Pd, Forza Italia, etc.) veda finalmente la luce, per impedire che chi fa onestamente, coscientemente e liberamente il proprio lavoro di giornalista sia condizionato da querele che hanno il solo scopo di ostacolare la libera informazione e conoscenza dei fatti da parte dei lettori e dei cittadini in generale.

Leonardo Gentile

 

La scelta storica di Francesco per la verità sugli abusi

Con due documenti storici, papa Francesco abolisce il segreto pontificio nei casi di violenza sessuale e di abuso sui minori. Finalmente un cambiamento epocale è realtà, sotto la guida del pontefice argentino. La speranza è che l’abolizione, fortemente cercata da Bergoglio sia una risposta in particolare per le vittime che non hanno smesso di chiedere la verità.

Massimo Aurioso

 

Guardando i talk show di oggi rimpiango le tribune politiche

Tutte le trasmissioni di La7 attaccano e processano il M5S quotidianamente, dalle 7:30 del mattino fino alle 17 del pomeriggio. Non esiste contraddittorio. A L’aria che tira ogni mattina non mancano mai ospiti del Pd e della Lega. Soprattutto i leghisti, sostenuti dai giornalisti di turno (quasi sempre gli stessi) sferrano vergognosi attacchi ai 5 Stelle, a Conte e al governo, che non hanno la possibilità di ribattere in quanto assenti. Il M5S è ormai il tiro al bersaglio di quasi tutti i giornalisti, e non solo su La7.

Chi come me, sin da ragazzo, era solito seguire le tribune politiche, dove era sempre rispettata la par condicio e non si consentiva a nessuno di attaccare chi non era presente, resta esterrefatto nel constatare come i conduttori di tutti i talk show sollecitino i presenti a colpire proprio chi è assente e non può difendersi. È uno spettacolo vergognoso e deprimente. E mi meraviglia che il M5S abbia solo dimezzato i propri voti, considerato il modo in cui viene trattato anche dai vari giornaloni, di destra, di estrema destra e di ex sinistra. Al contrario, Salvini viene ogni giorno coccolato e seguito in tutti i suoi comizi, conferenze stampa e post su Facebook. In tale situazione, meno male che esiste il Fatto Quotidiano, il giornale che leggo ogni giorno da quando è uscito il primo numero. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.

 

Sardine, restate impermeabili alle sirene della politica

Che la gente sia stanca di questa politica malsana, imperniata su corruzione, illegalità, clientelismo, interessi personali ormai lo sappiamo tutti. Ci stiamo abituando al buco della disinformazione, che fa più paura di quello nell’ozono. Ma a tutte le Sardine vorrei dire una cosa. State attente alle reti, sia quelle politiche di partito, sia quelle virtuali. Fate gola a tanti. Rischiate di essere catturate dalla popolarità. Rischiate di perdere il senso e la causa per la quale siete nate. State diventando troppo famose e di conseguenza molto manipolabili.

Rimanete quello che siete, un popolo che vuol essere visibile e responsabile, ma solo questo. Poi ognuno scelga il proprio voto con coscienza e con morale politica. Non fate nessun passo di schieramento, restate come siete nate, libere, lasciate libero voto a ogni Sardina. Non fatevi pescare, state unite con democrazia nel rispetto di quello che vi ha portato nelle piazze. Non abbiamo bisogno di altri movimenti, abbiamo bisogno di volti che siano sinceri.

Deve essere la politica a capire il vostro segnale, non a reclutarvi: loro, i politici, devono cambiare e scendere nelle piazze con voi, e capire i vostri cuori.

Attenti perché, anche se non si usano toni volgari o intimidatori, non è detto che ci si possa fidare del gentil fornire.

Gianni Dal Corso

 

I NOSTRI ERRORI

Nel mio articolo di ieri “Secondo Matteo” ho scritto che Renzi, da presidente della Provincia di Firenze, assunse alcuni esterni non laureati e dunque privi dei requisiti di legge, fra cui Marco Carrai; dal che scaturì un processo contabile che vide Renzi condannato in primo grado dalla Corte dei Conti a rifondere 14 mila euro e poi assolto in appello.

Ora Carrai mi fa notare, e gliene do volentieri atto, che nella sentenza di primo grado si dava atto che la sua posizione (e solo la sua) di non laureato era sanata da un percorso di studi sostitutivo.

M.Trav.