L’impeachment non frena l’ascesa di Donald: ci sono due Americhe

Da democratico non posso che essere contento della procedura di impeachment approvata nei confronti del presidente americano Trump, dopo che la Camera ha riconosciuto due capi d’accusa: abuso di potere e ostruzione dei lavori del Congresso. Credo sia il peggior presidente di tutti i tempi. Solo che ho letto, con sufficiente sorpresa, che all’indomani dell’approvazione, il vecchio Donald è salito nei sondaggi. Mi viene in mente Salvini, che più lo accusano delle peggiori nefandezze più aumenta i consensi. Com’è possibile? Ci sono forse due Americhe (come ci sono due Italie)?

Eugenio Filipponi

 

È proprio così, caro Eugenio: ci sono due Americhe; c’erano già a Usa 2016, una maggioritaria a livello di voto popolare, ma minoritaria a livello di Grandi Elettori, che sono quelli che contano, che non può vedere Donald Trump, che lo considera un’aberrazione della democrazia e un pericolo per la sicurezza dell’America e del mondo; e una che approva qualunque cosa faccia e crede qualunque cosa dica, che s’identifica in quel miliardario che non s’è fatto da sé e che lo vota perché non è uno della casta e dice “pane al pane e vino al vino”. Il fossato fra le due Americhe s’è ulteriormente allargato da quando Trump è alla Casa Bianca: il “polarizzatore in capo” mente e nega l’evidenza, ma “i suoi” l’adorano. La vicenda dell’impeachment gli ha poi consentito di vestire i panni del “perseguitato politico”, aumentando i consensi (che restano comunque relativamente bassi, sotto il 50%), anche perché l’accusa appare – ed è – motivata più politicamente che giuridicamente. E c’è la percezione, anche nell’America che gli è ostile, che i Democratici cerchino di farlo fuori con l’impeachment, temendo, o sapendo, di non avere il candidato giusto per batterlo il 4 novembre nel voto di Usa 2020. Il parallelo con quanto avviene in Italia è sostanzialmente corretto; e non è molto diverso quanto appena accaduto in Gran Bretagna, con la vittoria elettorale di Boris Johnson. E quanto è accaduto in Brasile è ancora più aberrante, con l’ascesa alla presidenza di un personaggio omofobo e incline alla violenza come Jair Messias Bolsonaro.

Ci sono due Americhe?, due Italie?, due Europe?, due mondi?, due Chiese? E forse abbiamo tutti perso la bussola, tra il Sud della paura e il Nord della solidarietà, l’Est dell’egoismo e l’Ovest, che è sempre più lontano, della tolleranza. Buone feste, anche a Trump. E che sia il suo ultimo Natale alla Casa Bianca.

Giampiero Gramaglia

Dalle acciaierie alla società del Tav. Tutti i clienti dell’avvocato Bianchi

Sono tanti i clienti dello studio di Alberto Bianchi che si occupano di materie nelle quali le scelte della politica sono rilevanti. La Guardia di Finanza ha sequestrato l’elenco delle vendite Iva dello studio associato di Firenze perquisito a settembre nell’ambito dell’inchiesta sui pagamenti ricevuti dal gruppo Toto e girati – secondo i pm – da Bianchi alla Fondazione Open.

Bianchi è indagato per traffico di influenze e finanziamento illecito alla politica per i suoi rapporti con il gruppo Toto, non con altri clienti. Però quell’elenco di nomi, importi e prestazioni, irrilevanti dal punto di vista penale e pienamente lecite, è invece interessante per l’opinione pubblica. Bianchi non è un avvocato qualunque ma un soggetto bifronte che da un lato tutela gli interessi dei suoi clienti e dall’altro è stato per anni il presidente della Fondazione Open, che ha raccolto dal 2012 in poi milioni di euro per aiutare l’ascesa di Renzi.

Bianchi talvolta poi non disdegna di aiutare i suoi clienti nel perseguimento dei loro obiettivi anche mediante le sue relazioni pubbliche.

Prendiamo ad esempio le due fatture del 6 e 13 febbraio 2015. La più alta è di 150 mila euro più Iva ed è stata emessa il 13 dallo studio Bianchi a Aiscat Servizi Srl, società dell’omonima associazione dei concessionari delle autostrade. La seconda, per 104 mila euro più Iva, è del 6 febbraio 2015 nei confronti di Sias, la holding del gruppo Gavio. Il Fatto ha già raccontato che il grupo Gavio, con il supporto di Aiscat, era impegnato tra fine 2014 e inizio 2015, ai tempi del governo Renzi, in un’attività di lobby per ottenere la proroga della concessione della Milano-Torino dal 2026 al 2030.

L’oggetto dell’incarico di Aiscat a studio Bianchi da 150 mila più Iva era proprio l’assistenza e consulenza legale e amministrativa sulle questioni “in connessione con la procedura ex articolo 3 Tfue riguardanti alcune società operanti nel settore autostradale”, cioè il procedimento davanti alla Commissione Ue per ottenere la proroga che avrebbe fatto felice Gavio.

Il 6 luglio del 2015, come Il Fatto ha già raccontato, Bianchi, alle 13 e 34 discute dei compensi di “500” da chiedere a Gavio con un collega, Maurizio Maresca. Alle 14 e 30, incontra Beniamino Gavio. Alle 21 spedisce a Mauro Bonaretti, il capo di gabinetto del ministro Graziano Delrio, un sms in cui con modi felpati sostiene che chiudere al 2030, come Gavio vuole, “non parrebbe scandaloso”.

Ora si scopre che cinque mesi prima di quella telefonata Alberto Bianchi aveva già emesso ad Aiscat una fattura da 150 mila per la sua attività più una seconda a Gavio di cui non sappiamo altro che l’importo: 104 mila più Iva.

Sono vicende che, a differenza di quelle che riguardano i rapporti Toto-Bianchi non sono ritenute penalmente rilevanti nemmeno dai pm. Ciò non toglie che andrebbero spiegate meglio pubblicamente non solo da Bianchi ma anche da Matteo Renzi, che in privato si dice all’oscuro di queste consulenze autostradali del suo amico.

Nell’elenco delle fatture emesse dallo studio associato di Alberto Bianchi nel 2019 c’è anche la Telt, cioè Tunnel Euralpin Lyon Turin, società italo-francese che deve costruire la linea Tav in val di Susa. Studio Bianchi tra il maggio e il luglio scorso fattura sei prestazioni professionali per complessivi 37 mila e 167 euro più Iva.

La Telt precisa che il direttore italiano Mario Virano non c’entra nulla. La partita è stata seguita dal Direttore del Settore Giuridico di Telt, il magistrato della Corte dei Conti francese Marie-Pierre Cordier, che ha indetto una gara per reperire i legali alla fine del 2018. L’incarico biennale è stato suddiviso in 5 lotti per un valore totale stimato massimo complessivo di 800 mila euro. In ogni lotto vincono i primi due. Bianchi ha gareggiato in associazione con lo studio Weigmann di Torino e ha vinto i due lotti più importanti da 370 mila e da 250 mila euro più uno dei tre “sfigati” da 60 mila euro. Nei primi due l’altro consulente selezionato è Strata Spa, presidente Vittorio Caporale. Studio Bianchi è quindi uno dei sette vincitori tra i 25 partecipanti alla gara Telt pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La dottoressa Cordier spiega: “Ho chiesto all’avvocato Bianchi alcune consulenze sulla legislazione ambientale italiana e su altre questioni”. Bianchi, spiega Telt, “ha fornito prestazioni di consulenza pari al 29 per cento del totale speso su tutta la gara, nel lato italiano”.

Tra i clienti recenti dello Studio Bianchi spicca il gruppo indiano di Sajjan Jindal, 60 anni, amico di Matteo Renzi dal 2010 quando l’ex sindaco celebrò il mega-matrimonio della figlia Tanvi a Firenze. Jindal nel 2017 voleva prendere l’Ilva ma il ministro Carlo Calenda e i commissari preferirono Arcelor Mittal.

Studio Bianchi ha emesso una fattura a Jsw Steel Limited per 73 mila e 902 euro il 19 novembre 2018. L’8 agosto scorso c’è un seconda fattura al gruppo da 78 mila euro a Acciaierie e Ferriere di Piombino Spa. Nessuna sorpresa: da aprile scorso nel cda della Jsw Steel Italy Piombino Spa c’è anche Marco Carrai.

Alberto Bianchi, va detto, era già un professionista stimato ma l’ascesa di Renzi ha giovato al suo profilo pubblico. Nel maggio 2014 è diventato consigliere di Enel (fattura personalmente 200 mila euro più Iva all’anno).

Nel 2012 Studio Bianchi fatturava un milione e 662 mila euro, nel 2013 un milione e 327 mila euro, nel 2014 sale a un milione e 422 mila euro, nel 2015 sale ancora a un milione e 932 mila euro; nel 2016 il boom: 3 milioni e 150 mila euro con la fattura da un milione e 250 mila a Toto Costruzioni, ora sotto la lente dei pm (da sola vale quasi il fatturato del 2013) nel 2017 con Gentiloni, Bianchi non flette: 2 milioni e 672 mila euro. Nel 2018 solo un milione e 644 mila euro. Nel 2019 andrà meglio: a fine agosto lo Studio ha già fatturato un milione e 700 mila euro. Grazie anche a Jindal e Telt ma soprattutto grazie a Consip: il 3 gennaio scorso lo studio ha emesso tre fatture in un solo giorno per complessivi 271 mila euro comprensivi di Iva a Consip che però precisa: “Non ci sono pagamenti effettuati nel 2019”. Mistero. “All’avvocato Bianchi dal 2013 al 2017 (non dall’attuale Ad Cristiano Cannarsa, ndr) complessivamente – prosegue Consip – sono stati affidati 70 incarichi per l’assistenza giudiziale in contenziosi amministrativi e civili, non di consulenza o pareristica. L’importo totale (netto Iva e Cpa) è 841 mila euro”. Bianchi però non ha incassato tutto ma solo “594 mila e 686 euro (lordo Iva e Cpa, netto ritenuta d’acconto)”. Forse la differenza sono quelle tre fatture del gennaio 2019?

Foa ghostwriter di Salvini: “Così Matteo assorbe”

Non c’è nulla di male. Cortesie tra amici che vogliono vincere le elezioni. Il più bravo dà una mano, ci mancherebbe. Certo colpisce che Marcello Foa, allievo di Indro Montanelli, oggi presidente della Rai e dunque garante del pluralismo del servizio pubblico radiotelevisivo, due anni fa scrivesse – o almeno editasse – un canovaccio di programma fiscale per Matteo Salvini. Un po’ di propaganda fatta bene, schematica. “Così lui assorbe”, sottolineava Foa. Le email sono del 9 e 10 novembre 2017.

Campagna elettorale per il voto del 4 marzo 2018 che porterà la Lega al governo con il M5S e Foa al settimo piano di viale Mazzini. Armando Siri, futuro senatore e sottosegretario costretto a dimettersi per un’ipotesi di corruzione avanzata dalla Procura di Roma, è il responsabile economico di “Noi con Salvini”, la lista leghista Dal suo account noiconsalvini.org, alle 17:52 del 9 novembre, scrive a Marcello Foa, all’epoca direttore del Corriere del Ticino. Anzi gli inoltra una email mandata il giorno prima a Iva Garibaldi, portavoce di Salvini. “Oggetto: Fwd: Per Matteo Commercianti”. La manda anche ad Andrea Paganella, coordinatore della campagna e a Leonardo Foa, figlio di Marcello, anch’egli nello staff salviniano. Era un polpettone lunghetto un po’ indigesto: “Non dobbiamo e non vogliamo dimenticare come invece sta facendo chi governa, che è grazie alla piccola e media impresa che questo Paese sta in piedi…”, così la prosa dell’Armando, giornalista pubblicista genovese, amico e collaboratore di Craxi da giovanissimo, insomma cresciuto a pane e politica. “Noi non abbiamo la bacchetta magica ma ci impegneremo con tutte le nostre forze per lo sviluppo non per le elemosine”. La crisi, i posti di lavoro persi, lo “choc fiscale” necessario.

Foa gli risponde il giorno dopo, 10 novembre 2017, alle 10:29: “Grazie Armando, per me è molto chiaro, però conoscendo Matteo va schematizzato in modo differente”. E glielo riscrive da capo, come farebbe un papà amorevole con i compiti a casa del figliolo, mettendoci dei titoletti secchi: “Oggi i commercianti sono in crisi”. E poi poche righe: “Dal 2008 a oggi hanno chiuso nel settore del commercio quasi 500 mila imprese…”. Altro titoletto: “Ma danno lavoro a 12 milioni di famiglie”. E ancora: “Troppa burocrazia li ammazza”. Seguono, nel canovaccio dello speech salviniano, le proposte: “La soluzione: Flat tax al 15%, Rottamazione di tutti i debiti incagliati in Equitalia… Eccetera”. Come dire: “Ora continua tu”. E la chiosa: “Così, secondo me, lui assorbe. Abbracci. M”. Semplice, veloce, schematico appunto. Come se avesse a che fare con uno che “assorbe” poco, non va costretto a leggere cose lunghe, ché poi si perde, con tutto quello che ha da fare e da pensare. E il povero Siri sentitamente ringrazia: “Ok va aggiunto un lavoro di editing che agevoli l’assorbimento dello schema. Grazie Marcello, terrò presente per le prossime volte. Un abbraccio. Armando”.

Passi per le iniziative de “Il Cantiere”, i convegni dei leghisti in campagna elettorale. “Richiesta di Matteo ieri notte, va aggiunto Marcello Foa ”, segnalava in una mail del 17 giugno Claudio Borghi, oggi presidente della commissione Bilancio della Camera. Passi anche la “presentazione di Foa, relativamente al programma di governo”, inserita nella cartella Dropbox con i materiali condivisi per la campagna. Gli appunti per il capo sono un’altra cosa. Legittimi, certo. Come è legittimo che un giornalista della Rai viva con qualche disagio la presidenza di un intellettuale così organico a un partito politico. E che qualsiasi altro partito coltivi perplessità sull’effettiva garanzia del pluralismo.

La scommessa di Presta: Renzi che (ri)sboccia come un Bonolis

Nessuno più di Lucio Presta ha investito fiducia e denaro in Matteo Renzi nell’ultimo anno e mezzo. Il sodalizio tra il produttore nonché agente televisivo e il senatore semplice di Scandicci viene fuori nel periodo di maggiore flessione della carriera politica di Matteo. Il Renzi che l’anno scorso ha firmato per Presta il documentario aveva appena subito una batosta alle elezioni di marzo che gli ha imposto le dimissioni da segretario del Pd.

Matteo e Lucio si conoscono dai tempi in cui il giovane popolare di Pontassieve era alla guida della provincia di Firenze e poi si riconoscono nel momento in cui Renzi medita il rilancio o la vendetta. E qui si può citare il cosentino Presta, che da ragazzo ha studiato in collegio prima in Calabria e poi in Liguria: “Io sono salesiano. Prima mi vendico e poi perdono”. Presta ha collaborato con Renzi per alcune edizioni della stazione Leopolda, soprattutto la più recente, di ottobre, che ha sancito la nascita di Italia Viva tra colori caldi e musiche forti. E c’era Presta nell’angolo dell’allenatore di Matteo nel duello con l’altro Matteo, Salvini, tra le morbide “corde” di Porta a Porta. Come ha scoperto l’Espresso, il documentario di Renzi non ha restituito a Presta ciò che ha speso. Per trasmettere su Nove le quattro serate del programma con l’ex sindaco di Firenze che racconta Firenze, la multinazionale Discovery ha versato a Presta un totale di 20.000 euro, mentre Renzi ha ricevuto 454.000 euro. Un piccolo esborso per Discovery che può rendere robusto il modesto due per cento di share. Presta sostiene che con gli anni l’affare tornerà in attivo e Renzi non ha mica deciso di smettere con la televisione, tant’è che in cantiere ci sono già altri lavori e le aziende, come Mediaset che la prima volta rifiutò Firenze secondo me, consultano i progetti. Alla Leopolda numero 9, con il governo gialloverde nel pieno del vigore poi smarrito, intervistato da Renzi c’era Paolo Bonolis. Forse Presta pensa di poter far risplendere Renzi come ha fatto splendere Bonolis, che dal programma per bambini – il mitico Bim Bum Bam – è passato alle serate di rilievo in Mediaset e pure in Rai. Chissà. Adesso il modello Renzi non funziona, ma le cose di Presta girano bene in Rai. Il Festival di Sanremo sarà condotto da Amadeus, un artista di Presta, e ci sarà anche Roberto Benigni, l’icona di Presta. Il rapporto tra Presta e Fabrizio Salini, l’amministratore delegato di Viale Mazzini, è per forza di cose ottimo. E pensare che fu pessimo con Antonio Campo Dall’Orto che arrivò in Rai con l’etichetta di direttore dei renziani e se ne andò su spinta dei renziani e bisticciò con Presta perché, per una gaffe, chiuse il programma di Paolo Perego, che è un volto tv e anche la moglie di Presta. L’aneddotica della televisione è piena di litigi di Presta, per esempio con Massimo Giletti. Presta ha un carattere per così dire ruvido, però ha un’ampia scuderia di artisti che riempie il settore dell’intrattenimento e da sempre è l’ossatura di Rai1 e di Mediaset: oltre ai già menzionati Amadeus, Bonolis e Perego, ci sono Mara Venier, Lorella Cuccarini, Antonella Clerici. Nato a Cosenza nel giorno di San Valentino del ’60, la sua venuta al mondo è subito drammatica perché la madre muore di parto. Ha un’infanzia complicata e un’esistenza piena di colpi di scena, ci ha scritto una biografia dal titolo Nato con la camicia e pubblicata da Mondadori. Dice che ha iniziato a guadagnare a 14 anni da cameriere, poi diventa ballerino, debutta con Sceneggiato italiano di Edmo Fenoglio. Una volta organizza una esibizione in Nord Europa per Heather Paris e Franco Miseria e incontra il manager Vincenzo Ratti. Da lì con Bonolis e Benigni macina milioni di euro, più di 13 nel 2018, ha riportato L’Espresso. Ha sfiorato la candidatura a sindaco di Cosenza e adesso è un ascoltato consigliere di Renzi. E gli tocca l’impresa più difficile. Riportare in alto Renzi. Se non come politico, magari come conduttore tv.

Il grillino che sussurra ai partiti è nato tondo, ma ora è quadrato

Federico D’Incà è un uomo tondo, dall’aria paciosa. Tondi gli occhiali sempre appoggiati sul naso, tondo il viso, tonde le sopracciglia sottili e inarcate come una virgola, tonde le labbra spesso sorridenti che si chiudono con una fossetta sulle guance, tondo il cranio lucido e glabro. A dispetto di tutte queste linee curve, il bellunese D’Incà è un tipo quadrato. Ha salito le scale a chiocciola del Movimento 5 Stelle a piccoli passi regolari, gradino dopo gradino, senza strappi o scatti di fantasia. È stato militante, poi deputato, capogruppo, questore e oggi persino ministro senza tradire (quasi mai) uno stile ligio e un po’ grigio, affabile e affidabile; quello di un uomo sereno e poco problematico in mezzo a molte aspiranti prime donne.

D’Incà è per nulla avvezzo alle tv, non perché non sappia parlare – tutto sommato nell’eloquio è uno dei più puliti tra i colleghi grillini – ma perché si dice sia stato vittima dell’avviso di proscrizione di Casalino: sarebbe finito nelle antipatie del visir Rocco per aver partecipato, nel 2015, all’assemblea dei parlamentari che decise di far fuori Ilaria Loquenzi, responsabile della comunicazione molto vicina a Gianroberto Casaleggio. La manovra contro Loquenzi fu subito neutralizzata, invece D’Incà finì nel novero dei congiurati (se non altro perché era il capogruppo). Questo, almeno, raccontano i retroscena, fatto sta che per tutti questi anni D’Incà è rimasto praticamente fuori dalle rotazioni televisive e solo di recente la sua testa tonda è tornata a far capolino nei talk show.

L’incidente ha rallentato, ma non arrestato, l’ascesa nel Movimento. Il suo è uno dei rari casi, in politica, in cui l’esser mite si è rivelato un punto di forza e non una debolezza. La nascita del governo giallorosa gli ha regalato la grande occasione: per lui si è spalancata la porta del ministero per il Rapporti con il Parlamento. Un dicastero senza portafoglio, dalla denominazione un po’ vaga, ma tutt’altro che irrilevante: D’Inca è diventato l’uomo di raccordo tra le molte anime litigiose della maggioranza, sia dentro che fuori le aule. Intercede con i gruppi parlamentari, lavora al calendario dei lavori, media con i presidenti di Camera e Senato, cura i rapporti con le varie sfumature cromatiche dei giallorosa e anche con l’opposizione.

Ascoltate cosa dice di lui il “comunista” Federico Fornaro, collega di LeU: “D’Incà è una persona seria. Ha equilibrio, sobrietà, un approccio differente da quello di molti suoi colleghi del M5S. Ha un ruolo fondamentale nel cucire i rapporti tra governo e Parlamento, è bravo, ascolta. È al posto giusto”. Una vera sviolinata. E sentite pure come lo cita il renziano Andrea Marcucci (rimasto nel Pd), il giorno dopo il compromesso sulla manovra economica: “Abbiamo ottenuto una buona legge di Bilancio, la migliore possibile nella situazione data. Grazie al presidente del Consiglio Conte, alla concretezza del ministro Gualtieri, alla mediazione di Franceschini, Renzi e Boschi. E grazie infine al ministro D’Incà che ha sostenuto sempre le ragioni dell’accordo”. Il nostro – unico dei grillini – è nella lista dei “nemici”, quella in cui si distribuiscono le lodi per la faticosa cucitura della tela giallorosa.

Dunque D’Incà funziona. Soprattutto con gli altri partiti e in particolare a sinistra. A spingere per piazzarlo al ministero è stato Roberto Fico, il più “rosso” tra gli uomini di vertice del Movimento.

È il paradosso dell’uomo tondo che diventa quadrato. D’Inca è moderato, moderatissimo, atlantista (consigliere della Fondazione Italia Usa), federalista convinto (ha sostenuto il referendum della Lega per l’autonomia del Veneto). E molto cattolico: quando nel 2013 l’orda degli eletti grillini ha invaso Roma, mentre quasi tutti i colleghi si erano trovati un appartamento in centro, vicino ai Palazzi, lui era andato a vivere in un convitto di suore per risparmiare sui costi dell’affitto (e magari per non cadere nelle molteplici tentazioni della suburra). L’unica posizione eccentrica, considerato il suo profilo, è quella a favore della legalizzazione delle droghe leggere: per il resto D’Incà è tutto tranne che un uomo di sinistra. Ma a sinistra piace e viene rispettato.

Dove abbia imparato l’arte della mediazione e del compromesso politico è un mistero. Leggerne il curriculum non aiuta a risolverlo: prima della fulminazione per i Cinque Stelle (nei meet-up locali e nelle prime liste grilline del 2012) l’onesta carriera di D’Incà era tutta nel privato: “Caposettore in una multinazionale della grande distribuzione e responsabile della qualità in un’azienda di robotica” – si legge nella sua breve autobiografia online – e poi “analista di sistemi di gestione informatici”. Storia di un impiegato, direbbe De André.

Che c’entra il caposettore D’Incà col furore iconoclasta del primo Movimento? E quand’è che si è trasformato in uomo di potere? Non si sa. Però va tutto liscio. Quasi tutto: pure lui negli anni dell’adolescenza parlamentare è incespicato in qualche ingenua e ridicola caduta di stile, come capitato a diversi suoi amici Cinque Stelle. Qualche traccia resta sui social. La più imbarazzante è la foto di una valuta falsa esibita su Facebook, come l’ultimo dei complottisti: “Questa è una moneta da 5 euro tedesca. In Italia non ci sono. Che stia per finire il regno dell’euro?” Nei commenti, accerchiato da polemiche e sberleffi, D’Incà giurava che si trattasse solo di una provocazione, uno scherzo. Il dubbio rimane.

Però, ecco, il sempre serio grillino bellunese sapeva risultare sguaiato. Come quando pubblicava sui social la foto del suo coniglietto domestico in giardino con una spilla del Movimento: “Ci mangeremo il Pd come una carota”. E a proposito di roditori, resta agli atti della Camera un D’Incà insolitamente barricadero durante la filippica contro “il presidente del coniglio” Matteo Renzi. Lo stesso con cui media – e governa – oggi. Tondo e quadrato.

“Su Salvini voteremo secondo coscienza”

Eora Matteo Salvini si dice pronto a tirar fuori le carte per dimostrare che anche la gestione dei migranti a bordo della nave Gregoretti, che rischia di costargli un processo per sequestro di persona, è stata condivisa con il governo in cui era alleato dei 5 Stelle. Soprattutto email che saranno utili a compilare la memoria che il capo della Lega potrà offrire alla valutazione del Senato chiamato a decidere sulla richiesta di autorizzazione a procedere da parte del Tribunale dei ministri di Catania. E che già si annuncia frizzante. Perché fonti vicino al leader del Carroccio fanno trapelare come sarà organizzata la sua difesa, rilanciando anche le dichiarazioni dell’epoca degli ex colleghi pentastellati, come quelle del ministro della Giustizia Bonafede. Elvira Evangelista è la capogruppo del M5S nella Giunta per le autorizzazioni al Senato.

Il sospetto è che il M5S abbia scaricato Salvini perché non è più vostro alleato.

È una lettura semplicistica e strumentale. I componenti della Giunta del M5S lavoreranno sui documenti, sugli atti e con valutazioni rigorose.

Non la imbarazza che il vostro capo politico abbia già annunciato che il M5S voterà Sì all’autorizzazione a procedere? E questo a prescindere dalle valutazioni giuridiche che dovranno essere fatte in Giunta?

Luigi Di Maio a quei tempi era vicepresidente del Consiglio. Chi meglio di lui conosce la questione?

Qualcuno sospetta che Di Maio abbia consultato le carte dei magistrati prima che arrivassero in Giunta.

Illazioni per gettare veleno, non mi risulta e non è possibile.

Quali sono le differenze tra il caso di nave Gregoretti e la Diciotti?

Ci sono elementi emersi già a una prima lettura delle carte. Ad esempio il fatto che sul caso Gregoretti non si tenne un Consiglio dei ministri. Ma soprattutto, mi pare che tra i due episodi ci sia un’evidente differenza nella linea del governo rispetto alla questione migranti. Ai tempi della nave Diciotti, agosto 2018, tutto il governo agì unitariamente a Salvini con una strategia finalizzata a fare pressione sull’Ue che ignorava le nostre richieste. A luglio 2019 sul blocco della nave Gregoretti la situazione era radicalmente mutata grazie alle interlocuzioni in Europa del premier Conte. Pertanto è ipotizzabile che l’ex ministro Salvini nel caso della Gregoretti possa aver forzato la mano. Ricordo infatti che Di Maio disse: “Non si trattino i nostri militari su quella nave come pirati, chiedo rispetto per loro”.

Sulla Diciotti i vertici del M5S decisero di consultare gli iscritti su Rousseau. Vi condizionò quella scelta?

Il problema non si pose perché l’opinione degli iscritti coincise con l’indirizzo maturato tra di noi in Giunta.

Quindi se si potesse tornare indietro su Diciotti voterebbe alla stessa maniera? Non è che lei o qualche suo collega vi siete pentiti?

Nessun pentimento.

Eppure vi furono malumori nelle vostre file. Ora com’è la situazione?

Il procedimento è appena stato incardinato in Giunta. Seguiranno quattro convocazioni e avremo modo di discutere e approfondire prima della decisione del 20 gennaio.

Lei pensa che qualcuno possa votare in dissenso dalle indicazioni di Di Maio?

I componenti della Giunta voteranno secondo diritto e coscienza.

Faccia una previsione: in aula il voto segreto aiuterà Salvini?

In genere le forze politiche arrivano a votare in aula nel rispetto di quanto valutato e deciso in Giunta.

A proposito della Giunta, la presidente Casellati ha assegnato alla Lega il seggio vacante in precedenza occupato da Donatella Tesei, ora eletta presidente dell’Umbria.

Rientra nelle sue prerogative. Tuttavia dal momento che un componente della Giunta, Francesco Urraro, è passato dal Movimento 5 Stelle alla Lega, forse sarebbe doveroso rivedere gli assetti.

A gennaio c’è l’ingorgo: le 4 mine per i giallorosa

Nel brindisi con i suoi parlamentari, il primo dopo l’addio dal Pd, Matteo Renzi è parso tranquillo. E l’agape fraterna dei gruppi riuniti alla Camera per niente turbata dalle voci insistenti che qualcuno in Italia Viva ci abbia ripensato e mediti di tornare a casa, nei dem. Quando però gli auguri sono finiti, più d’uno si è dato di gomito sciamando da Montecitorio: “Se lo dice lui di stare sereni…”. Perché tutti sanno che al ritorno a Roma dopo le vacanze di Natale, con annessa settimana bianca per chi vorrà, si aprirà una partita ad alto rischio. E il richiamo del gioco d’azzardo è fortissimo. Per il Matteo di Firenze almeno quanto per il suo gemello diverso, il leader leghista, Matteo Salvini.

Quindici giorni ad alto tasso adrenalinico e che valgono la legislatura. E quattro date da cerchiare per questo con il pennarello rosso: il valzer inizierà il 12 gennaio, ultimo giorno utile per chi tra i 64 senatori che hanno sottoscritto la richiesta di referendum sul taglio dei parlamentari, voglia ripensarci. Se questo non avverrà, la richiesta di referendum verrà formalizzata andando a incastrarsi con l’altro quesito: quello proposto da cinque consigli regionali a guida leghista che chiedono di abrogare la quota proporzionale del Rosatellum e che il 15 gennaio verrà vagliato dalla Corte costituzionale. Il 20 gennaio, poi, la Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato deciderà poi se dare il via libera al Tribunale dei ministri di Catania che chiede che il capo della Lega venga processato per sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti trattenuti a bordo della nave Gregoretti. Prima di allora, raccontano rumors di Palazzo, non sono escluse iniziative clamorose da parte del leader del Carroccio, tipo una denuncia. All’indirizzo di chi? È presto detto.

“Come faceva Luigi Di Maio a sapere in anticipo i contenuti della richiesta dei magistrati di Catania tanto da esprimersi nel merito del fascicolo?” dicono i fedelissimi del leader del Carroccio che per ora non si sbilanciano. Fatto sta, è la tesi, che il fascicolo doveva rimanere secretato almeno fino al momento in cui è arrivato alla presidenza del Senato e poi di lì trasmesso alla Giunta dove i componenti dell’organismo hanno potuto poi prenderne visione giovedì. Per questo in casa leghista c’è il sospetto che Di Maio l’abbia potuto sbirciare prima delle sue dichiarazioni in tv di mercoledì in cui ha annunciato che a Salvini non dovesse essere riconosciuta l’esimente di aver agito nel preminente interesse pubblico.

Ma torniamo al calendario: i quindici giorni più impegnativi della legislatura però culmineranno con il voto in Emilia-Romagna, il 26 gennaio prossimo. Quando la Lega, laddove dovesse sfondare nelle urne, chiederà di poter tornare al voto nazionale, specie se il Movimento 5 Stelle dovesse franare nella regione rossa o sfaldarsi in Parlamento, a causa di nuove fuoriuscite. “La cosa che più di tutte minaccia la tenuta della legislatura è lo sgretolamento dei 5 Stelle” spiega al Fatto Pier Ferdinando Casini. Il leader centrista eletto dal Pd è sospettato, di lavorare ventre a terra per dissuadere chi ha firmato la richiesta di referendum sul taglio dei parlamentari. “Ma non è vero: non sto chiedendo a nessuno di ripensarci. Mi è stato chiesto un parere su questa iniziativa e ho già risposto che obiettivamente aiuta chi vuole andare a votare. Lo penso ancora, ma non sto tentando di convincere nessuno: chi è causa del suo mal pianga se stesso” sostiene dicendosi disinteressato a “manovre o manovrine di Palazzo”.

E non c’è motivo per non credergli. Anche se è altrettanto vero che Casini non rifiuta mai un consiglio. L’altro giorno, per esempio, alcuni senatori dei 5 Stelle, dubbiosi sul che fare di se stessi, si sono rivolti proprio a lui che è abile navigatore del Parlamento, di cui è inquilino da decenni, di legislatura in legislatura . E lui lì, bonario, ha allargato le braccia: “Cosa volete che vi dica? Se andate con la Lega è probabile che vi candidino al prossimo giro. Se invece state buoni, è certo che per altri 4 anni restate senatori”.

Ecco, questa la vigilia dell’Operazione san Gennaio della maggioranza rosa: quattro date per un ingorgo che può diventare un incubo e che sicuramente sarà decisivo per la legislatura. In un senso o nell’altro.

Contiani, disponibili, pescatori e pentiti: il suk delle Camere

Il governo di questi tempi è come una coperta, tutti la tirano da ogni angolo. E chissà cosa ne rimarrà. Perché mentre la Lega, per il tramite dello senatore-stratega Roberto Calderoli continua ad avvicinare dissidenti Cinque Stelle e ha motivo di credere di riuscire ad andare oltre i tre che hanno già fatto il salto all’opposizione, crescono ogni giorno i gruppi che in Parlamento giocano a sfibrare o al contrario a rafforzare l’esecutivo di Giuseppe Conte.

Quei grillini molto contiani

Da settimane decine di 5telle critici nei confronti di Luigi Di Maio, ragionano su gruppi contiani in Parlamento. E negli ultimi giorni le operazioni si sono accelerate a Montecitorio, tanto che martedì i vertici del M5S hanno tenuto una riunione per valutare le contromosse. Tra gli osservati speciali anche il deputato palermitano, Giorgio Trizzino, che ieri ha smentito: “È fuori dalla realtà dire che io voglia dar vita a gruppi autonomi o spingere altri a fare altrettanto”. Però anche lui è stato contattato nelle ultime ore da alcuni graduati, intenti a recuperare i deputati in bilico. “Per ora a 20 non arriveranno” calcolano dal M5S. Ma la preoccupazione resta alta, perché almeno 3 o 4 ex 5Stelle sono già pronti ad aggiungersi da qui a gennaio. Mentre tra Senato e Camera si lavora a un manifesto politico “di sostegno a Conte e al centrosinistra”. Un progetto comunque fuori del perimetro di Di Maio. “Beppe Grillo ci ha aiutato, ribadendo che bisogna lavorare con il Pd, ma a gennaio si vedrà” spiega un senatore. Mentre lo stesso Conte, raccontano, è rimasto “stupito” dalle parole Nicola Zingaretti di ieri sul Corriere della Sera: “Il premier è un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”.

Il caso Carfagna e gli azzurri in partenza

È nata ieri, e ha già un nemico giurato, invece la nuova formazione battezzata da Mara Carfagna. “Voce libera” è il nome che ha scelto per la sua associazione, immediatamente bollata come “un’iniziativa divisiva e inutile” nientemeno che dal suo ex padrino Silvio Berlusconi. Dalle parti della vicepresidente della Camera, la mettono così: il leader di Forza Italia non ha esattamente gradito (per usare un eufemismo) l’uscita di un gruppo parlamentari azzurri, anche solo per finalità associative. Ma Carfagna e i suoi notano pure che nel resto del partito non c’è stata alcuna reazione scomposta. E questo fa pensare che non ci sarà alcuna resa dei conti al ritorno delle vacanze. E che né lei né i suoi, almeno per ora non dovranno pronunciare quel “che fai, mi cacci” che fu fatale a Gianfranco Fini. Per questo, ragionano quelli di Voce Libera, per Berlusconi la nuova associazione potrà essere addirittura un modo per riuscire a trattenere i parlamentari azzurri più inquieti, che rischiano di ripetere l’esempio della pattuglia che ha seguito il governatore ligure Giovanni Toti: alla Camera si sono messi in proprio, mentre al Senato, sono dovuti rimanere in Forza Italia ma solo perché il regolamento è diverso e per creare un nuovo gruppo gli ostacoli sono molti di più. Oppure fare come Mario Occhiuto, che dopo aver perso la candidatura a governatore della Calabria (al posto suo hanno scelto Jole Santelli) ha deciso di lasciare il partito. “La condotta di Mara è sempre stata lineare” dicono i fedelissimi di Carfagna, che pure precisano: “Se Forza Italia si scioglierà nella Lega, è certo che Voce libera non farà altrettanto”.

Portas, Italia Viva e il no alla manovra

Ma se la convergenza, di cui si è a lungo discusso, di Mara Carfagna con Matteo Renzi sembra ancora lontana, il partito fondato dall’ex premier rischia al contrario di cominciare a perdere pezzi. Finora l’unico a uscire in qualche modo allo scoperto è il leader dei Moderati, Giacomo Portas, che in Italia Viva è entrato da indipendente, più che altro in ostilità all’abbraccio del Pd con i Cinque Stelle. Ostilità che non si è affievolita, al punto che il deputato piemontese non voterà la fiducia sulla manovra domani. Non lo seguiranno i colleghi del gruppo renziano, che pure mantengono un certo scetticismo, per modo di dire, rispetto alle scelte del governo. Eppure, non sono mancate le indiscrezioni su alcuni rientri in casa dem: parlamentari che avevano scelto di seguire Matteo Renzi e che adesso si preoccupano delle sorti del partito, visti i guai giudiziari che stanno attraversando la fondazione Open. “Farebbero solo una figuraccia”, replicano da Italia Viva, convinti che le ombre sull’ex premier si diraderanno presto. “Sono solo i lottiani che tentano di diffamarci, non ci perdonano di essere andati via”.

Chi si rivede: Dell’Utri e la ’ndrangheta

C’è anche il nome di Marcello Dell’Utri nella maxi- inchiesta anti ’ndrangheta della Procura di Catanzaro. L’ex senatore non è indagato, ma viene citato dall’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, per gli inquirenti il trait d’union tra clan e massoneria. È il 20 luglio 2018 e l’avvocato sta parlando con due dirigenti dell’Anas non coinvolti nell’inchiesta. “Pittelli – annotano gli investigatori – riferiva ai suoi interlocutori che, per la formazione di Forza Italia, la prima persona che Dell’Utri avrebbe contattato fu Piromalli a Gioia”. Cioè una delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta. A sostenerlo non è un pentito ma un berlusconiano di lungo corso: per tre volte parlamentare di Forza Italia, Pittelli si è avvicinato di recente a FdI ma nel 2011 aveva aderito a Grande Sud, la costola autonomista nata da Forza Italia sotto la guida di Gianfranco Micciché, storico fedelissimo dello stesso Dell’Utri. Quella piccola scissione nell’universo berlusconiano aveva l’assenso dello stesso Dell’Utri, che infatti nel 2013 ventilò l’ipotesi di candidarsi proprio con Grande Sud. Insomma il percorso politico di Pittelli è stato per anni legato a quello del fondatore di Forza Italia, libero da pochi giorni dopo la condanna a sette anni per concorso esterno a Cosa Nostra.

Non è la prima volta che Dell’Utri viene accostato ai Piromalli. L’inchiesta “Cent’anni di storia” ha documentato come Aldo Micciché, ex politico della Dc poi fuggito in Venezuela, inviò all’ex senatore Gioacchino Arcidiaco, legato da una stretta amicizia Piromalli. L’obiettivo di Micciché era ottenere l’alleggerimento del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. “Vai, parlare con Marcello Dell’Utri, parliamoci chiaro, significa l’anticamera di Berlusconi… forza!”, diceva l’ex dc ad Arcidiaco. Che venne ricevuto dal fondatore di Forza Italia il 3 dicembre 2007, nel suo studio di via Senato 12 a Milano. Gli investigatori documentano tutto ma non possono piazzare le microspie all’interno dell’ufficio perché Dell’Utri era all’epoca parlamentare. Successivamente sarà sempre Miccichè a consigliare “nuovamente ad Arcidiaco di rivolgersi al ‘senatore’ per la questione della nomina di Antonio Piromalli a console onorario”. Antonio è figlio di Giuseppe “Facciazza” Piromalli, il boss che negli anni 90 che fu accusato – tra l’altro – di tentata estorsione e danneggiamento ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest in Calabria.

Anche il capostipite dei Piromallo si chiamava Giuseppe ed è l’uomo che trasformò la cosca da clan agricolo a holding con infiltrazioni in tutti i settori dell’imprenditoria. Divenne noto il 24 febbraio del 1994, quando durante un processo gridò dalle sbarre: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”. “Non è stata presa una posizione chiara e precisa dicendo che quei voti non li si voleva”, contesterà Achille Occhetto al leader di Forza Italia durante un confronto radiofonico. Il futuro premier replicò: “Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito”.

I “fratelli” impresentabili che stanno con la Meloni

Un assessore in Piemonte, un consigliere in Calabria, qualche deputato, persino il presidente del Consiglio comunale di Piacenza. La lista è lunga e, anche senza cedere alle retoriche della “questione morale”, pone un tema centrale nell’ascesa nei consensi di Fratelli d’Italia, partito in cui sempre più esponenti sono alle prese con inchieste e processi.

I guai riguardano soprattutto la classe dirigente locale, come testimonia l’arresto dell’assessore piemontese Roberto Rosso con l’accusa di voto di scambio, ultimo scandalo in un partito che da statuto rifiuta i condannati “anche in primo grado per reati infamanti” (quali?) ma che intanto ha fatto l’abitudine alle cronache giudiziarie.

Appena due giorni fa era stato arrestato Giancarlo Pittelli, coinvolto nella maxi-operazione calabrese contro la ‘ndrangheta: eletto parlamentare con Forza Italia, un paio d’anni fa era passato con Giorgia Meloni. L’estate scorsa era invece finito in carcere il presidente del consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso, anche lui coinvolto in una inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta. Secondo l’accusa, avrebbe messo “stabilmente a disposizione prerogative, rapporti professionali e amicali e gli strumenti connessi al proprio lavoro” per gli interessi della criminalità.

Una situazione che ricorda quella di Enzo Misiano, consigliere FdI a Ferno (in provincia di Varese) arrestato lo scorso luglio con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso: anche in questo caso, gli inquirenti sospettano che l’uomo di Fratelli d’Italia abbia avuto un ruolo nella penetrazione della ‘ndrangheta al Nord e in particolare in Lombardia.

Da Varese alla Calabria, c’è poi Alessandro Nicolò, consigliere regionale con un passato in Forza Italia finito in carcere a metà estate perché accusato di essere “referente politico” di una cosca. Secondo i pm, Nicolò avrebbe stretto “uno stabile e permanente accordo” con gli uomini della ‘ndrangheta per cui a lui venivano procurati “ingenti pacchetti di voti” e ai clan si garantivano “posti di lavoro, incarichi fiduciari presso gli enti locali, aggiudicazione di appalti” e così via. A processo ci andrà poi Remo Sernagiotto, ex assessore ai Servizi Sociali del Veneto passato (e si cade nel deja vu) da Forza Italia a Fratelli d’Italia. I reati contestati sono di truffa e corruzione e la vicenda riguarda una ex discoteca che sarebbe dovuta diventare una fattoria didattica grazie ad alcuni fondi riservati ai disabili, ma che invece era stata trasformata in una birreria.

Militante di lunga data è invece Pasquale Maietta, noto tra l’altro per essere stato anche il presidente del Latina Calcio. Nel 2018 è finito in carcere – poi ai domiciliari, adesso è libero – perché ritenuto il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio aggravato, al trasferimento fraudolento di valori, alla bancarotta fraudolente e a reti tributati e societari.

Tradotto: secondo l’accusa, Maietta e altri 12 indagati avrebbero costruito un sistema di frode con fatture false e società fittizie per generare, nell’arco di circa dieci anni, un’evasione fiscale di 200 milioni.

In un quadro giudiziario del genere, capi d’imputazione “minori” passano quasi in cavalleria. Giuseppe Cannata, vicepresidente del consiglio Comunale di Vercelli, eletto da indipendente nelle liste di Fratelli d’Italia e poi sospeso dal partito, è indagato per istigazione a delinquere. Motivo? Questo post su Facebook: “Ammazzateli tutti ste lesbiche, gay, pedofili”. Vicino Ferrara c’è invece Luca Cavalieri, assessore alle politiche giovanili di Lagosanto in Consiglio grazie a una lista collegata al partito guidato da Giorgia Meloni. Lo scorso settembre Cavalieri è stato beccato a comprare una dose di cocaina da uno spacciatore da tempo tenuto d’occhio dalle forze dell’ordine. Per lui nessuna indagine (comprare quel quantitativo non è reato), ma un piccolo scandalo politico che lo ha costretto alle dimissioni.

Ma ci sono anche le beghe, un filo più datate, di chi Fratelli d’Italia ha portato in Parlamento con le elezioni del 2018. È il caso della deputata Augusta Montaruli, che dovrà attendere un appello bis per il processo sulle spese pazze in Regione Piemonte (quelle delle celebri mutande verdi e del libro erotico Sexploration: giochi proibiti per coppie, istruzioni per l’uso), dopo che nel primo appello era stata condannata a un anno e sette mesi.