Dalla Dc a Fd’I, il “girovago delle casacche” sempre fedele soltanto alla sua ambizione

Qualche compagno di università e di partito sostiene di averlo visto passare interi pomeriggi davanti a uno specchio, per preparare i discorsi da tenere in pubblico. Di certo, l’ambizione smodata ha segnato la vita di Roberto Rosso, 59 anni, nato a Casale Monferrato e ras del Vercellese. Avvocato civilista, campione del trasformismo, un “girovago delle casacche”, come è stato definito, capace di transitare dalla Dc, e da varie sue correnti, alla lista di Mario Segni, da Forza Italia a Futuro e Libertà; e poi, ancora, di nuovo in Forza Italia e infine in Fratelli d’Italia. Tanto ambizioso, l’avvocato Rosso, da arrivare a pagare esponenti della ’ndrangheta, secondo le accuse che lo hanno portato in carcere, per spuntarla alle elezioni regionali del Piemonte di quest’anno, e diventare addirittura assessore. “Più che ’l dolor poté ’l digiuno”, insomma, per uno che è stato deputato in ben cinque legislature e due volte sottosegretario con Silvio Berlusconi.

Molto, in lui, è sdoppiamento e maschera. Basti pensare che aveva iniziato a fare parlare di sé come giustizialista. “Capace di capire subito da che parte spira il vento”, scrivevano di lui. Con l’amico Francesco Radaelli, agli inizi degli anni 90, crea il movimento “Mani pulite a Vercelli”. Un giorno si presenta al procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena con dei maxi-dossier su alcuni presunti scandali con mazzette miliardarie, che tuttavia non avranno seguito. Viene ricevuto dai pm del pool di Milano. E riesce comunque a far finire in carcere il sindaco e alcuni assessori della giunta Dc-Psi di Vercelli. Magari quelle denunce erano fondate. Resta il fatto che a Rosso importa assai poco del loro esito. Nel 1994, cambiato di nuovo il vento, approda a Forza Italia e, soprattutto, a Montecitorio.

Maschere e sdoppiamenti. Nel 2001 decide di correre, con la Casa della libertà, per la poltrona di sindaco di Torino, sfidando prima Domenico Carpanini, candidato dell’Ulivo morto tragicamente durante un confronto elettorale con lui, e poi Sergio Chiamparino, che lo sconfiggerà al ballottaggio. A Trino Vercellese, dove Rosso risiede, i commenti dei concittadini non sono benevoli. Interpellato da un cronista di Repubblica, un trinese sbotta: “Chi? Quello che qui si è fatto vedere per qualche ora durante l’alluvione di ottobre in golfino blu e scarpe da mezzo milione mentre noi non sapevamo come togliere il fango?”. E un altro rammenta che, alla fine del 1993, “lasciata la Dc, preparava i santini elettorali per il movimento di Mario Segni e contemporaneamente faceva gli esami ad Arcore per entrare in Forza Italia”.

Con “sentimenti anticomunisti”, Rosso si era iscritto a 19 anni alla Democrazia cristiana, scegliendo, diceva sempre Repubblica, una “delle correnti di maggior peso all’epoca, quella di Emilio Colombo, del quale diventa il ‘cocco’”. Quando la fortuna gira le spalle agli uomini di Colombo, Rosso “si abbarbica ad altri leader in ascesa: Giuseppe Botta, Silvio Lega”. E allorché “Giovanni Goria diventa presidente del Consiglio, Rosso gli è ‘fedelmente’ accanto. E quando Vito Bonsignore, il potente capo degli andreottiani in Piemonte, è sottosegretario al Tesoro, Rosso cambia ancora casacca”.

Un vizio che non perderà mai. Nel 2010, dopo essere stato per qualche tempo vicepresidente della Regione Piemonte guidata dal leghista Roberto Cota, abbandona Forza Italia e aderisce a Futuro e Libertà di Gianfranco Fini. Ritorna quasi subito con il Cavaliere; in un incontro, a Palazzo Grazioli, Berlusconi gli promette qualcosa. Promessa mantenuta: sarà sottosegretario alle Politiche agricole.

Nel 2011 l’ex preteso giustizialista rischia di essere condannato. Viene indagato per associazione a delinquere e peculato in un’inchiesta sull’utilizzo di fondi della Provincia di Vercelli. Verrà assolto nel 2014. La paura è passata, non l’ambizione e la voglia di seggiole & poltrone. Passa in Fratelli d’Italia, lo eleggono in Regione. I voti, però, adesso puzzano di mafia.

“Servivano 50 mila euro per altri 5 mila elettori”

Un solo partito governa la Calabria: quello degli affari. Soldi e voti erano l’ossessione dei politici coinvolti nell’operazione “Rinascita” che, giovedì all’alba, ha portato all’arresto di oltre 300 persone tra mafiosi e colletti bianchi legati alla cosca Mancuso di Vibo Valentia.

“Il denaro oggi la fa da padrona”. A due settimane alle Politiche del marzo 2018 Pietro Giamborino, ex consigliere regionale (Pd) finito ai domiciliari nell’inchiesta del procuratore Nicola Gratteri, è al telefono con il presidente della Camera di Commercio di Vibo, Michelino Lico: “Lo sai che mi ha detto… compare Nicola… se avevo denari che non mi servivano… 50 mila (euro, ndr), su Cosenza… acchiappava 5 mila voti in più”.

“Compare Nicola”, per gli investigatori, è Adamo, l’uomo forte del Pd che “gli avrebbe chiesto 50 mila euro per acquistare 5 mila voti su Cosenza per favorire la campagna elettorale della moglie Enza Bruno Bossio, candidata alla Camera”. Giamborino parla. Lico è scettico e Giamborino gli spiega: “A Vibo è notorio che c’era uno che portava a Stillitano (un ex consigliere regionale di centrodestra, ndr) di volta in volta altri cristiani… 300 voti e glieli pagavano davvero”.

I carabinieri non sono riusciti ad appurare se Giamborino abbia dato i 50 mila euro a Nicola Adamo per comprare i voti destinati alla moglie. Di certo, però, la confidenza su “compare Nicola” spiega come impazziscono i politici calabresi nei quindici giorni prima del voto. Con il marito al divieto di dimora, la Bruno Bossio attacca il procuratore di Catanzaro via facebook: “Gratteri arresta metà Calabria! È giustizia? No, è solo uno show! Colpire mille per non colpire nessuno. Anzi sì. Colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”. L’ossessione della Bruno Bossio è sempre la stessa. Nelle settimane scorse attaccò pubblicamente il segretario del suo partito, Nicola Zingaretti, accusandolo di essere subalterno a Gratteri nella scelta della mancata candidatura di Mario Oliverio.

Nella precedente legislatura, la deputata era in Commissione antimafia. Sempre per volere del marito, stando al racconto dell’ex consigliere regionale arrestato Pietro Giamborino. Quel posto lo voleva l’ex deputato del Pd Brunello Censore ma “gliel’ha impedito Nicola Adamo e hanno messo la moglie Enza”. Alle Politiche del 2018 il candidato del Pd nel Vibonese era Brunello Censore che, “secondo le considerazioni di Giamborino – scrivono i pm – avrebbe condotto la campagna elettorale con il supporto di Vito Pitaro”, altro dirigente del Pd ed entrambi “si sarebbero avvalsi dell’appoggio di esponenti della criminalità locale per garantirsi il bacino di voti”.

“Tutta la mafia vibonese vota a lui”. Per questo Giamborino non solo non ha sostenuto Censore ma ha votato per la candidata del centrodestra: “Per far valere il voto doppio – dice – togliere a lui e darlo a Wanda Ferro (FdI)”. Nei mesi successivi la politica è terrorizzata dalle manette. Altro che fuga di notizie negli ultimi giorni, come ha denunciato Gratteri. Già nel 2018, Giovanni Giamborino, il cugino del politico (anche lui arrestato), invitava i suoi a contattarlo solo su Whatsapp: “Sono momenti delicati – diceva – che qua sta partendo un’operazione che Vibo lo paralizzano, lo sai no? Oggi pomeriggio devo andare a Catanzaro da un avvocato per conto di quell’amico lì. Mi da tutte le cose”. Quell’amico era il boss Luigi Mancuso mentre l’avvocato era Pittelli, l’ex senatore di Forza Italia finito in carcere per concorso esterno. Quattordici mesi prima di essere arrestato, nell’ottobre del 2018, Pittelli è al telefono con alcuni giornalisti di testate nazionali: “La Calabria è una polveriera. Su Lamezia Terme c’è un’inchiesta terribile contro i professionisti, poi ce n’è una enorme su Vibo Valentia”. Tutti sapevano tutto.

“Voti pagati 15 mila euro” Arrestato Roberto Rosso

Il patto si basava su una promessa di 15 mila euro. Erano i soldi da dare a due presunti ’ndranghetisti in cambio del loro aiuto nel procacciare voti per le elezioni regionali in Piemonte del 26 maggio 2019, quanto basta a ipotizzare il voto di scambio politico-mafioso. L’accordo era stato stretto il 14 maggio tra Roberto Rosso, consigliere comunale di Fratelli d’Italia al Comune di Torino, poi eletto nel consiglio regionale del Piemonte e nominato assessore agli Affari legali dal presidente Alberto Cirio, insieme a Onofrio Garcea e Francesco Viterbo, originari di Vibo Valentia e ritenuti appartenenti alla cosca Bonavota (il primo già condannato in appello come esponente di spicco della ’ndrangheta a Genova).

Ieri mattina, i tre uomini insieme ad altri due intermediari, Enza Colavito e Carlo De Bellis, sono stati arrestati dalla Guardia di finanza di Torino nell’ambito dell’indagine “Fenice” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino. Le ipotesi di reato variano dall’associazione a delinquere di stampo mafioso al concorso esterno e fino al voto di scambio, l’accusa rivolta ai cinque indagati. Dal carcere, Rosso ha fatto avere una lettera di dimissioni a Cirio: “Un’accusa di questo tipo è la peggiore per chi vuole rappresentare le istituzioni, ed è totalmente incompatibile con il nostro modo di vedere la vita e l’impegno politico”, ha dichiarato il governatore.

“Fin quando questa vicenda non sarà chiarita, Rosso è da considerarsi ufficialmente fuori da Fd’I”, ha dichiarato Giorgia Meloni, ricordando che Rosso è entrato nella sua formazione da quasi un anno ed è risultato il più votato tra i suoi candidati in Piemonte. D’altronde Rosso non lesina sulle spese in campagna elettorale, tappezzando le città coi suoi manifesti. E forse muovendosi anche in maniere illecite.

Tutto comincia nella scorsa primavera. Colavito – riassume nell’ordinanza firmata dal gup Giulio Corato – aveva proposto a Rosso “la collaborazione con i due ’ndranghetisti”. Poi, “spinta dagli accadimenti giudiziari di Milano (gli arresti di inizio maggio, ndr), ha tentato di interrompere il legame lasciando la libertà di scelta a Roberto Rosso”. E il politico decide di mantenere i rapporti. “Non voglio fare brutta figura, eh”, confida la donna a Viterbo parlandogli della raccolta dei voti: “Dove vado ho sempre portato profumo, ho sempre fatto bella figura”, risponde lui. E infatti Viterbo e Garcea avrebbero voluto 50 mila euro per la loro opera, somma ritenuta troppo alta per soli venti giorni di lavoro, così si scende a 15 mila, ma infine ne incassano meno perché Rosso non si ritiene soddisfatto del risultato. Ricevono 2.900 euro prima del voto, mentre un’altra mazzetta viene passata il 17 giugno, “a saldo di quanto promesso”, ma non di quanto sperato.

Lo si capisce quando, dopo il voto, i due presunti ’ndranghetisti passano all’incasso e cominciano a chiedere a Rosso il dovuto, ma lui si oppone: “Son dei cacciapalle incredibili”, dice deluso al telefono. Ad esempio a San Gillio, paese dove vive Francesco Viterbo, le preferenze per il politico di Fratelli d’Italia sono soltanto due. I tre si incontrano, si scontrano e poi mediano: “Lui (Roberto Rosso, ndr) che è una persona intelligente, ha detto: ‘La verità sta nel mezzo, facciamo metà per uno’”, dice Colavito a De Bellis il 10 giugno. La metà di 15 mila euro sarebbe 7.500, di cui 2.900 già consegnati: restano 4.600 euro, ma alla fine si sarebbero accordati, grazie a Colavito, sui tremila euro. Dall’ordinanza di custodia cautelare, però, emergono altri episodi sospetti come i contatti con Franco Violi, già coinvolto nelle inchieste della Dda di Torino perché collegato alla cosca degli Agresta di Volpiano (To).

“Profondo e doloroso appare a questo giudice il vulnus ai meccanismi democratici, si legge nell’ordinanza del gup Corato, che ritiene inoltre “sconcertante la posizione del Rosso, nel suo apparente mostrare il lato peggiore della nobile arte” perché “appare muoversi sul terreno elettorale come un novello Didio Giuliano”, imperatore che acquistò la sua carica.

L’età della pietra

La rapida e vorticosa regressione del dibattito pubblico verso l’età della pietra, con tutto il rispetto per l’Uomo di Neanderthal, non è solo colpa dei social populisti e sovranisti. Ma anche dei loro presunti avversari, perché è il frutto di un impazzimento collettivo, che coinvolge anche chi dovrebbe fornire all’opinione pubblica gli strumenti logici e fattuali per farsi un’opinione informata e corretta: gli intellettuali e i giornalisti, sempre più prevenuti ed embedded nell’una o nell’altra banda. La settimana scorsa, quando il Minculpop renziano mise alla gogna la casa del privato cittadino Formigli che l’aveva pagata con soldi suoi, ma aveva osato chieder conto al politico Renzi della sua villa acquistata col prestito di un imprenditore da lui nominato a Cdp, ci è toccato spiegare un principio elementare che davamo per scontato e condiviso, e che invece pareva improvvisamente dimenticato o controverso: per i politici e gli altri pubblici ufficiali non esiste privacy su vicende di interesse pubblico. La stessa sensazione di dover ripartire ogni volta dall’Abc, anzi dalle aste, accompagna il dibattito pro o contro il processo a Salvini per la nave Gregoretti.

Come la pensiamo sulla questione, i nostri lettori lo sanno perché l’abbiamo spiegato fino alla noia nel caso simile (ma tutt’altro che identico) della Diciotti. 1) Che Salvini abbia agito nella funzione di ministro dell’Interno non è in discussione: lo riconoscono pure i giudici, altrimenti lo rinvierebbero a giudizio senza chiedere l’autorizzazione al Parlamento, prevista solo per i reati ministeriali. 2)È improbabile che Salvini venga condannato per sequestro di persona per aver tenuto bloccata per qualche giorno in un porto italiano una nave italiana carica di migranti, a prescindere dal giudizio morale (ovviamente negativo) che merita; però la valutazione non spetta al Parlamento, ma ai giudici, che vanno autorizzati a processarlo perché non tutti gli atti politici di un ministro sono di per sé leciti o insindacabili (così, fra l’altro, sapremo una volta per tutte se quello è un reato o no). 3) I 5Stelle sbagliarono gravemente a votare col centrodestra contro l’autorizzazione a procedere nel caso Diciotti, come scrivemmo per giorni e giorni invitandoli a ripensarci, ospitando le voci critiche al loro interno e criticando il voto-farsa su un quesito suggestivo e fuorviante della piattaforma Rousseau (il mio editoriale del 19 febbraio s’intitolava “Movimento 5 Stalle”). Ora, per coerenza, plaudiamo alla decisione di autorizzare il processo sul caso Gregoretti. Che peraltro è molto diverso dal caso Diciotti.

1) La Diciotti rilevò i naufraghi dopo un’operazione di salvataggio coordinata da Malta, cui spettava l’obbligo di indicare un proprio porto sicuro, anziché scaricare il barile sulla solita Italia; la Gregoretti ospitava migranti salvati in un’operazione tutta italiana, dunque indicare il Pos toccava all’Italia, mentre Salvini rifiutò. 2) La Diciotti è una nave adibita ai soccorsi in mare, dunque può ospitare decine di persone sotto coperta in condizioni accettabili; la Gregoretti è destinata alla vigilanza sulla pesca e non garantisce un’adeguata sistemazione ai profughi, che infatti vivevano e dormivano sul ponte, sotto la canicola (fino a 35 gradi). 3) Dalla Diciotti il governo fece subito sbarcare donne e bambini; dalla Gregoretti i minori poterono scendere solo per ordine della Procura minorile. 4) L’attesa della Diciotti in porto (agosto 2018) fu decisa perché prima Malta per il Pos e poi l’Ue per i ricollocamenti facevano gli gnorri; quella della Gregoretti (luglio 2019) fu decisa quando ormai il meccanismo dei ricollocamenti nella Ue era collaudato e non c’era dubbio che i migranti sarebbero stati distribuiti in vari Paesi. 5) Sulla Diciotti la decisione fu condivisa da Salvini con Conte, Di Maio e Toninelli, che infatti si autodenunciarono ai pm (anche se la responsabilità decisionale era esclusivamente del Viminale); sulla Gregoretti decise il solo Salvini, che mai portò la questione in Cdm, anche perché a fine luglio non parlava più con Conte né con Di Maio: Lega e M5S erano ai ferri corti su giustizia, intercettazioni, prescrizione, autonomie, flat tax e Tav, e Salvini si accingeva a rovesciare il governo. Tant’è che La Stampa il 29 luglio titolò: “Stallo sulla Gregoretti. Salvini resta solo, nessuna sponda da Conte e Mattarella”.

Dunque il M5S avrebbe avuto ottimi argomenti per mandare a processo Salvini sulla Diciotti, ma oggi ne ha ancora di più sulla Gregoretti. Sulla Diciotti disse No, e lo attaccammo. Sulla Gregoretti dice Sì, e lo applaudiamo. Si chiama coerenza e vi sarebbe tenuto chiunque altro criticò i 5Stelle sulla Diciotti. Invece, in questa folle corsa verso l’età della pietra, siamo circondati da “colleghi” che, alla vigilia di ogni scelta del M5S, tengono pronti due articoli: uno per dargli torto se dice Sì, l’altro per dargli torto se dice No. Come sulle Olimpiadi, sullo stadio della Roma, sul Tav ecc. Ieri l’intera stampa non poteva attaccare Salvini per le sue gravi condotte e le sue ridicole giravolte (dal “Processatemi subito” al “Guai se mi processano”) perché era troppo impegnata ad attaccare Di Maio per aver “cambiato idea”. Il bello è che gli stessi erano pronti ad attaccarlo anche se non l’avesse cambiata. È il loro personalissimo concetto di coerenza: i 5Stelle hanno torto sia che facciano A, sia che facciano il contrario di A. Giovedì, a Otto e mezzo, il compagno De Angelis definiva il Sì di Di Maio al processo a Salvini “una sconcertante disinvoltura politica dei grillini”. Secondo voi come avrebbe definito un No di Di Maio al processo a Salvini? “Una sconcertante disinvoltura politica dei grillini”. È la Salvinistra, bellezza! E poi si meravigliano se la Lega è ancora prima nei sondaggi.

Emilio Vedova, il gesto è punto di partenza

“Quando ero ragazzino… andavo sempre in Piazza S. Marco, in piazzetta a sorvegliare i pittori, a raccogliere la pulitura delle loro tavolozze, raschiate con la paletta. Facevo bottino, tornando a casa dipingevo con le dita, stendendo…”. Comincia già allora, da piccolo, il corpo a corpo con la materia pittorica di Emilio Vedova. Questa lotta di tutta la vita, in prima persona, viene ora messa in scena al Palazzo Reale di Milano. Per il centenario della nascita di Emilio Vedova (Venezia, 1919) si è appena aperta infatti una mostra, a cura di Germano Celant, di circa sessanta opere dagli anni Quaranta agli anni Novanta, accompagnata da una monografia edita da Marsilio. Altre iniziative hanno contribuito a celebrare il centenario: Emilio Vedova. Dalla parte del naufragio, documentario di Tomaso Pessina in cui Toni Servillo legge brani dei diari dell’artista. Testimone attivo degli avvenimenti del Novecento, il fascismo e la Resistenza, la ricostruzione del dopoguerra, le avanguardie politiche e artistiche, Vedova si mette in gioco con tutta la sua fisicità nell’affrontare la tela.

Nel suo studio ai Magazzini del Sale alle Zattere, un antro oscuro abitato dal colore, i suoi Plurimi ti venivano addosso e ti tendevano agguati mentre lui, altissimo e dalla fortissima gestualità si muoveva sprizzando energia, non stava mai fermo. La Sala delle Cariatidi, architettura settecentesca semidistrutta dai bombardamenti, ospita la mostra e rende in qualche modo l’atmosfera di quello studio: l’allestimento, di Alvisi e Kirimoto, taglia in diagonale la grande sala con un muro grigio di 34 metri, alto oltre 5 metri, mentre si confrontano opere degli anni Sessanta e degli anni Ottanta e Novanta che si affacciano dalle pareti, calano dall’alto o sorgono da terra provocando quello che Vedova avrebbe chiamato uno “scontro di situazioni”. Emerge il radicale linguaggio di Vedova, innovativo nel contesto internazionale. Vedova inizia con il disegnare le architetture delle chiese veneziane, prosegue ispirandosi agli squarci luminosi dell’amato Tintoretto, incontra Peggy Guggenheim e il suo “repertorio di cani pechinesi”, si scontra con Guttuso e il realismo socialista, ha un periodo geometrico che negli anni Cinquanta abbandona rompendo la superficie e lasciando che la pittura faccia irruzione nello spazio. Negli anni Settanta Plurimi più severi si muovono su binari rigidi, ma poco dopo con i Cosiddetti Carnevali (quelli veneziani, ma anche quelli vissuti a Rio) affronta la festa dionisiaca e pagana che riconnette il corpo dell’uomo all’energia corale della vita e della collettività.

 

Emilio Vedova

Palazzo Reale, Milano

Fino al 9 febbraio

Fari, spazzini e gourmet: 50 animali da record

And the winner is… il lofiforme abissale! Come cosa? Il pesce capace di illuminare a giorno persino il fondo di un oceano. La femmina di queste specie (ne esistono oltre 200) ha un’escrescenza sulla testa, che viene chiamata esca e che contiene batteri che producono luce. Alcuni esemplari possono addirittura far lampeggiare la propria illuminazione, non per creare l’effetto discoteca ma quello faro: solo che anzi che entrare in porto, la preda finisce direttamente tra le fauci. Non siete soddisfatti? Allora assegniamo un altro premio, quello al sommozzatore più abile: lo zifio. Si tratta di un odontoceto che può resistere in apnea due ore e 17 minuti, scendendo a una profondità di 3000 metri. E se il panda è l’animale più schizzinoso (mangia solo bambù, oltre 12 chili al giorno, motivo per cui fa la cacca almeno 100 volte in 24 ore), quello più autorigenerante è l’assolotto, che può farsi ricrescere zampe, mandibola, coda e persino parte degli occhi, del cervello e del cuore. Le curiosità contenute nei Record Bestiali, appena edito da DeAgostini, sono deliziose: cinquanta specie animali spiegate ai bambini attraverso un linguaggio semplice e capace di incuriosire anche gli adulti. A proposito, non tutti lo sanno, ma la miglior igiene pubblica è quella dell’avvoltoio, che non soltanto ci fa da “spazzino”, ma con il suo potente acido nello stomaco è capace di uccidere i batteri e non ammalarsi mai.

 

Record bestiali

Martin Jenkins

Pagine: 77

Prezzo: 12,90

Editore DeAgostini

Le fantasie oscure senza lieto fine del Giappone nel dopoguerra

Un uomo vessato dalla moglie decide di mettere la mano nella pressa, in fabbrica: una rapida amputazione è il modo più rapido per ottenere quel milione di euro di risarcimento che alla donna serve per realizzare le proprie ambizioni e aprire un locale. Il sacrificio però non porta felicità, soltanto altro risentimento domestico e così l’uomo investe una discreta somma, compra un acquario di piranha e infila nell’acqua la mano della donna. I pesci sono voraci. Si apre con questo racconto Piranha, il volume dei racconti più crudi di Yoshimiro Tatsumi tra quelli pubblicati in Italia da Oblomov. Tatsumi è uno degli esponenti cruciali del gekiga, il fumetto realista e drammatico che dagli anni Cinquanta si contrappone al manga di mero intrattenimento. Piranha è una raccolta degli anni Settanta, mentre in Italia e Stati Uniti il fumetto iniziava a diventare adulto, in Giappone era già cupo e disperato. Le storie di Yoshimiro Tatsumi sono quelle di uomini e donne che coltivano fantasie oscure, perversioni inconfessabili e quasi sempre riescono a realizzarle. Ma invece che appagamento, l’unico risultato sembra essere la violenza (il donatore di sperma riesce finalmente a incontrare la donna che vorrebbe beneficiare del suo Dna e cerca di violentarla…). Tatsumi ci immerge in un Giappone compresso, infelice e consapevole di poter scegliere solo tra frustrazione e tragedia. Ma sono racconti che trascendono il momento storico e il contesto che li hanno generati, sono colpi che tolgono il respiro e costringono il lettore ad ammettere di non essere così diverso dagli inquietanti personaggi che amano, uccidono e muoiono tra le pagine di Piranha.

 

Piranha

Yoshimiro Tatsumi

Pagine: 220

Prezzo: 20

Editore: Oblomov

 

La maledizione del faro di Cape Cod e l’incredibile vita di Arthur Costello

Il modo più surreale per festeggiare il proprio genetliaco. “La data mi fece sussultare. Dunque era il 4 agosto 1996. Il giorno del mio compleanno. Il giorno dei miei trent’anni. Erano trascorsi cinque anni da quel mattino di giugno del 1991. Il mattino in cui mio padre era venuto da me per trasmettermi l’eredità avvelenata costituita dal faro dei 24 Venti. Cinque anni passati in cinque giorni”. Ecco il punto.

Arthur Sullivan Costello, che ha il padre medico che si chiama Frank – come il noto mafioso italo-americano dei primi del Novecento – è la vittima designata di un’incredibile maledizione. Già caduta sul nonno Sullivan epperò schivata dal papà furbone Frank. Questa: chi entra nelle viscere del faro di proprietà della famiglia a Cape Cod è condannato a sparire e a vivere un solo giorno all’anno. Per la durata di quasi un quarto di secolo. Ventiquattro anni come i ventiquattro venti del faro. Dal 1991 al 2015 il povero Arthur, medico come Frank, ogni volta viene catapultato dal nulla in una zona di New York, lui che abita a Boston. Ma è qui che ritrova il nonno, che si pensava fosse morto e invece è rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Il nipote lo fa evadere e insieme cercano di deviare questo maledetto destino, sulla base della loro esperienza. Nel frattempo Arthur s’innamora di Lisa e mette persino su famiglia. Ma cosa succederà una volta che passeranno i ventiquattro anni? L’istante presente è l’ultimo thriller di Guillaume Musso, uno dei più venduti autori noir degli ultimi anni. Il mistero di Arthur è un po’ straniante per i cultori razionali del noir, ma la molla della curiosità scatta e si arriva al finale, ovviamente sorprendente.

 

L’istante presente

Guillaume Musso

Pagine: 332

Prezzo: 18

Editore: La nave di Teseo

La Pianura è il luogo in cui (non) perdersi

“Non ci provare nemmeno”, intima l’uomo del bianco e nero. Scarmigliato, pelle grassa e porosa, labbra inesistenti, naso prominente ma inutile (soffre di anosmia: non sente gli odori), ti fissa con occhi ai quali ha appena fatto la punta, e aggiunge: “Leggi. E basta. Oppure lascia stare e… amici come prima. Capisci? Non capisci? Ti piace? Non ti piace? Affari tuoi. Io sono questo. E scrivo questo. E ora va’: devo lavorare”. Non me l’ha mai detto. Ma immagino l’avrebbe fatto, tornando a pulire il bancone del bar della polverosa cittadina australiana da poco più di seicento anime, nella quale conduce un’esistenza da quasi eremita. È Gerald Murnane: Melbourne, classe 1939. Sebbene sia – non a torto – considerato uno dei più grandi scrittori in lingua inglese, è pressoché sconosciuto al grande pubblico. E anche al piccolo. Né i diciannove tra romanzi, racconti e saggi, gli otto premi vinti o la candidatura al Nobel gli hanno ancora restituito la luce che la sua scrittura cattura e sprigiona. Luce rara. Rarissima, anzi. Rugginosa come i deserti dell’outback, limpida come i cieli che li sovrastano, accecante come entrambi. Le pianure – scritto nel 1982 ma appena pubblicato in Italia per la prima volta, grazie al fiuto di Safarà, nella traduzione felicemente murnaniana di Roberto Serrai – è un piccolo grande libro. Facile da leggere (124 pagine), difficile da capire, impossibile da dimenticare. Si ama o si odia: niente mezze misure. Come non ce ne sono nell’anima che guida l’indice della mano destra dell’autore sui tasti di una Remington del ’65: una delle sue tre macchine da scrivere. Né un romanzo né un saggio. E nemmeno un “poema in prosa”, come scrive Ben Lerner nell’intensa prefazione. Prosa e poesia convivono, è vero. Magistralmente. Ciò che lega questo libro, però, è una scrittura profonda e ricchissima di suggestioni, che va dove la porta il pensiero, in un volo – disordinato eppure sorprendentemente armonico – di stormi di impressioni, riflessioni, dubbi, domande, ricordi, suggestioni. Un fluire che somiglia al filo d’inchiostro, zeppo di cancellature, rimandi, sgorbi nervosi, macchie e lacune, del finale de Il Barone Rampante. Una grande metafora. Sia per dimensioni che per valore.

La storia è puro pretesto: un “cineasta” è alla ricerca di elementi per la sceneggiatura di un film. Solo il cinema, infatti, può mostrare “il remoto orizzonte dei sogni come un paese abitabile e, al tempo stesso, trasformare paesaggi familiari in uno scenario vago, adatto solo ai sogni”. Di quale paesaggio parliamo? Della pianura. Non “un grande teatro che aggiunge significato agli eventi che si recitano al suo interno”, né “un immenso campo d’azione per esploratori di ogni genere”. Semplicemente una “comoda fonte di metafore per chi sa che sono gli uomini a inventare i loro significati”. L’unica terra che possa trovarsi al di là o all’interno di tutto ciò che l’eroe del film abbia mai visto: “la Pianura Eterna”. A noi scoprire cosa sia e dove si trovi. Gerald Murnane non è mai salito su un aereo. Ha fatto bene. Non gli serve. Più in alto di così il suo sguardo, così fisicamente metafisico, non sarebbe potuto salire. Da non perdere. Per non perdersi.

 

Le pianure

Gerald Murnane

Pagine: 124

Prezzo: 18

Editore: Safarà

Mostri, elfi e streghe: con “The Witcher” Netflix anticipa tutti i competitor

Le energie creative dei grandi network sono più che mai impegnate a trovare il “prossimo” Trono di Spade. Hbo ha già annunciato House of Dragons, il prequel sulla famiglia Targaryen ambientato 300 anni prima. Amazon ha speso 250 milioni di dollari per i diritti de Il Signore degli Anelli. Netflix invece ha anticipato i tempi con The Witcher, disponibile da oggi e già rinnovato per la seconda stagione. I punti di contatto con la serie-evento dell’ultimo decennio non mancano. The Witcher è basato su una saga molto conosciuta dagli amanti del fantasy – i libri di Andrzej Sapkowski sono tradotti in 37 lingue – ma non ancora dal grande pubblico. Pure l’ambientazione è simile: un mondo medievale popolato da uomini e stregoni, elfi e creature mostruose, con regni ed eserciti in guerra fra loro. La serie di Netflix si focalizza però sui tre personaggi principali e non arriva ai livelli di coralità del Trono. E poi non segue i romanzi in maniera lineare (così il problema di attendere i nuovi libri è risolto in partenza…). Si inizia con l’invasione di Cintra da parte dell’impero di Nilfgaard e con la fuga della principessa Ciri. Geralt di Rivia, intanto, è impegnato a uccidere mostri: è così che si guadagnano da vivere i witcher, creature geneticamente modificate e addestrate per cacciare le creature malefiche. La terza protagonista è Yennefer, una ragazza deforme che viene scelta per diventare una strega. In che modo sono collegati i tre? Per capirlo bisogna aspettare qualche puntata.

La serie richiede un po’ di pazienza a chi non ha letto la saga oppure giocato ai videogame tratti dai romanzi. I primi episodi servono a entrare nel mondo creato da Sapkowski: quali sono i regni e le creature in lotta, chi sono i witcher, quali personaggi hanno poteri magici e per farci cosa. Per rendere il compito ancora più difficile la showrunner Lauren Schmidt Hissrich ha pensato bene di passare continuamente dal presente al passato al trapassato. Ma siamo certi che gli amanti del fantasy si spremeranno volentieri le meningi per capire cosa sta succedendo sullo schermo.