Il cielo (sereno) sopra Barbareschi

“Il giardinaggio andrebbe messo fuori legge”: questa e altre irresistibili scorrettezze regala Saverio, protagonista de Il cielo sopra il letto del britannico David Hare. Il titolo non proprio felice dell’edizione italiana – al posto dell’originale Skylight, “lucernario” – non inficia comunque la felicità dell’allestimento, firmato da Luca Barbareschi, anche in scena con Lucrezia Lante della Rovere e Paolo Marconi.

La pièce è stata originariamente prodotta dal National Theatre di Londra nel 1995, vincendo il Laurence Olivier Award, ed è poi stata riallestita per Broadway nel 1997, aggiudicandosi un Tony Award; ora in Italia ne cura la traduzione e l’adattamento – molto romano, invero – il regista-attore che, nelle note, spiega: “Pur essendo una straordinaria introspezione del rapporto uomo-donna, Il cielo sopra il letto diventa mirabilmente uno statement politico sullo scontro tra politically correctness e pensiero razionale”, tra la lucidità e il cinismo di Saverio (Barbareschi) e il candore bacchettone di Elisabetta (Lante della Rovere), sua ex amante.

La trama, dunque: Saverio è un rampante imprenditore, da un anno vedovo della bellissima moglie Alice; Elisabetta, viceversa, conduce una vita modesta in periferia, tra la Magliana e il Corviale, dove insegna a ragazzini disagiati e borderline. Sono tre anni che la donna è fuggita dalla casa dell’adultero, una volta scoperto il loro tradimento, ma l’uomo non l’ha mai dimenticata, soprattutto ora che è rimasto solo con un figlio perdigiorno da mantenere (Edoardo, alias Marconi) e una figlia all’estero a studiare. Dlin dlon: chi mai potrà essere a suonare alla porta di casa di Betta, in una gelida serata prenatalizia? L’intreccio amoroso di (ex) corna e rimpianti è il più scontato, ma l’incontro non deflagrerà tanto sui sentimenti quanto sulle inconciliabili visioni del mondo e posizioni ideologiche, trasformando il fogliettone in una riflessione politica, lato sensu. Perdibilissimi, quindi, l’inizio e il finale dell’opera, cui l’autore si è affezionato per dare alla trama circolarità graziosa e una boccata d’aria speranzosa: è Natale, dopotutto. Apre e chiude la pièce, infatti, il figlio scapestrato, mediatore tra i due spasimanti e il più pallido personaggio in commedia, tra lo stinto e lo scemo, come chi compra una “sciarpa dell’intifada firmata Dolce e Gabbana”.

Il beffardo realismo anglosassone rende digeribili le due ore e mezza di chiacchiere – oggettivamente scorciabili – e il secondo atto, in particolare, è un trattato di nevrosi contemporanee filtrate dal buco della serratura e interpretate dai bravi primattori, entrambi molto in parte e con un ottimo feeling scenico, lui dal piglio sbruffone ma anche ironico, lei composta eppur intensissima. Si vorrebbe tanto fare il tifo per Betta, ma alla fine il più simpatico è proprio il sardonico e alticcio Saverio, che almeno non confonde la bontà col buonismo, non ha bisogno di amare l’umanità per disprezzare il prossimo (malattia tipica di chi ha letto i Karamazov), non vede premi Nobel in ogni straccione incontrato sull’autobus. Anche perché lui, sull’autobus, non ci sale nemmeno.

 

Roma, Teatro Eliseo, fino al 5 gennaio

Il cielo sopra il letto

di David Hare

Luca Barbareschi

Per Nolan budget milionario e spionaggio internazionale

S’intitola Tenet l’undicesimo lungometraggio di Christopher Nolan dall’imponente budget di 225 milioni di dollari che verrà distribuito dalla Warner Bros. a metà luglio del 2020. Il 49enne sceneggiatore e regista londinese oggetto di culto cinefilo universale grazie a film epocali come Memento, Inception e i due capitoli de Il cavaliere oscuro è tornato sul set per dirigere un racconto epico d’azione ambientato nel mondo dello spionaggio internazionale e interpretato da grandi star come John David Washington (protagonista di BlacKkKlansman di Spike Lee), Kenneth Branagh, tornato a recitare per Nolan a due anni dal kolossal Dunkirk, Robert Pattinson, Michael Caine e Elizabeth Debicki. Per le riprese effettuate tra Danimarca, Estonia, India, Italia, Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema (Interstellar) ha utilizzato per l’occasione una combinazione di pellicola da 70 mm e IMAX.

A 14 anni dalla sua opera prima L’amore sospetto lo scrittore Emmanuel Carrère ha diretto in Normandia Juliette Binoche in Le Quai de Ouistreham, il suo secondo film da regista intitolato come l’omonimo romanzo-inchiesta di Florence Aubenas ribattezzato in Italia La scatola rossa. La giornalista francese di Liberation aveva descritto nel libro la sua esperienza di “infiltrata” nel mondo del precariato che la aveva portata a lavorare per sei mesi in incognito come donna delle pulizie sul ferryboat di Ouistreham che attraversa la Manica.

Adam Driver e Marion Cotillard hanno interpretato insieme a Los Angeles Annette, il primo film girato da Leos Carax in lingua inglese che racconta in chiave di musical la storia di uno stand-up comedian e di una cantante lirica che scoprono un dono speciale di cui è dotata la loro bambina di due anni.

 

Il Cinema è la vera arte del Ritratto

Quarto lungometraggio diretto da Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu) ha vinto il Prix du Scénario al 72esimo Festival di Cannes, dove la regista francese partecipava per la prima volta in Concorso, ha bissato agli European Film Awards ed è in lizza per i Golden Globes.

Film in costume ma non troppo (seta bandita, vestiti non iperbolici), senza musica eccezione fatta per un pezzo stregato e sororale, è ambientato alla fine del Settecento su un’isoletta della Bretagna, dove la Sciamma ricava un hortus conclusus di sole donne, in cui la presenza maschile è parentetica e occasionale e le conseguenze del maschile improvvide e nefaste.

L’amore proibito è quello tra una giovane pittrice, Marianne (Noémie Merlant), e la ragazza, appena uscita di convento e già promessa sposa, che deve ritrarre su indicazione della madre (Valeria Golino), Héloïse (Adèle Haenel, anche nel primo film della Sciamma del 2007, Naissance des pieuvres). L’una deve dipingere l’altra senza che questa se ne accorga, ovvero deve mandarne a memoria i tratti, e il carattere, e quindi riprodurli su tela: siamo, si capisce, nei territori della riflessione sull’arte stessa, e la valenza metacinematografica non abbandona mai le sontuose, romantiche immagini della Sciamma (fotografia di Claire Mathion).

L’idea, lo stile, il predominio della forma sul contenuto, è questa la forza del film, che ha un’architettura a tesi, che è esplicitamente paradigmatico e, di più, programmatico: è il cinema, nell’intensità delle interpreti, nell’empatia della macchina da presa e nel gusto pittorico del décor, a far sì che l’autodeterminazione femminile e femminista non rimanga un macigno a monte ma arrivi a valle con eleganza ed efficacia. Insomma, è la bellezza del film che – come preferite – suggerisce, catalizza o preserva la bontà della tesi, ed è questo il suo guadagno, e la differenza sensibile su altri coevi campioni cinematografici del women’s empowerment.

It’s a woman, woman, woman’s world, e noi uomini possiamo – solo – stare a guardare o – i più illuminati – a riflettere, ma il Ritratto si fa vastamente apprezzare. È il lavoro più maturo della Sciamma, che stupì favorevolmente con Tomboy nel 2011 e convinse meno tre anni più tardi con Diamante nero (sua anche la sceneggiatura dell’animazione La mia vita da zucchina, 2016), e ha due scene cardine: la prima, un intenzionale colpo basso, inquadra un aborto praticato alla presenza di bambini; la seconda, ugualmente programmatica ma più raffinata, ruota intorno allo specchio ad altezza della vagina di Héloïse su cui si riflette lo sguardo di Marianne, a dire della pulsione scopica e del voyeurismo, anche di genere.

Non è, dunque, la militanza a farcelo apprezzare, bensì la fattura, e in questo fortunato caso la prima a saperlo è la regista, Céline Sciamma: per dire la propria sul mondo non serve il megafono, ma il Cinema.

 

“In una stanza a Londra ero come Virginia Woolf”

Gianna Nannini è pazza. Da sempre e per fortuna. Lo dimostra anche nell’ultimo disco, La differenza. Nell’era dell’iper-tecnologia, si è presa “una stanza a Gloucester, come mi ha involontariamente ispirato Virginia Woolf nel suo Una stanza tutta per sé”. Lì ha scritto “un disco nato in nove mese, come una bambina”. E poi è volata, su consiglio dell’amico Dave Stewart (ex Eurythmics), a Nashville. Dove non conosceva nessuno e aveva un’idea fissa: “Trovare una killer band che suonasse tutto live: buona la prima, senza overdubs e trucchetti. Come si faceva una volta. Così è stato. Quando hanno sentito la mia voce, mi hanno detto che era una voce da nera e che dentro ci sentivano l’America. Ripetevano ‘awesome’, e io non sapevo cosa volesse dire. Poi l’ho capito: per loro, la mia voce era ‘impressionante’”. La differenza è un disco ispirato e diretto, con una parte centrale (Gloucester Road, L’aria sta finendo, Canzoni buttate, Per oggi non si muore) di particolare pregio.

“La differenza” sembra come un modo di tornare ai suoi dischi di 35-40 anni fa.

Non a caso a supervisionare c’è Mauro Paoluzzi, con me in Latin Lover (1982). Sognavo un disco dove tutto suonasse come se provenisse da uno strumento solo. In Italia non facciamo mai gruppo, infatti non esiste una band seria o quasi. Qua dentro invece siamo stati band. Anche nei testi, col mio amico di sempre Pacifico. E i luoghi mi hanno ispirato.

Londra, Nashville.

A Londra, sotto la mia stanzetta, abitava uno scrittore inglese di 91 anni. Parlando con lui mi sentivo quasi Virginia Woolf sul serio. Nashville, oltre al country, sin dagli anni Quaranta è sempre stata la “music city” del Mid-South: blues, r&b, jazz, gospel. Credo che mi abbia permeato.

“Siamo stati stupidi a invecchiare”. È quel che canta nella splendida “L’aria sta svanendo”.

Il mio mentore Conny Plank mi diceva sempre: “Stay young”. Resta giovane. Come si fa? Si invecchia non con l’età, ma quando si smette di aver voglia di cercare e scoprire. È lì che i sentimenti diventano tossici. Che la vita stessa diventa tossica. E si muore. La ripetitività ci rassicura, ma al tempo stesso ci uccide.

Zucchero ci ha detto che avverte un paese depresso e incapace di arrabbiarsi.

Abito a Milano e lei sta rinascendo. L’Italia intera no, è piena di problemi, ma preferisco sottolineare le cose belle. Certo non ci vogliamo bene per niente: ero a Barcellona e lì sono giustamente orgogliosi del flamenco. Noi invece ci vergogniamo delle nostre tradizioni, e per far suonare come si deve – cioè a modo mio – un cazzo di mandolino sono dovuta andare a Nashville.

Spopolano le Sardine, ma pochi ricordano che nel ’95 lei si arrampicò sul balcone dell’ambasciata francese per protestare contro i test nucleari di Chirac a Mururoa.

Ogni protesta democratica mi piace, ma sulle Sardine per ora non mi esprimo. Chi sono, chi c’è dietro? Quando mi arrampicai, ero molto dentro Greenpeace. La mia band aveva paura di essere arrestata e mi lasciò sola. Ne trovai un’altra, i Settore Out. La polizia staccò il generatore della corrente, così mi arrampicai – al tempo facevo roccia – e cantai col megafono Boris Vian. Nel frattempo i compagni bloccavano la polizia, io stavo sul balcone e tecnicamente non era “invasione”. Sono andata avanti due ore col megafono.

Che c’entra una ribelle come lei con Massimo Ranieri? Era una sua “groupie”.

(Ride) Venivo da una cultura contadina, in casa si guardava la tivù con Modugno. Per un po’ ho pensato che il bel cantato fosse incarnato da Massimo Ranieri. Così ero sua fan. Di lui e di Nada.

L’ha scoperta Mara Maionchi.

Al mio provino si mise a piangere. Poi spaccò un tavolo dalla rabbia perché volevo cercare un altro manager. E quel tavolo me lo mise pure in conto, detraendolo dalle royalties. Un problema, perché in quel periodo non vendevo nulla.

Gabriele Salvatores.

Recitai nel suo Sogno di una notte d’estate (1983). Registrammo tutto di notte e la cosa mi sballò parecchio. È un film azzardato, teatrale e molto innovativo. Da riscoprire.

Michelangelo Antonioni.

Girò il video di Fotoromanza, anche se lui avrebbe preferito la più monocorde L’urlo. Anno 1984. Stavo con un ragazzo che si rubò tutta la scenografia: povero Michelangelo, aveva una sceneggiatura pazzesca e girò senza niente! Era il mio mito, ma all’epoca non c’ero tutta con la testa e non me la sono goduta appieno. Prima di quel video non c’eravamo mai visti. Antonioni sapeva creare emozioni ancestrali: nella scena chiave, ha aspettato tre ore prima di darci il ciak. Voleva che mi battesse davvero il cuore. E solo quando mi ha battuto davvero, e non so come lo abbia capito, ha dato il ciak. È venuto tutto alla prima. Un genio.

La Corte Ue complica la vita a Sánchez

Sembrava quasi fatta, invece la giustizia europea ha messo sulla strada dell’eterno nascituro governo socialista di Sánchez l’ennesimo intoppo. La Corte infatti ha decretato ieri che Oriol Junqueras, ex vicepresidente catalano in prigione a scontare 13 anni per sedizione e malversazione, era già un eurodeputato a tutti gli effetti fin dal risultato delle Europee di maggio, pur non avendo mai preso posto tra i banchi perché, appunto, in prigione preventiva in attesa di sentenza. Dunque l’esponente politico avrebbe avuto diritto di godere delle immunità, tra cui quella di non essere detenuto, se non con un preciso consenso di Strasburgo. Il Parlamento europeo, con il presidente, l’italiano David Sassoli, dà ora ordine a Madrid di rispettare la sentenza e riconoscere lo status di europarlamentare a Junqueras, mentre studia il caso degli altri eletti Charles Puigdemont e Toni Comin. Risultato? Mentre l’Alta corte spagnola cerca di trovare la quadra e gli indipendentisti catalani esultano tra i banchi del Parlamento chiedendo la liberazione di tutti i detenuti “politici”, il premier uscente nonché incaricato dice di riconoscere e rispettare la sentenza europea, ricordando, però, che niente ha a che vedere con quella emessa dal Tribunale supremo sui fatti dell’1 ottobre 2016 e la dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte di Junqueras e compagni.

Questi diversi punti di vista hanno un’unica conseguenza: lo stop al dialogo tra i socialisti e gli indipendentisti per l’appoggio al nuovo esecutivo, l’ennesimo in un anno di trattative e tavoli negoziali, che potrebbe portare a un nuovo stallo politico per la Spagna già andata alle urne due volte in un anno. “Questa volta però è la politica a dover fare le sue scelte”, ha sentenziato la vicepresidente di Sánchez, Carmen Calvo all’arrivo della decisione da Lussemburgo. “Mentre i tribunali lavorano per far rispettare le loro decisioni, la politica si deve concentrare sulla politica con accordi e negoziati”, è stato l’appello di Calvo, inascoltato dagli indipendentisti catalani. Per Esquerra repubblicana, infatti, il dialogo riprenderà solo dopo che i suoi avranno avuto giustizia, il che per il vicepresidente Pere Aragones coincide con la libertà per i detenuti. Sui negoziati, poi, pesa anche la condanna – arrivata ieri con un tempismo quasi perfetto – del presidente della Generalitat Quim Torra a un anno e mezzo di inabilitazione dai pubblici uffici e 30 mila euro di multa, per non aver rispettato l’ordine del Garante elettorale di ritirare dagli edifici pubblici i vessilli della Repubblica. Sentenza contro cui Torra è già ricorso in Appello, il che significa che “il cattivo” – accusato da Madrid di non aver condannato le violenze dei manifestanti indipendentisti – resta in campo per le trattative. Come potrebbe rientrare in partita anche Puigdemont, se il Parlamento europeo dovesse decidere per la sua abilitazione e quindi il riconoscimento degli europarlamentari catalani eletti a maggio.

Puigdemont, in questo caso, avrebbe l’immunità e potrebbe tornare in Spagna, diventando a tutti gli effetti un interlocutore del governo. È ancora presto per dirlo, ma un paradosso per ora salta agli occhi: gli indipendentisti, i quali se avessero ottenuto la separazione dalla Spagna nel 2016 in Europa non avrebbero più posto, potrebbero ottenere la scarcerazione e sedere a Strasburgo per mano della giustizia europea.

Dopo Ankara, Sarraj chiede aiuto militare anche all’Italia

Mentre le milizie di Haftar continuano a tentare di entrare a Tripoli senza successo, per ora, nonostante l’uomo forte di Bengasi l’avesse annunciato già la scorsa settimana, il governo libico di Accordo Nazionale riconosciuto dalle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al-Sarraj avrebbe accettato l’offerta di supporto militare e logistico avanzata la settimana scorsa dalla Turchia. Al-Serraj ha inoltrato anche una richiesta ufficiale di aiuti militari a Italia, Algeria, Gran Bretagna e Stati Uniti, i Paesi che sostennero l’operazione Bunyan al Marsus lanciata dalle forze di Tripoli e di Misurata contro l’Isis a Sirte. Ieri il governo di Accordo nazionale (Gna) avrebbe fatto il primo passo per tradurre in pratica l’accordo di sicurezza e sull’ampliamento delle acque marine nazionali siglati tra Serraj e il presidente turco Erdogan a Istanbul tre settimane fa. L’invio di armi e personale militare viola l’embargo sancito dalle Nazioni Unite. Ma Erdogan si è giustificato dicendo che lo violano anche gli altri Paesi che sostengono Haftar, cioè Egitto, Giordania, Emirati Arabi e Russia. Anche se il Cremlino ha smentito la presenza di mercenari della società di sicurezza privata Wagner operativa da almeno un paio d’anni in alcuni paesi africani in guerra civile, la loro attività al fianco di Haftar è stata provata. Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, appena rientrato dalla Libia, durante l’incontro di ieri a Brindisi con il segretario dell’Onu Guterres, ha ribadito che “una guerra in Libia significa anche avere un rischio terrorismo a poche centinaia di miglia dalle coste italiane, Significa avere instabilità in buona parte del Nordafrica, un grave problema il Mediterraneo”.

Mosca, assalto ai Servizi: tanti spari, poche verità

Le note di un lussuoso concerto di gala. L’eco degli spari nelle strade di una Mosca buia, subito illuminata dalle luci blu di cinque ambulanze. Le sirene d’emergenza per trasportare in ospedale i feriti. Mentre ieri Putin inaugurava con poche parole e qualche sorriso, dopo la sua tradizionale conferenza di fine anno, un concerto in onore dei servizi di sicurezza al Cremlino, la leggendaria Lubyanka, sede dell’Fsb, i servizi segreti figli del Kgb dove lo stesso Putin è cresciuto, è stata violata, colpita e attaccata. Tutto il quartiere è stato trincerato.

“Attacco terroristico” è il bollettino dell’agenzia che qualifica subito così lo scontro a fuoco: “Un ufficiale dell’Fsb è morto, un individuo non identificato ha aperto il fuoco lungo la strada Bolshaya Lubyanka, il criminale è stato neutralizzato”.

Le prime notizie riguardano almeno un morto, che con lo scorrere dei minuti, diventeranno tre, per poi tornare a uno solo: quello vestito di nero, ripreso dalle telecamere di sorveglianza, che si accascia esanime nei pressi del palazzo bianco. La notizia dei tre morti – di cui le stesse agenzie del Cremlino avevano inizialmente riferito – è stata smentita dalla stessa Fsb. I media russi parlavano di un colpo esploso lungo la strada Kusnezky most nel buio delle sei nell’ufficio di ricezione dell’agenzia segreta, di due assalitori morti subito, eliminati nell’impatto del primo scontro a fuoco, e di un terzo assalitore, liquidato in fuga, dopo 300 metri, in piazza Vorovsky. Falso secondo l’Fsb: l’assalitore è uno solo e non sarebbe riuscito ad entrare all’interno dell’edificio, è stato ammazzato prima. Una granata è stata trovata nel suo zaino perquisito dalla squadra degli Omon, polizia antisommossa. L’uomo, ancora non identificato, aveva un kalashnikov. Ma la domanda di Mosca è un’altra: come ha fatto ad arrivare fin lì, nel cuore dei servizi segreti?

Con il trascorrere delle ore aumenta la nebbia sulle informazioni. Né Rossia 1 né il Pervy Kanal, le televisioni russe più seguite, hanno diffuso subito la notizia della sparatoria in corso nella Capitale. Le spie non commentano. Colpito con un proiettile che gli ha perforato la fronte, un membro dell’Fsb è morto in ambulanza, ma secondo il ministero della Salute russo, sono due i dipendenti dell’agenzia colpiti. Uno dei feriti è stato portato in sala operatoria.

Mentre inquirenti e forze dell’ordine indagano, una stampa russa che annaspa per trovare conferme scrive nejasno, non è chiaro: si riferisce al numero dei morti, ma riporta la cifra di cinque feriti certi. Quanti siano precisamente gli aggressori e i feriti nemmeno l’Fsb lo specifica: non usa un numero ma una parola per spiegare la situazione: pod’em. In aumento.

Artisti, terroristi, manifestanti. La Lubyanka di Mosca è simbolo avverso per i nemici del potere, per i suoi fedeli è invece icona sacra ed inviolabile. Nel 1991 la statua del suo fondatore Felix Dzerzhinsky, a capo della polizia segreta di Lenin, fu rimossa da rabbiosi dissidenti di una Unione sovietica al collasso. Bersaglio dei membri dello Stato Islamico prima e teatro della performance dell’artista Pyotr Pavelensku nel 2015 – che appiccò il fuoco alle sue porte di legno per protesta contro “l’innegabile terrore esercitato su 146 milioni di cittadini” – il leggendario palazzo della Lubyanka, sede nera di interrogatori, detenzioni, morte di prigionieri politici, oppositori, spie, è stata colpita ieri all’alba dell’anniversario della sua antenata. Oggi si celebra in Russia la nascita della Cheka, polizia segreta sovietica, creata da Lenin. Si trasformò nel Kgb in cui è cresciuto Putin, per diventare ancora Fsb, dove nel 1996 il presidente tornò da direttore.

Trump e l’impeachment. Il senatore che smonterà il “complotto” dei Dem

Lo scudo anti-impeachment di Donald Trump al Senato è un uomo mite, che, fra un anno, dovrà riconquistarsi il seggio in uno Stato divenuto difficile, il Kentucky, e avrà quindi bisogno dell’ombrello protettivo del suo presidente. Dunque, la lealtà a Trump di Mitch McConnell, capogruppo dei Repubblicani al Senato, non ha limiti: il senatore arriva al punto di dichiarare che lui non si sentirà vincolato all’imparzialità, nell’amministrare la giustizia il mese prossimo (o quando sarà, ché adesso i Democratici hanno in animo tattiche dilatorie).

Sui suoi collaboratori, e non solo, il presidente è uomo dai facili entusiasmi e dai cambi d’opinione repentini. Ora, stravede per McConnell, ma in passato l’aveva pure bollato come un buono a nulla, quando una fronda interna al gruppo repubblicano aveva fatto annullare l’atteso voto sulla revoca dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Barack Obama. Il mite, ma abile Mitch si era riscattato nel giro d’una settimana: con un voto procedurale, provato sul filo del rasoio (50 a 50 e il suffragio determinante del presidente del Senato, e vicepresidente Usa, Mike Pence), l’assemblea aveva accettato di riprendere la discussione sulla riforma sanitaria.

E poco importa che, alla fine, tutto sia rimasto nel limbo: Trump è contento se dà l’impressione d’avere fatto qualcosa; farla, non è necessario. Con il presidente ci sono stati altri alti e bassi, specie al tempo dello shutdown, un anno fa, quando i Repubblicani non riuscirono a sbloccare i fondi per la costruzione del muro anti-migranti lungo il confine con il Messico.

Addison Mitchell ‘Mitch’ McConnell, 77 anni, un altro pezzo della gerontocrazia statunitense, va su e giù sulle montagne russe del gradimento presidenziale, ma il magnate lo considera uno dei suoi, magari non il più smart, ma uno solido e affidabile. Con il passare degli anni, McConnell colleziona record: è il senatore del Kentucky rimasto in carica per più tempo – dal 1984 a oggi, sta per esaurire il sesto mandato – ed è il capogruppo repubblicano più longevo (resiste dal 2002). Noto per essere un pragmatico e un moderato, con il tempo s’è spostato su posizioni più di destra e conservatrici: con tattiche ostruzionistiche riuscì a bloccare molte misure del presidente Obama e, soprattutto, gli centellinò le nomine dei giudici, mentre oggi, sotto la sua regia, il Senato fa passareb i giudici di Trump a un ritmo record. Nella campagna 2016, sostenne all’inizio Rand Paul, medico, libertario, senatore junior del suo Stato, uno senza chances di ottenere la nomination. Ritiratosi Paul, McConnell s’affiancò a Trump; e lì è rimasto, pretoriano fedele e talora maltrattato.

Non adesso, però, perché il presidente ha bisogno di lui, che dovrà essere al Senato quello che Nancy Pelosi, 79 anni, è stata alla Camera (ma in modo antitetico): il regista del processo, che mirerà a condurre in porto in modo indolore per il suo boss nel tempo più breve possibile. Sposato due volte, tre figli dalla prima moglie – la seconda è Elaine Chao, che è stata ministro del Lavoro con Bush jr ed è ministro dei Trasporti con Trump – battista ma non bigotto, parecchio ricco, McConnell avrà il compito facilitato dalla diffusa percezione che l’impeachment sia un boomerang per i democratici: nessuno crede che il Senato sfiduci il presidente e, quindi, quasi nessun senatore repubblicano esce allo scoperto contro l’uomo che di qui a novembre darà le carte delle candidature. Per il momento, comunque, Trump, che voleva finire nei libri di scuola come un presidente migliore di Abramo Lincoln, s’è conquistato l’umiliante titolo di terzo presidente messo in stato d’accusa con la procedura di impeachment. Prima di lui andarono a giudizio Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, entrambi assolti. Richard Nixon, invece, si dimise nel 1974 prima di essere formalmente rinviato a giudizio.

Due i capi di imputazione contestati a Trump: abuso di potere per le pressioni sull’Ucraina perché aprisse un’inchiesta sul suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden – bloccando aiuti militari per 391 milioni di dollari già stanziati dal Congresso – e ostruzione alla giustizia, negando al Congresso testimoni e documenti. I deputati hanno votato rispettando la disciplina di partito, con una o due eccezioni: 230 Democratici a favore, 197 Repubblicani contro. La giornata dopo il voto è stata dedicata alle reciproche invettive. La palla l’ha Pelosi: tocca a lei decidere quando passarla al Senato, quindi a McConnell. Trump e i Repubblicani vogliono liberarsi in fretta della rogna dell’impeachment; i Democratici chiedono garanzie che il processo non diventi una farsa. Il presidente twitta, Mitch negozia.

L’editoria ti fa ricca: il caso di Laura Cioli

L’editoria ti fa ricca. Come è possibile, viste le condizioni di salute dei grandi gruppi editoriali, con bilanci che scricchiolano e le copie vendute in edicola che collassano ogni anno da almeno un decennio? Un paradosso, ma non per lei, che di nome fa Laura Cioli, brillante ingegnere con master alla Bocconi che ha calcato negli ultimi 4 anni il palcoscenico dei giornaloni come capo-azienda prima di Rcs e poi di Gedi. Ora quell’avventura nel Gotha dell’informazione è finita. Con il passaggio di mano dell’ex gruppo L’Espresso dai De Benedetti a Exor, anche Cioli ha dovuto lasciare la tolda di comando. Ma con ogni probabilità difficile che abbia di che recriminare. Per la risoluzione del rapporto la manager cinquantenne incasserà 1,85 milioni di euro più 100 mila euro legati a un Mbo, premio legato agli obiettivi. Oltre ovviamente al Tfr dovuto.

Non male per l’ex ad di CartaSi, che ha gestito come ad e direttore generale Gedi da fine aprile del 2018 all’altroieri. Venti mesi di duro lavoro ora premiato con la buonuscita milionaria. Certo Cioli rimarrà fino alla conclusione dell’operazione Exor passando le consegne al nuovo capo-azienda, scelto da John Elkann, Maurizio Scanavino.

Non certoun impegno gravoso. Cioli, per gli otto mesi in cui ha guidato nel 2018 Gedi (è stata nominata il 26 aprile di quell’anno), ha incassato 618mila euro lordi tra stipendio fisso e variabile. Ora esce con tre volte quell’incasso. Avrà ben meritato? A giudicare dal valore creato non pare. Quando arrivò nella primavera dell’anno scorso il titolo Gedi valeva 44 centesimi. Prima della lauta offerta di Exor delle settimane scorse l’azione valeva 28 centesimi. Un secco -30% in Borsa. Ma il colpaccio più grosso per le sue finanze personali Cioli l’ha fatto in Rcs. Chiamata a gestire l’ex salotto buono dell’editoria a fine ottobre del 2015, ha resistito nel ruolo appena 9 mesi. Con l’arrivo di Cairo nell’agosto del 2016 ha dovuto fare armi e bagagli. Risoluzione consensuale e patto di non concorrenza (per 6 mesi, tanto che poi si è ritrovata in Gedi) che le son valsi un assegnino in un colpo solo di ben 3,75 milioni di euro per il disturbo di aver governato il carrozzone malandato (allora prima della cura Cairo) del Corriere della Sera.

Anche qui il valore creato non pare significativo: se guardiamo alla Borsa, il breve regno della Cioli ha visto il prezzo dell’azione Rcs scendere da 73 centesimi a 42 nella tarda primavera del 2016. Poi, la battaglia per il controllo del Corrierone, in cui alla fine ha prevalso Cairo, ha messo le ali al titolo. Non certo la gestione industriale. E così, tra Rcs e Gedi, l’apprendistato nell’editoria tradizionale di Laura Cioli durato di fatto solo quattro anni le ha fruttato solo in buonuscite 5,6 milioni di euro.

Tutti legittimi per carità, Cioli ha fatto solo rispettare le clausole degli accordi sottoscritte con le società. C’è da chiedersi se tanta munificenza, in un settore che campa sui prepensionamenti e sui collaboratori precari pagati pochi euro a pezzo, sia giustificata. Una domanda che dovrebbero porsi seriamente i membri dei comitati per le remunerazioni sempre così generosi con i grandi manager.

Trasparenza sugli immobili, l’Inpgi ricorre per negarla

Il ricorso è stato notificato un mese fa. I vertici dell’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti, si sono opposti davanti al Consiglio di Stato alla sentenza del Tar che ha riconosciuto agli iscritti l’accesso agli atti che riguardano le modalità di alienazione del cospicuo patrimonio immobiliare. “Una decisione, quella dell’Inpgi, che lascia senza parole: c’è forse qualcosa da nascondere, nei documenti di cui si chiede la visione?” si chiede polemicamente Stampa romana, il sindacato dei cronisti della Capitale, in una nota. L’11 ottobre, il Tar del Lazio accoglie la richiesta presentata da alcuni giornalisti, Pierangelo Maurizio in testa, di poter accedere agli atti delle dismissioni degli immobili. “Un’operazione che – sottolinea il sindacato – applicando prezzi spesso molto superiori a quelli di mercato, non sta dando i risultati sperati: l’Inpgi e la Società di gestione del Fondo Amendola, Investire Sgr, avevano previsto incassi attorno ai 650 milioni di euro, ma a oggi dovremmo essere più o meno a un terzo di questa somma”. Dieci giorni dopo la sentenza, arriva all’Inpgi la prima richiesta di accesso agli atti, presentata da Corrado Giustiniani, presidente del Siai, il sindacato inquilini. Si vogliono conoscere i valori di tutti gli immobili apportati al Fondo, i risultati delle perizie semestrali dell’esperto indipendente, i casi di via Novelli e dell’immobile di via Parigi, il compenso accordato al service Yard, che avrebbe commesso in questi mesi, secondo i ricorrenti, ripetuti errori, e altre carte ancora. Il 5 novembre l’Inpgi comunicava a Giustiniani di aver respinto la sua richiesta di accesso e annunciava come imminente un ricorso al Consiglio di Stato. “Il Tar ha riconosciuto quello che è lapalissiano, cioè che quello che fa un ente pubblico è di interesse pubblico, i vertici dell’Inpgi hanno perso un’occasione per far chiarezza sul loro operato” rincara Pierangelo Maurizio, attualmente membro del direttivo di Stampa romana e in passato portavoce del Comitato inquilini Inpgi.