Bari, azionisti in fila dai pm: a oggi bruciati 1,5 miliardi

Le inchieste sulla Popolare di Bari aperte dalla Procura del capoluogo pugliese sono sette: riguardano vari aspetti problematici, eufemizzando, della gestione della banca. Da qualche giorno, però, i fascicoli si moltiplicano e ormai sono decine, tutti più o meno simili: sono quelli che i pm aprono sulla base delle denunce che ogni giorno arrivano da parte dagli azionisti dell’istituto. Le accuse sono sempre le stesse, anche se al momento non ci sono indagati: in sostanza l’istituto avrebbe venduto titoli senza informare correttamente i clienti, titoli che oggi non valgono quasi nulla.

Sono storie che abbiamo già incontrato nei molti crac bancari di questi anni e che hanno colpito centinaia di migliaia di persone in tutta Italia: profili di rischio manipolati, procedure di vendita adattate ai bisogni di capitale della banca, informazioni omesse, prezzo delle azioni stabilito in modo arbitrario (e anche questo non è un complimento per gli organi di vigilanza). Molti clienti, ad esempio, sostengono di essere stati convinti di fare un investimento sicuro e liquido: in questi anni, al contrario, hanno scoperto che quelle azioni non possono essere vendute nemmeno in perdita.

Un profluvio di indagini penali che s’affianca alle decine di cause – destinate ad aumentare vertiginosamente – già presentate davanti al giudice civile più o meno con le stesse motivazioni: le prime sentenze sono attese nella prima metà del 2020 e possono diventare (se la banca sarà condannata a risarcire) un nuovo ostacolo sulla strada del salvataggio appena avviato con soldi pubblici da un lato e capitali del Fondo interbancario dall’altro. Come nei casi precedenti d’altra parte, parliamo di perdite pesanti, spesso poste a carico di “clienti fragili”, che in quelle azioni avevano investito magari tutto il Tfr e oggi si ritrovano senza niente in mano.

Un po’ di numeri per capire le dimensioni del fenomeno. I soci di Popolare di Bari sono poco meno di 70mila e, tra loro, i piccoli risparmiatori circa 60mila, in gran parte pugliesi. Le azioni dal giugno 2017 sono quotate sul borsino Hi-Mtf: da 7,5 euro l’una sono arrivate a 2,38, ma in realtà non valgono quasi nulla (dopo l’aumento di capitale dovrebbero finire a 0,4 euro, cioè il 5% del valore iniziale). In totale la banca pugliese ha bruciato soldi dei soci per 1,5 miliardi di euro, cui andranno probabilmente aggiunti i 213 milioni del bond subordinato emesso nel 2018.

Un conto pesante che potrebbe aggravare anche quello dei salvatori, in particolare dello Stato via Mediocredito centrale (Mcc), che a oggi dovrebbe investire 500 milioni, forse 700 se – come pare – il buco dovesse essere più profondo di come sembra. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, però, non pare preoccupato: “È giusto che ci siano dei risarcimenti dove ci sono state delle truffe. Evidentemente le regole non sono state rispettate” e, a questo proposito “toccherà verificare con grande attenzione se le istituzioni preposte a garantire il rispetto delle regole (Bankitalia su tutte, ndr) hanno agito correttamente”.

Il reddito di cittadinanza è fuori tempo. Almeno metà delle Regioni è indietro

Era un’impresa troppo complicata già in partenza e infatti non è riuscita. Secondo il crono-programma fissato da governo e Regioni, entro il 15 dicembre i centri per l’impiego avrebbero dovuto prendere in carico i primi 710 mila beneficiari del reddito di cittadinanza per aiutarli nella ricerca del lavoro, quindi tutti coloro “avviabili” tra gli ammessi al sussidio prima del 31 luglio. Le convocazioni di questo gruppo sono partite il 2 settembre e i colloqui dovevano essere completati cinque giorni fa. L’obiettivo, però, non è stato centrato.

Nelle prossime ore l’Anpal diffonderà il monitoraggio dal quale emergerà il quadro complessivo. Il Fatto Quotidiano è in possesso dei dati di sette Regioni: Sicilia, Sardegna, Lazio, Piemonte, Liguria, Abruzzo e Umbria. Rappresentano 302.800 persone da attivare, il 42% dell’intera platea. Tra queste, secondo l’ultima rilevazione, sono state convocate in 225.873 e in 163.508 hanno già avuto il primo incontro con gli operatori dei centri, quindi sono effettivamente state prese in carico. Appena sotto il 54% rispetto a quanto si sperava in estate. La Sicilia, per la verità, si era già da prima data un target più realistico. Nell’Isola, infatti, il contingente iniziale contava ben 162.518 percettori da chiamare in soli tre mesi e mezzo. La Regione ha quindi deciso di limitarsi ai 115.606 che hanno ricevuto la carta acquisti prima del 10 giugno. Sono stati convocati tutti, ma in 12 mila non si sono presentati. I colloqui effettuati sono quasi 90 mila e i patti per il lavoro firmati 57.516. La Sardegna, invece, ne ha “invitati” 23.253 su 38.902, finora è riuscita a vederne 14.482 e a far sottoscrivere l’impegno a 8.188. Il Lazio aveva 37.939 beneficiari da mettere in corsa: ne ha convocati 28.595 e – tra questi – si sono presentati in 22.847. I patti firmati sono 13.723, gli altri sono stati esclusi, sospesi o trasferiti ai servizi sociali. I numeri del Piemonte sono aggiornati a fine novembre e dicono che il messaggio con l’appuntamento è stato inviato a 28.500 persone su 30.273. In 17.920 hanno sostenuto il colloquio e 12.055 hanno messo la firma. L’Abruzzo è andato vicino all’impresa: l’obiettivo è stato acchiappato da dodici centri per l’impiego su quindici.

Ma quali sono gli ostacoli? Innanzitutto, problemi nella comunicazione. I moduli di richiesta del reddito di cittadinanza riportavano il nome di un solo componente della famiglia – quello che lo ha presentato – e non anche degli altri. Recuperare numeri di telefono e mail dei membri che non apparivano sull’istanza ha creato più di un intoppo. I navigator hanno preso servizio a fine estate, ma hanno dovuto fare formazione. Inoltre, parte dei nomi passati ai centri per l’impiego si riferivano a persone che in realtà erano esonerati dalla ricerca del lavoro, per esempio donne in gravidanza, studenti o nuclei da inviare ai servizi sociali. Alcuni giorni fa, l’Anpal ha approvato la circolare con le indicazioni per l’assegno di ricollocazione, il percorso intensivo di formazione. L’impressione, insomma, è che con l’anno nuovo si potrà sul serio.

Soldi in Svizzera mai tornati. Arriva la lista dei 200 mila

Caccia grossa all’evasore. Più di 200mila italiani con un conto in Svizzera stanno per finire sotto la lente del Fisco che, all’inizio del nuovo anno, sarà in grado di riportare nelle casse dello Stato circa 1 miliardo di euro, non dichiarato quattro anni fa. Sotto la lente, i titolari di conti correnti o depositi delle maggiori banche elvetiche che tra il 23 febbraio 2015 e il 31 dicembre 2016, vale a dire prima che entrasse in vigore lo scambio automatico di informazioni fiscali tra la Confederazione elvetica e i Paesi dell’Ue, non hanno aderito alla voluntary disclosure . Che altro non è che un mega condono, avviato per la prima volta dal governo Renzi e di cui è stata poi prevista una versione bis nel 2017 dal governo Gentiloni, che consente a chi detiene illecitamente patrimoni all’estero di regolarizzare la propria posizione auto-denunciandosi ottenendo in cambio la possibilità di riportare il malloppo in Italia pagando le imposte scontate.

L’accordo. Una ghiotta occasione che migliaia di evasori non hanno comunque sfruttato, facendo scattare la scorsa estate le verifiche da parte dell’Agenzia delle Entrate che ha richiesto all’Amministrazione federale delle contribuzioni elvetica di trasferirgli i dati degli italiani che detengono una relazione bancaria non dichiarata al Fisco. Richiesta che Berna ha accettato così come, fino allo scorso ottobre, ha già scambiato dati fiscali con altri 75 Paesi su circa 3,1 milioni di conti finanziari.

I controlli. Per contrastare l’evasione. il Fisco farà controlli a tappeto, incrociando i dati contenuti nelle dichiarazioni dei redditi (si usa il quadro RW che rappresenta quello delle ricchezze detenute all’estero) con l’esistenza e gli importi dei depositi in Svizzera. Se dovessero emergere anomalie, il rischio è una denuncia penale per violazione delle normative sul riciclaggio e il pagamento delle sanzioni doppie sull’intero importo recuperato.

La tempistica. È nelle prossime settimane che arriverà un corposo file al Fisco con i dettagli e subito dopo scatteranno gli accertamenti. Ma siamo solo all’inizio. Dall’analisi dei dati potrebbero nascere nuovi filoni di indagine. Dopo Ubs (che ha versato alle Entrate 111,5 milioni di euro per chiudere un contenzioso fiscale con risvolti penali), anche le banche Bsi e Efg stanno infatti provvedendo a chiudere le vertenze con il Fisco fornendo i dati dei correntisti per gli anni 2015-2016. E l’effetto è destinato ad allargarsi anche ad altri Paesi come il Liechtenstein che ha firmato l’accordo bilaterale con l’Ue sullo scambio automatico delle informazioni nell’ottobre 2015.

Panama Papers. Secondo quanto riferisce Italia Oggi, pare siano state trasferite alle Entrate anche le informazioni relative ai titolari delle società appartenenti alla nuova lista italiana dei Panama Papers, coinvolti in presunti trasferimenti illeciti di capitali all’estero. E i cui nomi originano sempre dallo scandalo fiscale globale partito nel 2016 come un’inchiesta giornalista sull’archivio di uno studio legale panamense, Mossack-Fonseca, che ha visto, per quanto riguarda l’Italia, la segnalazione di circa mille persone e consentendo il recupero per l’Erario di una somma vicina ai 30 milioni di euro.

Falciani. La nuova lista di grandi evasori è solo l’ultima in ordine di tempo. Ad aver fatto da apripista è l’enorme data base prelevato dall’ex dipendente della Hsbc, Hervé Falciani che, nel 2009, trafugò migliaia di dati sui clienti della banca offrendoli al governo francese che, successivamente, li ha inviati ai Paesi in cui erano coinvolti i loro contribuenti. L’Italia, attraverso una rogatoria, ha ricevuto i nominativi di circa settemila presunti evasori. Dalla lista sono emersi imponibili sconosciuti al Fisco per 572 milioni di euro.

Credit Suisse. Nel corso di una verifica della Guardia di finanza presso la filiale di Milano della banca svizzera sono stati ritrovati circa 13 mila nominativi di clienti che attraverso polizze estere, secondo i magistrati italiani, eludevano il fisco. Per questa vicenda la banca svizzera ha versato all’Agenzia delle Entrate circa 109,5 milioni di euro, ma la Procura di Milano sta ancora indagando.

Mail Box

 

Non serve una laurea per fare la scelta giusta al referendum

Dopo aver letto lo splendido editoriale “Poltrone & Sofà” del direttore Travaglio mi convinco sempre di più che, al di là dei cazzari e dei pagliacci di cui la politica e non solo è piena, il destino del Paese è in mano ai cittadini e alle loro scelte prossime. Il quadro generale è talmente chiaro e limpido da non richiedere dottorati o lauree per saper scegliere la risposta giusta. Non ci sono scusanti, personalmente so già da quale parte stare. Spero che lo sappiano anche i cittadini.

Michele Lenti

 

Il vero attacco alla democrazia non è ridurre i parlamentari

Abbiamo il Parlamento più “popolato” d’Europa, eppure la politica negli anni ha prodotto un sostanziale distacco tra sé e i cittadini. L’elevata astensione lo dimostra. In siffatte condizioni ridurre il numero di chi ci rappresenta non è di certo un danno per il Paese, invece c’è chi propone un referendum avverso al taglio con la favoletta che ciò sarebbe un attacco alla democrazia. L’attacco c’è di sicuro ma operato da una pletora di partiti che tutto hanno fatto tranne i nostri interessi.

Pasquale Mirante

 

Una società alla deriva per cui il dolore è un fastidio

È morta una bambina dalle labbra rosa e dal cuore che sussultava ai gemiti del vento. È morta una bambina di cinque mesi, dal colore non uguale al nostro. È morta a Sondrio, in un ospedale che ha cercato di curarla con tutto l’amore e la professionalità che possedevano. La mamma ha vent’anni. Portando al Pronto Soccorso sua figlia sentiva che stava morendo, e le sue urla strazianti hanno dato fastidio. Hanno dato fastidio a persone che in fila non hanno capito che quel cuore stava cessando di battere; non lo sentivano, non lo vedevano, non lo ascoltavano.

Quando la bambina è morta, la mamma dal passo veloce e dalla pelle che oscurava il sole ha fatto sentire la sua voce. La gente non l’ha accarezzata, non l’ha consolata, ma l’ha umiliata dicendole che disturbava, che faceva troppo rumore. Tanto le ragazze dalle labbra rosa e il passo veloce fanno un figlio l’anno e se anche ne perdono uno, non importa. Questa è la deriva della società umana, dove la morte di una bambina di cinque mesi è stata messa a tacere perché dava fastidio, perché la sua morte non ha niente a che fare con la nostre vite. Perché le scimmie devono stare zitte, e devono urlare nel silenzio di una notte senza stelle. Per non farsi riconoscere.

Claudia Pepe

 

Indignato dalla Casellati che infierisce su una precaria

Ho appena letto della vicenda relativa alla querela, sia in sede civile che penale, che l’attuale Presidente del Senato ha mosso contro una giornalista precaria che aveva osato raccontare nient’altro che il vero, come riconosciuto dai giudici in sentenza. Ma la cosa che più mi ha indignato, oltre al fatto che la decisione dei giudici sia stata troppo lieve verso la Casellati – condannandola al solo pagamento delle spese legali e non anche dei danni morali e materiali procurati alla giornalista – è che la suddetta Casellati, che doveva sborsare circa 8 mila euro di spese legali, abbia “simpaticamente” proposto alla giornalista di dividere la cifra da pagare, dietro garanzia che non avrebbe presentato ricorso in appello (sostenere un nuovo grado di giudizio avrebbe messo in grave difficoltà economica la giornalista). Come chiamereste un comportamento del genere? A me viene in mente un termine preciso…

Leonardo Gentile

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, in relazione all’articolo del Fatto Quotidiano sulla stazione di Afragola, pubblicato il 18 dicembre, Rete Ferroviaria Italiana precisa di aver appreso con stupore delle istanze di sequestro della stazione di Afragola, avanzate dalla Procura e poi rigettate dal Giudice per le indagini preliminari per il quale non sussiste alcun pericolo per la pubblica incolumità con conseguente ipotesi di “attentato alla sicurezza”. In questi due anni e mezzo di indagini Rfi, anche attraverso la società di ingegneria Italferr, ha sempre offerto la massima collaborazione alla magistratura, fornendo tutta la documentazione di volta in volta richiesta, e confida che la questione venga chiarita al più presto, mettendo così fine ai dubbi che da sempre inseguono quest’opera. Dalla apertura la stazione di Afragola è diventata un hub attrattivo per il territorio. Lo confermano i numeri dei collegamenti che ogni giorno toccano lo scalo: si è infatti passati dai 36 treni al giorno di giugno 2017 ai 98 collegamenti del nuovo orario, entrato in vigore domenica 19 dicembre, con un’offerta quasi triplicata.

Ufficio Stampa Rete Ferroviaria Italiana

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo pubblicato il 17 dicembre “Ottimo ragazzo, da solo 130 voti. Non male” a firma Dario De Luca, in un didascalia e in un sommario, a cura della redazione, Valeria Sudano è stata erroneamente indicata come “Valeria Sudato”, “consorte” e “moglie” del deputato dell’Ars Luca Sammartino, essendone invece – come correttamente scritto nel pezzo – la compagna. Ce ne scusiamo con gli interessati e i lettori.

FQ

Che salto. Ronaldo è un esempio: non solo di talento, ma anche di dedizione e disciplina

 

Ho visto la rete di Ronaldo contro la Sampdoria e sono rimasto allibito e mi domando (e vi domando) dove finisce la classe e inizia la dedizione al lavoro.

Giancarlo Botti

 

Gentile Giancarlo, lo ha raccontato (e indirettamente spiegato) l’altroieri il suo ex compagno di squadra alla Juventus, il marocchino Benatia: “In un match di campionato siamo stati entrambi sostituiti con l’Atalanta perché tre giorni dopo avevamo un altro incontro e l’allenatore aveva bisogno di ruotare. Sull’autobus di ritorno Ronaldo mi chiede: ‘Cosa facciamo ora che arriviamo?’. Gli rispondo che sarei tornato a casa, erano le undici di sera. Mi dice: ‘Non hai voglia di fare una piccola seduta di allenamento? Non ho sudato in partita, mi devo allenare. Vuoi farmi compagnia?’. Gli ho spiegato che volevo solo andare a casa e mettermi sul divano a guardare la tv. Quando siamo arrivati, lui ha indossato pantaloncini e scarpe da ginnastica ed è andato in palestra. Lì ho pensato che questo ragazzo non è normale. Quando stai a contatto con lui tutti i giorni il rispetto nei suoi confronti aumenta ancora di più. Ha sacrificato la sua vita per il calcio”.

Questo è Cristiano Ronaldo. Uno che a quasi 35 anni riesce a staccare 71 centimetri da terra e toccare quota 2.56 m di altezza, e soprattutto per un lasso di tempo infinito: 92 centesimi di secondo. Per essere chiari: mentre lui era già in volo, il difensore della Sampdoria ancora doveva finire di caricare le gambe e saltare, salvo poi scorgere un’ombra sulla sua testa e capire di essere allo stesso tempo vittima e spettatore privilegiato di una performance straordinaria. Con un se. Ronaldo si allena, è ossessivo e ossessionato, perfezionista, conscio della sua forza e incuriosito dai propri limiti. Approfondisce. Sperimenta. Ricerca. Ne “Lo Spaccone” Eddie Felson, alias Paul Newman, dopo l’ennesima sconfitta riceve un consiglio per evitare una nuova débacle: “Se hai una buona scusa puoi anche perdere”. Ronaldo non trova scuse. Di tempo. Di età. Di soldi. Di squadra. Va avanti, si allena anche alle undici di sera se necessario. E se i calciatori sono un esempio, una volta tanto questo exemplum sarebbe bello lo comprendessero i ragazzi, altrimenti resta sempre come modello l’Alberto Sordi di “Un americano a Roma”, quando piagnucolava “a me m’ha bloccato la malattia”.

Alessandro Ferrucci

Breve e assai incompleto omaggio a Gigirriva

Forse è successo mercoledì, ma siccome questa storia riguarda l’ultimo eroe classico visto da queste parti di recente forse è successo millenni fa: Gigi Riva è diventato il presidente onorario del Cagliari. Lombardo di Leggiuno, figlio di operai presto orfano, va in collegio (“l’umiliazione di essere poveri… e poi stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come bambini vecchi”), poi comincia a guadagnarsi il pane col calcio. Lo vendono al Cagliari nel 1963, che non ha ancora vent’anni: arriva nell’isola pensando solo ad andarsene, ma non lo farà mai. Divenne Gigirriva, sardo per scelta, per vocazione, per insularità psicologica: “Ho capito che sarei rimasto quando andavamo a Milano e ci chiamavano pecorai e banditi”. Arrivato solo, la Sardegna gli ha dato migliaia di famiglie e lui in cambio le ha regalato l’orgoglio di sé e un posto sulla mappa d’Italia: “Nei giorni di riposo andavo all’interno, volevo provare a capire (…) questa gente abbandonata da Dio, fuori da un mondo che si chiamava e si chiama Italia, senza scuole, senza lavoro, senza regole, senza futuro. Da un lato la pecora ammazzata, dall’altro gli yacht”. Agnelli lo voleva a Torino e offrì due miliardi: “Tutti quei soldi per un giocatore mi sembrano un affronto alla povertà”. Si dice che una volta, nel paesino di Seui, una vecchia, senza riconoscerlo, gli mostrò sulla parete di casa le foto dei genitori e accanto la sua, tipo santino: “Quello è buono”. Dicono che oggi abbia 75 anni, ma non è vero: gli eroi son sempre giovani e belli, si sa, e il loro tempo è ciclico e si declina solo al presente.

Cari 5Stelle, Fioramonti ha ragione

Parafrasando Bertrand Russell, che raccontava che “a Oxford un professore impazzì: e nessuno se ne accorse”, potremmo dire che oggi a Roma c’è finalmente un ministro dell’Istruzione che sa quello che dice: e nessuno se ne accorge.

Lorenzo Fioramonti è sul punto di dimettersi e nessuno, nei palazzi del potere romano, sembra prenderlo sul serio. Le ragioni di queste dimissioni annunciate sono, in tutti i sensi, serissime. Fioramonti aveva accettato di giurare da ministro a condizione che, nella legge di Bilancio, i finanziamenti per scuola e università raggiungessero il minimo indispensabile alla sopravvivenza: 3 miliardi di euro. Ebbene, i 2 miliardi per la scuola sono alla fine faticosamente arrivati, ma per l’università e la ricerca non c’è invece letteralmente nulla. E, beffa che si aggiunge al danno, i pochi soldi disponibili sono instradati verso la nascente Agenzia Nazionale della Ricerca, ambiguo ente funzionale al controllo dell’esecutivo sulla produzione della conoscenza. Da qui la decisione del ministro di rassegnare le dimissioni. Una decisione incomprensibile per i politici di professione (cioè quelli che, fuori dalla politica, non hanno, letteralmente, né arte né parte), categoria le cui file si sono assai ingrossate grazie al sopraggiungere degli alfieri dell’antipolitica. Eppure, l’unica decisione seria: almeno per chi pensa che l’obiettivo per cui stare al governo non sia stare al governo, ma governare.

Prima che Fioramonti firmi la lettera di dimissioni, vorrei rivolgermi pubblicamente al Movimento 5 Stelle e al presidente del Consiglio, perché facciano di tutto per scongiurarle.

Il Movimento mi ha recentemente chiesto di essere tra i suoi consiglieri esterni in fatto di istruzione e cultura e, nonostante il mio duro giudizio sui suoi troppi tradimenti, ho ritenuto doveroso accettare. Ebbene, il mio primo consiglio pubblico è: non permettete che Fioramonti lasci. Combattete la sua battaglia: perché quella per l’innovazione e la ricerca è la vostra battaglia. E non pensate a gestire il piccolo potere del suo rimpiazzo: perché nessun sostituto potrà mai essere credibile, in quel ministero, accettando e sottoscrivendo la morte per inedia dell’università e della ricerca italiana.

Al presidente del Consiglio, che è anche un professore dell’università pubblica, vorrei invece dire che non è comprensibile che si possano trovare in poche ore 900 milioni per salvare la Banca Popolare di Bari, e che contestualmente non si riesca a trovare un miliardo per salvare il futuro del Paese.

Ma, si dirà, la prima è un’emergenza: ebbene, anche la seconda lo è.

La nostra spesa in istruzione rispetto alla spesa pubblica è l’ultima dell’Unione europea (7,9%, mentre la media europea è 10,2). Per l’università spendiamo l’0,3 del Pil: nemmeno la metà della media europea (0,7). L’età media dei docenti universitari italiani è elevatissima: 49 anni. Le donne sono solo il 34,6 % dei ricercatori a tempo pieno. Il 70% della spesa in ricerca e sviluppo si concentra al Centro Nord. L’investimento in ricerca è all’1,4 % del Pil (contro il 2 della media europea), del quale solo il 22 % va alla ricerca di base, quella più capace di innovazioni sul medio e lungo termine. Forse bastano questi pochi dati a dimostrare che da troppi anni la lenta morte dell’università e della ricerca pubbliche non sono viste per quello che sono: la più grave emergenza del nostro paese. Non affrontarla significa rubare il futuro ai nostri figli, e certificare il nostro comune, irreversibile declino.

Quando a Barack Obama si propose di tagliare i fondi federali della ricerca, rispose che non si può alleggerire un aereo buttandone di sotto il motore. Lorenzo Fioramonti sta dicendo la stessa cosa: ma il resto dell’equipaggio dell’aereo sembra del tutto indifferente all’idea dello schianto. È davvero così?

Ritratto di Salvini e limoncello: i cimeli di Verdini

Scusate se torniamo sullo strano furto in casa Verdini di cui abbiamo dato conto ieri, ma ci sono sviluppi nelle indagini. A quanto pare i ladri hanno le ore contate. Il caso che tiene l’Italia col fiato sospeso è noto: secondo i carabinieri del Comando provinciale di Firenze, i malintenzionati introdottisi nella dépendance della villa di Verdini avrebbero “annerito con un accendino” un ritratto di Matteo Salvini ivi custodito. Il Corriere Fiorentino riferisce di un indizio che potrebbe portare in breve alla scoperta dei colpevoli: il ritrovamento in loco di due bicchieri usati durante il colpo per bere del limoncello, si suppone prelevato dal frigo di casa Verdini.

Che Verdini possedesse un ritratto raffigurante Salvini, non proprio il soggetto capace di rendere un salotto un protagonista del Novecento, ci pareva già stupefacente; ma è semplicemente incredibile che esistano artisti contemporanei che non espongono alla Biennale capaci di realizzare opere aventi come soggetto l’ex ministro dell’Interno, senza che ciò sia, come usa tra concettuali, un gesto critico o sarcastico, sul genere della scultura dell’artista Scuotto che raffigura Salvini che spara sui migranti (e perché mai Verdini avrebbe dovuto esporre un ritratto dissacratorio del genero sotto gli occhi innamorati della figlia?).

Posto che si trattava di un ritratto realista (anche se ci piace immaginare un Salvini preraffaellita lambito dalle acque, o cubista, coi connotati alla rinfusa, o fiammingo, in mezzo ai pesci e ai fagiani), chissà se è stato fatto sulla base di una foto di Salvini, o avendo come modello il Salvini in carne e ossa, il che implicherebbe che egli sia rimasto fermo per più di 5 minuti su una sedia, occorrenza che non rileva, a meno che non si parli di sedie degli studi televisivi. O forse trattasi di ritratto in piedi, come quello di Napoleone di Jacques-Louis David? O magari equestre, con Salvini a cavallo di una ruspa che valica il San Bernardo? Nessuno purtroppo ne conosce le fattezze, se non i Verdini, Salvini, l’artista e i ladri; si sa solo che “Salvini è ritratto con toni azzurri e ha una camicia bianca” (quindi non è un nudo). Certo è che, sebbene abbiano perpetrato un reato (ma per molti è esproprio proletario), i ladri hanno compiuto un gesto politico. Con lo sfregio di tracannare il limoncello della casa, però, hanno firmato la propria condanna: sulle tracce di saliva si stanno concentrando le indagini del temibile Racis, Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche; chissà se gli inquirenti hanno già un’idea dei colpevoli o se si procederà a una mappatura ad anello del Dna degli abitanti di tutte le zone della Toscana – Chianti, Garfagnana, Maremma, Mugello, Valdarno, etc. – fino a beccare il match coi due ignoti autori del Salvini fumé. A proposito, torna in mente la scena de I soliti ignoti con Mastroianni che dice agli improvvisati compari scassinatori: “Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria. Voi al massimo potete andare a lavorare”, e poi si mettono a mangiare la pasta e ceci che bolle sul fuoco del malcapitato a cui hanno sfondato la parete.

Non si capisce se i ladri, che a quanto pare non hanno rubato niente, si siano introdotti nella villa con lo scopo di profanare la tela, o se trovatisi di fronte all’opera si siano detti: “Questa faccia non mi è nuova”, e giù di accendino. E chissà se volevano solo annerirla o incendiarla, come riportano alcuni organi di stampa, e dunque se non ne hanno avuto il tempo (la prossima volta portino la diavolina), o se il quadro è stato fatto in materiale ignifugo, proprio in previsione di oltraggi del genere. (A proposito di criminali: risolto il caso di chi sono i ladri, bisognerà scoprire chi è l’artista).

Sardine, Grillo prova a smuovere le acque

Fino a quando Beppe Grillo sarà considerato solo il giullare o, peggio, solo il “garante” chiamato a Roma per risolvere le beghe interne, né il M5S né il governo, e di conseguenza il Pd, faranno un passo avanti. E il presidente del Consiglio farebbe bene, ma forse già lo fa, a leggere con attenzione i messaggi che il fondatore dei 5Stelle lancia dal suo blog.

Il testo pubblicato l’altroieri, Le sardine sono un movimento igienico-sanitario, infatti, è forse il più preciso finora pubblicato da un dirigente politico, sia pure anomalo. Un commento analogo può essere indicato, forse, nell’intervista che Dario Franceschini ha rilasciato il 15 dicembre a Repubblica. “Le Sardine ci mostrano un popolo, e ci indicano una strada” diceva il capo delegazione Pd al governo. Spiegando che se “la destra si è riconosciuta e organizzata intorno agli estremismi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni il campo avverso ancora no, ma sarà costretto a farlo: a partire dai valori che hanno riempito quelle piazze”.

Grillo non si avventura in analisi che probabilmente considera politiciste o complicate. Il linguaggio è come al solito situazionista e visionario: “Le sardine non reclamano altro che l’igiene della parola. Reclamano una convalescenza vigorosa dalla attuale malattia delle lingue e delle menti che fa sembrare certe espressioni pubbliche un vociare roco di hooligan pronti al balzo, oppure un minacciare gradasso di un capobanda”. Ammette che “anche noi in passato abbiamo un po’ esagerato” e promette: “Ma ora non lo facciamo più. E le nostre esuberanze erano un raffreddore rispetto alla peste che osteggiano le sardine”.

Sono i segnali di un riposizionamento che è cominciato dalla scorsa estate, quello con il campo democratico dopo la disgrazia dell’alleanza con la Lega e che Pier Luigi Bersani descrive citando l’Edipo Re di Pasolini: “La vita finisce laddove comincia”. In ogni caso è un posizionamento che si nutre dei segnali della società civile cogliendone correttamente la natura: “Giovani, puliti, entusiasti, grandiosi ma modesti. Senza odiare, vogliono solo dignità. Non chiedetegli di più. Non chiediamogli di essere quello che non sono. Le sardine sono solo un commando dell’ufficio d’igiene per ristabilire la salute pubblica”. Come delle infermiere.

L’analisi combacia con quello che le stesse Sardine dicono di sé diffidenti a cimentarsi con i contenuti e per ora capaci soprattutto di parlare con l’estetica della manifestazione che in altri tempi poteva sembrare un limite e oggi rappresenta una forma utile.

Non parla come Franceschini, Grillo, è ovvio, ma che da questi sommovimenti di società si possa cogliere l’opportunità di pensare il nuovo è comune. E se l’ex segretario del Pd immagina che dai giovani in piazza possa venire “un’anima” per la coalizione giallorosa, quell’anima che Nicola Zingaretti auspicava qualche settimana fa e che lo stesso Giuseppe Conte immagina di dover agguantare per andare oltre l’ordinaria amministrazione, Grillo lancia ancora più in là la palla. Alle sardine-infermiere non si può chiedere “di progettare una cattedrale” ma comunque “le cattedrali servono. Oggi però – continua Grillo – “nessun partito riesce a progettare nemmeno una chiesa da campo. Nessuno formula un progetto di società per cinquant’anni. Nel vuoto di inventiva dei partiti e degli intellettuali, è comprensibile che appena c’è qualcosa che si muove e che somiglia a un movimento, tutti gli chiedano tutto”.

Grillo cerca un’anima per i 5Stelle che non sia più il linguaggio “esagerato” o l’invettiva che pure rimane perché c’è una componente di indignazione che ha costituito la natura originaria del M5S e che non può essere dismessa. Ma cerca la visione di lungo periodo, quella che manca a una politica in stato emergenziale da troppo tempo. Vuoi per incapacità congenita, vuoi per cattiva volontà o anche per difficoltà strutturale (i vincoli europei, la mancanza di risorse) nessuno si cimenta con il futuro. La mancanza di inventiva e di progettualità degli intellettuali è un esempio lampante di questa crisi, come ha sottolineato più volte su queste pagine il sociologo Domenico De Masi, e l’idea che il “riformismo” alla fine sia solo l’applicazione ubbidiente dei vincoli europeisti o la modifica psicotica della Costituzione a colpi di referendum, non fa altro che seppellire un’ipotesi di cambiamento credibile.

Grillo ha forse in mente un ecologismo visionario come cifra identitaria del suo movimento, gli altri non hanno quasi nulla. Ma senza queste visioni, senza le cattedrali da costruire nel deserto della politica italiana, non è tanto in gioco la vita del governo, ma la speranza che la stessa politica possa servire a qualcosa.

Il Capitano e la ragazzina

Il caso “Natura morta con Vaffanculo”, ovvero la diciannovenne che, secondo gli stilemi consueti della sua generazione, s’immortala in un selfie con il dito medio alzato accanto a Salvini addormentato, è l’ennesimo esempio di come la funzione che si ricopre incida poco o nulla sui comportamenti. Postando l’account Instagram della ragazzina, il bell’addormentato ci ha messo una manciata di minuti a passare dalla parte della ragione, nonostante i posti non fossero tutti occupati, a quella del torto. Ma che importanza vuoi che abbia che lei sia un’adolescente e lui il segretario del primo partito italiano? Pan per focaccia. O colpo su colpo: e subito viene in mente l’altro Matteo, incapace di cogliere la differenza tra il suo ruolo e quello di Corrado Formigli, reo di avergli fatto un’intervista sulla sua casa e di conseguenza lasciato sgranocchiare da fan e sostenitori vari che hanno diffuso indirizzo e dettagli della sua abitazione. È chiaro: se l’abito non fa il monaco, il ruolo non fa il politico.