Nostalgia canaglia per le riforme 2016

E niente, è sempre colpa nostra, elettori screanzati. Nel salotto by night di Rai3, Linea notte, va in scena l’ennesimo epitaffio della straordinaria occasione mancata della riforma costituzionale 2016: nostalgia e riforme sono ton sur ton. La tesi, ripetuta con sofferente pervicacia a dispetto del voto (quasi il 60 per cento di contrari), è nota: se fosse passato il referendum Renzi-Boschi (più che altro Napolitano) oggi sarebbe tre volte Natale e festa tutti i giorni. Fabrizio Finzi, caporedattore dell’Ansa, è dolentissimo: abbiamo carenze istituzionali, la legge elettorale è il primo dei nostri problemi. Poi certo: Renzi ha provato a fare un’imponente riforma istituzionale e se avessimo detto sì al monocameralismo, fa intendere, qui sarebbe tutta un’altra storia… Il conduttore Maurizio Mannoni si strugge per quel gran pezzo di legge elettorale a doppio turno, l’Italicum, dimenticando un piccolo particolare (la bocciatura della Corte costituzionale). Insomma: “Renzi ha provato a fare una grossa riforma” (più che grossa, grossier: sfigurava un terzo della Costituzione, trasformando la Camera alta in un camerino). Ma, per via del personalismo, abbiamo sbarrato la strada alle magnifiche sorti progressive e progressiste. Sarà mica che il populismo è quella cosa per cui consideri dei deficienti quasi venti milioni di cittadini elettori?

Sallusti, il suffragetto di Barbara D’Urso che ignora l’italiano

Ieri, il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti ha dedicato un intero editoriale alla sottoscritta, di quelli che seguono il nobile filone “Nilde Iotti era brava a letto” (che però era il capolavoro di un giornalista di Libero).

In questo caso, Sallusti è andato addirittura oltre, chiedendosi, testuale, se io “sia più esperta di giornalismo o di zoccolaggine”. Sì, ha scritto proprio così, zoccolaggine. E l’aggravante è che non si tratta neppure di giocoso dileggio, è serio. Serissimo.

Sallusti ritiene che io odi le donne. E in effetti, la commovente genuinità del suo improvviso slancio femminista, è testimoniata dalla foto di ieri in prima pagina su Il Giornale accanto all’editoriale a me dedicato, e cioè una gigantografia della ragazzina di 19 anni che ha fatto il dito medio a Salvini. Così, tanto per proteggere una giovane donna che ha commesso una innocua scemenza dagli insulti dei leghisti che notoriamente spiccano per delicatezza e attenzione al mondo femminile. Il motivo per cui io odierei le donne, secondo la suffragetta Sallusti, è che avrei scritto “sante parole!”, commentando le parole di un uomo, ospite in tv dalla D’Urso lunedì sera, che avrebbe dato della “zoccola” alla conduttrice. Peccato che il direttore mi attribuisca un fatto che non è mai avvenuto (e lo attribuisce pure a quell’uomo).

Nessuno, infatti, lunedì sera ha apostrofato in quel modo la D’Urso. Non so chi lo abbia riferito a suffragetta Sallusti rifilandogli una polpetta avvelenata. Forse la Santanchè, con la scusa di augurargli Buone Feste. Sallusti racconta poi che quell’uomo, Sergio Vessicchio, era “fino a poche settimane fa l’oscuro giornalista radiato dall’Ordine poiché aveva dato di matto contro una guardalinee donna in una partita di calcio”, quindi di sicuro un personaggio pessimo. E qui sono d’accordo con Sallusti. Un personaggio da isolare, far tacere, a cui non dare né voce né visibilità perché un pessimo esempio ed evidentemente misogino. Peccato che il misogino Vessicchio quella sera fosse ospite proprio di Barbara D’Urso, l’unica che ha ritenuto colui che “L’arbitro donna è uno schifo” degno di essere promosso a interlocutore in prima serata. Del resto si sa che la D’Urso è in prima linea quando si parla di difendere le donne dall’odio e per coerenza invita Vessicchio, così come lo è per il mondo Lgbt e lascia (silente) che Sgarbi dica a Luxuria “Ce l’hai il cazzo, ce l’hai?”. Così come lo è per la violenza contro le donne e chiude in una stanza Paola Caruso e il compagno che urlano per dieci minuti accusandosi reciprocamente di picchiarsi, con la D’Urso che alla fine ci fa sapere chi è stato il più votato dal pubblico tra i due (1).

Fa bene Sallusti a difendere la sua vecchia amica Barbara D’Urso, anche perché la compagna Patrizia è spesso ospite nei suoi salotti tv. La sua malinconica devozione ricorda, teneramente, i comunicati del direttore di Canale 5 Giancarlo Scheri, che quando i programmi della D’Urso sono deboli d’ascolto (spesso, ultimamente), scrive che la D’Urso ha fatto più ascolti dello sbarco sulla Luna.

A ogni modo, tornando alla questione che ha scomodato suffragetta Sallusti, il mio unico commento su quel mesto siparietto tv, è stato, su twitter: “C’è il giornalista radiato dall’Ordine dei giornalisti che ha appena detto alla D’Urso, in diretta, che la sua televisione è becera. Ridategli il tesserino da giornalista!”. Insomma, una battuta.

Nessun riferimento a inesistenti insulti sessisti alla conduttrice, il mio, ma un tributo all’eroismo di un uomo spregevole che ha avuto un unico guizzo luminoso, uno slancio epico, il coraggio cristallino di esprimere un sentimento condiviso da tanti, in diretta nazionale. In un contesto, per giunta, in cui è stato invitato dalla conduttrice stessa, che infatti poi lo ha liquidato con una battuta sui suoi improbabili capelli.

Dunque Sallusti inventa una notizia e dalla sua notizia inventata deduce che io odi le donne, come se poi le donne tutte fossero Barbara D’Urso. Spero nessuno si offenda se dico che ho parecchie amiche che piuttosto che essere identificate con Barbara D’Urso preferirebbero sminare l’Afghanistan. Poi per carità, la D’Urso piace alle donne che stirano (cit.) e ai direttori schiena dritta, a ognuno il suo target.

Mi duole infine, dover specificare al direttore che io “non ho messo in circolo il video di Belen” (sarei stata denunciata e condannata) e che mi guardo anche bene dal fare clickbaiting come il sito del suo giornale con articoli dal titolo “video hot di Belen nella vasca da bagno”. Infine, accolgo invece con serenità i giudizi impietosi di Sallusti sulla mia attività giornalistica. Mi ero preoccupata molto di più quando mi propose di scrivere per il suo giornale, nel 2014. Per il resto, ovvero stabilire se mi intenda più di giornalismo o più di zoccolaggine, ci vedremo in un luogo a Sallusti familiare: il tribunale. Col cuore, ovviamente.

Ps. Dimenticavo. Nel suo editoriale, direttore, c’è un errore di ortografia: se parla di me, non può dire “articoli nessuno dei quali GLI è valso il Pulitzer”, ma “LE è valso il Pulitzer”. Suvvia, lo sappiamo perfino noi pubblicisti.

“Ora vivo in povertà, Di Maio ha fatto il vuoto intorno a me”

“Io sono un uomo mascariato. Dunque un problema, o al meglio un esubero”.

Mascariare in siciliano significa tingere col carbone. L’espressione è tratta dal lessico mafioso, mondo sconosciuto a Filippo Nogarin, il sindaco di Livorno che fu precipitosamente issato in cielo e venerato come santo grillino, e poi, nella stagione discendente, coincisa con l’alluvione della città (10 settembre 2017) che costò la vita a otto persone e l’imputazione per concorso in omicidio colposo, lasciato nel fango di quell’evento disastroso. “Mi hanno appiccicato sulla spalla la lettera scarlatta”.

La politica sa essere assai crudele.

Resto basìto, senza parole. Sono un ingegnere che ha chiuso il suo studio per fare politica. Mia moglie si è licenziata quando fui eletto sindaco, perché tre bambine in casa dovevano essere accudite.

Ha detto che è povero.

Oggi sono povero, e devo affrontare il dileggio. Cerco un lavoro e devo cogliere nel cinismo altrui la dimensione della mia speranza. Metto a disposizione le mie competenze e sembra che, tra tanti spicciafaccende, io sia un esubero quando ho mostrato con i fatti cosa so fare. Desidero impegnarmi nel Movimento, a cui continuo a destinare la mia fiducia e il mio impegno benché non vada d’accordo col capo politico. Mi evitano, evidentemente non sono una buona compagnia. Non fosse mai che si sapesse in giro che escono con me. Ma mai ho taciuto a Di Maio le mie opinioni, assai lontane dalle sue.

Di Maio l’ha candidata al Parlamento europeo.

Ma certo, al numero 3. Mi hanno dato un solo bollino, poi due, come dire un rating basso, al momento di candidarmi. Hanno scelto cinque sconosciuti come capilista. Io sono il primo dei non eletti nella mia circoscrizione, e comunque ho portato in cascina 32 mila preferenze. Non male, no?

Non più sindaco, non ancora eurodeputato. Le vie di fuga sono finite.

Niente. Zero incarichi e zero proposte. Devo ringraziare Federico D’Incà, il ministro per i Rapporti col Parlamento, che mi ha chiesto di collaborare con lui.

Allora ce l’ha fatta.

Sono 40 mila euro lordi all’anno. Tolga le spese di soggiorno a Roma, i trasporti, mi restano mille euro netti al mese sul quale conta la mia famiglia e anche la banca. Perché ho le rate del mutuo di casa da saldare.

Lei ha fatto domanda per presiedere l’autorità portuale di Gioia Tauro. Bizzarro, no?

E perché? Ho i titoli per avanzare questa domanda. L’hanno fatta finire sui giornali per bruciarmi, e la mia ammissione di essere in difficoltà economica mi è valsa una colpa.

Lei non si è ricandidato a sindaco di Livorno per via di quell’avviso di garanzia.

Sono imputato di concorso in omicidio colposo. Colpa, non dolo. Quell’alluvione costò la vita a otto persone. Mi accusano di non essere stato al mio posto durante l’emergenza. Ma appena ho saputo sono corso. Era notte, ero a letto. Il mio cellulare era acceso. È squillato e ho lasciato la mia famiglia e la mia casa alluvionata per fare il mio dovere.

Da quel momento è stato messo ai margini.

Io sono livornese e ho sempre pensato con la mia testa. Gli eccessi del linguaggio, l’approccio ai problemi troppo scanzonato, non sono mai stati il mio forte. Meno che mai l’ortodossia. Non sono un urlatore, non ho mai santificato Di Maio. Il quale è vendicativo però.

Venivano in processione a Livorno. Ogni giorno in tv: Nogarin di qua, Nogarin di là.

Poi zac, luce tolta. Buio totale. Il nostro approccio alla crisi dell’azienda municipale della nettezza urbana è stato inedito. Aprivano i telegiornali con Livorno. Ricorda le accuse contro i cinquestelle dilettanti allo sbaraglio? Ho preso un’azienda in bancarotta, con 42 milioni di debiti. Ho voluto il concordato preventivo in continuità, una scelta mai fatta prima in nessuna città. Ho imposto ai creditori un piano industriale condiviso. Loro hanno accettato l’85% di quanto pretendevano. Col fallimento avrebbero preso il 15%. Non un lavoratore è stato licenziato. Ho lasciato un’azienda risanata, e l’occupazione in aumento perché ho introdotto la raccolta porta a porta. Livorno con me ha conosciuto una gestione illuminata dei soldi pubblici. D’estate i miei concittadini hanno viaggiato di sera gratis sui bus per affrontare il nodo del traffico. La mia squadra era eccellente. Tanto che il mio assessore al bilancio è stato chiamato a Roma, il mio segretario generale a Torino, altri sono andati altrove.

E Nogarin è fuori da tutto.

Dopo questa intervista mi impaleranno.

Leggono solo i titoli, non approfondiscono.

Mica bisogna essere per forza amici di Di Maio per aver un ruolo nel Movimento? Mica bisogna essere per forza selezionati dalla comunicazione per andare in tv?

Di Maio è capo politico. Capo. Dà il senso della gerarchia, dell’ordine, della verticalità.

A me piace la democrazia orizzontale.

Un avversario le direbbe: ha visto il giustizialismo dove vi porta? Imputato e poi disoccupato.

Il Movimento ha giustamente distinto le imputazioni per colpa da quelle per dolo.

Oggi per sfotterla la chiamano il signor tengo famiglia.

Vado dai frati a mangiare? È indegno mandare il curriculum? È troppo chiedere al mio Movimento di utilizzare le mie competenze? Livorno è stata amministrata bene. Se contano i risultati.

Contano e non contano.

Ho capito.

Foa dà la colpa della truffa al sistema informatico Rai

Marcello Foa si difende, dà la colpa al cattivo funzionamento del sistema informatico della Rai e spunta anche un misterioso avvocato svizzero. Ieri Foa e l’ad di Viale Mazzini Fabrizio Salini sono stati ascoltati dalla Vigilanza sul tentativo di truffa ai danni del presidente avvenuto nello scorso aprile, quando l’ex giornalista ha ricevuto una mail da un finto Giovanni Tria, ai tempi ministro dell’Economia, da un indirizzo di posta del Mef. Il finto Tria chiede a Foa se può farsi carico della partecipazione della Rai a un progetto per una spesa di un milione di euro. E già la cosa è strana, perché è l’ad che ha potere di spesa e non il presidente. A Foa, però, non scatta alcun campanello d’allarme e ci casca in pieno, addirittura viene contattato da un avvocato di Ginevra che gli spiega i dettagli del progetto. Insomma, la cosa va avanti per un po’ senza che a Foa venga il minimo dubbio. Poi Foa ne parla a Salini come se il progetto in questione fosse reale. A Salini la cosa sembra strana e infatti procede a dei controlli che poi portano alla scoperta che il mittente della mail non è l’ex ministro dell’Economia. Tria non ne sa assolutamente nulla. A quel punto Salini avverte Foa e fa una denuncia in Procura.

Ieri, però, il presidente, davanti ai parlamentari sbigottiti in un’audizione che è stata secretata, ha dato la colpa dell’incidente a un presunto buco del sistema informatico della Rai. Che però, secondo Salini, nulla può fare contro le cosiddette mail “fishing”. In più punti le versioni di Salini e di Foa divergono e tra i due è evidente una certa tensione. Anche per quanto riguarda questo “avvocato di Ginevra”, che però Foa (cittadino svizzero), di fronte a precisa domanda, ha negato di conoscere in precedenza. Per decisione del presidente Alberto Barachini, gli atti dell’audizione sono stati trasmessi alla Procura di Roma che sta indagando sulla vicenda.

Non si vive di sole conferenze: Renzi punta sui documentari

Le attività non politiche del politico Matteo Renzi sono frenetiche. Non soltanto conferenziere a gettone che gira il mondo tra Qatar e Cina e l’intera penisola del Golfo e pure il Kazakistan, ma anche narratore televisivo che studia nuovi progetti. Come dicono quelli bravi. E dunque il documentario “Firenze secondo me” potrebbe essere un prologo. Al Fatto risulta che l’ex premier vorrebbe girarne altri e così le proposte che circolano tra i dirigenti televisivi sono pervenute anche a Mediaset.

Col primo documentario “Firenze secondo me”, prodotto dall’agente Lucio Presta, il senatore semplice di Firenze ha incassato 454.000 euro a fronte di 20.000 euro per quattro serate su Nove che la multinazionale Discovery ha pagato al medesimo Presta. Come ha rivelato L’Espresso, i diritti versati dall’agente per “Firenze secondo me”, nell’autunno 2018, sono serviti a Renzi per restituire il prestito di 700.000 euro della madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli utilizzato per acquistare la villa sulle colline del capoluogo toscano.

Secondo l’ex premier il 2 per cento di share racimolato su Nove da “Firenze secondo me” è uno stimolo a continuare, magari su Mediaset. Forse il Biscione è il rimpianto di Matteo. Perché le televisioni di Berlusconi hanno trattato a lungo “Firenze secondo me”, girato nell’estate del 2018 con scene riprese durante il calcio storico che si tiene in piazza Santa Croce. Nel settembre del 2018, per esempio, Pier Silvio Berlusconi affermava di stimare il senatore: “Mi piacerebbe trasmettere la sua opera su Mediaset”. Qualche settimana prima, Barbara Palombelli, nel programma d’informazione su Rete 4, ha introdotto l’intervista all’ex premier con le immagini in esclusiva del documentario. Poi sarà accaduto un imprevisto perché neanche un mese dopo “Firenze secondo me” viene comprata da Discovery a un prezzo più basso, molto più basso, del milione circa chiesto al Biscione. Presta dice a L’Espresso che ha la proprietà del documentario e quindi potrà sfruttarlo ancora in altri modi (“farò un dvd e un libro”).

Non avvilito dal 2 per cento di share, però, il politico Renzi può considerare proficua l’attività non politica del 2018 e del 2019: egli stesso ha rivendicato con orgoglio di aver dichiarato nel 2018 un reddito di 830.000 euro e più di un milione nel 2019. Si può notare che in attesa di togliere gli elettori residui di Forza Italia con Italia Viva, Renzi vorrebbe prendersi un pezzo di palinsesto dei canali di Berlusconi. Che poi la differenza tra programmi televisivi e politici, spesso, non si percepisce.

In novembre è stato sempre L’Espresso a svelare la segnalazione dell’Unità d’informazione finanziaria (Uif) di Bankitalia in cui emergeva la vicenda del prestito della madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli. I documenti dell’Uif sono finiti in procura a Firenze, dove è stato aperto un fascicolo per ora senza indagati né reati.

E sono gli stessi pm fiorentini che nell’ambito di un’altra inchiesta – quella sulla fondazione Open – il 20 novembre 2019 perquisiscono Riccardo Maestrelli. Che non è indagato ed è stato perquisito, ribadiamo, non per il prestito della madre, ma per i finanziamenti alla Open. Di questi si parla anche in un’informativa, depositata il 13 novembre.

Qui si legge che il 16 marzo 2017 alla Fondazione sono arrivati 150 mila euro da Egiziano Maestrelli, il patriarca morto il 10 febbraio 2018. Altri 150 mila euro sono arrivati con tre bonifici il 22 e 23 febbraio 2018, alla vigilia delle ultime elezioni politiche, da “Tirrenofruit, Fondiaria Mape Srl, Framafruit Spa, società tutte riferibili a Maestrelli Riccardo”, scrivono i pm.

Ma questa è un’altra storia. Torniamo a Presta. Nell’anticipazione di ieri, L’Espresso spiega che gli ispettori della Banca D’Italia che si sono concentrati sulla “provvista necessaria ai coniugi Renzi-Landini” per quanto riguarda la restituzione del prestito, hanno acquisito anche i conti della società del manager di importanti volti televisivi.

“I fondi necessari ai predetti bonifici in favore di Matteo Renzi – scrivono – erano già presenti sul rapporto della Arcobaleno Tre”.

Per quanto riguarda il senatore, però, non c’è solo il documentario nel 2018 a ravvivare le sue finanze. Come detto ha guadagno tanto dalle conferenze.

Sempre il settimanale spiega che, leggendo le carte Uif, nel 2018 per due interventi in Inghilterra, Renzi ha fatturato alla Algebris (fondata dall’amico Davide Serra) 57 mila euro. E poi ci sono gli 84 mila euro ricevuti dalla società inglese Celebrity Speakers per quattro interventi del 3 e 4 giugno e poi del 18 e 19 settembre. Per un evento in Kazakistan è stato pagato un gettone di 10 mila euro.

Questo conferma che, come ha sostenuto lo stesso Renzi, non vive di politica, ma ha sempre tante cose da fare e in tanti posti del mondo. Impegni che possono aiutare l’ispirazione artistica.

Milleproroghe, slitta l’aumento dei pedaggi autostradali

Che proroghi, lo dice il nome stesso. E lo fa anche riprendendo misure che magari non erano riuscite a entrare in manovra. Ieri è circolata una bozza del decreto “Milleproroghe” che potrebbe arrivare in Consiglio dei ministri sabato e che, tra le decine di misure che tocca, prevede anche lo slittamento per “l’adeguamento delle tariffe autostradali” per il 2020, almeno per quei concessionari a cui è scaduto uno dei quinquenni che scandisce le concessioni e al termine dei quali si rivedono i piani di investimento e remunerazione e si aggiornano i piani economici-finanziari.

In pratica, il meccanismo previsto in bozza farebbe saltare i rincari al casello che sarebbero scattati a inizio anno su gran parte della rete autostradale, visto che riguardano 16 tratte gestite dai vari concessionari, da Strada dei Parchi a Satap e ovviamente Autostrade. I concessionari avrebbero tempo fino al 30 marzo per presentare i nuovi piani e, fino ad allora, potranno schivare i nuovi sistemi di calcolo del pedaggio.

Altro punto importante del decreto è quello che riguarda i vertici dell’Autorità delle Comunicazioni (Agcom) e quella della Privacy. Gli attuali presidenti resteranno in carica fino al 31 marzo 2020 e il testo prevede anche – per l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) – che in assenza del presidente “l’esercizio di tutte le funzioni previste dalla legge è attribuito al componente del Consiglio con maggiore anzianità nell’ufficio o, in mancanza, al componente più anziano d’età”.

Lato ambientale, viene prolungato anche il “bonus verde”, prorogato per il 2020 con una detrazione Irpef del 36% sulle spese sostenute negli interventi di sistemazione di giardini, terrazze e parti comuni degli edifici. Si estendono, inoltre, i termini per la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione fino al 31 dicembre del 2021.

Taglio dei parlamentari e legge elettorale: l’ipotesi dei due referendum contestuali

Con il raggiungimento delle firme si congela la riforma che riduce il numero dei parlamentari da 945 a 600. Ma che succede adesso? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pallante, professore associato di Diritto costituzionale all’Università di Torino.

Sarà la Suprema Corte a ratificare la legittimità della richiesta, bloccando l’entrata in vigore della legge costituzionale, il 12 gennaio. Professore, che succede dopo?

Dopo il deposito della richiesta di referendum presso la Corte di Cassazione, viene costituito l’Ufficio centrale per il referendum incaricato di verificare che la richiesta sia legittima: vale a dire che i sottoscrittori siano effettivamente un quinto dei componenti di una Camera e che le sottoscrizioni siano autenticate dalla segreteria della Camera di appartenenza. La decisione sulla legittimità viene presa entro 30 giorni, con ordinanza. Se l’ordinanza dichiara la legittimità della richiesta, allora il presidente della Repubblica indice, con decreto, il referendum entro 60 giorni dalla comunicazione: la prima domenica utile è il 22 marzo 2020, l’ultima il 14 giugno.

La Consulta si pronuncerà il 15 gennaio sul referendum sulla legge elettorale della Lega, che trasformerebbe il Rosatellum in un maggioritario all’inglese, con soli collegi uninominali. Si rischia il cortocircuito?

Parliamo ora di una richiesta di referendum abrogativo, non costituzionale. Se la Corte costituzionale decide per l’ammissibilità della richiesta, il presidente della Repubblica indice con decreto il referendum secondo quanto è deciso dal Consiglio dei ministri: la prima domenica utile è il 19 aprile 2020, l’ultima è il 14 giugno. La legge prevede che il referendum già indetto venga sospeso in caso di scioglimento anticipato delle Camere: se ciò accade si tengono le elezioni e poi i termini del procedimento referendario riprendono a decorre dal 365esimo giorno successivo alle elezioni. Nulla viene invece detto per l’ipotesi di concomitanza con un referendum costituzionale: si deve ritenere che i due procedimenti possano proseguire in parallelo. Ciò consentirebbe, in ipotesi, di votare contestualmente per il referendum costituzionale e per il referendum abrogativo.

In attesa che si svolga il referendum, se si dovesse andare alle urne, si voterebbe con le vecchie regole: il taglio di un terzo dei parlamentari non entrerebbe in vigore?

Sì, se si andasse a votare per le elezioni politiche prima che si voti per il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari si voterebbe per eleggere 945 parlamentari. Come appena detto, se nel frattempo la Corte costituzionale avesse ammesso il referendum abrogativo sulla legge elettorale, il relativo procedimento verrebbe sospeso e riprenderebbe un anno dopo le elezioni politiche. Dunque, si voterebbe con la legge attuale (il Rosatellum) o con l’eventuale nuova legge nel frattempo approvata dal Parlamento.

E nel caso di una crisi, il presidente Mattarella scioglierebbe le Camere o aspetterebbe il referendum, rimandando l’eventuale voto a dopo l’estate?

In caso di crisi di governo e scioglimento anticipato delle Camere verrebbe sospeso il referendum abrogativo, ma non quello costituzionale, che dunque proseguirebbe il suo iter. Certo, è sotteso un rischio: che i cittadini votino per eleggere un Parlamento composto da 945 membri e poche settimane dopo – se non, in caso di election day, lo stesso giorno! – approvino la riduzione del numero dei parlamentari a 600. Naturalmente l’efficacia giuridica della riduzione scatterebbe alle elezioni ancora successive, ma il dato politico che ne scaturirebbe sarebbe quello di una clamorosa delegittimazione del Parlamento neoeletto.

Giustizia, c’è accordo sulle intercettazioni: archiviato il bavaglio

L’accordo sulle intercettazioni c’è, anche se “è ancora un’intesa di massima” precisa il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma domani potrebbe tramutarsi già in un decreto, approvato in Consiglio dei ministri. Ed è già una sorpresa, se si parla di giustizia e giallorossi. Invece sulla prescrizione no, la maggioranza è lacerata esattamente come prima. “Su quello manca la convergenza, ci dovremo rivedere il 7 gennaio” spiega il dem Walter Verini uscendo di sera da Palazzo Chigi dopo il vertice di maggioranza, coordinato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Perché il Pd è ancora critico e Italia Viva è ancora in guerra, contro la riforma di Bonafede che entrerà in vigore dal 1° gennaio. I renziani si sono sgolati anche ieri sera per invocare un rinvio dello stop alla prescrizione dopo le sentenze di primo grado: a vuoto.

Però sulle nuove norme sulle intercettazioni sono tutti d’accordo. E allora il bicchiere può essere pieno a metà per Conte e il ministro della Giustizia. Perché non era così scontato l’accordo sulla revisione della riforma del precedente Guardasigilli, il dem Andrea Orlando, prorogata più volte da Bonafede. Un ennesimo rinvio sarà inserito nel decreto mille-proroghe nel Cdm di domani. Ma dovrebbe essere l’ultimo, breve slittamento. Non più di sei mesi, come sembrava ormai inevitabile, ma fino al 2 marzo, termine entro il quale la maggioranza dovrà varare un decreto “con aggiustamenti concordati, assolutamente urgenti su quelle che sono le norme della delega Orlando” come ha spiegato uscendo dal vertice Pietro Grasso di Leu. E la prima, importante differenza rispetto alla originaria riforma Orlando è che saranno i pubblici ministeri e non più la polizia giudiziaria, come invece prevedere il precedente testo, a selezionare le intercettazioni “rilevanti” da trascrivere poi nelle informative. “I pm torneranno ad avere la supervisione sulla raccolta e la scelta delle intercettazioni” spiega Bonafede. Una novità fortemente voluta proprio dal ministro, che nelle scorse settimane aveva avuto una costante interlocuzione con le principali procure italiane. “Alla fine era un punto di buon senso” sostiene uno dei partecipanti all’incontro. Così è passata la linea del ministro.

Ma per compensare, le nuove norme “aprono” anche agli avvocati, visto che i difensori potranno avere copia di tutte le intercettazioni rilevanti, ma soprattutto ascoltare quelle ritenute “irrilevanti”. E in caso di divergenza con il pm, sarà il giudice delle indagini preliminari a decidere come valutarle. Infine, i trojan, i software per le intercettazioni, potranno essere adoperati in tutte le inchieste per i reati con una pena superiore ai cinque anni di carcere. Sono questi i punti cardine dell’intesa “su questioni sui cui eravamo molto distanti” ricorda Bonafede. Ottimista al punto di ritenere possibile la stesura da qui a domani di un decreto, e che comunque entrerà in vigore dal 2 marzo.

Ma sul resto, cioè sulla prescrizione, è ancora una battaglia di muri incrociati. Il ministro non lo nega, ma non rallenta: “Sono orgoglioso del fatto che il primo gennaio entra in vigore la riforma della prescrizione. Però sono consapevole delle divergenze che ci sono nella maggioranza, e ho dato disponibilità a rivederci per accelerare i tempi del processo. Il 7 gennaio verranno prese in considerazione tutte le proposte senza nessuna preclusione”. E il messaggio è chiaro, pare soprattutto alle proposte dem, e in particolare a quelle che prevedono una prescrizione almeno parziale dei tempi processuali, soprattutto in caso di assoluzione in primo grado. Ma Iv è ancora lì, pronta almeno ufficialmente a sostenere l’assalto di Forza Italia alla prescrizione. Un’ossessione, per diversi giallorossi per forza.

5Stelle, allarme alla Camera: “contiani” vicini allo strappo

Per giorni le luci e gli occhi sono stati tutti per il Senato. Quello dei tre grillini esuli verso la Lega, dell’irregolare Gianluigi Paragone che ha votato no alla manovra (e altri quattro hanno marcato visita), della maggioranza non così larga nei numeri e negli umori. Ma in queste ore nel Movimento l’allarme è scattato alla Camera. Perché è a Montecitorio che stanno tentando il salto che porterebbe a una prima, vera scissione interna. Con un nuovo gruppo “contiano”, fatto di 20 grillini pronti a uscire dal Movimento per sostenere espressamente il presidente del Consiglio. Quel Giuseppe Conte che sa benissimo di certe fibrillazioni, e che infatti la settimana scorsa parlando con il Fatto aveva lanciato quasi un appello: “Se ci sono alcuni parlamentari che pensano a un partito di Conte dico di non pensare a prospettive del genere, dobbiamo lavorare all’oggi, lavoriamo qui, lavoriamo alle riforme. Non dobbiamo destabilizzare”. Ma certi processi neanche troppo sotterranei sono continuati.

E ora ai piani alti del M5S temono davvero che a gennaio, subito dopo la manovra e le feste, arrivi il gruppo dei contiani. Un rischio talmente forte che è stato oggetto di una riunione riservata a cavallo della visita di Beppe Grillo a Roma, martedì. In cui sono stati discussi nomi e strategie della possibile formazione contiana, con evidente preoccupazione. “Hanno già chiesto informazioni agli uffici tecnici della Camera su come si forma un nuovo gruppo” racconta una fonte di alto livello. E a tessere le fila sarebbe sempre lui, il deputato palermitano Giorgio Trizzino, amico del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Da settimane organizza cene tra deputati 5Stelle, con cui discute di prospettive politiche, quasi sempre nel segno dell’insoddisfazione per la gestione del capo politico Luigi Di Maio. E serata dopo serata avrebbe raggrumato diversi sodali. Fino al punto di tentare perfino il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. Nonostante le flebilissime smentite, Fioramonti è davvero a un passo dal lasciare come raccontato dal Fatto. I vertici a 5Stelle stanno cercando in ogni modo di recuperarlo. Anche perché temono che confluisca nel gruppo dei contiani. Magari assieme a ex grillini ora nel Gruppo misto, vogliosi di rientrare in gioco, come il marchigiano Andrea Cecconi. Fonti vicine al ministro negano: “Non ne sappiamo nulla”.

Ma nel Movimento parlano di corteggiamento in atto. E tornano sul ruolo centrale di Trizzino: 63 anni, medico chirurgo, con una forte esperienza politica. Negli anni 70 faceva parte del Gruppo giovani politica fondato dal fratello di Mattarella, Piersanti, presidente della Regione Sicilia assassinato dalla mafia nel 1980. E da lì nasce il legame con il capo dello Stato, ovviamente del tutto estraneo ai movimenti interni ai 5Stelle. La certezza invece è che Trizzino, deputato eletto nelle scorse Politiche, da mesi invoca “più collegialità” nel Movimento, e soprattutto sostiene: “Serve una leadership condivisa”. Fautore convinto dall’accordo con il Pd, ritiene Conte un faro. Ed ecco perché si è fatto promotore di una corrente nel nome della fedeltà al premier, pronta a trasformarsi in gruppo. E sarebbe più o meno una sciagura per Di Maio, che si troverebbe a dover trattare con un altro pezzo di maggioranza, frutto della prima scissione nella storia del Movimento. Ma di sicuro non potrebbe gioire neppure Conte, già equilibrista per forza con l’attuale, fragile assetto della maggioranza.

Per questo nei 5Stelle si affannano a compulsare i possibili contiani: in gran parte deputati del Sud, con “una folta rappresentanza pugliese”, racconta un graduato tra i più impegnati nel fermare la possibile emorragia. Ma è complicato, perché il M5S a oggi è una selva di fazioni diverse. Non a caso, proprio alla Camera sono dati in uscita altri due deputati. Come anticipato dal Fatto, sono tentati dal prendere la porta Nunzio Angiola e Gianluca Rospi. Nessuno dei due voterà la manovra, ora all’esame di Montecitorio: un passaggio formale, visto che il testo è blindato, cioè impossibile da emendare.

Ed è proprio questo il nodo principale per entrambi i deputati, che ora “riflettono” se restare o meno nel Movimento. Angiola in particolare è “attenzionato” dalla Lega, che in Senato prosegue l’assedio della Lega a due-tre 5Stelle critici. E naturalmente anche a Palazzo Madama si (ri)parla di un gruppo contiano. Perché le rogne sono molto più delle stelle, per il Movimento.

Salvini e i sequestri: perché le due accuse non sono uguali

Luigi Di Maio e i 5S abbandoneranno Salvini al processo per sequestro di persona dei 131 naufraghi soccorsi il 25 luglio 2019 e lasciati sulla nave Gregoretti della Guardia costiera fino al 31, quando fu consentito agli ultimi 116 di sbarcare ad Augusta previo accordo per ricollocarli in parte in 5 Paesi Ue. In soccorso del leader della Lega viene però la presidente del Senato, Casellati. Ieri, dovendo sostituire nella Giunta per le autorizzazioni l’ex senatrice leghista Donatella Tesei, ora presidente dell’Umbria, Casellati ha nominato l’ex ministra leghista Erika Stefani anziché un 5S, come sarebbe stato ragionevole dopo il passaggio di Francesco Urraro alla Lega. Il Pd ha solo una senatrice su 23, gli altri tre sono passati a Iv.

La discussione in Giunta è iniziata, voto il 20 gennaio, a ridosso del voto in Emilia: senza unanimità si andrà in aula. E Salvini, che a marzo fu salvato dai 5S che negarono l’autorizzazione per il caso simile dei 177 rimasti sulla Diciotti dal 16 al 25 agosto 2018, stavolta rischia. Leghisti e grillini si prendono a male parole da quando mercoledì Di Maio ha detto “il caso Diciotti fu un atto di governo, l’Ue non rispondeva e servì ad avere una reazione. Quello della Gregoretti fu un atto di propaganda, il meccanismo di redistribuzione era già rodato”. Salvini dice di aver agito “con il consenso di tutto il governo” e Di Maio, dice, è “un piccolo uomo”.

Mesi fa, sul caso Diciotti, Conte, Di Maio e l’allora ministro M5S Toninelli scrissero alla Giunta che avevano condiviso la scelta di lasciare in attesa i migranti, prima in mare e poi nel porto di Catania, aspettando un accordo per ricollocarli in Ue. Aderirono l’Irlanda e l’Albania che però, non essendo nell’Ue né firmataria di alcune convenzioni internazionali, non poteva accogliere. Le castagne dal fuoco le tolsero i vescovi alloggiando qualche decina di persone. Questa volta invece Palazzo Chigi sostiene il contrario: “La questione Gregoretti non figura all’ordine del giorno e non è stata oggetto di trattazione nel citato Cdm (31 luglio 2019, ndr), né in altri successivi”, ha scritto il segretario generale di Palazzo Chigi l’11 ottobre al Tribunale dei ministri di Catania che riporta la nota nella richiesta di autorizzazione a procedere. Nota a rischio zero, il governo gialloverde era già caduto. Nei giorni della Gregoretti, però, né Conte né i 5S presero mai le distanze da Salvini. Che ieri tramite “fonti della Lega” ha fatto sapere di “numerose interlocuzioni” tra Viminale, Chigi, Farnesina e Bruxelles. Secondo i leghisti esistono “mail tra uffici”, A noi non le hanno mostrate, ma se non è un bluffe sarà molto divertente.

Il Tribunale dei ministri di Catania è lo stesso della Diciotti, lo presiede il giudice Nicola La Mantia. Nelle 58 pagine della richiesta inviata al Senato si individuano altre differenze tra i due casi. La Diciotti è “un natante appositamente scelto e attrezzato per le operazioni di soccorso in mare – si legge –. La Gregoretti, invece, è ‘destinata all’attività di vigilanza pesca e non è attrezzata per eventi di questo tipo’” come ha spiegato il comandante, tenente di vascello Carmine Berlano, al procuratore di Siracusa. “Non è in grado di fornire un’adeguata sistemazione logistica a un così elevato numero di persone. I migranti – riferiva il comando generale delle Capitanerie di porto al Viminale il 27 luglio, chiedendo lo sbarco che sarà consentito solo il 31 – sono ospitati sul ponte di coperta, esposti agli agenti atmosferici con le problematiche che sono ben immaginabili (domani sono previsti 35°)”. Venti casi di scabbia, un solo bagno e il dramma di persone provenienti dai campi libici e da una pericolosa traversata, compresi i minori che sbarcarono solo su ordine della Procura minorile (e questo costituisce specifica aggravante per Salvini).

Secondo, “a differenza di quanto accaduto per la Diciotti, allorquando si innescò una controversia con Malta in ordine allo Stato obbligato a rilasciare il Pos (porto sicuro, ndr), nel caso Gregoretti è pacifico che il coordinamento e la responsabilità primaria dell’intera operazione, seppure avviata in acque Sar maltesi, siano stati assunti dallo Stato italiano su esplicita richiesta di quello maltese”. L’Italia, secondo i giudici, aveva “l’obbligo di concludere la procedura” e “l’omessa indicazione del place of safety dal Dipartimento Immigrazione, dietro precise direttive del ministro degli Interni”, “ha determinato una situazione di costrizione a bordo”.

Il presunto sequestro di persona durò cinque giorni per la Diciotti, tre per la Gregoretti. Si parte infatti dalla richiesta del Pos al comando delle Capitanerie, che poi deve farselo indicare dal Viminale perché è il ministero dell’Interno a sapere dove è preferibile procedere allo sbarco, all’identificazione e alla raccolta delle richieste d’asilo, Molto pungenti, i giudici catanesi, nei riguardi del prefetto Matteo Piantedosi, oggi come allora capo di gabinetto al Viminale: sentito a verbale ha cercato di sfumare sui poteri del ministero.