Altro che Natale, Merkel alla guerra del gas

È un gioco contro il tempo la partita delle sanzioni che vede gli Usa contro il consorzio russo-europeo di Nord Stream 2 per il completamento del gasdotto del Baltico (costo: 9,5 miliardi).

Dopo essere passate alla Camera dei rappresentanti Usa, anche il Senato martedì le ha approvate. L’obiettivo dichiarato dai promotori delle sanzioni, come il senatore Ted Cruz, è duplice: “Proteggere la sicurezza energetica dell’Europa”, ovvero evitare il potenziamento della dipendenza energetica europea dalla Russia, e difendere il ruolo geopolitico dell’Ucraina come terra di transito privilegiata del gas russo. Ma non è un segreto per nessuno che dietro le preoccupazioni strategiche e geopolitiche degli Usa, ci siano anche ragioni di concorrenza economica di non poco rilievo, come la vendita ai Paesi europei del gas americano estratto dal Fracking. Berlino reagisce: “Noi siamo contro le sanzioni extraterritoriali, come si è già visto anche nel caso dell’Iran, dove abbiamo lo stesso problema”, ha detto la cancelliera Angela Merkel ieri, rispondendo alla domanda di un parlamentare al Bundestag, Oggi prevista una riunione a Berlino fra Russia, Ucraina e Germania coordinata dal- l’Unione europea.

La costruzione della pipeline del Baltico è arrivata alle sue battute finali. Il consorzio di Nord Stream 2 sostiene che sono già stati posati più di 2.100 chilometri di gasdotto e ne manchino all’appello appena 300. Il gasdotto, che si compone di due porzioni di circa 1.200 km l’una da Ust-Luga (Russia) a Greifswald (Germania), è un raddoppio dell’esistente Nord Stream in funzione dal 2011 e trasporterà 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno a partire dal 2020.

A dover essere completata è la porzione a sud-est di Bornholm, l’isola della Danimarca. I lavori potrebbero essere finiti entro i 60 giorni entro i quali la legge Usa renderà pubblici in un documento i nomi delle aziende coinvolte dalle sanzioni. A quanto è dato sapere, potrebbe non essere colpito il consorzio di Nord Stream 2, composto al 50% da Gazprom, l’azienda energetica russa, e per il restante 50% da 5 imprese europee: le tedesche Uniper e Wintershell Dea, la francese Engie, l’austriaca Omv e la britannica-olandese Royal Dutch Shell. Coinvolte potrebbero essere invece le poche imprese al mondo che dispongono di navi in grado di posare le condutture in fondo al mare e di congiungerle fra loro: ecco il tallone d’Achille del progetto. In particolare la svizzera Allseas, con la sua nave Pioneering Spirit, e l’italiana Saipem con la C10. “Le attività in cui Saipem è coinvolta sul progetto non riguardano la posa della condotta, bensì della giunzione (tie-in) di due spezzoni già posati”, specifica l’azienda italiana al Fatto Quotidiano. Il lavoro che resta da fare da parte della nave C10 è “molto limitato”, continua l’azienda specificando che “sulla base delle informazioni disponibili, Saipem non crede che tale progetto di legge si applichi agli impegni contrattuali esistenti da parte di Saipem per North Stream 2”. Dunque, non si prevedono sanzioni. Certo è che le misure mettono con le spalle al muro un’azienda. Prevedono infatti il blocco dei visti di ingresso per i manager, il ritiro di quelli esistenti e il blocco delle transazioni in essere. Secondo Mosca la pipeline non corre nessun pericolo: “Presumiamo che verrà completata” ha detto il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov all’Interfax.

Trump sotto impeachment, ma vede già la rielezione

Il 45° presidente degli Stati Uniti sta per divenire il terzo a essere rinviato a giudizio e a rischiare l’impeachment, ma la Borsa di New York va su e gli indici di gradimento di Donald Trump salgono: nell’ultimo sondaggio Gallup, il magnate presidente ha guadagnato sei punti da quando la Camera ha avviato l’inchiesta nei suoi confronti, salendo dal 39% al 45%. Il 51% degli intervistati è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi lanciò l’indagine, innescata da un intreccio tra interessi di Stato e interessi politici personali nei rapporti con l’Ucraina. Il 46% è favorevole all’impeachment e alla rimozione, giù di sei punti; solo il 5% degli elettori repubblicani è a favore, contro l’85% dei democratici, un segno della polarizzazione dell’Unione. Sempre i sondaggi attribuiscono a Trump buone possibilità di essere rieletto il prossimo novembre, anche se lo danno oggi perdente contro alcuni dei suoi potenziali rivali democratici. La seduta decisiva della Camera è iniziata ieri di buon mattino; per evitare quanto accaduto la scorsa settimana in Commissione Giustizia – un dibattito fiume di 14 ore, con sospensione della seduta nel cuore della notte e ripresa il giorno dopo – martedì la Commissione dei Regolamenti aveva deciso di dedicare al dibattito sei ore, tre ore d’interventi per i democratici e altrettante per i repubblicani. Ma i repubblicani hanno ugualmente attuato tattiche dilatorie, prima presentando una mozione per rinviare il voto e poi intavolando un dibattito sulle regole del dibattito, approvate solo alle 12.00, cioè le 18 in Italia, quando, con la lettura dei due capi di imputazione, abuso di potere e ostruzione alla giustizia, è finalmente cominciato il dibattito nel merito. Alla fine, il voto separato su ciascuno dei capi d’imputazione: scontato l’esito, con i democratici in maggioranza.

Tutti i voti preliminari sono stati su base partitica, solo due democratici hanno violato la disciplina di gruppo. Nancy Pelosi, la speaker della Camera, ha lasciato la presidenza della discussione giusto il tempo di fare il suo discorso: una replica alle accuse del presidente, virulente contro di lei, “Trump ha violato la Costituzione …, è una minaccia costante alla sicurezza degli Stati Uniti”. In una lettera alla Pelosi, Trump, martedì, le aveva scritto: “La storia la giudicherà in modo severo, mentre lei porta avanti questa farsa dell’impeachment”, considerata “un tentato colpo di Stato illegale e partigiano”. E ieri ha di nuovo insistito in un tweet: “Il peggior speaker di tutti i tempi”. In un altro tweet il presidente aveva assunto toni vittimisti: “Riuscite a credere che oggi sarò messo sotto accusa dalla sinistra radicale, e dai fannulloni democratici? E non ho fatto niente! – frase tutta in maiuscolo – Una cosa terribile. Questo non dovrebbe mai più succedere a un altro presidente. Dite una preghiera!”; e ancora “È un assalto all’America”. Il programma di giornata della Casa Bianca prevedeva per Trump un unico impegno in mattinata, con il consueto briefing d’intelligence. Poi, nel pomeriggio il presidente doveva imbarcarsi sull’Air Force One per Battle Creek, nel Michigan, dove doveva tenere un comizio nel segno dello slogan Keep America great. Il dibattito della Camera è stato accompagnato da una protesta sul Campidoglio, a sostegno dell’impeachment, dopo gli oltre 600 tra raduni e marce di martedì in varie città di tutti i 50 Stati dell’Unione, da Times Square a New York al centro di Anchorage in Alaska. Con il voto della Camera, Trump diventa il terzo presidente degli Stati Uniti a subire un processo per impeachment, dopo Andrew Johnson, il successore di Abraham Lincoln, e Bill Clinton. Se il Senato decidesse la sua rimozione, sarebbe un inedito nella storia americana, ma l’eventualità è remota: i senatori, prima del processo, giureranno d’amministrare la giustizia “in modo imparziale”, ma il capo dei repubblicani Mitch McConnell ha già detto di non sentirsi obbligato a esserlo.

L’industria stellare di re Hussein

Il paesaggio lunare della valle di Wadi Rum – con i suoi labirinti di rocce monolitiche plasmate dal vento e dal tempo, i disegni preistorici incisi sulle rocce di arenaria, la finissima sabbia rossa – ha un ruolo da protagonista nel- l’ultimo episodio della saga di Star Wars, L’ascesa di Skywalker. Lo spettacolare deserto, con le maestose dune – Patrimonio dell’Unesco dal 2011 – è il luogo dove nacque e si sviluppò l’epopea di Lawrence d’Arabia dal 1916 al 1918 durante la Great Arab Revolt. Qui David Lean ritornò nel 1960 per dare nel suo film all’ufficiale britannico il volto di Peter O’Toole, pellicola che nel 1962 fu premiata con sette Oscar.

Da allora centinaia di troupe si sono alternate nel deserto rosso, specie quelle delle grandi produzioni hollywoodiane. Fra le ultime pellicole girate, The Martian con Matt Damon e Aladdin con Will Smith. La “piccola Hollywood” del deserto non è nata per caso, le autorità giordane hanno lavorato per garantire che le diverse caratteristiche paesaggistiche del paese potessero diventare gli scenari di alcuni dei più grandi successi di Hollywood. Quella del supporto al cinema è forse una delle strutture che funziona meglio nel regno hashemita. L’organizzazione che cura il sostegno alle produzioni cinematografiche è nelle mani di un principe di Casa Reale, Ali Bin al-Hussein, uno dei fratellastri del re Abdullah II. La Royal Film Commission è stata istituita nel 2003 per promuovere il Paese come un “enorme studio all’aperto”, racconta il suo amministratore Mohammad Al-Bakri. Per attirare cineasti stranieri, la Commission offre incentivi finanziari. Le società di produzione possono beneficiare di uno sconto del 10-25% per un minimo di un milione di dollari speso nel regno, nonché di esenzioni fiscali per le attrezzature importate per le riprese. I registi vengono però a girare in Giordania anche perché sono attratti dal paesaggio vario che trovano nel regno del deserto, secondo Al-Bakri. Indiana Jones e l’ultima crociata, film di Steven Spielberg del 1989, interpretato da Harrison Ford, portò sul grande schermo la magia della città archeologica di Petra, famosa per le sue tombe scavate nella roccia. La splendida e ben conservata facciata in arenaria di Al-Khazneh (Tesoro) di Petra, risalente al I secolo a.C., rappresentava l’ingresso di un tempio che ospitava il Santo Graal. Parti del remake di Aladdin della Disney sono state girate a Wadi Rum, la Valle della Luna in lingua araba. “Una scelta naturale” per noi, ha raccontato il regista Guy Ritchie ai giornalisti dopo le riprese. Wadi Rum che venne fatta conoscere dal pluripremiato Lawrence d’Arabia ha offerto le sue sabbie rosse nel 2016 anche per Rogue One: A Star Wars Story, prima che il luogo fosse nuovamente scelto come location per l’ultimo episodio della saga, The Rise of Skywalker.

Nella stessa area sono stati girati anche il film sulla guerra in Iraq The Hurt Locker, che ha vinto l’Oscar come miglior pellicola e miglior regista nel 2010, e Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow del 2012, sugli agenti della Cia che davano la caccia a Osama bin Laden in Pakistan.

La produzione hollywoodiana per l’ultima pellicola della space-opera Star Wars è stata affiancata dalla “Zaman Project Management” guidata da Munir Nassar, ex ministro del Turismo, società di servizi che ha lavorato instancabilmente per cinque mesi per preparare le riprese nella Valle della Luna. Racconta Nassar: “All’arrivo degli attori, tutto doveva essere pronto per montare i set, le riprese sono state infatti completate in qualche settimana”. La sua compagnia è stata anche coinvolta nelle riprese di altri quattro film in Giordania, tra cui Mission to Mars, in cui si è fatta carico della logistica, fornendo di tutto: dai pasti alle prenotazioni alberghiere, ai trasporti, alla sicurezza. Ma non è solo il deserto rosso ad attrarre cineasti in Giordania. Mohammad Al-Bakri della Royal Film Commission indica altri luoghi molto apprezzati dai cineasti. La pittoresca città di Madaba, a sud di Amman, è stata utilizzata per replicare i vecchi villaggi greci, mentre la riserva naturale di Azraq, a ovest della Capitale, è stata lo scenario naturale per ricreare le regioni dell’Asia meridionale.

Genova, la Procura: “Ora chiederemo gli atti su don Franco”

Fino a martedì, le denunce, le testimonianze e i documenti processuali relativi ai casi di abuso conservati negli archivi dei dicasteri vaticani o nelle diocesi erano blindati dal segreto. Con la svolta storica di Bergoglio, le vittime degli abusi potranno però conoscere le sentenze dei tribunali ecclesiastici così come i magistrati ordinari potranno chiedere gli atti dei processi canonici. E il primo caso in Italia ad avere ripercussioni, dopo la decisione del Papa di abolire il segreto pontificio, sarà proprio quello di don Franco Castagneto, svelato da Sherlock, e su cui la Procura di Genova ha aperto un’inchiesta. “C’è un fascicolo per violenza sessuale”, ha detto il procuratore di Genova, Francesco Cozzi.

Dopo la pubblicazione dell’inchiesta a puntate sul Fatto, almeno dieci presunte vittime hanno riferito di molestie e comportamenti “non appropriati” da parte di don Francesco Castagneto (per adesso non indagato, il fascicolo è a carico di ignoti), all’epoca dei fatti parroco di Sori. Episodi noti alla Curia ligure, come ci ha confermato con coraggio Alberto Tanasini, vescovo di Chiavari: “Sono addolorato di non aver dato credito allora alle parole di quei ragazzi”. Sulla base di quelle prime denunce, nel 1998, don Franco venne trasferito da Sori a Genova, nella chiesa Santa Teresa di Albaro, per decisione di una commissione composta dallo stesso vescovo Alberto Tanasini, dall’attuale cerimoniere del Papa Guido Marini e da don Nicolò Anselmi, oggi vescovo e vicario della diocesi di Genova. La storica abolizione del segreto pontificio potrebbe ora aprire le porte all’inchiesta. “Certo – spiega Cozzi – è nostra intenzione chiedere alla Curia di Genova il materiale relativo agli accertamenti compiuti”.

“È essenziale scoprire – spiega Francesco Zanardi, presidente della Rete L’Abuso, che aveva ricevuto la segnalazione anonima, assieme a Sherlock, su don Franco – se il sacerdote abbia proseguito con le sue condotte, come risulta a noi, anche nella parrocchia di Albaro”. “Ora la Curia deve collaborare – prosegue Zanardi – il silenzio durato troppi anni rischia di aver portato alla prescrizione dei primi episodi”. Ma ora potrebbe cambiare tutto: “Il segreto d’ufficio – dice il documento di Bergoglio – non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili”. “È una rivoluzione”, dice Zanardi. “Il paradosso è che con questo atto Bergoglio ha fatto per la lotta alla pedofilia più di quanto non faccia lo Stato. Ancora non esiste, come in Francia, un obbligo di denuncia. Certo, bisognerà vedere come si tradurranno in fatti le parole del Papa. Il banco di prova sarà anche Genova. Vedremo se la Curia collaborerà davvero”.

Dalla Liguria potrebbe partire un effetto domino. Nel mondo. Per Evelyn Korkmaz, vittima canadese e co-fondatrice di Ending Clergy Abuse, la paura è che potrebbe però non cambiare molto. “Il Vaticano renderà più facile il lavoro delle autorità civili, ma non per questo gli atti dei procedimenti canonici saranno automaticamente resi pubblici”. Diversamente, Anne Barrett Doyle – direttrice di BishopAccountability.org, monumentale archivio online sugli abusi negli Usa – interpellata da Sherlock si chiede: “Il segreto sarà tolto anche retroattivamente? Perché l’impatto di questa riforma dipenderà molto da come verrà applicata”. In Francia, François Devot, presidente di La Parole Libérée, sottolinea come non è detto che l’abolizione del segreto pontificio vada di pari passo con l’obbligo di denuncia da parte delle gerarchie ecclesiastiche. E dall’Argentina, tornata di recente agli onori della cronaca col caso Zanchetta, Julieta Añazco ( che proprio in un’intervista al Fatto aveva accusato Bergoglio di aver coperto il prete suo abusatore ai tempi in cui era arcivescovo a Buenos Aires) dice: “Vogliamo ora che i giudici vadano fino in fondo. Gli archivi devono essere aperti. È difficile, perché le ingerenze della Chiesa da noi sono ancora forti. Ma non è più impossibile”.

Le “Teche” Mediaset durano una settimana: richiuso l’ossario

Certi flop hanno questo di bello; nessuno se ne accorge perché nessuno ha visto il programma. È durata una settimana la vita di Cento di questo giorno, la risposta di Mediaset a Techetecheté. Più che una risposta, una scena muta. Mai titolo fu meno profetico: lo share preserale di Rete4 è precipitato dal 4 all’uno per cento, numeri che nemmeno Forza Italia, costringendo Cologno Monzese alla rimozione coatta. Eppure negli spezzoni d’epoca per celebrare i quarant’anni della Tv-azienda era stata schierata l’artiglieria pesante; Dentiera Funari, pancia Competente Ferrara, Bonolis, Mike, Corrado, Sandra e Raimondo…

La nostalgia non si addice a Mediaset? Probabile. La striscia non aveva la sapienza di montaggio delle Teche Rai; mancava soprattutto di un tema, un centro, l’unico filo conduttore era pescare negli archivi cosa era andato in onda la data del giorno corrente in qualsiasi anno. Una scelta narrativamente scellerata, nella quale però si annida l’anima stessa del berlusconismo: l’eterno ritorno dell’uguale, l’indelebile cerone e la bitumazione perenne del cuoio capelluto di cui Silvio è il convinto testimonial. Allo stesso modo, da diversi lustri un esercito di Sisifo catodici è condannato a rifare se stesso ogni giorno; così Barbara D’Urso si tappa da ventenne a sessant’anni, così Costanzo continuerà a dire “Sipario!” fino alla notte dei tempi. Ma se il tuo sogno è lo stesso di Dorian Gray, cancellare lo scorrere del tempo, è sconsigliabile guardarsi allo specchio.

C’è il “sovranismo della ricchezza” a scapito dell’Italia

Ci sono vittorie che riempiono d’orgoglio il vincitore. E altre che svelano invece il dramma dei perdenti. Che vittoria è quella di Milano fotografata dalla classifica sulla qualità della vita del Sole 24 Ore? Milano è per il secondo anno la città d’Italia dove si vive meglio. È prima anche per reddito dei suoi abitanti. Su questo, rimando a quanto ha scritto ieri su queste pagine Alessandro Robecchi: “Il reddito medio è quello di chi ordina il sushi, più il reddito di chi glielo porta in bicicletta, diviso per due”. Milano ha infatti anche il record delle disuguaglianze, oltre a un’aria mefitica (è al 94esimo posto per qualità dell’aria, è tra le città più inquinate d’Italia).

Ma, più in generale, il giusto orgoglio di essere comunque primi dovrebbe almeno fare i conti con una riflessione sullo stato complessivo del Paese. Uno stato pietoso, drammatico, allarmante, a dar retta ai risultati della ricerca. La secessione del Nord è già avvenuta – ci dice la classifica del Sole – anche se è scomparsa dai programmi della Lega di Matteo Salvini. Ai primi posti, oltre a Milano, sono insediate Bolzano, Trento, Aosta. Tra le prime dieci ci sono Trieste (quinta), Monza (sesta), Verona (settima), Treviso (ottava), Venezia (nona) e Parma (decima). Più dietro, ma in salita rispetto agli anni scorsi, Genova, che conquista ben 11 posizioni, Firenze, che ne scala sette e arriva al quindicesimo posto, e Torino (trentatreesima con cinque posizioni in più).

Sotto Roma, un disastro. Bari è la numero 67, Napoli 81. Ultima, per la quarta volta, Caltanissetta, al posto numero 107. Risultati confermati dagli indici regionali. Primi, nell’ordine, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Lombardia. Penultima la Calabria, ultima la Sicilia. È un’Italia spezzata in due, quella che emerge dalla ricerca. Un Nord dove si vive bene e con comportamenti virtuosi dei suoi abitanti (cultura e reddito pesano anche su questi). E un Sud che accresce la sua distanza dalla parte ricca e ben funzionante del Paese.

Tornano alla mente le parole su Milano pronunciate un mese fa dal ministro Giuseppe Provenzano: “A differenza di un tempo, oggi questa città attrae, ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae. Intorno a essa si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia”. Tra le proteste del sindaco Giuseppe Sala e della Lega, stupiti che qualcuno osasse cantare fuori dal coro unanime che gorgheggia le lodi della città, aveva aggiunto la sua riflessione l’economista Gianfranco Viesti: “Il timore è che lo sviluppo di Milano sia avvenuto spesso a danno del resto del Paese, e che fantastichi di se stessa come una città-Stato largamente autonoma; e che il suo sviluppo sia avvenuto senza dare alcuna spinta al resto del Paese”. Una città, aveva scritto Viesti, a rischio di “sovranismo comunale”.

Ora il problema appare più generale, non è soltanto l’eccellenza della numero uno a fare la differenza, ma è tutto il Nord a mostrare un “sovranismo della ricchezza” in opposizione a un Sud perdente e perduto. Altro che “movimento del Nord” (Sala), “autonomia differenziata”, “questione settentrionale”. Chi ha responsabilità di governo dovrebbe capire che la faglia tra Nord e Sud è la prima emergenza di un Paese che o si salva tutto insieme, o tutto insieme perisce.

Gli anarchici sono l’eterno capro espiatorio

A cinquant’anni dalla strage fascista di Piazza Fontana, dai depistaggi e dalle trame dei servizi segreti e dell’Ufficio Affari Riservati, e dalla morte di Giuseppe Pinelli, per una parte della “intelligence” italiana gli anarchici ritornano a essere il capro espiatorio preferito.

Ne ha dato prova il Gr1-Rai delle otto del mattino del 18 dicembre scorso. Durante il servizio sugli arresti di alcuni militanti del centro sociale torinese Askatasuna per una manifestazione no-Tav, è stato dato spazio al commento di Alfredo Mantici, ex capo del dipartimento analisi del Sisde.

Secondo lui, come ha riportato il Gr1, “l’anarco-insurrezionalismo è più pericoloso del jihad”. Una dichiarazione, questa, che presuppone naturalmente l’equiparazione, che non pare in verità troppo scontata, tra l’Askatasuna e i cosiddetti anarco-insurrezionalisti.

Gli anarchici, però, insurrezionalisti o meno, restano i colpevoli ideali, e i più pericolosi di tutti, per certi nostri servizi segreti e per certi apparati investigativi. Come ai tempi di Piazza Fontana, per l’appunto, quando per la Questura di Milano non vi era dubbio che ci fosse “una sicura matrice anarchica negli attentati”. Poco importa che gli arrestati di Torino fossero “armati”, al momento dei disordini, come ha spiegato la polizia, di fumogeni, petardi, sassi e bastoni, ovvero di “armi” che notoriamente non sono davvero le predilette dagli attentatori del fondamentalismo islamico, jihad o Isis che dir si voglia.

Questi ultimi, infatti, preferiscono mitra, pistole, tritolo e altri esplosivi ad alto potenziale; e se vanno allo stadio non lo fanno per assistere allo scoppio dei petardi, ma per far saltare lo stadio stesso.

Tutto ciò, tuttavia, non conta nulla per l’ex agente più o meno segreto Mantici, e per il giornale radio della Rai, per i quali gli anarchici, o Askatasuna, sono più temibili dei terroristi (quelli veri) islamici.

Sono affermazioni inquietanti per varie ragioni, e per la convinzione dello 007 che n Italia il fondamentalismo islamico rappresenterebbe un pericolo inferiore a quello costituito da qualche anarchico. Che cosa lo induce a dirlo? Mistero.

Il suddetto Mantici, da qualche anno, elabora le sue sorprendenti analisi su periodici forse non troppo letti dal grande pubblico, ma che in compenso possono contare su firme eccellenti del mondo delle vecchie “barbe finte”.

Era capitato per esempio con la rivista di geopolitica Lookout, news, ai cui vertici c’erano ben tre direttori: Giuseppe De Donno e Mario Mori, gli 007 del processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia, e il citato Mantici, che vanta o vantava un buon rapporto col suo ex capo Mori.

Tutti i pensionati, compresi quelli dei sevizi segreti, hanno diritto a divertirsi, e a giocare ai loro Risiko, anche se dovrebbe fare riflettere il precedente pernicioso di Federico Umberto D’Amato, che continuò a tramare pure da pensionato dell’Ufficio Affari Riservati.

Da qui a credere poi che gli anarchici, scambiati per quelli di Askatasuna, oppure gli insurrezionalisti, ammesso che possano essere tali, siano la vera minaccia alla sicurezza più del jihad o dell’Isis, in ogni caso, ce ne corre.

Come è molto diverso fare informazione corretta dallo spacciare notizie e commenti in cui i nuovi colpevoli di tutto sono ancora e sempre gli anarchici, già vittime mezzo secolo fa.

E tutto ciò, guarda caso, nei giorni del ricordo di Piazza Fontana, una strage fascista e di Stato.

Querele, persino la Dc era più furba

Uno degli slogan del Sessantotto recitava: “Pagherete caro, pagherete tutto”. Io l’ho trasformato in “rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto”. Anche, e forse soprattutto, la Democrazia cristiana. Giorni fa Marco Travaglio ricordava sulle colonne di questo giornale: “I democristiani, consci del loro enorme potere, rispettavano la funzione critica della stampa ed evitavano di intimidirla trascinandola in tribunale ogni due per tre”. Io che qualche anno in più di Marco ce l’ho, e ho quindi vissuto la lunga stagione del potere democristiano, posso confermare le sue parole in corpore vili.

Per tutta la vita sono stato antidemocristiano e ho attaccato la Dc, finché è esistita, in modo duro, spesso pesante, a volte ingiusto, anche se non credo nei termini personali e volgarissimi che son patrimonio della nostra stampa di oggi e, direi, di buona parte dell’attuale cultura italiana (io non mi sognerei mai di chiamare una donna sia che faccia politica o che ne sia del tutto estranea “patata bollente” o “tubero incandescente”, termini appioppati a Virginia Raggi da quel gran signore di Vittorio Feltri). Non ho mai ricevuto una querela dagli esponenti democristiani nemmeno quando a metà degli anni 80 ripresi sul Giorno, a proposito di Aldo Moro, un articolo impietoso pubblicato su Il Lavoro di Genova nei giorni delicatissimi del suo sequestro e che era stato intitolato “Aldo Moro: statista insigne o pover’uomo?” (Il Lavoro, Contropiede, 5 maggio 1978). Potrebbe dire il lettore: non ti querelavano perché non contavi nulla. Le cose non stanno proprio così. Durante la stagione democristiana io ho lavorato per L’Europeo e per Il Giorno di Zucconi e Magnaschi che non erano esattamente giornali di seconda linea e dove tenevo una rubrica molto seguita dai lettori e che non poteva sfuggire agli occhi di qualsiasi psicopolizia, democristiana o meno. Ma la Dc non ti estrometteva nemmeno dal dibattito pubblico. Padrona di buona parte della Rai lasciava che, sia pur col contagocce, vi partecipassero voci molto diverse dalla sua. Era la tattica, ma credo anche una forma mentis, del “ventre molle”. Modalità che spazientiva Indro Montanelli perché non trovava un contrasto forte alle sue opinioni. Un pomeriggio ero andato a trovarlo al Giornale e mentre si parlava appunto della Dc e della sua “mollezza” il vecchio Indro mi disse: “A battersi contro avversari del genere non c’è gusto”. Poi prendendo dalla scrivania una immaginetta incastonata in una cornice d’argento, di quelle in cui in genere si mettono le fotografie della moglie e dei figli o di Padre Pio, me la mostrò. Lì per lì non capii, poi dalla carta un po’ traslucida emerse la figura inconfondibile di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, alias Giuseppe Stalin. “Con questo ci sarebbe stato gusto! Con questo ci sarebbe stato gusto a battersi!”. “Sì – risposi ridendo – ma il tuo gusto sarebbe durato poco perché ti avrebbe fatto fucilare”. Eravamo nel 1990 e Montanelli chiudeva così la sua prefazione al mio libro Il Conformista: “Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”. E così è avvenuto. Da allora la tattica degli uomini politici nei confronti dei giornalisti e degli intellettuali ha preso una direzione bifronte. Per coloro che, senza per questo essere dei rivoluzionari, hanno un angolo di visuale totalmente diverso nei confronti del “sistema’” c’è l’emarginazione e il silenzio. Per i pochi, pochissimi, giornalisti che nel “sistema” ci stanno, combattendolo, c’è l’intimidazione costante, per tornare al discorso di Travaglio, della querela e dell’ancor più insidiosa e direi anche ignominiosa azione civile di danno perché nell’azione civile non si vuole che sia ripristinata la propria onorabilità, si vogliono solo quattrini, inoltre nell’azione civile anche un ladro che sia riconosciuto come tale dalla magistratura può avere soddisfazione, sempre pecuniaria, se il giornalista ha usato “termini non continenti”. È chiaro che per un piccolo giornale, o un singolo giornalista, ciò è estremamente oneroso, perché quand’anche si abbia ragione vuol dire costi e un’infinita perdita di tempo. Più che a lavorare noi dobbiamo passare le giornate a difenderci.

Poiché le richieste degli uomini politici sono milionarie andrebbe, come ricorda ancora Travaglio, ripristinata la fattispecie della “querela temeraria”, dove per far causa bisogna depositare una cauzione proporzionale alla richiesta del danno e se poi tu la querela la perdi, perdi anche la cauzione. E allora un uomo politico, che pur ha alle spalle la tutela rassicurante del suo partito, prima di fare una causa che ha solo scopo intimidatorio ci penserebbe due volte. Per parte mia, ma questo sta solo nel mio “personalissimo cartellino” come diceva Rino Tommasi quando faceva telecronaca degli incontri di boxe, ripristinerei l’antico istituto del duello. E allora si vedrebbe chi ha le palle e chi non ce le ha.

Mail box

 

Chi paga i lussuosi buffet degli auguri istituzionali?

Ho letto, inorridendo, l’articolo riguardante gli auguri di Natale della presidente del Senato Casellati ai giornalisti.

Mi sconvolge la descrizione del buffet (la maionese allo zenzero che si sposa col salmone al forno, le parmigianine di melanzane e il chutney di pere che si accorda coi formaggi…). Ritengo che queste spese, come molte altre di cui non conosciamo l’entità, rientrino in un apposito capitolo, tutto naturalmente a carico dell’onesto contribuente (a meno che la Casellati non paghi di tasca sua!).

Come faccio a sapere le spese sostenute, visto che pago le tasse e avrei il sacrosanto diritto di saperlo? Sono coperte da segreto di Stato o posso inoltrare una richiesta?

Carlo B.

 

La prescrizione non è il rimedio alla lentezza dei processi

La grande falsità e ipocrisia sulla funzione salvifica della prescrizione. Si sostiene l’assurdità per cui la prescrizione sarebbe la “giusta” reazione degli indagati/imputati contro la lentezza della giustizia; detta lentezza è causata, al contrario, dalla gravissima carenza di personale giudiziario e dalla farraginosità e cavillosità della normativa penale che, con il falso pretesto del garantismo, persegue, invece, l’occulto, continuo, reiterato e demoniaco scopo di inceppare la giustizia, solo a vantaggio dei colpevoli e a danno delle vittime dei reati. La realtà è che la prescrizione non è concettualmente speculare alla celerità della giustizia. Al delinquente interessa la prima, non quest’ultima, con la quale, infatti, si avrebbe la condanna del colpevole, e non il suo mero proscioglimento, senza accertamento della colpa, con grande gaudio e giubilo dei delinquenti.

Piero Angius

 

Ipocrita gridare allo scandalo per la fiducia sulla Finanziaria

Purtroppo non riesco ad assuefarmi a tutte le bugie con cui ogni giorno il centrodestra tortura le mie orecchie! La Finanziaria è passata, al Senato, come tutte le altre volte con il voto di fiducia, e il centrodestra unito a gridare allo scandalo: peccato che questi signori dimentichino che da Berlusconi in avanti tutte le Finanziarie siano passate col voto di fiducia, anche quando, specie con Berlusconi, la maggioranza era più che solida. Personalmente sono contrario a questo modo di legiferare, ma che l’accusa venga da chi ne ha sempre abusato, mi sembra davvero troppo!

Claudio Bernardis

 

Le bugie egiziane offendono la memoria di Giulio Regeni

Appare ormai sicuro che dietro l’omicidio del povero Giulio Regeni, il ricercatore friulano ucciso tra gennaio e febbraio del 2016 in Egitto, vi sia la National Security. Feroce polizia segreta. Almeno quattro sono stati i goffi tentativi di depistaggio a danno degli investigatori italiani. Depistaggi che cercavano anche di infangare il ricordo del povero Giulio, dalla teoria dell’incidente stradale a quella sulle strane frequentazioni sessuali. Dalla falsa testimonianza di chi l’avrebbe visto discutere con uno straniero ai suoi documenti trovati in casa di malviventi uccisi in un conflitto a fuoco. Manca solo una confessione scritta e un selfie con altri presunti colpevoli! La memoria del povero Giulio continua ad essere offesa da questi delinquenti, che probabilmente considerano gli italiani un popolo di rincoglioniti. Quando il teatrino che loro stessi hanno inscenato non convincerebbe neppure il più sprovveduto dei detective. Ora l’Egitto e al-Sisi ci forniscano la verità una volta per tutte. O tutta l’Europa dovrà boicottare questo splendido e un tempo glorioso paese oggi sotto scacco di una delle peggiori dittature esistenti.

Cristian Carbognani

 

La fuga dei cervelli campani riguarda anche Ancelotti

Ben 5.207 laureati, dai 25 anni in poi, sono stati costretti nel 2018 a

lasciare la Campania, alla ricerca di un lavoro: 1.017 sono andati all’estero. È l’emigrazione più dannosa, perché riguarda i giovani che hanno studiato. Il nostro Paese dovrebbe permettere ai giovani di studiare fuori per poi tornare in Italia. E non fare affidamento soltanto sul reddito di cittadinanza.

Tra i più fortunati, che hanno trovato subito un’occupazione ben remunerata, c’è un professionista apprezzato, l’ex allenatore del Napoli. Cacciato con eccessiva fretta, da don Aurelio De Laurentiis, Carlo Ancelotti, con il figlio e il genero, ha raggiunto Liverpool: guiderà l’Everton.

Pietro Mancini

 

Diritto di replica

Nell’articolo pubblicato ieri, “L’ex segretario Cisl alla Furlan: mostrate un gesto di dignità” abbiamo scritto che Valeriano Canepari, da presidente del Caf Cisl, ha percepito nel 2013 97.170,03 euro di reddito da pensione e 192.071 euro da Usr Cisl E. Romagna, per totali 289.241.31 euro. In realtà, nel 2013, Valeriano Canepari non aveva percepito nessuna pensione, essendo andato in pensione il 1° ottobre 2014. Resta però il dato dell’importo complessivo percepito che diede allora vita al cosiddetto “caso Scandola” il cui nome era Fausto, e non Renato come da noi scritto. Ci scusiamo con gli interessati.

fq

Capsule del caffè. Un mercato poco “green” che produce 120 mila tonnellate di rifiuti

 

Gentile redazione, ho letto il vostro articolo sul rischio di trovarsi la plastica nelle cialde del caffè (di una marca precisa, certo, anche se distribuita da diverse catene). Ora, al di là dei pericoli per la salute che spero siano circoscritti al caso in questione, da utilizzatrice golosa di macchina Nespresso e però anche da ambientalista, mi chiedo ogni giorno se non è il caso di tornare alla vecchia moka. È vero che proprio Nespresso invita i consumatori a “smaltire” le capsule nei loro punti vendita, ma è vero anche che non ho mai visto nessuno – me per prima – farlo. Le cialde inquinano tantissimo e vengono gettate nell’indifferenziato. Vale la pena fare tanto i “gretiani” e poi continuare a gustare caffè “usa e getta”?

Alice Tempesta

 

Gentile signora Tempesta, provi a chiederlo a George Clooney se bere il caffè in capsule sia un gesto che nuoce all’ecosistema. Ormai è indubbio che, dopo l’incontrastato monopolio della moka (quest’anno Bialetti celebra il suo centenario), oggi a guidare il consumo del caffè in casa o negli uffici siano proprio le capsule: ammontano a oltre 10 miliardi quelle vendute ogni anno nel mondo, di cui 1 miliardo solo in Italia, generando 120 mila tonnellate di rifiuti, i cui volumi però sono in costante crescita. Da qui l’annosa e difficilmente risolvibile questione da lei sollevata. Le capsule – che possono richiedere fino a 500 anni per essere smaltite – sono erroneamente considerate dai consumatori, compresa la sottoscritta, come un rifiuto non riciclabile. Eppure basterebbe rimuovere la pellicola di alluminio e gettarla nel contenitore a essa dedicato, buttare nell’organico la miscela del caffè e, dopo aver ripulito la capsula di plastica, mettere l’imballaggio nella spazzatura insieme ai flaconi del detersivo o alle bottiglie d’acqua. (Tanta stima per chi lo fa). O più semplicemente basterebbe sfruttare la campagna di riciclo dei rifiuti proposta dalla sola Nespresso. Ma niente di tutto questo si fa, come ha sottolineato anche lei. E così ogni anno finiscono nelle discariche italiane l’equivalente di 12 mila tonnellate di capsule. Un dramma per noi e per l’ambiente, ma non per il portafogli delle società che le producono. Esiste, infatti, già una soluzione alla voce impatto ambientale e inquinamento: sono le capsule biodegrabili che, però, costando di più rispetto a quelle tradizionali e sono, quindi, ancora troppo poco usate dalle aziende. In attesa che il green new deal contagi anche il mercato delle capsule, si potrebbe tornare ogni tanto a gustarsi ‘na tazzulella ‘e cafè alla vecchia maniera.

Patrizia De Rubertis