Etruria e Bari. Le amnesie della Boschi e dei renziani

Da quando è esploso il bubbone della Popolare di Bari, non passa giorno senza che i renziani recriminino sul presunto diverso trattamento riservato ai tempi delle crisi di Etruria & C., al ritmo di “il tempo è galantuomo” e “chiedeteci scusa”. Ieri è toccato aMaria Elena Boschi. A Repubblica, l’ex ministra delle Riforme ha spiegato: “La mia famiglia ha pagato un prezzo altissimo e ingiusto. Mio padre è stato massacrato mediaticamente e ha subito vari procedimenti: la sua posizione è stata archiviata su tutto sino ad ora. (…) chi ha un minimo di onestà intellettuale oggi dovrebbe chiedere scusa, altro che attendere l’ autocritica”. Boschi ha anche ricordato che “l’Antitrust stessa ha escluso che sussistesse un mio conflitto di interessi. Banca Etruria è stata il grande alibi per una vergognosa campagna di sciacallaggio”.

L’Antitrust, per la verità, escluse che ci fossero conflitti d’interessi perché Boschi si assentò al Cdm che mandò in “risoluzione”, Etruria e le altre tre banchette a novembre 2015. Boschi dimentica anche che fu Matteo Renzi a scoperchiare la continua ricerca di aiuti tra regolatori e regolati avviata dai renziani tra il 2014 e il 2015 decidendo di suicidarsi politicamente con la Commissione d’inchiesta sulle banche: doveva sconfiggere l’odiato Visco, reo di aver commissariato Etruria a febbraio 2015, di cui Boschi senior era vicepresidente, e alla base degli esposti che portarono alle indagini sui vertici, tra cui il papà della ministra.

La commissione ha svelato gli interessamenti di Boschi per l’istituto aretino con il presidente della Consob Vegas, lo stesso Visco e l’allora ad di Unicredit Federico Ghizzoni. Le audizioni confermano anche quanto rivelato dal Fatto: nel marzo 2014 padre e figlia ospitarono nella casa di Laterina i vertici di Veneto Banca per decidere come arginare le pressioni di Bankitalia. Da allora mezzo governo si mise a cercare un salvatore. Senza successo.

Bankitalia, regole “à la carte” per salvare l’amico De Bustis

La capacità del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco di sostenere tutto e il contrario di tutto, à la carte, nel caso della Popolare di Bari e del suo intoccabile boss Vincenzo De Bustis è stata dispiegata per nascondere il palese appoggio sempre fornito al banchiere pugliese. Per stare ai dati oggettivi, De Bustis è stato sanzionato già nel 2001 come direttore generale della Banca del Salento (poi 121) per “trasferimenti di titoli dal comparto di negoziazione a quello immobilizzato in assenza delle prescritte condizioni”. Nel 2005 è stato multato dalla Consob (144.900 euro) per irregolarità nella distribuzione dei famigerati prodotti finanziari My Way e For You, 2 miliardi di euro raccolti tra 90 mila clienti. Il 9 ottobre 2018 è stato multato ancora dalla Consob per irregolarità nei due aumenti di capitale della Popolare di Bari di cui era stato direttore generale dal 2011 al 2015. Esattamente due mesi dopo è tornato in sella alla Popolare di Bari come consigliere delegato e la Banca d’Italia non ha battuto ciglio, rilasciandogli senza esitazione il via libera. La legge dice infatti che per guidare una banca devi sottoporti all’esame della vigilanza sulle tue competenza, onorabilità e correttezza.

La storia si ripete sempre uguale: la Banca d’Italia è severissima con i banchieri non obbedienti e distratta con gli amici e gli obbedienti. Poi scoppia il bubbone e alla inevitabile domanda (ma voi dove eravate?) gli uomini di Palazzo Koch rispondono sempre con una balla a scelta tra “quei delinquenti ce l’hanno fatta sotto il naso” e “non avevamo poteri sufficienti”.

Lunedì scorso su Repubblica un articolo di Claudio Tito ha dato voce alla seconda tesi: “I tecnici fanno anche notare che nel 2014 è stata approvata dal Parlamento una direttiva europea che renderebbe più stringenti i requisiti per i manager delle banche. Quella direttiva non è mai entrata in vigore: non è stato varato il regolamento attuativo. Quindi anche in occasione della definizione dell’ultimo vertice della Popolare sono stati utilizzati i requisiti, molto più laschi, che risalgono al 1998”.

Questa versione dei fatti, affidata ai sapienti “dicono a Palazzo Koch”, è protetta dal segreto d’ufficio che fa credere al governatore di poter mettere in circolazione qualsiasi balla. Però da quel poco che sappiamo, i conti non tornano.

Innanzitutto la direttiva Crd IV è stata recepita il 12 maggio 2015 con un decreto legislativo che modifica il Testo Unico Bancario e introduce (articolo 53 bis) il potere per Bankitalia di mandare a casa i banchieri, a suo insindacabile giudizio, “qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca”. Potere prima invocato, poi salutato con giubilo, poi esercitato solo una volta nel 2016 con il presidente del Credito di Romagna, Giovanni Mercadini.

Effettivamente il nuovo articolo 26 del Tub subordina l’entrata in vigore dei nuovi criteri “più stringenti” a un decreto attuativo del ministro dell’Economia. È certamente vero che Pier Carlo Padoan dal 12 maggio 2015 al 31 maggio 2018, per tre anni, si è ben guardato di emanare il decreto; che Giovanni Tria ha fatto lo stesso dal 1 giugno 2018 all’agosto scorso; e che Roberto Gualtieri non ha avuto l’incombenza tra i suoi primi pensieri negli ultimi tre mesi. Secondo l’autorevole Studio Ambrosetti i nuovi criteri europei, qualora adottati, farebbero saltare un consigliere d’amministrazione su quattro nelle banche. E nessun ministro ha avuto finora il coraggio di sfidare l’ira dei banchieri. Lo stesso M5S, così severo coi banchieri quando era all’opposizione, nei suoi 18 mesi di governo ha sempre fatto finta di niente.

La Bce (che vigila sulle banche maggiori) e la Banca d’Italia, mentre attendono senza trepidazione il decreto Godot, hanno trovato la loro astutissima quadra. Dicono di aver adottato comunque i criteri “stringenti” della Crd IV e decidono caso per caso chi supera e chi no l’esame. Per esempio il cda dell’Ubi è stato rinnovato attraverso una trattativa sottobanco per cui non si sono ricandidati i consiglieri imputati nel processo per gravi reati commessi nella gestione della banca, ma è stato rieletto l’amministratore delegato Victor Massiah, imputato anche lui. E l’essere imputato in un processo sarebbe una delle cause ostative della Crd IV.

Esattamente due anni fa Visco, in audizione davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, affrontò il caso di Marco Morelli, messo al vertice di Mps nonostante la pesante sanzione ricevuta da Bankitalia proprio per fatti “gravissimi” commessi come dirigente dello stesso Monte dei Paschi. Visco borbottò qualcosa, poi lasciò la parola all’allora capo della vigilanza Carmelo Barbagallo, che disse: “La differenza tra la nuova normativa e la vecchia normativa sta nel fatto che per la nuova normativa sarà obbligatorio tenere conto delle sanzioni, come anche delle procedure penali in essere. Però, pur non essendo obbligatorio, questo aspetto è stato preso in considerazione ed è stato ritenuto che non incidesse nella situazione di Morelli”.

Quindi Morelli è stato giudicato con le nuove regole e promosso. De Bustis invece – ma lo dicono adesso che è scoppiata la grana – l’hanno dovuto giudicare con le regole vecchie. In realtà la regola seguita è sempre la stessa, vecchissima: la Banca d’Italia esercita il suo potere nel massimo arbitrio del governatore, del direttorio e talvolta anche del singolo dirigente. E la famosa moral suasion? L’hanno usata, come sempre, ma solo per proteggere De Bustis.

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“È ora che l’Italia si svegli: la matrice sarà francese, ma i posti a rischio nostri”

“Questo è solo il primo passo di una lunga rivoluzione, il cui successo dipenderà dalla capacità di Fca e Psa nell’affrontare la trasformazione tecnologica. Con un consiglio non richiesto: ora l’Italia si svegli. Prenda posizione e affronti il problema occupazionale nelle nostre fabbriche”. Giuseppe Berta, storico dell’industria, docente della Bocconi e grande conoscitore delle vicende degli ultimi 40 anni di Fiat prima e Fca dopo, è lapidario: “Il nuovo costruttore automobilistico creato dalla fusione tra Fiat Chrysler e Psa-Peugeot è una grande integrazione indispensabile tra due aziende per dare vita a un gruppo europeo con un significativo ruolo mondiale. Ma dovrà risolvere due ordini di problemi”.

Professore, andiamo con ordine.

Fca soffre di un’evidente disfunzionalità: se negli Stati Uniti primeggia con suv e pick-up, in Europa – dove c’è un mercato saturo che mai più potrà tornare ai 15 milioni di auto vendute nel 2017 – la famiglia Agnelli da anni è stata tagliata fuori per la mancanza di competizione nella sfida dell’elettrico e della produzione delle batterie. Psa, invece, ha ottenuto buoni risultati di bilancio solo nel Vecchio continente, mentre il suo ruolo internazionale è quasi inesistente.

Per dirla alla John Elkann, la fusione garantisce un guadagno per entrambi i gruppi?

Si tratta di un gruppo europeo a matrice francese che dovrà allargare i propri confini. E solo puntando alla mobilità integrata riusciranno a inserirsi nel mercato asiatico, dove c’è il business più importante. E questo può avvenire grazie alla transizione dell’automobile verso le piattaforme elettriche o a quelle delle auto a guida assistita.

Un sistema sul quale l’Italia non ha mai iniziato a lavorare.

Aver promesso con il piano industriale 2018-2022 che Fca era già nel futuro grazie alla Fiat 500 elettrica non è, infatti, mai stato plausibile, mentre si è ritrovata troppi modelli a fine corsa. Sono i servizi accessori, vale a dire la produzione delle batterie e il loro sistema di smaltimento, che rappresentano la vera rivoluzione, che sarà molto lenta. Basta guardare agli ultimi dati: le auto ibride ed elettriche in Italia rappresentano appena l’1,3% del volume totale, mentre in Europa le vendite di vetture ricaricabili hanno raggiunto quota 380 mila.

Il diesel non è morto?

L’Europa e l’Italia stanno rinunciando al loro modello industriale consolidato, che si è basato sulla specializzazione del diesel, con i moderni euro 6 che comunque restano ancora i meno inquinanti, per andare incontro a un domani che è del tutto incerto.

Si può tornare indietro?

Io mi aspetto di tutto. È ancora presto per capire quali e quanti problemi si presenteranno sia sotto il profilo dei costi sia sul fronte dei vantaggi ambientali. Ma intanto i due gruppi devono affrontare un calo generalizzato della domanda e costi crescenti per produrre auto meno inquinanti per aderire a legislazioni sempre più stringenti

Quali altre conseguenze avrà la fusione per l’Italia?

Più che altro mi sento di fare un augurio: non solo che gli stabilimenti non vengano chiusi, ma che tornino a essere utilizzati spingendo sugli investimenti che arriveranno. Fca deve tornare a rivitalizzare gli investimenti nell’Alfa Romeo e nella Maserati. Si tratta di due storici marchi che da troppo tempo sono stati abbandonati.

Con un risvolto positivo sull’occupazione…

Certo, non basta tenere aperti gli impianti, vanno fatti lavorare a pieno regime senza più l’intervento dello Stato con il ricorso alla cassa integrazione. È ora che l’Italia si svegli e sfrutti le nuove piattaforme dei veicoli e le nuove tecnologie per la tenuta degli impianti. Mentre l’impegno dello Stato francese è stato chiaro da subito, essendo tra i principali azionisti di Psa (ne detiene il 12%, ndr), non c’è ancora stata un’analoga sensibilità da parte del governo italiano che fino a oggi si è espresso solo con frasi generiche e di circostanza.

Cosa si rischia?

Fiat Chrysler e Psa-Peugeot hanno davanti un iter regolatorio non semplice, così come non appare facile l’impegno a ridurre i costi senza chiudere nessuno stabilimento.

Fca-Psa, luci e ombre della fusione

L’accordo c’è ed è diventato ufficiale ieri mattina con la firma di un Combination Agreement, uno schema di aggregazione vincolante. L’unione tra Fca e Psa (Peugeot) dovrebbe dar vita al quarto costruttore mondiale con una capacità commerciale di 8,7 milioni di veicoli all’anno, un valore di 46 miliardi di euro, ricavi pari a quasi 170 miliardi di euro, un utile operativo di oltre 11 miliardi di euro e sinergie annuali quantificabili in 3,7 miliardi di euro. La conta si basa sull’aggregazione dei risultati del 2018, ma la distribuzione globale trasversale, il 46% dei profitti dall’Europa e il 43% dal Nord-America, potrebbe favorirne l’esito.

Si delinea, intanto, la struttura del nuovo gruppo: la sede sarà in Olanda, i centri operativi a Parigi, Torino e Auburn Hills (in Michigan), la quotazione sulle Borse di Parigi, Milano e New York. Carlos Tavares, già ad di Psa, sarà l’amministratore delegato (blindato per cinque anni), John Elkann il presidente. Si tratta di una società paritetica, al 50 e 50, con cinque posti nel consiglio di amministrazione per ognuno dei due gruppi. Ai francesi, o meglio a Tavares, va l’undicesima sedia mentre sono previsti anche due membri in rappresentanza dei lavoratori. Nella nota diffusa ieri è stato ribadito che non c’è all’orizzonte “alcuna chiusura di stabilimenti”, almeno non come conseguenza della fusione. I risparmi, secondo il progetto, dovrebbero arrivare dagli acquisti (40%) e dal marketing, It e logistica (20%). La Exor degli Agnelli sarà primo azionista, la famiglia Peugeot, lo Stato francese e i cinesi di Dongfeng avranno il 5,9% ciascuno. Il costo della fusione ammonta a 2,8 miliardi. A guadagnarci, prima che l’operazione si perfezioni (tra i 12-15 mesi), saranno gli azionisti: Fca distribuirà ai soci (Exor in testa) un dividendo straordinario di 5,5 miliardi, mentre Psa compenserà col 46% dell’azienda di componentistica controllata, Faurecia.

Resta fuori, rispetto a quanto si era pensato in un primo momento, lo spin off di Comau. “Fca – si legge nella comunicazione – continuerà a lavorare alla separazione della partecipazione detenuta in Comau (la controllata della robotica, ndr), che sarà effettuata quanto prima successivamente al perfezionamento dell’operazione”.

Nelle dichiarazioni di ieri, Tavares ha messo l’accento sulla necessità di implementare la mobilità ecologica e sostenibile. L’ad di Fca, Mike Manley, ha invece ripercorso e messo in una prospettiva ottimistica le difficoltà affrontate dai due gruppi negli anni. Lato operativo, i due terzi dei volumi si muoveranno su due piattaforme: una per veicoli medio-piccoli e un’altra per modelli compatti e di taglia media. Ognuna dovrebbe produrre 3 milioni di auto. E se da un lato i sindacati tutti, si dicono soddisfatti per la presenza dei rappresentanti dei lavoratori in Cda (una pratica diffusa negli usa, meno in Italia) dall’altro restano i dubbi sulla linea che sarà prodotta in Italia, tutelando così le fabbriche e gli operai.

Attenzione al falso: c’è il giocattolo tossico

Un’invasione di giocattoli tossici, per lo più cinesi, destinati – o già in circolo – al mercato unico europeo. È quanto risulta dai numeri 2019 del Rapex (Rapid exchange information system), una piattaforma comunitaria che consente alle autorità degli Stati membri di scambiarsi informazioni sui prodotti (non alimentari) dannosi per la salute in commercio nell’Unione. Nell’ultimo anno le autorità hanno ritirato dalla vendita, bloccato alla frontiera o addirittura requisito ai consumatori 248 modelli di giocattolo (per decine di milioni di unità) dopo che i test hanno rivelato livelli fuori scala di sostanze chimiche tossiche: cromo, cadmio, piombo, boro, ftalati. Quasi tutti avevano il marchio di sicurezza CE, la garanzia di conformità ai requisiti di legge fornita da un ente terzo.

L’88% dei modelli sequestrati (219), viene dalla Cina. Nel 2019 gli agenti di frontiera europei hanno controllato 2 milioni e 200 mila giocattoli cinesi, bloccando, in oltre 700 mila casi, l’ingresso nel mercato unico dopo aver trovato concentrazioni fuorilegge (superiori allo 0,1%) di ftalati: 31.590 gli esemplari distrutti. Gli ftalati sono composti chimici usati per rendere la plastica più flessibile, ma in grado – se ingeriti – di danneggiare in modo irreparabile il sistema riproduttivo. Uno studio condotto tra il 2010 e il 2012 in 15 Paesi europei ha rivelato contaminazioni in tutti i bambini monitorati, in quantità fino a dodici volte superiori alle loro madri.

Tra gli esemplari destinati al mercato italiano e respinti alla frontiera si segnala la “principessa Isabella”, un modello di bambola della marca ‘È mio’, che a dispetto del nome arriva dritta dalla Cina. Ebbene, Isabella – sulla cui scatola campeggia il divieto di utilizzo sotto i 36 mesi – è fatta di flalati per il 22,84%, 220 volte i limiti di legge. Stesso discorso per la principessa Butterfly, sempre di ‘È mio’, che nei suoi stivali rosa ha ftalati per il 15,9%. O per un revolver giocattolo della stessa marca, con gli ftalati che qui si “fermano” al 5,5% del peso (55 volte i limiti).

Poi ci sono i “Soffiarelli”, pennarelli “a soffio” della ditta Globo – anch’essi made in China – ritirati dal mercato perché contenevano cadmio (0,66 mg/kg) e piombo (1,32 mg/kg). “Il cadmio si accumula nel corpo umano, può causare cancro e danneggiare gli organi”, si legge nella scheda Rapex dedicata ai “Soffiarelli”. L’esposizione al piombo, invece, “può causare grave e irreversibile neurotossicità. Non esiste soglia minima di sicurezza per evitare questo effetto”. Meglio non soffiare troppo, insomma.

Da Monicelli a Mauss, storia di un regalo diventato “sacrificio”

Dovrebbe farci riflettere che i doni fatti a parenti, amici e bambini nel periodo di Natale, quando la natura muore e rinasce, erano originariamente offerte destinate ai defunti. E che sotto i personaggi mascherati, come Babbo Natale, si nascondono i morti che tornano tra i vivi per celebrare la vita tenuta al buio sottoterra, dove germinano le sementi. Del resto l’albero di Natale era già nel ceppo che ardeva tutta la notte e nelle decorazioni vegetali sugli edifici durante i Saturnalia romani, feste delle larvae, i morti per causa violenta.

Non sappiamo più niente di questo legame, quando ci infiliamo per giornate intere nei centri commerciali, dove avviene il vero rituale dello scambio natalizio (ci danno in oggetto in cambio di denaro); e il rito della notte di Natale è un massacro di aspettative deluse, gelosie, invidie, competizione (sempre attuale Parenti serpenti di Monicelli), altro che scambio di ramoscelli dal bosco dedicato a Strenia, la Dea della salute (da cui “strenna”).

L’unico sacrificio che si celebra in questi giorni è quello del buon senso. Per Giorgio Manganelli il Natale è “crapula demente”, che porta con sé “una tetraggine che ha dell’astronomico”.

Totalmente avulso dall’ordine cosmico, lo scambio di regali è una celebrazione del vero e unico re del mondo (il denaro) capace di silenziare temporaneamente il caos.

La versione odierna del Natale non inventa nulla: ricombina in modo sincretico una celebrazione antica. Se nei secoli l’elemento sacro è stato la divinità della natura, il ritmo delle stagioni, il culto del Sol Invictus o la nascita di Gesù, oggi è il consumo di merce come sostituto dei sentimenti.

Lo scambio di doni assume dimensioni agonistiche. Come nel potlach dei tobriandesi studiato dagli antropologi, è tutta una competizione di classe, o almeno di status, tutta una distruzione di risorse. Su cosa regaliamo, poi, sono stati scritti saggi illuminanti (uno per tutti: Il regalo di Natale. Storia di un’invenzione, di Martyne Perrot). Theodor Adorno scrisse a proposito: “La decadenza del dono si specchia nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo”. La regola con cui procediamo di solito secondo Adorno è questa: “Uno regala quello che gli piacerebbe per sé, ma di qualità leggermente inferiore”. È chiaro che al cospetto del dono siamo in guerra. Walter Benjamin ci offre un vademecum in un saggio del 1928, Cosa regalare a uno snob, che inizia così: “Fare un regalo a uno snob significa impegnarsi a una partita a poker. L’anima dello snobismo è infatti il bluff”. Il benestante arriva a mani vuote, o al più regala un oggetto simbolico. Il povero, fateci caso, si presenta a Natale in casa di altri con cornucopie di regalie, spesso lussuose in modo kitsch (“Credo che la volgarità – canzoni, cartoline, certi regali – sia essenziale alla sopravvivenza del Natale”, sempre Manganelli). Il povero sa che non è il pensiero che conta.

Secondo Benjamin c’è un modo per rispondere a questa disparità. Posto che sottrarsi a ogni occasione del genere è sempre la scelta più sana, “donare è un’arte pacifica. Ma nei confronti dello snob va tratta in maniera marziale”. Benjamin non si accontenta della versione agonistica del regalo, quella teorizzata da Marcell Mauss nel saggio sul dono: essendo un filosofo di prim’ordine, massimalizza il genio del povero: “Gli snob vanno provocati. Quanto più grande è il disprezzo con il quale usano ispezionare i regali natalizi tanto più superfluo dovrà essere il dono prescelto”. (Massimo della raffinatezza e della crudeltà: regalare allo snob Cosa regalare a uno snob).

In realtà, ancora oggi non ci scambiamo doni: offriamo dei regali alla morte. Il Natale è un alibi che ci diamo per credere ancora in qualcosa: in Un Natale di Maigret, Simenon costruisce il racconto attorno a una bambina che riceve una grande e costosa bambola da un ladro vestito da Babbo Natale, ed è un momento di puro incanto, di grazia umana e divina.

Scrisse Lévi-Strauss in Babbo Natale giustiziato: “Al fondo di noi veglia il desiderio che sia possibile una generosità senza limiti. I regali natalizi rimangono un sacrificio autentico alla dolcezza di vivere, la quale consiste innanzitutto nel non morire”.

Foto dell’americano bendato, carabinieri a rischio processo

La foto all’americano Gabriel Christian Natale Hjorth bendato e ammanettato, aveva fatto il giro del mondo, adesso i pm della Procura di Roma Michele Prestipino e Nunzia D’Elia hanno chiuso le indagine sui responsabili. Il 26 luglio nella caserma di via in Selci, Natale aspettava di essere interrogato insieme al connazionale Elder Finnegan Lee, dopo l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Per entrambi è già stato chiesto il giudizio immediato per omicidio.

Il maresciallo Fabio Manganaro è accusato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, per aver messo sul volto di Natale “una fascia a copertura degli occhi”, sottoponendolo a una “misura di rigore non consentita dalla legge”. Nella stessa stanza, il vicebrigadiere Silvio Pellegrini dopo aver scattato la foto con lo smartphone, la condivideva in “almeno due chat” whatsapp, una chiamata “Reduci ex Secondigliano” con “18 partecipanti”, poi “diffusa da terzi ad altri soggetti e chat”.

È accusato di abuso d’ufficio per aver violato il “divieto di pubblicare l’immagine di persona priva di libertà personale mentre si trova in manette”. Il vicebrigadiere è indagato per rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio, avendo fornito “specifiche indicazioni sui primi risultati investigativi ottenuti” a terzi. Per la stessa accusa dovrà rispondere alla Procura militare, che ha già concluso le indagini.

L’Arma aveva subito definito il gesto “inaccettabile”, provvedendo a trasferire i militari in altri reparti, e avviando un procedimento disciplinare. Infine, il luogotenente Sandro Ottaviani, ex comandante della stazione di piazza Farnese, dove prestavano servizio Cerciello Rega e Andrea Varriale, è accusato di falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Ha attestato nella sua “annotazione di servizi del 29 luglio” che Varriale gli aveva consegnato “l’arma d’ordinanza”, il 26 luglio “presso il pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito”. Falso, perché la pistola era conservata nell’armadietto della caserma.

Risiko procure: una donna a Torino, Roma in stand by

I giorni prima di Natale hanno portato alla nomina del procuratore di Torino, Anna Maria Loreto, e di quello di Brescia, Francesco Prete, che ha competenza sui magistrati di Milano, ma non porteranno alla nomina delle nomine, quella del procuratore di Roma, trattata dai consiglieri come se avessero tra le mani materiale radioattivo per via dello scandalo dell’estate scorsa, il cosiddetto caso Palamara.

Come capo della Procura della Capitale avanza l’attuale reggente, Michele Prestipino, che per le divisioni fra togati e pure fra i laici, potrebbe farcela per un probabile ballottaggio in plenum, che fa vincere il candidato che prende più preferenze. Ma il voto è ancora lontano e la partita non è chiusa. A tallonare Prestipino c’è il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo. Avranno un peso, forse decisivo, le preferenze dei 7 membri laici (il vicepresidente David Ermini si astiene) a oggi incerti e abbottonati perché vogliono vedere fino in fondo cosa fanno i togati. Filtra, però, che i più tra loro pendono verso Prestipino.

Quanto ai togati, dai rumors di Palazzo dei Marescialli si sa che Prestipino viene votato dai 5 di Area ma non da tutti e 5 quelli di AeI, anche se ieri Loreto, vicina ad AeI, è stata votata pure da Area. Dentro il gruppo presieduto da Piercamillo Davigo ci sono ancora discussioni in corso. A prevalere nettamente è Creazzo finito sotto attacco di Renzi per aver osato indagare sulla fondazione Open e prima ancora sui suoi genitori. L’estate scorsa fu indicato da Luca Lotti, nelle registrazioni intercettato di Luca Palamara, come il magistrato che doveva essere cacciato da Firenze e mai sarebbe dovuto arrivare a Roma. Ma in Aei c’è chi, in minoranza, vorrebbe Prestipino, brillante alle audizioni del Csm e gradito da tanti dei pm romani.

Per Creazzo votano i tre togati di Unicost, la sua corrente, la stessa di cui è stato il dominus Palamara. I tre di Mi, invece, voterebbero un candidato di bandiera, Franco Lo Voi, procuratore di Palermo, che – invece – l’estate scorsa, prima dello scandalo, aveva abbandonato preferendo Marcello Viola, il Pg di Firenze anche lui di Mi. Senza che ne sapesse nulla, fu sponsorizzato da Lotti e Palamara a un incontro notturno con 5 togati di Unicost e Mi, costretti per questo alle dimissioni e con Cosimo Ferri, deputato renziano di Italia Viva, magistrato in aspettativa e leader ombra di Mi.

Oggi, riunione della Quinta commissione che propone le nomine, ma su Roma non si voterà. Ieri, invece, il plenum, ancora una volta diviso, ha votato il successore a Torino di Armando Spataro che è andato in pensione un anno fa. Loreto è passata a maggioranza, con 12 voti. Quattro gli astenuti. Per lei hanno votato, oltre ai togati di AeI e Area, anche i laici Michele Cerabona, FI e Alberto Benedetti, M5S. Per Salvatore Vitello, procuratore di Siena, si sono invece espressi i 3 togati di Unicost (centristi), i 3 di Mi (conservatori) e il laico di FI Alessio Lanzi. Astenuti i laici Filippo Donati, M5S, Stefano Cavanna, Lega, i capi della Corte di Cassazione Giovanni Mammone e Giovanni Salvi. Loreto, da 16 anni in Procura, ha coordinato l’inchiesta sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Valle d’Aosta che ha portato alle dimissioni del presidente della Regione Antonio Fosson. “Si tratta di un magistrato di straordinaria competenza in materia antimafia – ha detto il relatore Piercamillo Davigo con un’esperienza di lungo corso sul territorio ”.

Spaccatura del plenum anche per la nomina del procuratore di Brescia. Francesco Prete, attuale procuratore di Velletri, in passato per ben 15 anni pm anticorruzione e antimafia a Milano, ha avuto 12 preferenze contro le 7 dell’altro candidato, Fabio Napoleone, ex Csm, sostituto pg a Milano. Gli astenuti addirittura sono stati 6. Per Prete, di Unicost ma amico anche di Ferri, hanno votato 6 laici e i togati di Unicost ed Mi Per Napoleone, i togati di Area, Nino Di Matteo, indipendente di AeI e il laico M5S Fulvio Gigliotti. Astenuti gli altri 4 togati di AeI e i vertici della Cassazione.

Muore la figlia, lei urla di dolore. Ma è nigeriana e viene insultata

Le urla e le grida straziate della madre per la perdita della figlia di 5 mesi definite “rito tribale” e la stessa mamma apostrofata come “scimmia”. Sarebbe successo in Pronto soccorso a Sondrio, dove il dolore e lo strazio di una madre nigeriana di 22 anni sono stati accompagnati da frasi razziste e insulti secondo quanto riporta Sondrio Today: “Muore una bambina di 5 mesi – si legge in un editoriale sulla testata – e le grida straziate dal dolore di una giovane madre disturbano e danno fastidio alle persone in attesa di essere visitate. Quanto può essere meschina l’umanità. L’hanno chiamata ‘rito tribale’, ‘rito satanico’ o, semplicemente, ‘tradizione africana’ ma era la morte, era il dolore infinito di una madre che perde una bambina di 5 mesi. Era la sofferenza che si imbatte nel cinismo in cui siamo sprofondati. Hanno detto che perdere un figlio non è poi così importante per gli africani perché ‘tanto ne sfornano uno all’anno’. Hanno commentato e deriso. Hanno sminuito la sofferenza di una madre ingigantendo la loro ignoranza. Si sono mostrati per quello che siamo diventati. Chissà – conclude l’editoriale – se le urla di una giovane donna valtellinese avrebbero dato lo stesso fastidio. Chissà se, almeno questa volta, è concesso usare la parola razzismo. Chissà”.

“Per la giovane mamma nigeriana e la sua bimba l’ospedale ha fatto il massimo”. L’ospedale di Sondrio racconta così la sera del 14 dicembre: “Le frasi che sarebbero state riportate non possiamo né smentirle né confermarle. Il personale non le ha sentite, ma è certo che l’assistenza e la cura nei confronti della famiglia è stata massima”. Il portavoce sottolinea che la “scena è stata drammatica, tutti i medici e gli infermieri sono stati colpiti e coinvolti, dando assistenza non solo alla mamma, ma anche alla sorella e alla cugina. Una situazione dove le donne parlavano con i medici in inglese e con la mamma che paradossalmente si è calmata quando le è stato portato il corpo della bimba”.

Capri o Filicudi è sempre traghetto d’oro

L’ultimo caso di corruzione (presunta, of course) nel luccicante universo delle compagnie di navigazione locali è quello scoperto dal trojan installato dalla Procura di Napoli nello smartphone di Salvatore Di Leva, l’amministratore delegato di Alilauro Gruson, aliscafi e traghetti che vanno avanti e indietro nel Golfo di Napoli, biglietterie e uffici tra Napoli, Capri, e la Costiera amalfitana.

Di Leva è uno dei collaboratori del patron del gruppo Lauro Navigazioni, l’ex senatore azzurro Salvatore Lauro, e il captatore piazzato sul suo cellulare ha consentito di disvelare un piccolo mondo di amicizie altolocate tra armatori e toghe, politici locali, 007 e dirigenti pubblici, storie di gommoni rimessati o concessi in uso senza pretendere un euro, di biglietti e tessere omaggio delle tratte Napoli-Capri regalati con la pala, e di commessi di uffici pubblici spediti a ritirare i tagliandi estivi. Un mondo ascoltato per quasi sei mesi dai pm Giuseppe Cimmarotta e Woodcock, partiti il primo da un’indagine sulla camorra nelle concessioni demaniali di Castellammare di Stabia e il secondo da un commercialista napoletano col vizietto di corrompere i finanzieri, fino a confluire entrambi su un nome e un luogo che sono l’epicentro del tutto: Di Leva e il lussuoso porto turistico di Marina di Stabia.

C’è finito in mezzo il magistrato fuori ruolo Andrea Nocera, dimessosi dall’incarico di capo degli ispettori del ministero di Giustizia e tornato in Cassazione dopo che le cinque pagine del verbale di Di Leva sono state tradotte in una ipotesi di concorso in corruzione. Secondo la ricostruzione dei pm – già respinta da Nocera, difeso dall’avvocato Alfonso Furgiuele – che si dice sicuro di poter dimostrare la sua innocenza – la stampa della contabilità del cantiere di De Leva con la voce “Nocera 00” sarebbe la prova che il suo gommone era rimessato gratis, e l’ex capo degli ispettori, omaggiato anche di numerosi ticket per Capri, in cambio si sarebbe “impegnato ad interessarsi e a chiedere informazioni sulle problematiche giudiziarie del gruppo Lauro”.

Collegare le isole con la terra ferma è uno degli scopi “istituzionali”, foraggiati con fondi pubblici, del trasporto su mare. Meglio ancora se le isole sono battute dalle vie del turismo. Nel fascicolo “Mare Nostrum” della Procura di Palermo, fu raccontata l’intenzione del governatore Rosario Crocetta di prolungare la tratta Palermo-Filicudi per tutto l’anno. Pareva “una cazzata” persino all’armatore Ettore Morace: “Gli dico preside’ tutto l’anno a chi portiamo? Non portiamo a nessuno … è una cazzata, primo perché non portiamo nessuno in inverno, e secondo perché d’inverno saranno più i viaggi che sospendiamo che quelli che facciamo…”. La tratta ottenne 10 giorni in più alla scadenza del 10 settembre e 220 mila euro in più per il monopolio della Ustica Lines. Crocetta e Morace sono stati rinviati a giudizio per corruzione, si scoprì che l’imprenditore finanziò con 10.000 euro il movimento “Riparte Sicilia” riferibile all’ex governatore. Gli armatori finanziano i politici, non è un mistero. E spesso lo fanno se ne apprezzano i provvedimenti e le politiche. Leggere il verbale di Vincenzo Onorato, patron del gruppo Moby, allegato alle indagini di Firenze sulla Fondazione Open di Renzi. Onorato (non indagato) bonificò a Open 300 mila euro, poi “stracciò la tessera Pd” dopo il ritiro di un emendamento sui marittimi italiani.